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giovedì 31 luglio 2025

ADDIO MIA BELLA SIGNORA

1706_ADDIO MIA BELLA SIGNORA , Italia 1954. Regia di Fernando Cerchio

Il titolo del film del bravo Fernando Cerchio Addio mia bella signora, riecheggia la famosa canzone risorgimentale Addio mia bella addio (1848, di Carlo Alberto Bosi) che, in effetti, nella pellicola viene intonata un paio di volte. Il racconto filmico è, infatti, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale e i temi patriottici erano quindi pertinenti; una scelta condivisibile, visto che, al cinema, non c’è niente di meglio della musica per creare la giusta atmosfera. Per altro quello di Cerchio è un melodramma, di quelli tosti degli anni cinquanta, e quindi, ecco che ancora più importante del pezzo patriottico citato è la canzone Addio mia bella signora (a volte indicata come Addio signora, in questo caso cantata da Giacomo Rondinella stando ai titoli di testa del film o da Elio Mauro secondo il sito IMDb). La questione della canzone non è secondaria in quanto il pezzo divenne celeberrimo (riproposto, tra gli altri, nel corso degli anni da Gino Tajoli e da Claudio Villa) e nel film è usato magistralmente da Cerchio come effetto trainante. Sulle struggenti note della canzone melodica, le scene romantiche tra Cristina (un’elegante Alba Arnova) e Guido (Armando Francioli) sono girate con stile calligrafico impeccabile dal regista, quasi un videoclip dal sapore impressionista, ma il nocciolo della questione è altrove. Cristina, infatti, è già sposata con il colonnello Riccardo Salluzzo (un monumentale Gino Cervi), uomo decisamente più attempato della giovane moglie. La Grande Guerra è scoppiata e il colonnello è partito per il fronte; a badare alla lussuosa magione è rimasto il suo attendente Giuseppe (un altrettanto monumentale Nino Pavese) troppo anziano per svolgere il suo ruolo in prima linea. Guido aveva adocchiato Cristina prima che questa si sposasse ma aveva dovuto desistere di fronte al matrimonio della ragazza. Ora però, col marito assente, complice alcune amicizie comuni (tra cui val la pena citare Marco interpretato da un già pimpante Franco Fabrizi), il giovanotto poteva tornare a fare il cascamorto con la giovane sposa. Qui c’è un passaggio cruciale nell’economia della disputa morale che scaturirà dalla torbida storia (del resto si tratta di un melò strappalacrime): Clara (Laura Gore) invita Cristina ad una festa in onore dei volontari universitari quando il colonnello non è ancora partito per la guerra. Alla festa la ragazza incontra nuovamente Guido che subito coglie al volo l’occasione per corteggiarla; ben sapendo che questa è una donna sposata. 

Poi, certamente quello tra Cristina e il colonnello non era un matrimonio di cuore, diciamo così, e la ragazza non era felicemente innamorata del marito; ma la scorrettezza di Guido, il suo tempismo opportunista, rimane evidente. Anche perché, pur proclamandosi volontario universitario, mentre il colonnello è in prima linea il giovane si guarda bene dall’arruolarsi e pensa a fare la bella vita con Cristina e gli amici. La situazione di idillio temporaneo, in quanto è evidente che prima o poi lo spasso finirà, è interrotta da un colpo di scena: dal fronte arriva la notizia che il colonnello è morto. Cristina, dimostrando un certo spessore morale, è turbata dai suoi sentimenti, dalla sua irrefrenabile gioia che sovrasta il pur timido dispiacere per la morte di un marito che, seppur sia sempre stato buono nei suoi confronti, non ha mai amato. Di ben altra pasta è fatto Guido che invece minimizza gli scrupoli e la sprona ad un deciso cambio di passo, ora che è libera dai precedenti vincoli. Per festeggiare il natale e la decisione di sposarsi, niente di meglio che andare in campagna con gli amici: quando giunge un’altra notizia dal fronte, che ribalta nuovamente la situazione. Il colonnello non è morto, è tornato mutilato agli arti inferiori. Cristina, sentendosi colpevole, rivede i suoi programmi ma Guido non molla e minaccia di rivelare al marito della loro tresca se non ci penserà la ragazza a chiarire la questione. Il torbido drammone è ben strutturato con i giusti incastri narrativi e il colonnello arriva a conoscere la verità e gioca d’anticipo mettendo sotto muto ricatto morale la moglie, in una situazione che si fa sempre più tesa. Guido scalpita, Cristina è insofferente, il colonnello istiga sornione: notevole la condotta in regia di Cerchio. Poi, quando la tensione arriva all’acme, è il vecchio militare a fare un passo indietro. Mentre Guido si è finalmente deciso ad arruolarsi pur di smuovere Cristina dal suo stallo, e la ragazza ormai ha ceduto, il colonnello medita il suicidio per farsi da parte. Giuseppe, figura sempre presente e incaricata di facilitare gli snodi della trama, se ne accorge per tempo e avverte Cristina. La donna, vedendo che l’anziano marito è pronto a togliersi la vita pur di non ostacolarne la felicità, decide di dare corpo alle parole della canzone che dà il titolo al film, lasciando Guido ad attenderla inutilmente al solito appuntamento. Il melodramma, genere che spesso ha una forte matrice morale, è quindi compiuto: i personaggi, in un modo o nell’altro, finiscono per fare il proprio dovere. Il colonnello ha lasciato le gambe, per compierlo; Cristina rinuncia all’amore, per rispettare il suo legame col marito. E Guido, sebbene è legittimo dubitare del suo reale intento, partirà con i bersaglieri. Poco male; sentito o meno che sia, dovrà farlo di corsa.    




Alba Arnova 



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giovedì 5 dicembre 2024

CAVALLERIA

1586_CAVALLERIA . Italia 1936: Regia di Goffredo Alessandrini

Evidentemente quanto liberamente ispirato alla figura dell’eroe nazionale Francesco Baracca, Cavalleria, film di Goffredo Alessandrini, riprende per sommi capi la biografia dell’asso dell’aviazione italiana, impregnandola di una storia d’amore che ne enfatizza il rilievo romantico. E’ una scelta sacrosanta, da un punto di vista tecnico narrativo, ma che finisce per datare eccessivamente il lungometraggio. Oggi Cavalleria ben difficilmente può essere accettato dallo spettatore comune: troppo sdolcinata e tragicamente romantica la storia d’amore tra i due protagonisti per essere sopportabile. In effetti, in Italia, in quegli anni, l’ideale romantico spesso non veniva adeguatamente bilanciato, ad esempio da quel certo falso cinismo dei protagonisti dei film americani dell’epoca, e le storie finivano per grondare di buoni sentimenti, rimpianti, sacrifici e via di questo soffrire. Questo vale anche per Cavalleria, ma solo limitatamente ai rapporti tra Solaro (un pimpante Amedeo Nazzari), il personaggio che rievoca efficacemente Francesco Baracca, e la tenacemente amata Speranza (nome che è già tutto un programma, per il personaggio interpretato da Elisa Cegani). Pur innamoratissimi, i due non potranno convolare a giuste nozze perché la contessina Speranza è costretta a sposare un nobile austriaco che, grazie alle sue cospicue finanze, riuscirà a salvare dalla bancarotta il padre di lei. Tra l’altro, alla lunga, l’insistenza di Solaro nel tampinare la ragazza anche quando questa è già divenuta la consorte dell’austriaco, viene francamente un po’ a noia, anche perché, e qui è un altro limite del cinema italiano dell’epoca, in ossequio alla morale, i due non concludono poi mai niente di sconveniente (e di interessante). E quindi si finisce per sentirsi, come spettatori, come le numerose dame che vociferano e confabulano sottovoce tra loro quando i due colombi si mettono a tubare in pubblico infischiandosene dell’etichette e anche del buon senso. Insomma, uno spettegolare del tutto sterile in cui rischiamo di finire pure noi. 

Per cui, seppur la Cegani ha un suo fascino, più che altro nell’elegante e avvenente figura, il film si fa preferire nella parte biografica di Solaro, tenente di cavalleria, poi capitano e infine maggiore. Come detto l’esperienza a Pinerolo, la sua notevole abilità di cavaliere, il suo successivo passaggio a Roma prima e in aviazione poi, ripropongono in modo evidente l’esperienza militare di Baracca, sebbene l’eroe non venga citato nei crediti del film. In ogni caso la conferma definitiva l’abbiamo nel momento in cui Solaro diviene il celebrato asso italiano dei cieli nella Prima Guerra Mondiale: perché è chiaro a tutti che quel ruolo era appannaggio esclusivo del pilota che aveva come stemma il cavallino rampante. E infatti, come Baracca, anche Solaro verrà infine abbattuto prima della fine del conflitto mondiale. Alessandrini prova a iscrivere questa tragica fine nel destino dello spirito di cavalleria, in effetti del tutto tramontato dopo la Grande Guerra. Il suo protagonista, pur tra i tanti trionfi e trofeo vinti, ha infatti la vita costellata di sconfitte nei momenti cruciali. L’amore non concretizzato di Speranza (nome come detto, già indicativo), il fedele cavallo Mughetto che muore durante una gara, la sua stessa morte non molto prima della fine della guerra. Un destino sfortunato che valica i confini della storia filmica, finendo per coinvolgere anche il lungometraggio stesso di Alessandrini che, nel complesso, non merita certo l’oblio a cui è abitualmente confinato. Ma è il destino comune all’eroe che l’ha ispirato, quel Francesco Baracca che, clamorosamente e anche un po’ scandalosamente, non ha nemmeno un’opera filmica a lui dedicata in modo esplicito. Ennesima dimostrazione di come anche il cinema italiano, come il paese nel suo complesso, non sia in grado di tributare il giusto onore ai propri uomini di valore.        


Elisa Cegani 


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martedì 19 novembre 2024

IL CAIMANO DEL PIAVE

1579_IL CAIMANO DEL PIAVE . Italia, 1951; Regia di Giorgio Bianchi 

Nel 1951 l’Italia cercava ancora di riprendersi dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e, in quest’ottica, Il Caimano del Po di Giorgio Bianchi poteva aiutare a sollevare almeno un poco il morale della popolazione. Perché, seppure non si tratti di un’opera intrisa di patriottismo di stampo fascista atta a celebrare la Vittoria nella Grande Guerra, non era nemmeno uno di quei testi sarcastici che raccontavano in modo forse eccessivamente disilluso la nostra partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. Al netto delle eventuali carenze tattico strategiche  dei comandanti nei momenti cruciali (facile esempio la disfatta di Caporetto, di cui si vedono gli effetti nel film di Bianchi), e di altre lacune militari innegabili (equipaggiamento, addestramento), qualche merito le truppe del Regio Esercito Italiano doveva pur averle se fu in grado di resistere sulla linea del fiume Piave dopo la debacle della XII battaglia dell’Isonzo. Insomma, tra la propaganda fascista del ventennio e quel revisionismo divenuto nel tempo eccessivamente critico, forse anche nato nel solco del capolavoro di Mario Monicelli La Grande Guerra (1959), c’era sicuramente posto per un onesto film di parte come Il Caimano del Po. C’è l’eroico italiano, Franco (Frank Latimore), triestino e irredentista, c’è il valoroso Colonnello di Torrebruna (un aitante Gino Cervi), c’è anche la nobile ragazza italiana, Lucilla di Torrebruna (una deliziosa Milly Vitale) e, per chiudere con gli attori principali, c’è Ciapin, giovane paraplegico che, grazie anche alla carica umana di Francesco Golisano, incarna bene il sentimento di chi avrebbe voluto dare il suo contributo al conflitto ma ne è rimasto fuori. Quest’ultimo elemento è da ricondurre, più che ad un sentimento patriottico d’annunziano, al tenore melodrammatico che, soprattutto al cinema, incominciava a spopolare negli anni Cinquanta. Al quale si iscrive anche la storia d’amore tra Lucilla e Franco, sebbene mantenuta ad un livello di sobrietà proprio dallo scatenarsi del conflitto di cui il film è comunque coinvolto. Per i tedeschi un ruolo marginale, attivamente solo nell’occupazione di Villa di Torrebruna nel finale, mentre la figura delle spie, Helene (Ludmilla Dudarova) e Majda (Gina Falckenberg), è criticabile solo in parte. In ottica bellica è infatti pienamente legittimo il loro operare spionistico, assai meno l’inganno sentimentale di Helena che sposa il colonnello, vedovo da tempo, unicamente per occupare una posizione strategica. D’altronde lo si è detto: negli anni Cinquanta le trame rosa intrigavano più di quelle belliche. Tuttavia nel quadro complessivo dell’opera, oltre alla gradevolezza del narrato cinematografico, va segnalato lo spunto che dà il titolo al film e quindi non può certo essere ritenuto secondario. Nota importante, i Caimani del Piave furono un reparto di fanteria marina, tra i quali molti provenivano dagli Arditi e che operarono effettivamente lungo il fronte del Piave. E’ quindi storico l’elemento più interessante de Il Caimano del Piave e questo, soprattutto per un film bellico, è sempre un titolo di merito.


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domenica 19 maggio 2024

IL LADRO DI PESCHE

1484_IL LADRO DI PESCHE (Kradetzat na praskoi). Bulgaria, 1964; Regia di Vulo Radev.

C’è una sospensione, ne Il ladro di pesche, che è il vero punto nevralgico del notevole film di Vulo Radev. La storia dell’amore clandestino raccontata dal film rimane infatti inespressa, anche narrativamente; ma questo potenziale creato abilmente e poi lasciato lì, a gravare sulle percezioni dello spettatore, ci rende esattamente la sensazione senza sbocco, senza speranza, della società bulgara, e balcanica in generale, alla fine della Prima Guerra Mondiale (e probabilmente anche in seguito, visto che il film è del 1964). Il ladro di pesche è un dramma sentimentale, certo, ma è anche un film bellico, perché la guerra rappresenta l’elemento che si frappone fra le donne e gli uomini e la loro felicità. Prima Guerra Mondiale, si diceva; il tenente serbo Ivo Obrenovich (Rade Markovi), prigioniero di guerra, esce dal campo di detenzione per andare a rubare le pesche nel giardino del comandante del presidio (Mikhail Mikhaylov). Tanto il colonnello, nonostante la guerra stia per finire e la Bulgaria stia per essere inevitabilmente sopraffatta, è scrupoloso nei suoi doveri militari ed è perennemente impegnato ad assolverli. Anche troppo; la bella moglie Elisaveta (un’intensa Nevena Kokanova) oltre che triste e trascurata, è anche una persona di grande umanità e quando sorprende Ivo a cogliere le sue pesche, gli offre un po’ di cibo. In fondo i prigionieri sono uomini, anche se per il marito sono solo un problema di cui si deve occupare in quanto a capo del campo di detenzione. Insomma, il colonnello è un militare al di là del grado e della divisa, lo è convintamente e questo non gli permette di capire le necessità umane della moglie. Ivo, invece, nella vita civile è un insegnante e ha una diversa vitalità, totalmente frustrata dalla vita militare e dalla inattività della reclusione. L’incontro con Elisaveta diventa quindi un indispensabile aiuto per sopportare la prigionia, così come anche la donna ne resta turbata. Con queste premesse, è naturale che gli incontri si ripetano nonostante il tentativo di ritrosia della donna, sconfinando in una vera e propria storia d’amore, più suggerita dalla messa in scena di Radev che mostrata. 

Il regista bulgaro tiene sobriamente le redini del racconto affidandosi, per incendiare la storia, alla potenza del bianco e nero della fotografia, alla musica che si fa dirompente, alla costruzione delle immagini nell’inquadratura. La Storia è usata per alimentare la sensazione di pericolo e di impossibilità che la traccia sentimentale in primo piano suscitava: una relazione tra un prigioniero e la triste moglie di un colonnello nemico non ha troppe chances di felicità, è evidente. Ma i moti di insubordinazione dei militari bulgari, stremati da anni di continue pesantissime guerre (appena prima di quella mondiale c’erano state quelle balcaniche), il diffondersi del tifo, le assurde pretese di disciplina dell’autoritario colonnello, la condizione disperata dei detenuti, sono ulteriori elementi che contribuiscono a tratteggiare un quadro davvero senza alcuna speranza. Il tenore trattenuto del racconto evita però di tracimare, in questo senso, ad esempio grazie alla presenza del prigioniero francese che dispensa un po’ di lieve ironia sulla scena. Il racconto ha anche una valenza simbolica, vertendo su un amore impossibile tra un serbo e una bulgara, due persone appartenenti ai tempi a paesi nemici e a cui la Storia non riserverà un futuro particolarmente roseo. Che Ivo venga però finisca ammazzato in qualità di ladro di pesche, anziché di amante, è un’ulteriore crudele finezza del racconto. Significativamente il colonnello, nonostante i sospetti per il cambiamento di umore della moglie, non ne scopre la tresca; e il tenente serbo è ucciso dal sorvegliante del giardino, che aveva avuto il compito di sparare a chiunque tentasse di rubarne di nuovo la frutta. Ivo muore quindi non nei panni dell’amante di una tragedia romantica, ma in quello di un banale ladro da quattro soldi. Nel 1964, in Bulgaria, nonostante fossero passati oltre quarant’anni dai tempi mostrati nel film, evidentemente non rimaneva nemmeno la speranza per un finale tragico.  





Nevena Kokanova 



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domenica 31 marzo 2024

GUERRA SPORCA

1460_GUERRA SPORCA (Passchendaele). Canada 2008; Regia di Paul Gross.

Intitolato nella versione italiana Guerra Sporca, il secondo lungometraggio di Paul Gross aveva nell’uscita originale un nome più complicato da pronunciare o ricordare, almeno per noi italiani, ma perlomeno più significativo. Passchendaele fa infatti riferimento alla località belga teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale e che vide coinvolte le truppe canadesi. Gross è infatti un artista proveniente dallo sterminato paese norda mericano e, con il suo Passchendaele, cerca di rimediare ad una sostanziale mancanza nel panorama cinematografico: non c’era, in effetti, un testo filmico di rilievo internazionale che certificasse, anche in questo ambito, il contributo canadese alla Grande Guerra. Non è quindi un compito secondario quello che si accolla Gross: e, da un punto di vista delle pretese artistiche, questo gli va riconosciuto. La storia sembra buona, la regia rispetta i canoni convenzionali del cinema mainstream (anche se forse c’è qualche volo troppo esagerato tra i soldati colpiti dalle esplosioni); insomma, da per quel che concerne la confezione comunque ci siamo. Si diceva della bontà della storia: l’intreccio è elaborato, c’è una traccia sentimentale che si intreccia bene con le dinamiche belliche ma, ad un certo punto, sembra quasi che si esageri. E li il terreno comincia a diventare pericoloso, anche perché Gross non ha la mano registica di un grande autore, mentre la storia che ha imbastito, a quel punto, la richiederebbe. Il protagonista, Michael Dunne (interpretato dallo stesso Gross) è un veterano canadese ferito e decorato a cui viene risparmiato il ritorno al fronte, per sfruttarne l’ascendente in fase di reclutamento tra i giovani abitanti dell’Alberta. In realtà l’uomo, una volta guarito fisicamente, è rimasto comunque tormentato dal rimorso: in una delle sequenze più riuscite dell’intero film, Dunne ha infatti ucciso deliberatamente, ficcandogli la baionetta in piena fronte, un nemico inerme, un giovanissimo tedesco. Mentre è in convalescenza all’ospedale militare in Canada si innamora della sua infermiera, Sarah (Caroline Dhavernas), che è di origine tedesca. 

Questo dettaglio non è secondario: pare infatti che il padre della giovane abbia scelto di combattere per la patria natia e questo crea problemi anche al fratello minore David (Joe Dinicol). David, per poter continuare ad essere accettato dalla comunità, ed ambire a frequentare la sua ragazza, decide così di arruolarsi; sua sorella Sarah accusa di ciò l’incolpevole Dunne che, per amore, si farà assegnare allo stesso reparto di David per proteggerlo. In tutto questo garbuglio di storie sentimentali Dunne ha il tempo di inimicarsi con l’ufficiale del campo di arruolamento che l’accusava di non voler tornare al fronte per codardia. La storia ha già quindi un forte tenore emotivo e, quando ci si ritrova al fronte, subisce una decisa impennata. Con un passaggio decisamente eccessivo quando i tedeschi crocefiggono il povero David col filo spinato fuori dalla loro trincea. L’intreccio di trame è notevole, anche per via dell’evidente simbolismo delle situazioni; Gross è bravo a dipanarle tutte quante, in modo anche convincente. Ad esempio c’è un risvolto che riguarda la fama dei soldati tedeschi che si diceva avessero già messo in croce altri prigionieri; nel corso del film Dunne insiste più volte nello smentire questa diceria ma poi ne trova la più tragica conferma. Vero è che il comandante tedesco, quando capisce che Dunne si lancia in una missione suicida per recuperare il povero David, lo lascia fare e anzi lo aiuta a togliere il soldato dall’improvvisata croce. All’interno di un passaggio prettamente narrativo è reso con una certa efficacia il proverbiale spirito guerriero alemanno, terribile coi nemici ma anche rispettoso dell’onore dell’avversario. Il tema portante della scena è, comunque, la croce, evidente simbolo di sacrificio e, ben presto, si capirà che se anche Dunne potrà sopravvivere al Calvario della terra di nessuno nella missione per salvare David, il suo destino è ormai segnato. 

Pur se non ci sono errori, questa svolta narrativa è molto ingombrante; e non aiutano le coincidenze che, in questa fase, alimentano la sensazione di trovarci di fronte ad una enfatizzazione della realtà. (Volendo ben vedere la stessa già citata che si avverte quando i soldati vengono proiettati lontano da uno scoppio d’artiglieria). Prima Dunne rincontra Sarah nell’ospedale da campo in Belgio e poi ritrova anche l’ufficiale del centro di reclutamento che gliela aveva giurata: sono forzature anche plausibili, da un punto di vista realistico, ma che appesantiscono il fardello emotivo del racconto. Come detto, a questo punto sarebbe forse occorsa una regia più abile nel gestire questi flussi sentimentali e altri interpreti, capaci di catalizzare meglio la tensione sulle loro spalle sgravandola dal testo. Invece Dunne e il suo cast sono bravi attori, ma si trovano di fronte ad un finale strappalacrime che, nel caso non dovesse riuscire nell’impresa di commuovere lo spettatore, finirà inevitabilmente per fargli storcere il naso. Ed è un rischio notevole, essendo Guerra Sporca un film bellico, evidentemente. In ogni caso, nel complesso l’operazione è positiva e se ci sono questi limiti è solo perché Gross ha rischiato il tutto per tutto e non era certo semplice portare a casa l’intera posta. Ma coraggioso il tentativo e nemmeno male, in definitiva, il risultato.   




Caroline Dhavernas 

Meredith Bailey


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venerdì 5 gennaio 2024

ONEGIN

1417_ONEGIN . Regno Unito 1999; Regia di Martha Fiennes.

Per il suo debutto in regia, Martha Fiennes decise di adattare per lo schermo il poema in versi Eugenio Onegin, di Aleksandr Puškin: una scelta coraggiosa, considerato la natura del testo. Il padre della letteratura russa aveva infatti scritto il suo racconto utilizzando la musicalità della scrittura scandita dalla partitura e, in effetti, l’opera lirica si era spesso confrontata con questo soggetto. Il cinema, nei suoi principali adattamenti –si prenda quello del 1959 di Roman Tikhomirov a titolo di esempio– aveva a sua volta attinto dall’opera lirica che Pyotr Tchaikovsky aveva tratto dal poema di Puškin. Martha Fiennes, al contrario, realizza un film tradizionale, con dialoghi parlati, sebbene la musica, opera del fratello Magnus, sia certamente importante nella resa finale. Martha e Magnus non sono i soli Fiennes a far parte dell’operazione, in quanto l’assai più noto Ralph è il produttore oltre che l’interprete principale nel ruolo di Onegin. L’operazione smaccatamente famigliare non deve far storcere il naso, perché il risultato è ragguardevole: Ralph, conferma il talento anche nella dolente interpretazione del dandy annoiato ideato da Puškin, la musica di Magnus, come detto, offre un valido supporto alla regia di Martha, da parte sua accorta e suadente. Figurativamente l’opera è molto affascinante, con passaggi evocativi e suggestivi; i costumi sono curati, la fotografia regala scorci incantevoli o comunque intriganti, come la location delle passerelle sull’acqua per il duello. La trama è, nel complesso, abbastanza rispettosa del testo e, più che eventuali critiche a qualche passaggio modificato, si può osservare l’attenzione che viene prestata ad alcuni dettagli, ad esempio, al citato duello cavalleresco. In precedenza, non sempre il cinema era riuscito a fornire un quadro abbastanza esaustivo sulla questione, rischiando, in questo modo, di equivocare il carattere di Onegin. 

La versione di Martha Fiennes, seppure non sarà fedele alla lettera a quella del poema, permette comunque di comprendere come la personalità del protagonista sia meno scontata e prevedibile di quanto lui stesso cerchi di mostrare. Nello specifico, nel film è chiarito bene come Onegin cerchi di evitare in tutti i modi la contesa e siano invece tanto Lensky (Toby Stephens) che il suo “secondo”, Zaretsky (Alun Armstrong), a non volervi assolutamente rinunciare. Nel cast, naturalmente –essendo Eugenio Onegin uno struggente poema romantico– è cruciale la protagonista femminile, a cui Liv Tyler regala una performance memorabile. La sua Tatyana è assolutamente particolare: certamente molto bella –Liv, ventiduenne, era acerba, ma deliziosa– ma del tutto esente da malizia o sensualità esibita. Quando scrive la sua ingenua lettera, in uno dei passaggi dal romanticismo più acceso, sembra quasi un’adolescente, e questo permette di non infierire poi, almeno più di tanto, sul cinismo di Onegin da parte della storia. Onegin, in effetti, si trova a disagio, nella vicenda: sciupa il grande amore della vita e conduce un’amicizia al mortale duello. In parte questo avviene perché è effettivamente un individuo indolente e annoiato, ma anche e soprattutto per il suo essere più consapevole degli altri personaggi del racconto. Effettivamente, Olga (Lena Headey), sorella di Tatyana e sposa promessa a Levsky, è una ragazza un po’ “leggerina”, diversamente avrebbe rifiutato il secondo ballo ad Onegin per concederlo, come promesso in precedenza, al suo fidanzato. Tuttavia, una semplice battuta che rivela la cruda realtà, provoca la reazione, per altro adeguata all’epoca dei fatti, di Levsky, con il tragico risultato del duello. Allo stesso modo, le parole di Onegin non sono del tutto disoneste, magari un po’ troppo sincere da risultare dure, quando respinge la lettera di Tatyana. In fondo, la giovane lo aveva appena conosciuto e, volendo ben vedere, con la sua infantile impazienza aveva istradato male la possibile love-story. 

È altresì vero che Onegin non sembri brillare per valori positivi, in nessun campo: non ascolta il notaio in un momento importante, non si interessa alle questioni politiche, nemmeno quando si appresta a concedere benefici sociali ai lavoratori che dipendono da lui. Non fa nemmeno lo sforzo di comprendere un banale gioco come far saltare i sassi sull’acqua. Ma questi sono passaggi, per quanto possano sembrale importanti, banali nella vita di un uomo. Perché nei momenti cruciali, Onegin rivela di non essere un personaggio negativo: non approfitta di Tatyana e cerca di evitare il duello, che sono anche i passaggi salienti della trama. Almeno fino al finale: lì, effettivamente, il Nostro ha un cedimento e si piega ad una forza superiore alla sua, l’amore per Tatyana, ma ormai è troppo tardi e i due giovani, a causa della loro onestà morale, sono condannati all’infelicità. Onegin, infatti, non disprezza affatto Tatyana, quando lei gli rivela i suoi sentimenti; sul momento, per la verità, l’uomo getta la missiva nel fuoco ma, poi, la recupera, per restituirla alla ragazza. Questo passaggio è interessante, perché sottolinea non tanto il rifiuto, quanto una sorta di “respingimento temporaneo”: restituendo la lettera a Tatyana, Onegin scioglie l’impegno preso da lei. Il che non pregiudicherebbe un eventuale successivo approccio tra i due, cosa che sarebbe stata assai più difficile se la lettera fosse stata bruciata senza alcuna spiegazione. L’attesa avrebbe infatti snervato la ragazza, probabilmente con conseguenze ben peggiori per il suo sentimento nei confronti dell’uomo. Onegin era invece stato onesto, ai limiti del brusco, certo, ma anche Tatyana, col tempo, avrebbe potuto comprendere che si era, effettivamente, esposta troppo, mettendo il buon dandy spalle al muro. Nel secondo confronto, era invece la donna, a fare voto di onestà, restando fedele al marito quando non poteva non confessare di amare ancora Onegin. Insomma, che si sia la più ingenua delle fanciulle ottocentesche, o il più ozioso aristocratico della Russia zarista, la morale non cambia: l’onestà non garantisce affatto la felicità. Anzi.       




Liv Tyler





Lena Headley


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