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sabato 23 agosto 2025

ASFALTO CHE SCOTTA

1718_ASFALTO CHE SCOTTA (Classe tous risques), Francia, Italia 1960. Regia di Claude Sautet

Può sembra un vezzo inutile, se non addirittura una mania fastidiosa, quello di cercare di appiccicare un’etichetta a qualsiasi film; in sostanza è questo che si fa quando si cataloga un’opera in un genere piuttosto che in un altro. Ma c’è una ragione: ovvero che l’appartenenza a generi, o sottogeneri, correnti, filoni, può essere di grande aiuto per comprendere meglio le stesse opere. Non sono limiti, vincoli, ostacoli: sono fonte di aiuto. Ad esempio, il Polar è un genere francese che affonda le sue radici nel Noir americano ed è stato influente, a sua volta, per i Krimi tedeschi, giusto per fare un esempio. Il Noir aveva un pessimismo di fondo giustificato dalla situazione geopolitica in cui vide la luce, con le conseguenze della Grande Depressione se non l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, come elementi determinanti. Il Polar si sviluppò solo lievemente in ritardo, ma acquistò piena coscienza di sé successivamente –quando il mondo sembrava essersi sistemato almeno un po’– e tra le opere più rappresentative di questa svolta autonoma, va sicuramente annoverato il capolavoro di Claude Sautet Asfalto che scotta. La solidità di base al film è garantita da un soggetto opera di José Giovanni, anche sceneggiatore insieme a Sautet e a Pascal Jardin, un autore che sarebbe divenuto uno degli artisti più prolifici e versatili del genere. Il titolo originale, Classe tous risques, che fa riferimento alle classi di rischio delle assicurazioni, esplicita che il protagonista, Abel Davos (Lino Ventura, magnifico e monumentale) non ha più alcuna sicurezza, ancora di salvataggio o rete anticaduta. I timori che nel Noir erano incarnati dalle incertezze che si celavano nella giungla metropolitana sono, a questo punto, quasi un rimpianto. Nel Polar, come si evince in modo emblematico nel film del giovane Sautet, non ci sono incertezze, tutto è chiarito sin dall’inizio quando la laconica voce fuori campo ci dice che Abel Davos è un condannato a morte in contumacia. Lino Ventura era un attore formidabile e in Asfalto che scotta, nel suo primo vero ruolo da protagonista, riesce perfettamente ad incarnare la figura solitaria e malinconica, ma fermamente determinata ad andare fino in fondo, che diventerà una delle icone del Polar francese. 

Eppure, nel film di Sautet, in principio troviamo che Abel Davos, un personaggio destinato a divenire leggendario per il genere, è sposato e si muove con famiglia al seguito. Con lui, infatti, troviamo la moglie Thérèse (Simone France) e addirittura due figlioletti, oltre al socio Raymond (Stan Krol), gangster come lui. Spostarsi con famiglia appresso, vivendo di rapine spesso anche cruente, non è però cosa semplice; e a lungo andare l’Italia, Paese scelto dai nostri protagonisti per compiere le loro imprese, comincia a divenire poco salubre. Al punto che l’insolito gruppo decide di tornare in Francia, nonostante la condanna a morte che pende sul capo di Davos. A Mentone, dove giungono dopo essersi impadroniti di un motoscafo, succede la tragedia: i gendarmi della frontiera li scoprono e, nello scontro a fuoco, rimangono stesi sulla spiaggia Raymond e l’incolpevole Thérèse. Davos ora non solo è rimasto solo, ma con due bambini al seguito, il che lo rende facilmente rintracciabile. Prima di andare oltre, è opportuno approfondire un piccolo dettaglio per comprendere la natura umana di Davos che, non a caso, di nome di battesimo si chiama Abel, come il primo personaggio assassinato, e non il primo assassino, della Bibbia. Quando lo vediamo in azione, Davos è freddo e determinato; a suo carico sentiamo la polizia attribuirgli alcuni morti durante le sue rapine. Eppure a Milano, nella prima scena, lui e Raymond si limitano a stordire le loro vittime e anche al conducente del motoscafo, dopo averlo scaraventato in acqua, Davos getta un salvagente. In effetti il povero barcaiolo lo troviamo poi sano e salvo insieme alla polizia, sulla spiaggia di Mentone. Non è, quindi, Davos, un sanguinario senza scrupoli; è un criminale che, all’occorrenza uccide senza porsi il problema morale delle sue azioni, perché lo ritiene –sbagliando, sa va san dir– parte della sua professione. Ma Davos ha un suo codice di comportamento e la lealtà agli amici ne è uno dei capisaldi. Ecco, il punto focale di Asfalto che scotta, e di tutto il Polar, probabilmente, è che un codice di comportamento –verrebbe dire d’onore ma si correrebbe il rischio di venir equivocati– comune un po’ a tutti gli individui sia venuto meno con il progredire del capitalismo. Il concetto è: nella società occidentale, quando il capitalismo non aveva ancora corroso completamente l’anima delle persone, perfino i criminali come Abel Davos erano leali e solidali, avevano un codice di comportamento. 

Il capitalismo, nel nome dell’interesse privato di ciascuno, manderà a quel paese questo codice, e con essa l’idea stessa di collettività nel senso umano del termine. In Asfalto che scotta vediamo come i vecchi amici di Davos, ex membri della banda che hanno pesanti debiti nei suoi confronti, siano nel tempo profondamente cambiati. Nel momento in cui, queste persone, hanno fatto fortuna e hanno raggiunto una posizione rispettabile, assumono il tipico comportamento degli uomini d’affari e badano unicamente al loro interesse. La critica al sistema borghese è resa ulteriormente evidente dal fatto che sia Raoul Fargier (Claude Cherval) che Henri Vintran, detto Riton (Michel Ardan), i due amici storici di Davos, siano sposati e quindi la famiglia, istituzione borghese per eccellenza, viene esplicitamente messa sotto accusa. L’unico dei membri della vecchia banda che mostrerà un minimo di solidarietà è Petit Jeannot (Philippe March), guarda caso senza compagnia femminile e inguaiato con la Legge. Davos, tradito dai suoi amici, si vendica pesantemente e, in uno scontro a fuoco, elimina Fargier; ma quando legge che la moglie di questi è morta di crepacuore vedendo il cadavere del marito, decide di fermarsi. Nel suo averne abbastanza di tutte quelle morti collaterali possiamo vederci una forma di redenzione dell’eroe; o forse no, perché Davos non è pentito di aver freddato l’ex amico, ma solo di causare vittime estranee alle sue azioni. In fondo l’uomo rimane fedele al suo codice che non era quello di un ammazzasette; in ogni caso, alla Legge non basta e il ritorno della laconica voce fuori campo ci informa che il protagonista del film finirà giustiziato. Più che triste, Asfalto che scotta, almeno per quel che riguarda il personaggio di Lino Ventura, è senza speranza. Tuttavia, nella vicenda si inserisce, dopo oltre mezz’ora, Jean-Paul Belmondo nel ruolo di Erik Stark. Questi, semplicemente in qualità di amico di Raymond, il compare di Davos morto nella sparatoria sulla spiaggia di Mentone, decide di aiutare il fuggiasco sopravvissuto. Stark confessa a Liliane (una folgorante Sandra Milo), una ragazza incontrata sulla strada per Parigi, di essere un ladro. In effetti non lo vediamo impegnato in azioni cruente, seppure si spenda per aiutare il criminale Davos e i suoi due bambini. A lui, José Giovanni e Claude Sautet riservano un lieto fine insieme a Liliane: Stark non è uno stinco di santo ma a suo modo è onesto e sincero. Insomma, ha un suo codice d’onore e a quello si appellano gli autori per conservare almeno un’ultima speranza per il futuro. Il Polar è, in effetti, solo agli inizi.  





Sandra Milo 




Galleria 







mercoledì 15 novembre 2023

HORACE - LA TERRIBILE NOTTE aka UN APPUNTAMENTO PER UCCIDERE

1392_HORACE - LA TERRIBILE NOTTE aka UN APPUNTAMENTO PER UCCIDERE (Horace 62). Francia, Italia 1962; Regia di André Versini.

Un cast davvero importante rende particolarmente interessante questo film del semisconosciuto André Versini: Un appuntamento per uccidere è il titolo italiano, ma altre volte il lungometraggio è indicato come Horace – La terribile notte. Prodotto in Francia nel 1962, cronologicamente, potrebbe quindi essere accomunato ai polar, i polizieschi che, in quel periodo, si ispiravano ai noir americani. Ma qualcosa rende Un appuntamento per uccidere un po’ originale rispetto agli altri polizieschi francesi: ad esempio l’ambientazione, dal momento che, né i Fabiani e nemmeno i Colonna, le famiglie corse rivali protagoniste, sembrano essere particolarmente malavitose. Cioè, si sono macchiate, e continueranno a farlo durante il racconto filmico, di uno dei peggiori crimini esistenti, vale a dire l’omicidio, ma, per quel che si vede, non si muovono all’interno di una malavita attiva e funzionante. Stanno unicamente perseguendo un’insensata faida che trae origine nell’uccisione del cane pastore di uno dei Fabiani, quando ancora le famiglie vivevano in Corsica. Omicidi a parte – e hai detto niente – per quel che riguarda le loro attività – professionali e non – tutto sembra rimanere grosso modo all’interno della legalità; la sala da gioco dei Colonna, per quel che è dato sapere, potrebbe non infrangere la legge, insomma; anche se pare strano, a pensarci. Così come gli affari dei Fabiani possono anche essere leciti, per quel che ne sappiamo. Quel che sappiamo, grazie ad un flashback, è che a dare origine alla faida era stato un Colonna e la motivazione per uccidere il cane da pastore dei rivali la banale invidia tra paesani. Da lì si sarebbe innescata una spirale di violenza che arriva fino ai giorni nostri – o almeno a quelli dell’uscita del film – in quel di Parigi. Addirittura in un cimitero, di Parigi, perché Victor Colonna (Louis Lalanne), approfitta di un funerale per allungare la lista dei defunti morti ammazzati durante la faida. Il meccanismo della faida è poi spiegato nella preparazione alla sfida finale, organizzata da Graziani (Paolo Stoppa) che, a nome delle altre famiglie corse, cerca di porre un limite ultimo ai continui ammazzamenti. 

Dal momento che Napoléon Fabiani (Nerio Bernanrdi) e Toto Colonna (Kempetian) sono un po’ in là con gli anni, a sfidarsi saranno i rispettivi figli maggiori. Ma Victor, quello che ha sparato per uccidere al cimitero, è appunto un criminale e un bonaccione come Antoine (Etienne Bierry), il maggiore dei Fabiani, non avrebbe alcuno scampo. Dal punto di vista di Napoléon si tratta di un’ingiustizia bell’e buona. E qui entrano in gioco gli elementi del cast che, come accennato, nobilitano tutta quanta l’operazione guidata da André Versini che, diversamente, rischierebbe di essere unicamente un onesto film di genere. Giuseppe Fabiani – nei panni del quali troviamo un asso come Jean-Louis Trintignant – il più giovane della famiglia, decide di partecipare alla sfida, in modo da riequilibrare il match. E’ una decisione palesemente scorretta, ma Napoléon non ha nulla da obiettare. 

Chi invece ha qualcosa da ridire è Horace Fabiani, il protagonista, che avvisa i rivali, sia per correttezza sia perché è in buoni rapporti con Natale Colonna. Il personaggio il cui nome richiama alla memoria la vicenda dell’antica Roma tra Orazi e Curiazi – e che anticipa come andrà a finire la tiritera sulla partecipazione alla sfida – è interpretato da un quanto mai dolente Charles Aznavour, bravissimo. E poi troviamo Raymond Pellegrin nel ruolo di Natale Colonna e Giovanna Ralli in quelli di Camille, che fa Fabiani di cognome ma si è sposata Natale, finendo per rappresentare una sorta di tentativo, fallito, di pacificare le due famiglie. Il citato riferimento alla leggenda romana, unito al fatto che tanto Napoléon, che Toto abbiano tre figli maschi in età adulta, rende, come detto, la trama un filo prevedibile, e forse questo è un altro aspetto poco ‘francese’ dell’opera. In ogni caso, nel bel un bianco e nero della fotografia, supportato da una colonna sonora jazz che prova a mettere un po’ di malinconia, assistiamo all’avvincente scontro tra i Fabiani e i Colonna e qui è indubbio che Versini ricorra alla scuola dei polizieschi d’oltralpe per una resa certamente soddisfacente. C’è un rimando anche al cinema western americano, nel duello finale con la Torre Eiffel sullo sfondo, e uno stratagemma che ci conferma come Horace abbia ormai perso la sua innocenza. In definitiva, Un appuntamento per uccidere riesce ad appassionare proprio come un film hollywoodiano e, per il languore tipicamente francese, ci pensa Aznavour e il suo personaggio. Il più contrario all’uso della violenza, nonché l’ultimo che voleva mettere becco nella vecchia diatriba di famiglia ma che, una volta spalle al muro, vi aveva posto la parola fine, sterminando tutti gli eredi dei Colonna e uccidendo per ultimo, l’amico e cognato Natale. Ricorrendo, per riuscirci, ad uno scaltro e ben poco cavalleresco trucco.
La spirale della faida, volenti o nolenti, aveva raggiunto anche lui.
 





Giovanna Ralli 



Danielle Godet 



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lunedì 16 ottobre 2023

GRISBI'

1376_GRISBI' (Touchez pas au grisbi). Francia, Italia 1954; Regia di Jacques Becker.

Il cinema francese fu indiscutibilmente quello che meglio riuscì a fare propria la lezione dei noir americani e quest’attenzione ai film di questo particolare genere d’oltreoceano la vediamo manifesta, ad esempio, ne Le jene del quarto potere (1959) di Jean Pierre Melville. Ma il poliziesco transalpino in chiave oscura affondava le sue radici nelle opere che furono realizzate in patria già a partire dagli anni 30, tra gli altri, da Jean Renoir, Marcel Carné, Julien Duvivier, insomma, un corpus filmico mica da scherzare. Spesso con il termine Polar si intende un po’ tutto il poliziesco francese ma, perché la definizione abbia maggior utilità – e ci permetta di comprendere meglio i film – è forse più opportuno ritenere che questa particolare corrente si affermò leggermente più tardi. Forte della lezione dei classici francesi citati e ispirato dal modello americano – il noir – il polar prese corpo nel corso degli anni Cinquanta. Nel 1954, Jacques Becker dirige Grisbi, capolavoro assoluto che diviene una delle coordinate fondamentali per questa eccellente corrente cinematografica. Il protagonista è Jean Gabin, nel ruolo di Max; o meglio, Jean Gabin interpreta il suo personaggio-tipo, il modello di riferimento per tutti i polizieschi francesi che arriveranno. Max è un criminale, ma la combinazione tra disillusione, consapevolezza di essere fuori tempo, ed estremo senso del dovere – inteso in ottica generale – lo rende il personaggio perfetto – eventualmente, anche nei panni di poliziotto – per i successivi vent’anni. Una specie di dolente anti-eroe in anticipo sui tempi. Nessuno riuscirà a cristallizzare in uno sguardo, in una battuta tagliente, questa filosofia di resistenza alla vita come e quanto lui, ma la strada è segnata. 

Max, come detto, è un criminale dichiarato; tanto, nel film, le forze dell’ordine latitano completamente. Eppure è rispettoso nei confronti delle donne che frequenta – seppure si tratti di ragazze di piccola virtù, come si usava dire – ed è fedele all’amico Riton (René Dary), nonostante questi gli combini un bel pasticcio, rivelando alla bella Josy (Jeanne Moreau) che sono stati proprio loro, gli autori del clamoroso furto del grisbi. Il grisbi in questione, quello a cui si riferisce il titolo, sono otto mattoni d’oro massiccio, per un totale di 50 milioni di franchi, una vera fortuna. Josy oltre a flirtare con Riton, se la intende con il temibile Angelo (Lino Ventura, al suo esordio cinematografico) che, una volta informato, mette in moto una manovra per sottrarre l’oro ai legittimi – si scherza, eh! – proprietari. Che andranno poi eliminati, evidentemente. La partita è, quindi, tra Angelo e i suoi uomini e Max, costretto a chiedere aiuto a Pierrot (Paul Frankeur) dal momento che Riton, vero pasticcione, dopo aver spifferato del grisbi s’è fatto anche catturare. Come si vede, la polizia non è contemplata dal soggetto di Albert Simonin, tratto direttamente da un suo romanzo, e Becker si concentra sul mondo della malavita di Parigi, come recita la didascalia introduttiva. Il film è girato con sobria maestria e scorre liscio come una palla sul bigliardo, sorretto dalle superbe interpretazioni, naturalmente quella di Gabin in testa. Le battute di Max sono eccezionali, per efficacia, ironia, tempismo e, nel doppiaggio italiano, Emilio Cigoli fa con esse un lavoro sontuoso. 

Tra gli esempi che si possono fare, è gustoso lo scambio tra Max e Riton con quest’ultimo che non sa che fare con la ragazza che li ha traditi. “Max, per Josie, cosa faresti al mio posto?” chiede mortificato il povero Riton prima di addormentarsi. “E come faccio a saperlo?” Risponde Max, lasciando una mezza speranza di comprensione all’amico. Se nemmeno un tipo come Max sa cosa fare… “non mi ci troverò mai al tuo posto, babbeo” lo stronca però subito dopo con severità il personaggio di Gabin. Max non abbandona l’amico, ma un minimo di disappunto se lo concede eccome.
Sono altresì particolarmente interessanti alcuni elementi, diciamo così, secondari del film, in primo luogo perché nulla è lasciato al caso, nel film di Becker, in secondo perché, nel tempo, è da questi aspetti che verranno attinti i cliché abituali dei polar

Dell’ambientazione malavitosa si è detto, ma è fondamentale notare come vi sia comunque un quadro morale, del personaggio protagonista e anche di alcuni suoi amici, indipendente dal comune senso di giustizia. Max è un criminale, dai modi educati ma disposto anche ad uccidere, alla bisogna; eppure si comporta secondo un suo rigoroso codice d’onore, secondo il quale, ad esempio, non si abbandona un amico nemmeno se questi se lo meriterebbe. Jean Gabin, al tempo, aveva cinquant’anni, portati con il suo peso sebbene ficcati con cura dentro gli eleganti completi che il suo personaggio sfoggia durante il film. Ma, cosa più importante, Max sembra sentirsene addosso dieci o venti di più, come si evince degli espliciti dialoghi del film. Non a caso, un film che detterà le coordinate per una nuova corrente cinematografica, è imbastito su un personaggio che vorrebbe andare in pensione, dal momento che quello del grisbi doveva essere l’ultimo colpo. Anche da un punto di vista sentimentale, Max non sembra affatto progettare qualcosa insieme ad una delle ragazze che frequenta, se il denaro che mette via come assicurazione lo affida non ad una di loro ma a madame Bouche (Denise Claire), la proprietaria del ristorante dove è solito ritrovarsi. Nel Restaurant Bouche si intrecciano due temi importanti dell’opera: la musica melanconica, che Max ripete essere la sua canzone, e alcune delle ragazze frequentate dal bandito. Se la musica è tipicamente francese, e funge da collante all’intero film, i flirt sentimentali che il personaggio di Gabin intesse possono in qualche modo intendere le varie influenza cinematografiche sull’opera. A cominciare da Lola, presentata – ad una cena da madame Bouche, ovviamente – come una sorta di fidanzata di Max, è interpretata da Dora Doll, attrice francese che era, però, nata a Berlino, in Germania. In effetti, come del resto anche il noir americano, l’espressionismo tedesco è una delle radici del polar francese. Una bellissima e pimpante Delia Scala, negli attillati panni di Hughette, testimonia la parentela con il cinema del Belpaese, e va ricordato che l’Italia è paese produttore, insieme alla Francia, dello stesso Grisbi. Ci sarebbe Josy, come detto interpretata da Jeanne Moreau, all’epoca attrice francese in forte ascesa, ma la pupa se la intende con Riton e Angelo, oltre ad essere l’elemento che tradisce. Il film si chiude con Max che conduce al ristorante di madame Bouche la splendida Betty, che deve le sue eleganti grazie all’interprete americana Marilyn Buferd, non un grande curriculum come attrice alle spalle ma già Miss California e perfino Miss America. La bellezza del cinema americano, proseguendo nell’ipotetica metafora, è innegabile e ineludibile, insomma, ma se il film si chiude sul vinile della solita melanconica canzone nel juke box, piuttosto che sulla ragazza sola o con Jean Gabin, qualcosa vorrà pur dire.  






   Jeanne Moreau 



Delia Scala 



Dora Doll 



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