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mercoledì 3 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO

1724_IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Nel 1959 la Rai mise in onda un curioso programma, Giallo club – Invito al poliziesco, che inseriva, all’interno di una sorta di quiz televisivo, alcuni lungometraggi della durata di un’oretta che avevano come protagonista un personaggio che rimarrà nella storia della televisione italiana: il tenente Sheridan. Interpretato da Ubaldo Lay, che finì per essere identificato per sempre con il poliziotto dall’impermeabile color ghiaccio, Sheridan era a capo della Sezione Omicidi di San Francisco ed era ritagliato sulle figure della narrativa hard-boiled americana, come il Philip Marlowe di Raymond Chandler o il Sam Spade di Dashiell Hammett, tenendo figurativamente d’occhio soprattutto Humphrey Bogart nei suoi celebri noir. Ma con qualche significativa correzione: via il cappello, forse troppo comune ai gangster, e niente whisky, visto che il buon tenente beveva latte. Un particolare che sembrava voler stemperare un po’ il clima plumbeo degli argomenti, come detto il tenente lavorava alla Omicidi, con un rimando ai fumetti e a quel Cocco Bill, personaggio di Jacovitti quasi coevo di Sheridan, che girava i saloon del far west bevendo camomilla in luogo del più comune torcibudella. Del resto il rifermento al mondo delle nuvole parlanti era ufficialmente dichiarato dagli autori che si ispirarono a Ezechiele Lupo della Walt Disney per il nome di battesimo di Sheridan, poi familiarmente chiamato Ezzy. Questo rimando –a quello che è in sostanza uno dei cattivi dell’universo disneyano, per la precisione il lupo cattivo che vuole mangiarsi i tre porcellini– è un elemento curioso, perché presenta Sheridan come personaggio non del tutto positivo. Lay, oltretutto, alimenta questa deriva, con una maschera poco espressiva se non per il suo trasmettere inquietudine; insomma, non certo un personaggio rassicurante. Forse è anche per questo che gli autori ambientarono la serie fuori dall’Italia, e non solo genericamente oltreoceano ma a San Francisco, ben più lontano, per esempio, della Nuova York che con la sua Little Italy aveva comunque un’area famigliare nel Belpaese. L’«invito al poliziesco», di cui parlava il programma contenitore, forse aveva proprio questo scopo: far comprendere agli italiani che le forze dell’ordine, anche per la natura del loro ruolo, non erano necessariamente composte da cherubini e anime nobili. Una preoccupazione inutile, a dirla tutta, considerata la Storia del nostro Paese, ma onesta in ambito teorico e necessaria a non creare equivoci. E, rammentando le parole del commissario Alzani –ricordato come il primo poliziotto della Tv italiana, dove Sheridan è il secondo– si può comprendere come quest’operazione di caratterizzazione delle forze dell’ordine sia stata fatta prendendola alla larga, ovvero passando dalla lontanissima California. Alzani (Renato De Carmine), nell’ultimo episodio della serie Aprite: polizia! sostiene infatti che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. In pratica, parole in linea alla strategia alla base della scelta di ambientare a San Francisco la serie cardine di Giallo club – Invito al poliziesco, ovvero un po’ quella di gettare il sasso nascondendo la mano. Per «svezzare» il Paese e farlo crescere – compito primo della televisione di stato – occorreva fargli fare i conti con la propria metà oscura –lo scopo catartico del racconto giallo– e con la natura delle forze dell’ordine – quello più didattico del poliziesco– ma non era il caso di essere traumatizzanti. Per cui, per prendere confidenza con questo tema, ovvero l’ambiguità nel quale si muovono gli uomini deputati alla sicurezza della collettività, meglio uno sguardo senza filtri ma che non ci coinvolga subito direttamente. In fondo un saggio emblematico della politica intrisa di spirito paternalistico che caratterizzava la classe dirigente dello Stivale. La serie, una volta fatta la tara alle circostanze dell’epoca, si può affermare sia realizzata con solido mestiere e, oltre al tenente protagonista, prevedeva personaggi fissi come il sergente Steve Howard (Carlo Alighiero) e l’agente Mills (Sandro Moretti), figure ricorrenti che aiutavano lo spettatore a familiarizzare con i racconti. Il primo episodio, Qualcuno al telefono, mette subito in mostra le capacità intuitive del tenente della Omicidi e l’accuratezza formale del film, sceneggiato da Mario Casacci, Alberto Cianbricco e Giuseppe Aldo Rossi, e poi diretto da Stefano De Stefani.      


giovedì 21 agosto 2025

MONTE CARLO (1986)

1717_MONTE CARLO , Stati Uniti 1986. Regia di Anthony Page 

Il buon riscontro in termini di audience della miniserie Peccati confermò il momento d’oro di Joan Collins, con il successo di Dynasty e la popolarità di Alexis Colby che non accennavano a cedere di un millimetro. La CBS, la rete che aveva già prodotto Peccati, voleva battere il ferro finché caldo e imbastì un’altra miniserie abbastanza «glamour» per sfruttare al meglio la verve della Collins, che si era ormai eretta a icona degli anni Ottanta. Stando al sito The Joan Collins Archive [sito web, joancollinsarchive.blogspot.com, pagina web https://joancollinsarchive.blogspot.com/search?q=monte+carlo, visitato l’ultima volta il 9 aprile 2025], in realtà, non è che l’attrice avesse poi tutta questa fretta, vuoi per evitare di sovraesporsi mediaticamente, vuoi per non rischiare di realizzare un lavoro poco curato. Nonostante il budget di 9 milioni di dollari [almeno stando al The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025] e le opportune modifiche apportate al romanzo omonimo di Stephen Shephard, su cui si basa il soggetto, alla resa dei conti Monte Carlo finisce per confermare i timori dell’attrice inglese. Intendiamoci: se lo si prende come sorta di capsula del tempo per fare un salto negli Eighties, caratteristica che condivide con Sins, Dynasty e altri prodotti simili, allora quello di Anthony Page può essere considerato un piacevole diversivo. C’è una robusta storia di intrighi e spionaggio, ambientata nel neutrale Principato di Monaco durante la Seconda Guerra Mondiale, qualche buona scena d’azione, l’attacco dei caccia sulla spiaggia durante un party mondano e alcuni passaggi in montaggio alternato che alimentano adeguatamente la suspense. Poi, naturalmente, ci sono gli interpreti tra cui spicca, ça va sans dir, Joan –53 anni di bellezza– nei panni della cantante russa Katrina Petrovna; sebbene si debbano ricordare almeno Malcolm McDowell (è l’irlandese Christopher Quinn), George Hamilton (è lo scrittore americano Harry Price, che avrà una storia d’amore con la Petrova) e Peter Vaughan (è Pabst, il cattivone tedesco della Gestapo). La Petrovna è una agente segreto al soldo degli inglesi: sullo schermo, una spia russa in terra francese –o quasi, trattandosi di Montecarlo– rievoca inevitabilmente la Ninotchka del maestro Lubitsch [Ninotchka, Ernst Lubitsch, 1939] interpretata dalla Garbo. Peraltro, è inutile ricordare che il rimando più evidente in materia, per quel che riguarda la Diva svedese è, naturalmente, il ruolo di spia fatale per antonomasia, Mata Hari [Mata Hari, George Fitzmaurice, 1931]. La Collins, sempre stando al citato The Joan Collins Archive, disse tuttavia di ispirarsi a Marlene Dietrich, effettivamente protagonista di un film dallo stesso titolo della miniserie tv di Page [Montecarlo, Samuel A. Taylor, 1957] oltre che adorabile agente segreto in Disonorata [Dishonored, Josef von Sternberg, 1931]. Ed è proprio in questo ambito che Monte Carlo, fondando tutte le sue fortune sulla figura di Joan Collins, non riesce a vincere la sua scommessa. Come accennato, Monte Carlo non è infatti un capolavoro del piccolo schermo ma, per la precisione, nemmeno un prodotto orribile, noioso o inutile: il problema è altrove. Ma se questo «problema» risiede nella performance della protagonista dell’opera, questo non significa necessariamente che la Collins ci faccia una pessima figura. Joan è ancora bellissima, si muove con disinvoltura nei dorati ambienti monegaschi sfoggiando una serie sterminata di abiti diversi tra loro, vezzo narcisistico dell’attrice ma, al contempo, volendo, anche plausibili nell’ottica di soddisfare le esigenze narrative dell’avventuroso copione. Tuttavia, quello che non convince è il tentativo di innestare il pacchiano glamour anni 80, qui al suo vertice assoluto, con lo stile elegante e sospeso dell’epoca. Ad essere onesti, quando la serie venne trasmessa negli Stati Uniti, ci fu chi non guardò troppo per il sottile, valga per tutti i severi censori del film il critico John J. O’Connor del The New York Times che definì il film “sciocco”. [The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025]. Perfino più tranciante il giudizio di O’Connor su Joan Collins: “Miss Collins (…) sembra aver finalmente raggiunto la fase della carriera in cui sembra totalmente irreale. È una fotografia aerografata che cammina. La star è convinta che i suoi fan vogliano solo avventure romantiche e belle persone in abiti splendidi. Potrebbe avere ragione. 

Mentre alle attrici che la circondano non è mai permesso di sembrare più che decisamente scialbe, lei naviga attraverso Monte Carlo in più di tre dozzine di cambi di costume, fermandosi di tanto in tanto per aggiornare la trama. I produttori esecutivi di questo esercizio di vanità sono Miss Collins e Peter Holm, suo marito”. [Ibidem]. Critica assai severa che potrebbe anche essere veritiera, se non completamente, almeno in parte; è evidente che l’attrice inglese abbia avuto un ruolo significativo nella confezione formale dell’opera, essendone la star e la coproduttrice, e che si sia lasciata condizionare dal successo finalmente ottenuto grazie a Dynasty. Tuttavia, in sé, Monte Carlo potrebbe anche andare, se non fosse che, per soggetto, ambientazione e, soprattutto, palesi rimandi alle dive dell’epoca, cerchi un confronto che poi non riesce assolutamente a reggere. La questione non è se Joan Collins sia o non sia un’attrice del calibro della Dietrich o della Garbo; anzi, si può dire che, almeno nel proprio ambito, l’interprete inglese abbia guadagnato sul campo i galloni per stare nella medesima Hall of Fame delle due citate illustri colleghe. Quello che non convince è che Joan, pur avendo interpretato numerose figure di donna –dalla ragazzaccia dei primi crime movie, alla donna emancipata ma cinica e disillusa dei film dei Settanta– sembra essersi incagliata nel ruolo di Alexis. E se Mrs. Colby è perfettamente funzionale negli scandali sensazionalistici di Dynasty, non lo è nel modo più assoluto in quello che è da sempre rappresentato come il rarefatto mondo delle ambigue e fatali spie. Quelle donne bellissime avevano spesso qualche elemento androgino –a cominciare proprio dalle evocate Garbo e Dietrich– che alimentava la sensazione di inquietudine e indeterminatezza di ruoli, del resto basilare per trame ricche di personaggi che facevano il doppio quando non il triplo gioco, che lasciava campo ad allusioni esplicite o implicite ad ogni livello. L’esatto opposto della poetica opulente degli Eighties, in cui l’importante era mostrarsi e apparire, e di cui “le tre dozzine di cambi di costume” di cui scrive O’Connor non sono che un esemplare manifesto. 



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lunedì 11 agosto 2025

EROI PER CASO

1712_EROI PER CASO , Italia 2011. Regia di Alberto Sironi

E’ certamente un pregiudizio, ma accostare Flavio Insinna e Ambra Angiolini (più degli altri del cast) ad un tema delicato e sentito come la Grande Guerra, così, ad orecchio, sembra un azzardo oltre al lecito. Ma Alberto Sironi aveva dato già prova di avere uno speciale intuito, per questo genere di cose, quando aveva scelto Luca Zingaretti come protagonista della fortunata serie Tv Il commissario Montalbano. Pare, addirittura, che Andrea Camilleri, l’autore e creatore del personaggio in questione, non fosse affatto convinto della scelta tanto che sbottò: “Io lo avevo immaginato diverso, ho scritto un'altra cosa!". Come noto, proprio la figura del commissario ben impersonata da Zingaretti è uno dei punti di forza della produzione. E quando vediamo Eroi per caso, film televisivo in due puntate dedicato alla Prima Guerra Mondiale italiana, abbiamo un’ulteriore conferma in tal senso. Perché Insinna, nel ruolo di Cesare Magnozzi, fotografo romano arruolato nel regio esercito, se la cava in modo agevole e anche la Angiolini, a cui la storia regala la parte tragicamente eroica, fa altrettanto. Interessante, e probabilmente funzionale alla riuscita dell’interpretazione dell’Ambra nazionale, la scelta di affibbiarle un personaggio muto, forse ricordando come in Dobermann (1997, di Jan Kounen), Monica Bellucci aveva sciorinato un’interpretazione a suo modo memorabile con un ruolo nella simile condizione. Pare, infatti, che la corretta dizione della lingua italiana non sia tra le prerogative degli interpreti del belpaese; si pensa forse di sfruttare la genuinità della parlata fortemente accentata quando non dialettale ma si tratta di un elemento limitante nel momento in cui la Storia del cinema in Italia è stata forgiata dalla straordinaria abilità dei doppiatori della nostra tradizione. Vedere i nostri attori parlare come il vicino di casa, quando gli interpreti stranieri li abbiamo sempre sentiti scandire un italiano perfetto spesso si rivela un clamoroso autogol. Tuttavia in un contesto come quello della Grande Guerra l’inflessione dialettale è accettabile, ma probabilmente esagerare con le disparate provenienze avrebbe minato la credibilità del racconto. Nel quale abbiamo il Magnozzi che parla romano, Lulù la Belle (Serena Rossi) napoletano, mentre don Silvano (Neri Marcorè) e Piero Vanin (Michele Alhaique) se la cavano con un italiano senza particolari inflessioni e, nel complesso una volta contemplate le classiche comparse che fanno le battute nei dialetti del posto, l’equilibrio generale funziona. La questione linguistica non è secondaria, anzi, è uno dei presupposti alla funzionalità del racconto filmico: spesso la credibilità dei prodotti italiani è infatti minata proprio da dialoghi improbabili. Eroi per caso, pur non essendo certo un capolavoro e nemmeno un film degno di particolare segnalazione, funziona grazie al dosaggio di questi elementi. Insinna scorrazza per il film ma ha, tutto sommato, un certo garbo, una certa discrezione (si veda nelle avances al personaggio della Rossi); Marcorè tiene la barra dritta con professionalità e Alhaique è di supporto. Sul versante femminile la Angiolini lavora sottotraccia (non avendo i dialoghi che ne ostentino l’evidenza) ma proprio per questo risulta particolarmente convincente quando si guadagna i suoi spazi; bene anche la Rossi che gioca un po’ col suo ruolo in modo funzionale. La vicenda è solo un pretesto per vedere questi protagonisti inseriti in un contesto storico infarcito di personaggi giustamente (visto il tenore dell’opera) stereotipati. Il ritmo narrativo c’è e questo è certamente un altro elemento a favore di Sironi che, quindi, se la cava in modo egregio in un’operazione che, come detto forse per pregiudizio, sembrava davvero rischiosa. Ma onore al merito.    


Ambra Angiolini 




lunedì 7 luglio 2025

SINS - PECCATI

1694_SINS - PECCATI (Sins), Stati Uniti 1986. Regia di Douglas Hickox

Mentre era ancora impegnata con Dynasty, Joan Collins cercò di sfruttare il momento propizio per fare qualcosa di diverso, in modo da non venire del tutto identificata con il personaggio di Alexis, effettivamente non semplice da «portare» per un tempo prolungato. Ma Joan non voleva rinnegare l’ambiente in cui si muoveva la Colby, e nel quale si trovava perfettamente a suo agio: amava il lusso degli anni Ottanta, e riteneva di poter interpretare un altro personaggio determinato e in grado di avere successo senza per questo essere scorretto quanto lo era Alexis. Per ottenere questo scopo, la Collins divenne addirittura produttrice, insieme al marito dell’epoca, lo svedese Peter Holm: il primo risultato fu Peccati, una miniserie dalla complessiva durata di 5 ore abbondanti. Sins, questo il titolo originale, pur essendo un prodotto televisivo tutto sommato anche simile, presentava almeno una notevole differenza rispetto a Dynasty, avendo una durata circoscritta. Per quanto i 320 minuti costituissero una discreta quantità di tempo per raccontare una vicenda, Peccati copriva un arco narrativo enorme, partendo dalla Seconda Guerra Mondiale fino ad arrivare agli al tempo odierni anni Ottanta. I colpi di scena clamorosi non mancano nemmeno in questa nuova produzione ma, a differenza che nelle Soap Opera, qui non sono svolte narrative che aprono di volta in volta nuovi scenari ma, piuttosto, servono a convogliare le trame ad un punto prefissato. Sotto questo aspetto, per la verità, il lavoro di Nicholas Bienes e Rhea Gallagher (con lo pseudonimo di Judith Gould), autori del romanzo omonimo, lascia un po’ a desiderare, al netto del sensazionalismo narrativo che contraddistingue il soggetto. Joan Collins interpreta Hélène Junot, una volitiva donna francese, dal passato tragico ma in grado di risalire la china fino a divenire una imprenditrice di successo nella rampantissima New York degli anni Ottanta. Per comprendere il tenore enfatico del racconto, che si presenta come una storia ambientata nel mondo della moda e del glamour dei Fabulous Eighties, basti prendere il passaggio in cui i nazisti, capitanati dal sadico ufficiale von Eiderfeld (Steven Berkoff), si accaniscono contro la famiglia Junot. La madre, una patriota francese, nonostante fosse incinta viene barbaramente uccisa, Hélèn, al tempo una giovinetta, violentata, il fratello e la sorellina mandati ai campi di concentramento. La Collins, che subentra nella cronologia quando la protagonista è divenuta una giovane donna, approfitta della lunghezza del tempo del racconto per sfoggiare un’impressionante guardaroba: pare che si arrivi a 85 vestiti indossati dall’attrice, molti dei quali disegnati dal famoso stilista Valentino. Va detto che Joan è particolarmente adatta alla moda degli anni Ottanta, per quanto non si può negare una evidente deriva kitsch che inebria un po’ tutto quanto. Anche il fatto che l’attrice, al tempo cinquantatreenne, vada a interpretare la Hélène di oltre vent’anni più giovane, in termini di credibilità è un azzardo rischioso, nonostante la bellezza della Collins fosse ancora abbagliante. Insomma, Peccati può senz’altro appassionare lo spettatore in cerca di emozioni forti a buon mercato, ma lo stile degli anni Ottanta, che Joan Collins qui interpreta in maniera assoluta, può risultare stucchevole. 







domenica 29 giugno 2025

LA PISANA

1690_LA PISANA , Italia 1960. Regia di Giacomo Vaccari

Questo interessante sceneggiato di Giacomo Vaccari è andato distrutto in un incendio e non ne rimane che un frammento. Tuttavia, stante la scarsità di opere riconducibili a Vaccari, vale la pena approfondire un minimo un serial televisivo che, stando a quanto si può intuire, era davvero di pregevole fattura. La Pisana è tratto da Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e, secondo Aldo Grasso è una felice trasposizione televisiva del romanzo: “La voce fuori campo del protagonista, che rivive il suo appassionato amore adolescenziale, ripropone la limpida prosa di Nievo, alternando le vicende sentimentali a quelle patriottiche. (…) Vaccari, impegnato in una delle sue prime prove, dimostra grande abilità nel tratteggiare le scene con pochi e sapienti tocchi.» [dal blog di Silvia Iannello, pagina web https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html, visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Aldo Nicolaj, che curò la sceneggiatura insieme a Marcello Sartarelli, descrisse sulla pagine del Radiocorriere l’attenzione con cui si adattarono le pagine di Nievo: “Crediamo di non aver mai tradito il Nievo, in quanto abbiamo sempre preso dalle pagine del suo romanzo lo spunto e l’ispirazione per rendere più accessibile al grande pubblico quest’opera (…) Molti erano i modi di affrontare la riduzione: noi abbiamo preferito penetrare nel vivo del romanzo attraverso lo stesso racconto del protagonista, che consente di far arrivare al pubblico – quando la narrazione lo permette – l’armoniosa prosa del Nievo. Attraverso la voce del protagonista, rivivrà così l’appassionata storia d’amore tra la Pisana (Lydia Alfonsi) e Carlino (Giulio Bosetti), sullo sfondo storico della vita italiana negli anni che vanno dalla Rivoluzione Francese alla morte di Napoleone. (…) Logicamente, nello sceneggiato, così come nelle pagine di Nievo, la storia d’amore tra la Pisana e Carlino non è fine a sé stessa, ma costituisce un pretesto romantico per raccontare com’è stata dura e sanguinosa la nostra Storia negli anni prerisorgimentali, quando pochi uomini, col loro sacrificio, hanno preparato l’avvenire dell’Italia”. [Aldo Nicolaj, La Pisana, Radiocorriere Tv, n. 43, 1960, pag. 43]. E, leggendo queste parole, il rimpianto per l’impossibilità di una visione completa dell’opera, non può che aumentare.  

venerdì 27 giugno 2025

PAPARINO

1689_PAPARINO , Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari

In origine, quella che venne chiamata «prosa televisiva» in Rai consisteva in una sorta di «teatro filmato» che, con i suoi tempi, evolse poi nei celebri Sceneggiati come oggi li ricordiamo. In effetti questo tipo di produzioni erano trasmesse con una certa frequenza dall’emittente nazionale e ci sono autori, come ad esempio Giacomo Vaccari, che prima di focalizzare il loro lavoro sul nuovo «genere» –lo sceneggiato televisivo, appunto – si cimentarono spesso con questo tipo di opere. I debiti con il teatro sono enormi, in sostanza si potrebbero definire gli studi di registrazione Rai come un vero e proprio palcoscenico e l’udienza televisiva come gli spettatori accorsi per la rappresentazione. Come detto Vaccari realizzò numerosi di questi che vengono comunque considerati film a tutti gli effetti, almeno stando alle sue filmografie reperibili in rete; nel 1959 la Rai tramise Paparino, una commedia tratta da una pièce di Dino Falconi. Correva il 1949 quando Falconi scrisse appunto Paparino, una commedia leggera piena zeppa di equivoci, in una stagione in cui il teatro era concentrato su altri temi, più seri e drammatici: eppure all’Olimpia di Milano, il pubblico apprezzò. [Baglio Gino, Tre atti farseschi di Dino Falconi, Paparino, Radiocorriere Tv, n. 45, 8-14 novembre 1959, pagina 43]. Dopo un passaggio in radio nel 1951, la commedia di Falconi approdò anche in televisione, per una messa in scena, come detto, diretta da Giacomo Vaccari. I crediti attribuiscono lo scritto anche a Luigi Motta, coautore insieme al già citato Falconi, per quel che riguarda gli interpreti protagonisti si possono ricordare Umberto Melnati, è Stefano Marchi, Anna Menichetti, è Marta, e Mario Scaccia, è Giuseppe Marchi. 

Al netto dei continui imbrogli ed equivoci della trama, il canovaccio verte sulla contrapposizione tra i fratelli Marchi: Stefano, autore di commedie, e Giuseppe, operoso imprenditore. Tanto il primo è un perdigiorno, spendaccione, e sensibile al fascino delle attricette, come Marta, che frequentano il suo ambiente, quanto l’altro è morigerato e austero, ligio ai severi doveri famigliari. Un’impostazione che ricorda Signori si nasce [
Signori si nasce, Mario Mattoli, 1960], con Totò nel ruolo del fratello frivolo e spendaccione e Peppino De Filippo in quelli del serio lavoratore, del resto anche il film di Mattoli si basava appunto sulla commedia di Falconi. La prosa televisiva della Rai del 1959 non era paragonabile al contemporaneo cinema di Cinecittà, così come Umberto Melnati e Mario Scaccia non reggono il confronto diretto con Totò e Peppino. E anche il pur volenteroso Giacomo Vaccari, chiamato ad una gestione discreta della ripresa televisiva, non può competere con un vecchio marpione della Settima Arte come Mattoli, al tempo all’apice di una lunga e fortunata carriera. E, già che ci siamo, anche da un punto di vista del fascino femminile, la pur gradevole Anna Menichetti non ha certo il fascino di Delia Scala che, al tempo di Signori si nasce, aveva una trentina d’anni ma la proverbiale freschetta assolutamente inalterata. Eppure, Paparino non sfigura affatto nel confronto complessivo con l’illustre rivale cinematografico o, perlomeno, raggiunge il suo scopo, divertendo e facendo sorridere quando non ridere gustosamente. Di più: nel film televisivo, la critica sociale, l’accusa al perbenismo borghese, appare più efficace, perché Giuseppe, quando è vittima dell’ultimo inganno, essere accusato di avere avuto una scappatella ai tempi dell’università, accusa il colpo. La verve di Totò e l’accondiscendente capacità di fargli da spalla di Peppino, disinnescano, al contrario, questi aspetti «impegnati» del testo, che nell’opera di prosa televisiva emergono ancora graffianti. E, a conti fatti, non solo tra Paparino e Signori si nasce un confronto non è del tutto fuori luogo, ma potrebbe avere esiti sorprendenti.   


mercoledì 25 giugno 2025

L'IMBROGLIO

1688_L'IMBROGLIO , Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari

L’adattamento televisivo di commedie teatrali non sembrava lasciar spazio all’espressione artistica del regista di questo tipo di opere. Per capirci, spesso, il Radiocorriere Tv, che era l’organo di stampa ufficiale della Rai, in alcuni articoli di approfondimento manco si prendeva la briga di citare chi fosse dietro la telecamera. Del resto le prime riduzioni televisive erano sostanzialmente teatro filmato e la mano in regia era effettivamente tanto discreta da passare inosservata. In genere, comprensibilmente, era data più importanza all’autore del soggetto, soprattutto quando si trattava di opere letterarie famose, in qualche caso si sottolineava chi curava l’adattamento, in buona sostanza la sceneggiatura; quasi mai si teneva in considerazione chi dirigeva effettivamente la ripresa televisiva. Se potrebbe trattarsi di una sorta di mancanza, in senso assoluto, vista l’importanza di chi mette comunque l’ultima parola, quando c’è Giacomo Vaccari dietro la telecamera è una vera e propria ingiustizia. Vaccari aveva uno stile che, nonostante il garbo e la discrezione tipica delle «Riduzioni televisive» non venisse mai tradito, si percepiva distintamente. Si veda, ad esempio, la scena dello scherzo col formaggio sostituito dal sapone, in avvio de L’imbroglio: i personaggi della pensione ridono sguaiatamente in modo grottesco, in netto contrasto tanto con il clima narrativo del racconto quanto con il contesto. Certo, c’è da subito una caratterizzazione un po’ forzata delle figure, si pensi a Edvige (Betty Foà), la cameriera, o al vecchio impiegato (Achille Majeroni), ma la risata generale sembra effettivamente eccessiva nei toni. Gilberto Loverso, nel suo articolo sul Radiocorriere Tv, citava naturalmente Alberto Moravia, autore del racconto rappresentato, e Marco Visconti, lo sceneggiatore, ma dei meriti di Vaccari nessuna traccia. [Gilberto Loverso, L’imbroglio, Radiocorriere Tv n.17, 1959, pagina 34]. 

Opinioni legittime, sia chiaro, eppure anche l’utilizzo della musica, sin dai titoli di testa con la canzone di Domenico Modugno Piove (Ciao ciao Bambina), un pezzo forte e riconoscibile, ma anche durante il racconto, per sottolineare i momenti romantici che tradiranno il protagonista, sembrano scelte «registiche» in tutto e per tutto. O lo stesso incipit, con il protagonista, Gianmaria (Stefano Svevo), di cui ascoltiamo i pensieri, come partecipando con lui allo spettacolo che prenderà, per convenzione, ufficialmente il via dopo i crediti con la carrellata degli artisti impegnati. Forse Giuliana Lojodice sembra enfatizzare troppo il suo ruolo, in avvio, ma poi ci si rende conto che il suo registro interpretativo è perfetto per il personaggio di Santina, ragazza duplice, e la scena dello specchio è puro cinema da grande schermo, che inganna fin dal nome. Ottimo, seppur in un ruolo minore, Ubaldo Lay, dal momento che l’attore romano aveva un che di ambiguo che si esaltava nelle figure di individui discutibili. L’amarezza del racconto di Moravia sembra davvero terribile e, seppur si può trovar soddisfazione nello scorno di Negrini (il personaggio di Lay) e della sua degna compagna, la signora Cocanai (Laura Carli), certo la punizione per la malriposta ingenuità di Gianmaria appare anche eccessiva. O forse no; forse le centomila lire che Gianmaria regala a Santina non sono la tassa dell’ingenuo. In effetti, nel finale, la direttrice della pensione (Lia Angeleri), rimprovera Gianmaria di essere avventato e non ingenuo. Ecco, L’imbroglio che metteva in guardia l’individuo dal non credere alle facili promesse o alle storie strappalacrime, non voleva smorzare la fiducia nel prossimo, ma la dabbenaggine tipica di chi crede alle frottole per inseguire sogni di vanagloria. Al contrario, una certa ingenuità di fondo e la fiducia nel prossimo sono valori, ed è sacrosanto preservarli. Prova ne è la direttrice che rende l’orologio avuto in pegno da Gianmaria, rinnovandogli la propria fiducia. 


lunedì 23 giugno 2025

IL CLUB DEI SUICIDI

1687_IL CLUB DEI SUICIDI , Italia 1957. Regia di Giacomo Vaccari

L'anno successivo al 1956, che aveva visto il suo esordio alla regia televisiva con Cabina telefonica, Giacomo Vaccari alza il tiro e prova, con successo, una trasposizione da un autore davvero illustre: Robert Louis Stevenson. L’autore scozzese, noto principalmente per Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde [1886] e L’isola del tesoro [1883], aveva scritto molti altri romanzi e racconti, e Pier Benedetto Bertoli è incaricato di trattare Il Club dei Suicidi per una riduzione televisiva, poi messa in scena e ripresa dal regista Giacomo Vaccari. Lo sceneggiato Rai è un film di un’ora e mezza scarsa e Bertoli si concentra sul primo dei tre episodi narrati da Stevenson, ovvero quello che nell’originale si intitolava Storia del giovane che distribuiva paste alla crema. Nel film, questo giovane (Paolo Carlini), si presenta bruciando sterline in una locanda, tra lo sgomento degli astanti. In questa prima carrellata sul volto degli avventori di un bar piuttosto sordido, si intuisce già la poetica di Vaccari: le facce, riprese tanto vicine da essere quasi deformate grottescamente, sono immobili, quasi fossimo di fronte ad un dipinto espressionista. L’effetto grottesco è, per la verità, troppo teatralmente enfatizzato e, a vederlo oggi, desta certo qualche perplessità; tuttavia va detto che Vaccari lo utilizza in questo modo estremo solo in avvio, per suggerire sin da subito il tono del suo racconto. Va infatti considerato che il film era previsto per la serata televisiva dell’unico canale Rai che, al tempo, trasmetteva nel Paese con chiari intendi educativi e divulgativi. Un testo di Robert Louis Stevenson era certo un titolo di merito per gli autori della rete nazionale, ma va detto che Il Club dei Suicidi, come lascia già intendere il titolo, affronta un tema molto delicato. L’atto di togliersi la vita è considerato, oltre che discutibile moralmente, soprattutto un gravissimo peccato dalla dottrina cristiana e in quegli anni Cinquanta la televisione aveva ancora un rispetto assoluto per quella che era la religione più largamente diffusa nel Paese. L’argomento è sviluppato dal racconto di Stevenson in modo sorprendentemente acuto, perché attraverso la trama abbiamo la scissione dell’atto suicida nelle due parti che lo compongono: l’omicidio e la morte. Questo permette di focalizzarsi meglio su ciascuno dei due punti cruciali che l’autoeliminazione porta con sé, quando, al contrario, il fatto che queste sue due componenti siano nel suicidio riassunte in un unico gesto, rischia di mandare ogni riflessione in proposito in cortocircuito. Se chi vuol morire può legittimamente accettare la morte, è più difficile da condividere l’idea di uccidere qualcuno, sebbene anche questo si sottoponga volontariamente al fatto di essere ammazzato. 

Qui sta la genialità di Stevenson, che dimostra come uccidere sia contrario, se non alla nostra natura, quantomeno alla nostra cultura, alla nostra morale; e non conta che la persona da ammazzare voglia morire, appare comunque chiaro ed evidente che si tratta di un’azione abominevole. A questo punto è perfino superfluo sostituire la persona «altra» da uccidere con sé stessi, per comprendere come il suicidio sia, di fatto, inaccettabile per le nostre comuni convinzioni morali. Nel film, il famigerato Club dei Suicidi è gestito dal Presidente (Tino Bianchi), mentre i veri protagonisti del racconto sono Lord Nevil (Leonardo Cortese) e il fido Gerald (Gainni Bortolotto). I quali, nella taverna dell’incipit sopradescritto, assistono incuriositi il baldo giovanotto prima bruciare sterline, poi pagare da bere a tutti gli avventori, quindi ballare ma sempre lasciando intendere una profonda disperazione. Nevil e Gerald decidono di scoprire le ragioni di questi bizzarri comportamenti e, fingendosi a loro volta in condizioni sciagurate, riescono ad entrare in confidenza con il giovanotto, che li invita a seguirli ad una misteriosa riunione: il Club dei Suicidi, appunto. In una bella scena pregna di suspense, i convenuti alla serata si siedono ad un tavolo e il Presidente distribuisce le carte: l’asse di fiori indicherà chi, per l’occasione, sarà il Gran Sacerdote della Morte ovvero l’assassino, l’asso di picche chi il prescelto per raggiungere l’obiettivo comune: morire. In questo modo l’atto di suicidarsi, che racchiude l’uccidere e il morire in un unico gesto, viene separato in due azioni distinte: questo consente di aver meno timore in colui che deve uccidere, in fondo a morire sarà un’altra persona. Ma, nel contempo, questa curiosa soluzione, uccidere un aspirante suicida, evidenzia l’atto criminoso che l’uccidere, chiunque sia la vittima, contiene. Stevenson, e di conseguenza lo sceneggiatore Bertoli e il regista Vaccari, con una manovra narrativa rendono evidente una questione morale che, spesso, è ancora dibattuta: è lecito, moralmente parlando, il suicidio? Non secondo la nostra cultura e tradizione di cui la morale a cui facciamo riferimento, è la più alta espressione: il tutto ben evidenziato in un semplice film televisivo. Era il 1957 e la Rai, grazie al prezioso lavoro di autori come Giacomo Vaccari, stava inaugurando la felice stagione degli sceneggiati.  


sabato 21 giugno 2025

CABINA TELEFONICA

1686_CABINA TELEFONICA , Italia 1956. Regia di Giacomo Vaccari

Presentato da Aldo Grasso come “il più moderno e sensibile regista della televisione italiana” [Televisione, Le Garzantine, Garzanti Editore, Milano, 2008] Giacomo Vaccari è scomparso prematuramente all’età di 32 anni lasciando un grande rimpianto dal punto di vista artistico oltre che naturalmente umano. Nel 1956 avviene il suo esordio alla regia, per un filmato breve, circa mezz’ora, ma interessante sotto più aspetti: Cabina telefonica, tratto da una rappresentazione teatrale opera di Peter Brook, rappresenta uno dei primi esempi di prosa televisiva in Rai. In effetti, siamo di fronte ad una sorta di «teatro filmato» ma la mano di Vaccari non si limita ad una mera rappresentazione del palcoscenico. Al contrario, è attiva, si muove, si avvicina, segue il protagonista, uno straordinario Arnoldo Foà, partecipa e soffre con lui: non è una tipica regia televisiva, quanto piuttosto un tentativo di utilizzare uno stile di ripresa più cinematografico. Il testo di Brooks è stringato e, per farlo risaltare, Vaccari forse pensa non basti la pur superba interpretazione di Foà, per quanto l’attore faccia ricorso al suo ampio bagaglio di recitazione teatrale. Negli anni a seguire, gli sceneggiati Rai troveranno un sapiente equilibrio sfruttando la tipica enfatizzazione del registro interpretativo proprio degli attori da palcoscenico, grazie al quale riusciranno a supplire una indubbia povertà di mezzi del media televisivo rispetto al cinema. Vaccari, sin dai primordi della Tv italiana, i tardi anni Cinquanta, sin dal suo esordio sul piccolo schermo, sembra dire, piuttosto, che anche la ripresa televisiva deve osare di più, deve essere più autoriale. Cabina telefonica è solo un assaggio del suo stile ma lascia intravvedere potenzialità che, purtroppo, se avranno forse modo di sbocciare completamente non lo faranno nella quantità auspicabile. Nel racconto in questione, Foà è Richard, un delinquente di mezza tacca londinese, che cerca disperatamente di parlare al telefono con Colly, un pesce più grande di lui, al quale deve soldi o altro, e che vuole farlo fuori. Per un contatto fortuito delle linee telefoniche, Richard entra in comunicazione con Gladys, una ragazza, con la quale si intrattiene in una conversazione assurda mentre, facendo il cascamorto, aspetta il momento di richiamare Colly. Ma quando la situazione diventa più critica, e diviene chiaro che il suo creditore ha già deciso la sua sorte, Gladys diviene ben più di un piacevole intermezzo, diventa l’ultima speranza. Vana, naturalmente. 

domenica 1 giugno 2025

PROCESSES

1677_PROCESSES, Polonia, 2023. Regia di Andrei Kashperski

Presentata in alcuni festival cinematografici come opera unica, Processes di Andrei Kashperski è stata in precedenza una sorta di miniserie in quattro episodi trasmessa dal canale Belsat TV. Qui è utile, anche per comprendere meglio il film e le sue finalità, spendere giusto due parole per presentare questa interessante piattaforma televisiva in lingua bielorussa: fondata nel 2007 in collaborazione con la rete polacca Telewizja Polska e il Ministero degli Esteri di Varsavia, Belsat TV <pagina web https://belsat.eu/79795897/пра-нас visitata l’ultima volta il 26 ottobre 2024> propone un palinsesto indipendente dal governo di Minsk e, verrebbe da dire «di conseguenza», dal Cremlino. Le posizioni critiche nei confronti di Lukashenko, presidente bielorusso, e di Putin, suo corrispettivo russo, nonché in proposito all’invasione armata in Ucraina, hanno fatto finire Belsat TV all’indice sia di Minsk che di Mosca. Nonostante ciò, l’emittente continua il suo lavoro e un’opera intelligente e interessante come Processes è certamente un bel biglietto da visita per questo atipico canale. Come detto, l’opera in questione si compone di quattro episodi e si parte subito col botto: Fostering [si utilizzeranno i titoli scelti dai distributori per l’edizione internazionale, onde evitare equivoci con le traduzioni dall’originale; per questo primo episodio, in italiano, il significato è Affidamento] è un racconto spassoso, demenziale e terribilmente caustico. Nikolai (Andrei Novik), un agente della OMON, la polizia antisommossa bielorussa, nello zelante adempimento dei suoi doveri, cattura tre manifestanti che protestano contro la guerra. Una volta arrivato al comando, gli comunicano che non c’è posto nelle patrie galere e che deve quindi portarseli a casa e lì tenerceli per la durata prevista dalla prigionia. Qui sorgono i problemi per Nikolai: che non sono però connessi alla palese illegalità della cosa, al fatto che il suo appartamento non sia certo spazioso come una reggia o che i suoi due figli piccoli si possano trovare ad avere a che fare con tre sconosciuti in ambito domestico. Il punto dolente è «Kitten» (Valentina Gartsueva), ovvero la moglie del poliziotto, che, sul momento, non sembra certo entusiasta, per usare un eufemismo, di trovarsi per casa i tre manifestanti. È evidente che le premesse del soggetto siano in pieno surrealismo e gli autori –Mikahail Zuy oltre allo stesso Kashperski– nello svolgimento della trama, ne alimentino adeguatamente l’assurdità. Alcune pennellate sono memorabili, a cominciare dalla paciosa donna che incita i poliziotti a menar di manganello, nella scena iniziale, e poi ne diviene vittima, assurdamente scambiata per una dimostrante. Oppure il mutamento di opinione di Kitten, che prima mal sopporta i tre «ospiti» e poi coglie gli aspetti vantaggiosi della situazione, facendoli sgobbare ai mestieri di casa. O la curiosa e tenera amicizia che si stipula tra i tre, assai presunti, facinorosi e i due figli della coppia, sebbene nella scena più assurda Kashperski e Zuy si permettano perfino una sorta di autoironia che, data la situazione bielorussa, è una doppia nota di merito. Si è detto di come la produzione dell’opera sia parte di un movimento critico nei confronti del regime totalitarista di Minsk e tutta quanta l’impostazione di Fostering –e di tutto Processes, naturalmente– lo lasci palesemente intendere. In questo senso i tre manifestanti sono, per deduzione, facenti parte di questo stesso movimento: la natura non violenta e l’indole docile, evidenziano la loro differenza dalla brutalità della milizia –ben incarnata da Nikolai, il protagonista– e anche dalla più che opportunistica indifferenza di molti –che può essere colta nell’atteggiamento di Kitten. Ad un certo punto, uno dei figli di Nikolai ha bisogno di essere aiutato nei compiti scolastici; vista la difficoltà con attività che non siano fisiche, il poliziotto ha la brillante idea di costringere uno dei manifestanti a farlo al posto suo. Vuoi per la natura mansueta del giovane, vuoi per la paura di prendere manganellate, vuoi per l’amicizia istaurata col bambino, in ogni caso il nostro baldo giovanotto ben si presta al compito. Qui sembra evidenziarsi quella diffusa e convinta «superiorità intellettuale» che caratterizza le persone progressiste nei confronti dei beceri e reazionari difensori dei poteri forti. Sennonché c’è in agguato la citata ironia degli autori: difatti, proprio questi compiti saranno la causa di un sonoro voto negativo per il ragazzino. Nikolai, furibondo, ricorre quindi al manganello per ringraziare l’eppur volenteroso manifestante. Alla fin fine, il periodo di reclusione termina, e i tre giovani vengono rilasciati dall’agente; ma l’episodio si chiude con una scena sostanzialmente analoga a quella dell’incipit, se non fosse che il poliziotto cattura una persona palesemente estranea a qualsiasi –seppur legittimo– corteo di protesta. Come prima, peggio di prima: questa sembra proprio un’affermazione che riassuma lo stato delle cose bielorusso.

Il secondo episodio, Patriotic education [letteralmente, Educazione patriottica] è una sorta di rivisitazione molto libera della fiaba di Barmalej, una specie di girotondo tradizionale russo. [Barmalej, Kornej Ivanovič Čukovskij, 1925]. Una scolaresca di bambini, non più di una decina, si reca con la propria maestra a visitare la sede del KGB accompagnata da due buffi individui, molto simili tra loro, che sembrano usciti da una sinistra versione del fumetto Tintin [Tintin, Hergé, 1929]. Proprio come in certe cantilene, ad ogni tappa del «giro turistico» un membro della truppa viene in qualche modo sottratto al gruppo, che prosegue in numero via via sempre più esiguo. Sono ormai solo una manciata i bambini che arrivano al momento clou del tour negli uffici dei servizi segreti bielorussi: l’interrogatorio di un sospettato. A turno, i ragazzi, spronati da un sinistro ufficiale (Igor Sigov), devono premere su un tasto che comanda l’elettroshock al prigioniero, finché, a fronte di una scossa più sostenuta delle altre, il pover’uomo confessa –non è dato sapere cosa. Ora c’è l’ultima tappa, l’esecuzione del reo confesso: il ragazzino che ha ottenuto l’ammissione di colpevolezza del sospettato, è chiamato a premere ancora, stavolta sul grilletto di una pistola. In un cortile chiuso tra alti edifici, alle cui finestre vediamo le sagome di adulti e bambini che osservano la scena immobili e in silenzio, il condannato è ucciso con un colpo in testa. L’ufficiale ride, i due agenti ridono, ride persino la maestra, che fin lì aveva mantenuto un comportamento interlocutorio; una bambina vomita, mentre il ragazzino che ha premuto il grilletto è rimasto impietrito. Come gli spettatori, probabilmente.  
Dreamed [Sognato, in italiano] è il terzo episodio e propone un’altra situazione assurda: tutti i funzionari di un non meglio specificato ministero governativo fanno lo stesso identico sogno, in continuazione, tutte le notti. Nel sogno, il presidentissimo, muore. Inizialmente, sembra una preoccupazione inconscia del solo Nikolai Ivanovich (Oleg Garbuz) ma, ben presto, si scopre che anche gli altri membri del ministero ne soffrono. Persino la segretaria, Yulechka, è tormentata dallo stesso incubo: tra i vari funzionari, si comincia a temere che si tratti di un sogno profetico. A Nikolai e ai suoi collaboratori appare chiaro che si tratti di un attacco della propaganda occidentale, ma occorre chiarirsi meglio le idee per decidere il da farsi. Il sogno, una volta condiviso tra i vari membri del ministero, viene meglio definito: ci sono fiori, del resto c’è un funerale, e, soprattutto, piove. Una bizzarra coincidenza legata ad una prossima celebrazione nazionale convince tutti quanti che il sogno sia davvero una premonizione: il presidente, la Prima Persona, morirà proprio in quell’occasione. Ma che fare? Avvertirlo del pericolo? Adducendo ai sogni profetici come fonte di informazione? Sarebbe come ammettere di essere spie al soldo del nemico. Allo stesso modo sarebbe rischioso farsi trovare nei paraggi durante la celebrazione, se capitasse qualcosa di brutto al presidente. Yulechka fa notare che nel sogno piove e, secondo le sue esoteriche conoscenze sulle interpretazioni dei sogni, la pioggia significa cambiamento. Forse poteri superiori sono al lavoro e ai nostri funzionari non resta che assecondarli: e, sorpresa, la cosa non sembra poi dispiacere molto a Nikolai e colleghi. Arriva il fatidico giorno: una scusa sull’emergenza epidemiologica ha giustificato la loro assenza, e così, mentre il presidente va incontro al suo destino, i nostri si preparano a festeggiare degnamente la sua prevista dipartita, non prima di aver registrato una confessione in cui denunciano le atrocità del regime e la loro ferma opposizione ad esso. Stappato lo spumante, sono pronti a brindare al nuovo corso, quando finalmente giunge Yulechka con l’atteso comunicato stampa. Dal quale, tuttavia, si apprende che il sogno non era affatto profetico. Il presidente, felice dell’ottima riuscita della celebrazione, ringrazia tutti i presenti; e anche gli assenti.  

La guerra, finora, è stato un tema appena sfiorato, dal film –si sentono alcune grida dei dimostranti, all’inizio del primo episodio– ma per il resto la graffiante ironia di Processes è stata rivolta al governo di Minsk e ai suoi apparati di potere, la polizia antisommossa, il servizio segreto o i ministeri pubblici. Eppure la guerra, nello specifico quella russo-ucraina, coinvolge direttamente il popolo bielorusso in un sanguinoso conflitto in cui, da quelle parti, è ancora più arduo orientarsi. Anche perché, almeno se diamo retta a Program schedule [in italiano, Programma orario] in Bielorussia non si parla della guerra; logico visto che non c’è nessuna guerra. Almeno stando all’informazione di regime, che è l’unica messa ufficialmente disposizione dei cittadini. E, quindi, figuriamoci se i militari bielorussi possano venire coinvolti in qualcosa che nemmeno esiste. Impossibile; o no? Zoya (Yana Troyanova) riceve una telefonata da suo figlio: strano, il ragazzo è all’esercitazione militare. La comunicazione cade immediatamente ma Zoya fa in tempo ad udire alcuni scoppi. I rumori della guerra? La donna prova a richiamare, ma il telefono del figlio non è più raggiungibile. Che siano vere le voci che si sentono sussurrare in giro? Che davvero i ragazzi bielorussi siano mandati a combattere in una guerra di cui ufficialmente si nega perfino l’esistenza? Zoya è una commessa ma, turbata com’è da questo pensiero, comincia ad essere meno efficiente sul lavoro e confida alla bizzarra collega le sue preoccupazioni. Poi ha la malsana idea di telefonare ad un programma televisivo per cercare aiuto o informazioni a proposito di suo figlio. La sua richiesta ha come primo risultato una sinistra ispezione da parte di due ragazze mandate dall’autorità. In seguito, Zoya viene invitata a partecipare al programma televisivo citato: una trasmissione surreale ma, in fin dei conti, nemmeno troppo diversa dalla classica televisione spazzatura che si può vedere al pomeriggio sui nostri canali. E la donna sembra rientrare nei ranghi: ora è convinta non solo che la guerra sia un’invenzione, ma pure che suo figlio lo sia. Il finale, naturalmente, considerato la natura di Processes, rimescola di nuovo le carte, con Zoya che si trova a tu per tu con Nikolai, l’agente della OMON del primo episodio, per una sorta di «ricominciare dal principio», quasi fossimo al gioco dell’oca, ma con alcuni presupposti diversi. Stavolta la polizia antisommossa rimane a mani vuote, Zoya rompe la cortina –di cellophane!– e sparisce, non prima di aver infilato una specie di spillone in un occhio a Nikolai.
La guerra è un altro elemento che –seppur in modo indiretto e mai realmente messa sullo schermo– alimenta la circolarità della trama: le prime parole che si odono nell’episodio che apre Processes sono “no alla guerra” gridate dai manifestanti e nell’ultimo il tema è il tentativo del regime bielorusso di negarne l’esistenza. Per la verità non si può sapere quanto siano pianificati, questi dettagli, dal momento che l’opera venne trasmessa originariamente come serie televisiva e non come lungometraggio diviso in episodi. In ogni caso, l’impressione complessiva è quella di un mondo chiuso che ristagna perennemente nella medesima condizione. Ad alimentare quest’idea ci sono i personaggi e le situazioni ricorrenti trasversalmente ai vari episodi: ad esempio, Nikolai, inteso sia come il poliziotto della Omon, sia come nome, curiosamente comune anche al funzionario protagonista del terzo; la giudice che si interrompe per bere mentre legge la sentenza di condanna; le mani che si sporcano d’inchiostro; i personaggi che dormono sul pavimento, accanto al letto; i bizzarri cappellini fioriti della commessa in Program schedule o il refrain di ripetere da quanto tempo si conoscono tra loro i protagonisti di Dreamed. Tra le scene che incarnano il versante assurdo dell’opera si può citare poi quella della sala fumatori, in quest’ultimo episodio: Nikolai sta discutendo con un collega e vediamo che sono seduti ad una certa distanza. Il collega è nervoso, per via dei sogni ricorrenti, e non riesce ad accendersi la sigaretta: Nikolai, stando seduto, allunga il braccio con l’accendino e, a sorpresa, riesce ad arrivare fino alla sigaretta del collega! L’immagine successiva chiarisce che Nikolai è ancora seduto al suo posto. Nel montaggio di questa piccola sequenza è racchiuso non solo il senso dell’episodio ma di tutto Processes e, addirittura, della situazione bielorussa: si fa finta di niente, si assembla il filmato come fosse tutto normale, senza curarsi che la situazione non lo è affatto. È un passaggio assurdo, Nikolai non può accendere la sigaretta del collega stando seduto a tre quattro metri di distanza; ma la cosa più assurda è che il filmato cerchi –e, in buona sostanza, riesca, perché l’incongruenza, per lo spettatore, non è così clamorosa– a spacciare la cosa come credibile. Più che le visite domestiche di sorridenti ma inquietanti funzionarie dell’autorità, della suadente dialettica delle presentatrici televisive, del brutale zelo della OMON, della persuasiva «cordialità» degli agenti del KGB, ad incarnare al meglio la propaganda di regime d’oltrecortina è la spudorata capacità di fingere ciò che non è possibile fingere. Al punto che, per averne ulteriori conferme, basta guardare un qualunque social network e cercare quelli che –nei nostri lidi, tra i nostri «contatti»– fanno proprie questa improbabili e surreali bugie per smentire la propaganda occidentale. Da cui si può ben desumere che l’assurdità di Processes non è solo specchio della situazione bielorussa.  
       




domenica 13 aprile 2025

LE DERNIER MELODRAMA

1652_LE DERNIER MELODRAMA . Francia, 1979. Regia di Georges Franju

Raramente la carriera di un cineasta, o anche di un artista in genere, ha avuto un’uscita di scena tanto simbolica e rappresentativa quanto quella di Georges Franju. Il regista la cui poetica era stata definita realismo fantastico lascia il mondo dello spettacolo con un’opera suggestiva che vede al centro della scena alcuni commedianti ambulanti. Si tratta di un altro film televisivo per la serie Cinéma 16, dopo quello realizzato dal regista bretone l’anno precedente: Le dernier mélodrame [L’ultimo melodramma] è l’emblematico titolo di una storia che ha protagonista, come detto, una compagnia teatrale itinerante. All’inizio della carriera Franju era stato realizzatore di fondali per il teatro e, con gusto che ricorda la sua vena simbolica surrealista, lì fa ritorno per chiuderla. Il palco allestito dai saltimbanchi del Grand Théâtre Larémolière fa infatti sfoggio per tutto il racconto di una serie di sfondi pregevoli ed evocativi che rendono particolare questo film televisivo. Non eccezionale, sia chiaro, dal punto di vista del ritmo e della storia in sé: l’autore accusa una certa stanchezza e si premunisce di esplicitarla attraverso le parole del protagonista, Larémole de Larémoliere (Michel Vitold) che, analogamente al precedente Bernard interpretato da Daniel Gelin ne La discorde, ha per Franju un ruolo semi-autobiografico. Anzi, anche maggiore rispetto al citato uomo d’affari, visto che Larémoliére è figura di spettacolo e, oltre che attore, anche regista della compagnia. Lo stesso nome, poi, riecheggia ovviamente Molière, celeberrimo commediografo francese, ma l’aggettivo Grand del teatro e la vaga somiglianza del nome stesso riporta alla mente anche Le Grand Méliès, cortometraggio di Franju dedicato al pioniere del cinema d’oltralpe. Il congedo del regista bretone sembra cosciente e queste citazioni paiono nostalgici ricordi della propria carriera: la presenza di una ancora deliziosa Edith Scob (è Lilette) – attrice feticcio dell’autore – è la più evidente ma c’è anche la scena del macellaio – con la testa bovina aperta a colpi di mannaia – che ricorda spudoratamente Le Sang des Bêtes (1948) mentre la trama gialla nel finale ci riporta ai suoi primi lungometraggi. Quello che emerge tristemente da Le dernier mélodrame è che la Francia è cambiata e per gli artisti come Franju, legati alla propria tradizione culturale, non ci sia più posto. Un discorso che si riallaccia al citato La discorde dove il protagonista non riconosceva più la società francese dopo i dieci anni passati in Argentina. Tornando ai nostri saltimbanchi, nella prima città in cui si esibiscono un gruppo di scapestrati giovinastri motociclisti arriva con il solo scopo di creare disordini durante lo spettacolo. Sul momento il sindaco, presente in un palco dedicato, aizza contro i teppisti i suoi gendarmi; poi, dopo l’opportuno consiglio della moglie – in fondo i ragazzi sono figli di possibili elettori – l’opinione del primo cittadino muta di 180° gradi. Il Grand Théâtre Larémolière è costretto a sloggiare e si trasferisce in un piccolissimo borgo: qui, in principio, le cose sembrano migliori. Ma la mentalità dei paesani è ancora ristretta e i testi teatrali possono sembrare anche sconvenienti, in questo caso una torbida pièce con protagonisti i Borgia ambientata in Vaticano. La società francese, insomma, secondo Franju o è in decadimento oppure ancora troppo arretrata. Perché presto il vento cambia anche in paese e ora i saltimbanchi cominciano ad essere malvisti; l’appesantito barista Alphonse (Bernard Diney) inizia a non sopportare più le quotidiane visite del vecchio Frédréric (Raymond Bussières) che si ubriaca tutti i giorni. Maria (Juliette Mills), l’ancora piacente moglie di Alphonse, scorge la possibilità di eleminare il marito, imbruttito e malato di cuore, di cui ormai è stanca. E se a farne le spese sarà il Grand Théâtre Larémolière poco male: l’arte ormai conta meno di una banale storia matrimoniale sommersa dalla noia. E così, al termine di un parapiglia comunque abbastanza efficace, Alphonse tira le cuoia di infarto, scioccato da una fucilata sparata a salve dei saltimbanchi. Gli artisti erano stati preventivamente allertati delle intenzioni incendiare del barista dalla stessa Maria, che opera un doppio gioco mirato a spaventare fatalmente il marito. Il quale, codardo com’era, non aveva avuto il coraggio di appiccare il fuoco alla benzina con cui aveva inondato il teatro, per la verità; Maria, in ogni caso, lo conosceva bene ed è lesta a cogliere l’attimo. Il teatro va in fumo, in tutti i sensi. Chissà, forse la donna, a quel punto, poteva anche risparmiarselo: ormai Alphonse era morto, il suo scopo raggiunto. Ma era anche tempo per Franju, che quel teatro incarnava, di chiudere, e allora perché non approfittare di un finale ad effetto?
Fantastico e credibile, in fondo. Addio, Maestro. E grazie di tutto. 


lunedì 31 marzo 2025

IDOLO DA COPERTINA

1645_IDOLO DA COPERTINA (Make a male model). Stati Uniti, 1983. Regia di Irving J. Moore

Nel 1983 gli anni 80 stavano entrando nel vivo e uno dei temi dominanti del decennio era senza alcun dubbio il mondo dorato della moda e della pubblicità. La televisione americana, al tempo all’apice del successo, aveva già esplorato l’argomento l’anno precedente con Paper Dolls [Paper Dolls, Edward Zwick, 1982] e la serie derivata, Il profumo del successo [Il profumo del successo (Paper Dolls), 1984, serie Tv], sarebbe stata trasmessa nel 1984. Più avanti, negli Eighties sarebbe cominciato il periodo delle supermodelle ma, in quei primi anni del decennio, si stava consolidando un altro fenomeno interessante: quello del culto del corpo maschile che trovava spazio dalla moda alle palestre e di cui anche al cinema, basti pensare ai successi del periodo di Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, si trovava riscontro. In molti sono convinti che l’aitante Jon-Erik Hexum, il protagonista di Idolo da copertina, se non avesse avuto il tragico incidente sul set –nel 1984 si sparò alla tempia con una pistola caricata a salve che gli si rivelò comunque fatale– avrebbe potuto essere una star proprio in virtù delle sue doti fisiche. In effetti è così che la vede anche Kay Dillon, titolare di un’agenzia di modelli, a cui una smagliante Joan Collins presta fascino e carisma. La trama è presto detta: la Dillon vede un bello stallone di campagna, Tyler, il personaggio di Hexum, e lo prende della sua scuderia. Com’è prevedibile, i due si innamorano: d’accordo, al tempo la Collins aveva il doppio degli anni di Hexum –alla lettera, 50 anni contro 25– ma l’attrice, fresca del successo di Dynasty, oltre a bellezza e classe, in Making of a male model –questo il significativo titolo originale– sprizza entusiasmo scenico da tutti i pori. Fino al momento in cui la scommessa dell’acuta agente si concretizza, e Tyler diviene l’«idolo di copertina» del titolo italiano, la storia sentimentale va a gonfie vele. Poi, qualcosa si incrina: in effetti, da un punto di vista narrativo, il motivo per cui Kay diviene via via meno appassionata nei confronti di Tyler non è molto comprensibile. La donna non sembra del tutto priva di sentimenti, come si potrebbe pensare considerato il mondo in cui si muove: è interessante, ad esempio, il modo in cui cerca di ammorbidire le idee di Tyler nei confronti degli strani tipi che frequentano l’ambiente della moda. Omosessuali e travestiti non riscontrano esattamente il gradimento del giovanotto, e la donna cerca di fargli capire come si tratti unicamente di libere scelte che vanno accettate in quanto tali, senza pregiudizi. 

Se nei modi Kay non sembra quindi pienamente il classico esempio del rampantismo dell’epoca, per quanto valuti sempre i possibili riscontri economici delle prospettive che le si presentano, suscita qualche perplessità il suo comportamento nei confronti di Tyler. Nello spettatore, beninteso; nel modello scatena piuttosto gelosia un po’ infondata e una sorta di rifiuto per il mondo della moda che lo induce a piantare tutti in asso per tornarsene nel west e comprarsi un ranch con i primi guadagni. Al netto dei leggeri ribaltamenti narrativi della trama nel finale, questa è in sostanza la traiettoria del racconto, con il protagonista che, assaggiato i piaceri del mondo della moda, preferisce ritornarsene alla sua vita ordinaria. Rimangono un paio di dettagli da segnalare che rendono meno scontato e prevedibile il senso di questo Idolo da copertina. Il primo è il trattamento che riceve dalla sua ex fidanzata che, quando sa che è tornato, decide di passare una notte con lui, nonostante sia ormai promessa sposa ad un altro, unicamente per provare il brivido di fare sesso con una celebrità. Il che è una riflessione interessante: l’arrivismo e l’opportunismo non sono caratteristiche peculiari unicamente del mondo dello spettacolo, che è semmai semplicemente l’acceleratore di fenomeni già presenti nella società. L’altro è la rivelazione che il comportamento di Kay era divenuto via via sempre più freddo, nei confronti di Tyler, perché la donna si era innamorata di lui e non voleva che il giovane si bruciasse nel dorato mondo dello show business. In questo senso c’è, in effetti, la presenza nel copione di Chuck (Jeff Conaway), un modello che ha fatto il suo tempo ed è in piena crisi esistenziale autodistruttiva. Insomma, anche le persone della moda o dello spettacolo hanno un cuore, sebbene a volte si celino sotto le sembianze di Alexis Colby. Che sono sempre molto apprezzabili, tra l’altro.