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venerdì 29 agosto 2025

IL CAPPELLO DEL PRETE

1721_IL CAPPELLO DEL PRETE, Italia 1970. Regia di Sandro Bolchi 

Con l’arrivo degli anni 70, il genere giallo aveva ormai definitivamente conquistato la televisione italiana e, di conseguenza, l’intero Paese. L’impressione, ben fondata, era che fosse una scoperta recente, per il Belpaese, che rispetto ai paesi anglosassoni non aveva una tradizione così radicata. Tuttavia, in Rai, provarono a rivendicare quel minimo di esperienza, mettiamola così, che l’Italia poteva vantare nel campo specifico, andando a rispolverare il romanzo di fine Ottocento Il cappello del prete, opera del milanese Emilio De Marchi, considerato uno dei primi gialli italiani. Quello di De Marchi, ambientato a Napoli, è un buon racconto, con un dettaglio rivelatore e un meccanismo giallo nient’affatto scontato ma anzi ben congeniato. Sandro Bolchi, veterano della regia televisiva, non tradisce e anzi sfodera la proverbiale classe, aiutato in questo da un Luigi Vannucchi, nei panni del protagonista, Carlo Coriolano barone di Santafusca, assolutamente superlativo. Il barone in questione, dedito incautamente al gioco d’azzardo, è in bancarotta e, per risollevare le sue finanze, non trova di meglio che uccidere e derubare don Cirillo (Franco Sportelli), un prete al cui cappello è dedicato il titolo del racconto. Come detto alla base dello sceneggiato c’è un solido e ben costruito racconto, ben messo in scena da Bolchi e recitato dagli attori con un tono teatrale adeguato a sopperire le carenze scenografiche tipiche di questo tipo di produzioni. Un’alchimia che, nel 1970, con ingredienti come Bolchi e Vannucchi, rasentava quando non raggiungeva la perfezione e Il cappello del prete, pur nella semplicità complessiva, ne è un ottimo esempio. L’aspetto più interessante, al netto del piacere di guardare opere così ben realizzate, è però legato a certi elementi che tradiscono, in un certo senso, l’ingenuità dello sguardo di De Marchi, poi ripreso da Bolchi. Il termine «ingenuità» non ha mai un’accezione negativa e men che meno in questo caso, tuttavia è innegabile che De Marchi, nell’affrontare il tema criminale, centrale in ogni giallo, fatichi ad abbandonare uno sguardo troppo positivista. Nel racconto i due passaggi cardine sono due crisi di coscienza di due personaggi che, con le loro difficoltà a reggere al peso del peccato commesso, si pentono o si tradiscono. Prima don Antonio (Ugo D’Alessio), il prete che, senza sapere di chi fosse, si era appropriato del nuovissimo cappello di don Cirillo, si pente di questo furto e cerca di porvi rimedio. Così, non sapendo a chi restituirlo, lo rispedisce all’artigiano che lo aveva fabbricato, avendone letto il nome sull’etichetta interna del cappello. Sulla scena, quindi, c’è un cappello da prete ma manca il prete; per la verità manca appunto don Cirillo ma in una città grande come Napoli non sarebbe semplice mettere insieme i due elementi. A meno di essere il cappellaio Filippino (Antonio Casagrande) che, tra l’altro, vorrebbe proprio ringraziare quel don Cirillo che gli aveva dato i numeri con cui aveva ottenuto un terno secco al gioco del lotto, e si vede invece recapitare a casa il suo cappello. Pane per il giudice Martellini (Mariano Rigillo) che, alla fin fine, pur con tutte le cautele del caso considerato il titolo nobiliare del barone, chiama a colloquio il Coriolano. Il barone non è certo pentito di quanto combinato, non è un’anima pura come don Antonio, tuttavia ha un pesante fardello sulla coscienza che non gli consente di gestire un pur accondiscendete, almeno in avvio, interrogatorio di pura formalità del Martellini, che non lo sospettava minimamente. Eppure il barone si confonde continuamente, strepitoso qui il Vannucchi, finendo per autoaccusarti alla stregua di una confessione. Bei tempi, sia il 1888 del romanzo di De Marchi, che il 1970 di Bolchi, nei quali si credeva ancora che i colpevoli avessero una coscienza.
Oggi sappiamo che non ce l’hanno nemmeno gli innocenti.    




    
 


domenica 27 luglio 2025

COME UN URAGANO

1704_COME UN URAGANO , Italia 1971. Regia di Silverio Blasi

Era passato quasi un anno dalla puntata conclusiva di Un certo Harry Brent [1970, Leonardo Cortese] ed era quindi tempo per la RAI di portare sui suoi schermi una nuova storia di Francis Durbridge, il celebre giallista inglese. Per la verità, l’idea di scomodare Durbridge appare quasi al limite del pretestuoso perché gli autori italiani, per questo nuovo adattamento, stravolsero e non poco il testo originale. Si è già visto come le esigenze televisive italiane avessero indotto pesanti modifiche ai precedenti lavori dello scrittore inglese ma, forse, Come un uragano stabilisce un nuovo record in tal senso. Bat out of Hell [qualcosa che l’autore stesso spiegò essere una sorta di metafora tipo un pipistrello che esce di corsa dall’inferno], lo script originale, verteva su un’unica traccia gialla di matrice, diciamo così, domestica. Il cui plot si potrebbe riassumere con queste parole: due amanti uccidono il marito della donna ma il cadavere dell’uomo sparisce e qualcuno comincia a ricattarli. Stavolta, Biagio Proietti, chiamato ancora una volta ad adattare la traduzione di Franca Cancogni, non si limitò, quindi, ad inserire nuovi dialoghi per dare maggiore spessore ai personaggi, ma si inventò addirittura una trama su un altro piano narrativo per dare maggior corpo allo sceneggiato. Proietti, che aveva appena dato prova della sua abilità di narratore con Coralba, di cui era autore del soggetto originale, riuscì ad imbastire un intrigo sulla malavita organizzata che gestiva le scommesse clandestine sulle corse dei cavalli a livello nazionale che si inseriva coerentemente con la poetica di Durbridge. Ma, almeno stando all’articolo di Guido Guidi pubblicato come presentazione allo sceneggiato sul TV Radiocorriere n.26 del 1971, Proietti non si limitò a questo ma preparò addirittura ben cinque finali differenti, che furono poi effettivamente girati dal regista, Silverio Blasi. Questa strategia, che teneva in buona sostanza all’oscuro tutti quanti del finale scelto poi nel montaggio – pare sia il regista che gli attori  e perfino lo sceneggiatore– serviva per evitare qualunque possibile fuga di notizie. In pratica la trama studiata da Durbridge era dapprima ampliata ed adeguata alle esigenze italiane, con maggior lunghezza e attenzione al lato umano dei personaggi e l’aggiunta di una traccia investigativa da sovrapporre a quella originale. E, per completare l’operazione di adeguamento al pubblico italiano, per la soluzione dell’intrigo giallo furono scritte cinque soluzioni diverse con colpevoli e coinvolgimenti differenti. In questo modo, qualsiasi indiscrezione fosse trapelata durante le riprese non avrebbe avuto la certezza di essere inerente al finale che venisse scelto, non si sa nemmeno bene da chi, per la definitiva messa in onda. Sulla veridicità di queste informazioni, diffuse direttamente dagli autori, è lecito sollevare qualche dubbio; girare costava denaro e, se fare qualche scena in più poteva essere anche un costo preventivabile, cinque finali sembrano effettivamente un’esagerazione. Tuttavia questa è la versione che venne presentata sulla stampa, per quanto potrebbe essere una strategia pubblicitaria. Al netto di quelle che sembrano solo semplici curiosità di un prodotto televisivo che al tempo ebbe un grandissimo successo, la loro plausibilità, perlomeno da un punto di vista narrativo, induce almeno un paio di riflessioni. 

Innanzitutto è evidente che l’intreccio giallo dovesse avere caratteristiche molto precise perché, oltre ad appassionare, doveva essere aperto fino all’ultimo a soluzioni differenti. Difficile stabilire se, tecnicamente, sia un virtuosismo narrativo, una trama che lascia tante strade percorribili senza incappare in incongruenze clamorose, oppure si tratti solo di mera capacità di assemblare passaggi narrativi plausibili. E, da queste considerazioni ne deriva un’altra nemmeno troppo lusinghiera per lo sceneggiato in questione: è evidente che lo spettatore sia di fronte ad un semplice gioco enigmistico, trovare il colpevole, senza aver avuto in mano gli elementi per la soluzione, dal momento che sono possibili molteplici finali. Il che è un bel limite, per un giallo: in pratica è un giallo privato della sua essenza più pura, la sfida tra l’autore e il fruitore, che è la quintessenza del suo essere, almeno per quel che riguarda questo «genere» narrativo, dalla letteratura fino al cinema. Sembra quasi che la televisione, già in quei tempi che vengono giustamente ricordati come una fase aurea di questo specifico media se li paragoniamo al crollo verticale che arriverà nei successivi anni Ottanta, rivelasse già la sua natura superficiale. Il giallo era un «genere» importante e utile, per l’individuo di una moderna società, perché permetteva a chiunque di confrontarsi con il Male. In Italia, paese che aveva storicamente una scarsa cultura in questo tipo di narrativa, si aveva sempre la tendenza a prendere le distanze dal colpevole, abitualmente definito sbrigativamente con l’etichetta di «mostro». Nei racconti gialli, al contrario, spesso si arrivava ad identificarsi addirittura con il colpevole, provando le stesse emozioni, almeno per quel che permetteva un racconto letterario o filmico, e questo significava prendere una coscienza maggiore del proprio «lato oscuro». È forse in quest’ottica che va valutata e apprezzata la scelta della televisione di Stato nel diffondere, con il suo avvento, la narrativa gialla, dando spazio sempre più crescente alle storie criminose. L’Italia, partita storicamente con un significativo ritardo in questo ambito, aveva poi subito un reset totale dal regime fascista che aveva prima limitato la letteratura gialla, mettendola infine addirittura al bando nel 1941. Non prima di aver inculcato nella popolazione l’idea che i temi legati alle attività criminose fossero estranei alla natura latina degli italiani. Testimonianza memorabile di ciò è la stupefacente dichiarazione programmatica messa in bocca ad un personaggio della serie televisiva pionieristica Aprite Polizia! [Aprite Polizia! Le inchieste del commissario Alzani, Daniele D’Anza, 1958]. Il commissario Alzani (Renato De Carmine), presenta il sesto e ultimo episodio della serie con queste scioccanti parole: “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. 

Siamo nel 1958, il Fascismo e le sue leggi sono ormai un ricordo, non troppo lontano per la verità, e Daniele D’Anza, seppur giovane, è un regista che lascia già intuire il proprio talento: eppure le parole del suo protagonista lasciano sgomenti. Tuttavia, ai tempi di Come un uragano, di acqua ne era passata sotto i ponti da quell’incauto passaggio televisivo, e l’Italia aveva imparato a rapportarsi con profitto con il genere giallo e i suoi derivati tanto che al cinema il thriller all’italiana era universalmente conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. E, non a caso, definito fuori dall’Italia con il termine «Giallo», sotto il cui nome all’estero si possono trovare i film dei vari Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava, Umberto Lenzi e tutti gli altri maestri che han dato lustro al nostro cinema «di genere». Se possiamo trovare un limite, comune alla maggior parte dei film di questa pagina comunque memorabile della nostra cinematografia, questo è un po’ la volontaria rinuncia alla logica narrativa, in origine basilare per quel che riguarda i generi giallo e poliziesco, in favore della visionarietà delle immagini e del loro impatto scioccante sullo spettatore. Se questi ultimi aspetti sono certamente pregevoli, può esserlo assai meno quanto era stato messo sull’altro piatto della bilancia. La mancanza di coerenza narrativa, di razionalità dei racconti, rischiava di ridurne l’effetto a mero spettacolo senza un tornaconto in termini di crescita per lo spettatore. Vedere Profondo rosso, in sostanza, poteva gratificare la voglia, la necessità o il piacere di provare paura, di spaventarsi, per lo spettatore, ma il suo impatto astratto e svincolato dal razionale non consentiva allo stesso spettatore di confrontarsi con il Male, e perciò di conoscerlo meglio e, in definitiva, conoscersi meglio. La RAI aveva sempre avuto un approccio generale a questi temi assai più cauto, in ossequio alla morale costituita e alla religione cristiana, largamente diffusa nel paese e molto influente. Ma l’utilizzo ai limiti dello strumentale della prosa di Francis Durbridge, con i suoi dilettevoli intrecci gialli sventrati e ricostruiti alla bisogna dagli autori italiani, con l’unico scopo di nascondere agli occhi curiosi degli spettatori il nome del colpevole, non sembra poi così un’operazione diversa. In questo senso Come un uragano –che arriva giusto dopo Coralba, versione «Made in Italy» dei gialli «à la Durbridge»– sembra rappresentare il punto di non ritorno.

È un bello sceneggiato, Come un uragano, intendiamoci. Ben scritto, ben diretto e con interpreti di prim’ordine. A cominciare da Alberto Lupo, che è il convincente ispettore di Scotland Yard John Clay in trasferta in quel di Alunbury, paese di periferia dove è inviato per indagare sui traffici illeciti del gioco d’azzardo che gravano attorno al nuovo e grande ippodromo locale. Per il pur volenteroso ispettore Booth (Manlio Guardabassi), un boss malavitoso del calibro di Albert Roach (Renato De Carmine) è un osso troppo duro e, siccome la piaga delle scommesse clandestine affligge l’intera nazione, ecco che da Londra mandano Clay ad affiancarlo. Questa traccia, quella delle beghe malavitose inventata da Proietti, sembra in un primo momento rimanere sullo sfondo, perché irrompe subito, in avvio, un delitto di matrice sentimentale. Il che sembra curioso, perché, in effetti, si è detto degli sforzi per nascondere l’identità del colpevole, mentre sostanzialmente lo sceneggiato comincia con il facoltoso immobiliarista Geoffrey Stewart (Sergio Rossi), che viene ucciso dal suo amministratore Mark Paxton (Corrado Pani). Se Paxton è certamente un assassino, e lo vediamo immediatamente, la trama si complicherà alquanto, lasciando da scoprire un intrigo assai più complesso di un semplice omicidio legato a motivi sentimentali. Almeno di facciata, infatti, Paxton uccide Steward in accordo con la moglie di questi, Diana (Delia Boccardo, bellissima), che è naturalmente la sua amante. Nel corso del racconto, facendosi via via più complicata la situazione, qualche dubbio sulle reali intenzioni di Paxton può sorgere; ovvero che, forse, oltre che sull’affascinante Diana, l’uomo avesse messo gli occhi sul patrimonio del suo datore di lavoro. A completare il quadro mancano giusto quelli che, in sostanza, saranno i sospettati, personaggi che possono essere colpevoli, almeno fino al colpo di scena conclusivo, tenendo conto della trama aperta a molteplici soluzioni finali. Glenda Cooper (Adriana Asti), è una piacente antiquaria, effettivamente implicata in affari loschi; peggio di lei è però suo marito Paul (Cesare Barbetti), uno scrittore fallito e mantenuto dalla moglie, acido e tagliente con le parole e molto sospetto; Bill Grant (Renzo Montagnari), facoltoso rivenditore di auto di lusso, è un uomo affabile e dichiaratamente innamoratissimo di Diana e, proprio per questo, da tenere d’occhio; c’è poi una seconda Diana, ovvero la bella señorita Velasco (Gabriella Grimaldi, pseudonimo della sorella di Daria Boccardo), amante di Geffrey Stewart e comunque coinvolta nell’intrigo. Secondo gli autori italiani, il colpevole potrebbe essere uno di questi, scegliendo a caso. Quasi che il delinquere ma soprattutto l’omicidio, siano eventi occasionali, che possano occorrere a chiunque o quasi. Una struttura narrativa di questo tipo, aperta fino all’ultimo a qualsiasi soluzione, deve giocoforza smussare le motivazioni di quello che sarà poi il colpevole, perché tali motivazioni non devono trapelare anzitempo. Certo, gli anni 70, dove cominciava forse a profilarsi l’idea che il mondo era davvero come l’aveva efficacemente descritto il geniale Fritz Lang nei suoi film, dove il conflitto buoni vs cattivi era solo un convenzione di quello del nostro mondo reale tra cattivi e più cattivi. Ma Lang, a cui Proietti aveva peraltro dedicato la figura del commissario dal volto umano in Coralba, aveva una carica umana enorme che permeava ogni suo personaggio. Durbridge, per quanto raccontava di ispirarsi alla gente che incontrava ogni giorno, per creare i suoi personaggi, aveva una cifra autoriale meno importante –il che rispetto a Fritz Lang non è mai un limite, ad onor del vero– oltre avere come prosaico scopo primario quello di intrattenere il pubblico televisivo. I suoi racconti gialli, avvincenti e ben congeniati, erano poi ulteriormente modificati ma non certo per esigenze autoriali, bensì per adeguarli al palinsesto e al gusto italiano. Oltretutto, il pregevole tentativo di rendere più umani i personaggi si andava a scontrare, in un certo senso, con la necessità di mantenere la possibilità che ci potessero potenzialmente essere tanti colpevoli diversi, ognuno con ragioni plausibili. Un po’ come in una vera indagine, questo è senz’altro vero. Ma, da un punto di vista della finzione narrativa, il risultato fu un’atrofizzazione sotto il profilo morale dei personaggi, considerando la necessità che dovessero essere tutti quanti sospettabili e che solo le circostanze, a quel punto, dovevano rendere i soggetti colpevoli o innocenti. Da un punto di vista sociale la narrativa gialla, che trattava argomenti criminali e assai delicati, aveva sempre svolto un’importante funzione, grazie alla catarsi. Argomenti pericolosi e, nel miglior caso, come minimo latenti nell’animo umano, trovavano soddisfazione e soprattutto sfogo grazie a questo tipo di narrativa. Ma era importante, per fare ciò con un risultato utile in tal senso, una guida morale, non necessariamente bigotta o severa, ma che fosse comunque uno strumento per canalizzare queste sensazioni. Per capirci: se prendiamo la violenza, ingrediente primario dell’attività criminale, come elemento di riferimento, potremmo dire che i film o i racconti sulla violenza sono utili, per comprenderla e meglio gestirne gli impulsi a cui naturalmente è soggetto l’individuo. O anche solo per sfogarla, tramite la partecipazione emotiva, ma sempre con un supporto morale che la connoti come elemento negativo in sé. Diversamente libri o film violenti o inneggianti alla violenza sono da condannare e possono perfino essere dannosi per l’individuo, spronandolo ad utilizzarla nella vita con il processo di emulazione. Se con alcuni esempi dei thriller all’italiana probabilmente questo rischio si corse, onestamente, difficile ipotizzarne le caratteristiche sullo sceneggiato Come un uragano. Eppure, qualcosa manca. Se ci rifacciamo ad uno dei migliori esempi di assassini della storia del cinema, e per farlo ricorriamo ancora al maestro Fritz Lang, ovvero a Peter Lorre nei panni di M – Il mostro di Dusseldorf e lo paragoniamo agli omicidi, potenziali e non, dello sceneggiato di Silverio Blasi cosa possiamo notare? Che il terribile e feroce assassino di bambine che infestava la città tedesca è, per assurdo, più umano, nella spettacolare confessione durante il processo a cui lo sottopongono i banditi della città. Non si giustifica, per questo, il suo orrendo crimine, ma se ne comprende la natura profondamente umana della sua origine, deviata e malata, certo, ma umana. Viceversa, i personaggi di Come in uragano, uccidono quasi esclusivamente per denaro, come alla fine capisce anche la povera Diana, quando vede Paxton cercare di tagliare la corda. Il suo amante, infatti, ha scoperto che Geoffrey, poco tempo prima del suo assassinio, aveva cambiato le regole del testamento a favore dell’altra Diana, la sua amante spagnola, rendendo cioè vano l’atto criminale. E che la Diana spagnola, che conosceva il losco Paul Cooper, sapesse di beneficiare del testamento o non o sapesse, sono solo dubbi che servono a sorreggere il mistero tipico dei gialli di Durbridge. Che potesse essere un personaggio in sé stesso credibile, davvero credibile come assassino o come innocente non era un elemento inerente. Qui si uccideva per gioco, sostanzialmente, un gioco senza regole chiare, da non fare più «con gli spettatori», ma «a danno degli spettatori», alle loro spalle. Un utilizzo del media televisivo che diventerà sempre più consueto e comune, ma che nella finzione gialla, a causa della delicatezza degli argomenti trattati, lascia davvero stupefatti.  
Sarà un caso ma anni dopo, le cronache cominceranno a raccontare di casi con motivazioni simili, ma non dalla fiction televisiva, ma dalla cronaca nera. 


Delia Boccardo 



venerdì 25 luglio 2025

CORALBA

1703_CORALBA , Italia 1970. Regia di Daniela D'Anza

Il successo di Melissa, sceneggiato trasmesso dalla RAI nel 1966, indusse i vertici dell’emittente nazionale a ripetere la formula con i medesimi ingredienti. Si ipotizzò quindi un nuovo «originale televisivo» con Daniele D’Anza in regia e Rossano Brazzi protagonista di una vicenda che lo mettesse al centro di un intrigo angosciante. In sostanza, una situazione più in linea con i gusti del pubblico italiano rispetto alle preferenze degli spettatori inglesi, appassionati del giallo classico. In effetti il citato Melissa, come molti altri sceneggiati dello stesso genere, era tratto da un testo di Francis Durbridge, autore inglese e vero specialista in soggetti gialli per la televisione. Quelli inglesi erano film televisivi di una manciata di puntate della durata di mezz’ora circa, che venivano trasmesse verso le 19 e vertevano unicamente sul meccanismo giallo. Erano, in buona sostanza, degni eredi della corrente deduttiva del personaggio di Sherlock Holmes o dei romanzi di Agata Christie, numi tutelari della scuola anglosassone del genere. In Italia i dirigenti RAI avevano esigenze leggermente diverse, tanto per cominciare c’era da riempire la serata del dopo cena, con un racconto filmico quindi più corposo; inoltre, l’aspetto dei protagonisti doveva essere più sofferto e appassionato per coinvolgere meglio gli spettatori, per via della loro natura latina. E, forse, c’era anche una sorta di funzione catartica da soddisfare, per via della contingente situazione nel Belpaese in quelli che stavano già cominciando a divenire i famigerati «Anni di Piombo». I soggetti di Durbridge vennero quindi ampliati, inserendo personaggi e dando maggiore spazio all’approfondimento psicologico dei vari protagonisti in modo da soddisfare le citate esigenze. Nel 1970 si decise però un ulteriore passo in avanti: il soggetto sarebbe stato scritto ex-novo da un autore italiano, Biagio Proietti, per cercare una via autonoma anche su questo terreno tipicamente britannico. 

Proietti, all’epoca, era un giovane autore coinvolto nel mondo cinematografico e fu in quell’ambito che venne contattato da Rossano Brazzi e da suo fratello Oscar, produttore di Coralba, per stendere un corposo soggetto prendendo a modello il precedente esempio di Melissa, il citato sceneggiato RAI del 1966. D’Anza, il regista, trovò subito sintonia con Proietti e il suo testo, e se ne servì per una messa in scena di alto profilo: uno sceneggiato che più che ai suoi predecessori, guardasse direttamente al cinema sul grande schermo. Ma non al nostrano cinema «di genere», ad esempio il thriller all’italiana, che al tempo andava tanto in voga e a cui si possono ascrivere solo alcuni accenni, come la figura della presunta signora Schneider (Germana Paolieri), la ricattatrice che si nasconde dietro gli occhialoni scuri. Ha infatti ragione Mario Gerosa, quando nel suo prezioso saggio dedicato a Daniele D’Anza, coglie le analogie d’impostazione scenica generale tra Coralba e il cinema di spionaggio, altro «genere» britannico per eccellenza. [Mario Gerosa, Biagio Proietti, Daniele D’Anza, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2017, pagine 91 e seguenti]. L’idea dell’intrigo nel cui immergere lo spettatore, attraverso l’identificazione con il protagonista, il dottor Danon (Rossano Brazzi), ha però un’impostazione, per così dire, metalinguistica, a dimostrazione dell’ambizioni dello sceneggiato. Se la storia di spie rimanda direttamente al cinema inglese del tempo, la vicenda è perlopiù ambientata ad Amburgo, in Germania, ma ci sono passaggi anche a Ginevra, Venezia e Chamonix. Il protagonista è un dottore italiano, il che agevola l’immedesimarsi del pubblico RAI, ma il contesto in cui si muove è totalmente estraneo a nostro consueto mondo, sebbene molti precedenti sceneggiati erano ambientati all’estero, ad esempio proprio in Melissa l’azione si era svolta a Londra. 

Ma per Coralba si effettua un lavoro più specifico, si cerca di far passare l’idea di un contesto spiazzante, sfuggente, non omogeneo o coerente come un’ambientazione in questa o quella specifica città o nazione. Non a caso la sigla iniziale, che scorre sulle immagini delle acque del porto di Amburgo, un luogo fluttuante e che non dà riferimenti solidi, è accompagnata da Goin’out of my head cantata da Frank Sinatra, uno dei massimi esponenti della musica americana e quindi totalmente estraneo ad ogni altro elemento della vicenda. A confortare quest’impressione, la sigla finale, Splendido, [di Daniele D’Anza, Biagio Proietti e Gigi Cichellero] è sì in italiano ma è però cantata da Petula Clark, al tempo notissima interprete britannica che conferisce al brano il tipico accento inglese. Anche la composizione del cast non offre un riferimento univoco: Brazzi è certamente un volto noto ai telespettatori, così come Glauco Mauri (nel ruolo del commissario Lang), mentre per trovare un altro interprete abituale degli sceneggiati televisivi dobbiamo aspettare la comparsa di Carlo Hintermann per un ruolo marginale, il compagno della finta signora Schenider. Nonostante sia tolta di scena relativamente in fretta –ma va detto che ritorna puntualmente nella sigla finale di ogni puntata– ha lasciare un segno magnetico, per via della bellezza, e sfuggente, del resto non è quasi mai in scena, è Valérie Lagrange (è Helga Danon, la moglie del protagonista). La Lagrange era una cantante e attrice francese praticamente sconosciuta in Italia ed è perfetta per interpretare il ruolo di una donna che si rivela non essere quel che poteva credere tanto il marito, il dottor Danon, quanto lo spettatore. Il resto del cast sottolinea il carattere internazionale dell’opera: Michael Berger (è Tauberg), Martine Redon (è Vanessa), Wolfgang Stumpf (è l’avvocato Zimmermann) e Paul Glawion (è il commissario Ansen). In un simile contesto, la presenza di artisti del Belpaese nel cast, oltre ai due principali protagonisti, Danon e Lang, è rafforzata da un attore noto solo nel cinema «di genere», Venantino Venantini (è il dottor Bauer), e da Mita Medici (è Deborah, figlia del dottor Danon), all’epoca attrice in rampa di lancio e qui all’esordio televisivo. Già dall’estrema attenzione con cui sono curati questi dettagli alla base dello sceneggiato ci dice che Coralba è un prodotto di alta scuola, destinato al successo e a rimanere nella storia della televisione italiana come uno dei punti di svolta. Perché, a differenza dei tipici sceneggiati RAI, Coralba rende manifesto e clamoroso il distacco dal tipico registro recitativo di marca teatrale che aveva da sempre caratterizzato queste produzioni. D’Anza, come detto, prende il cinema del grande schermo come riferimento, come testimoniano le tantissime scene girate all’aperto –ci sono anche azioni di puro intrattenimento come la scazzottata, l’indagine peregrina per mezza Europa, l’attenzione alle automobili, tutti cliché del cinema di cassetta italiano e non – e anche l’uso del colore, quando in Italia la TV era ancora in bianco e nero, sottolinea le ambizioni di Coralba. In un simile contesto, gli interpreti recitano con un tono meno spiccato rispetto a prodotti analoghi, non dovendo supplire le carenze di una regia che, in questo caso, è di livello cinematografico. Il tutto per una confezione formale che, ad un ipotetico spettatore a cui dovesse capitare di assistere ad uno spezzone dello sceneggiato, lo farebbe scambiare quasi sicuramente per un film per il grande schermo che sta passando in televisione. Per quel che riguarda l’intrigo giallo, Proietti fa un ottimo lavoro, sovrapponendo sostanzialmente due trame gialle, stratagemma utilizzato spesso anche da Durbridge per creare un labirinto narrativo che offra sempre più di una apparente strada da seguire verso la soluzione. In questo caso, come base dell’intrigo abbiamo un ricatto ordito ai danni del dottor Danon, reo di aver causato la morte di un ragazzino somministrandogli il farmaco Coralba non ancora testato. In realtà le cause della morte del giovane non sono accertate e semmai il tentativo di Danon fu un atto di coraggio; che tuttavia gli morde ancora la coscienza. Non sembrano di quell’avviso, ovvero che il dottore sia pentito o comunque in sofferenza, l’uomo e la donna che decidono di sottoporlo ad un ricatto che non ha come unico scopo quello di spillargli denaro ma, anche e soprattutto, distruggerlo. Su questo primo meccanismo giallo se ne innesta un altro ordito da un altro dei personaggi della vicenda che, venuto a conoscenza del ricatto, decide di ingarbugliare ulteriormente la matassa per uscirne come unico vincitore, sfruttando il lavoro preparatorio dei, chiamiamoli così, concorrenti. È evidente che, se ci sono più personaggi che si muovono di nascosto, spesso senza conoscere gli uni le mosse degli altri, poi si vengano a verificare passaggi narrativi incomprensibili, per chi, come lo spettatore, è completamente estraneo agli eventi. 

La capacità di Proietti, ben coadiuvato poi dallo stesso D’Anza e da Belisario Randone in sceneggiatura, è quella di lasciare comunque sempre una possibile soluzione del mistero, che varia di volta in volta, in controluce, in modo da solleticare l’attenzione e la curiosità nello spettatore. Uno stile tipico di Durbridge e che forse gli autori italiani non riescono a replicare alla perfezione ma, semmai, ne forniscono una versione più propria, più sofferta e angosciata. In effetti, se il protagonista è il dottor Danon interpretato da Brazzi, è evidente che il ruolo dei commissari sia altrettanto importante. È in effetti significativo che i poliziotti che indaghino siano due, del resto tutta la storia è duplice: dal citato doppio intrigo giallo, alle due donne bionde assassinate con lo stesso cappotto a quadri, alla doppia vita di Helga/Olga, al dualismo tra la stessa Helga e Deborah, fino ai commissari Lang e Ansen. Quest’ultimo, interpretato dal teutonico Paul Glawion, è il tipico poliziotto duro e inflessibile che applica la Legge senza curarsi troppo dei risvolti umani; del resto l’interprete è tedesco, mentre il suo collega, più attento all’aspetto psicologico, ha il volto espressivo di Glauco Mauri, uno dei più bravi tra gli attori degli sceneggiati dell’epoca. Tuttavia Coralba è un film che non cerca soluzioni semplici e men che mai si rifugia negli stereotipi. Come detto, la storia è ambientata ad Amburgo, in Germania, e anche il commissario interpretato da Mauri è giocoforza tedesco: il suo nome è Lang, evidente omaggio al grande Fritz Lang, regista che riusciva a far coesistere nelle sue opere assoluto rigore morale e pulsante e viva umanità. Proietti raccoglie quindi la lezione di Durbirdge, ma per adeguarla al pubblico italiano, prova a dargli maggiore spessore ispirandosi a Lang che, in senso assoluto, resta un autore inarrivabile. In questo senso si spiega l’amaro finale –forse anche eccessivamente pessimista, se preso alla lettera– che potrebbe voler dire che il delitto, come la vita, è qualcosa di più profondo di un semplice gioco dove si deve scoprire il colpevole. Da un punto di vista tecnico-narrativo i passaggi chiave sono due: uno quasi in avvio, quando Danon si tradisce sulle scale della casa dove avviene il delitto della Schneider, e la faccenda dell’orologio di Vanessa inserito per errore nei gioielli di Helga. Il primo dei momenti rivelatori è molto interessante perché il dottore protagonista, in effetti, compie una gaffe, salendo le scale davanti ai due commissari, che rivela come stia mentendo. Ma, e questo è l’aspetto più importante, in realtà, come capisce argutamente Lang, questo suo passo falso sarà l’indicatore della sua innocenza e non della sua colpevolezza. Nello sceneggiato, quindi, viene meno un elemento tipico della narrativa gialla, ovvero che chi dice la verità è innocente e chi mente è colpevole; oltretutto, il personaggio di Danon, ad un certo punto, accetta quasi con sollievo di essere il possibile, anzi il probabile, assassino della signora Schneider, pur di non essere l’assassino di sua moglie Helga. Anche in questo elemento si può notare come sia l’aspetto umano su cui si focalizza la vicenda: un omicidio è, secondo qualsiasi Legge, sempre un omicidio ma per il protagonista –e, in un certo senso, per gli autori– un conto è aver ammazzato la donna che si ama un altro una sconosciuta che, oltretutto, ti stava ricattando. Danon, che incarna il punto di vista della storia, è un personaggio sofferto, umanamente travolto da quanto gli accade ma già fortemente minato nel suo animo se si pensa al senso di colpa per la morte del povero ragazzino su cui aveva sperimentato il farmaco Coralba. Il suo principale rivale non è colui il quale organizza il ricatto, che è solo una figura  di contorno, utile per innescare una vicenda torbida e fondata su gelosia e invidia, sentimenti umanissimi. No, in contrapposizione al Danon c’è un personaggio infido e calcolatore, che scivola su un dettaglio, l’orologio di Vanessa dal cinturino difettoso, per eccesso di sicurezza, per una sciocca ricerca della perfezione formale dell’intrigo che ha ordito. Anche questa è, in un certo senso, una presa di distanze dal giallo britannico per eccellenza, quello formalmente ineccepibile ma a cui manca qualcosa che realmente appassioni, che coinvolga completamente lo spettatore. Il commissario Lang, con il suo richiamo al maestro del cinema, in tutto questo è unicamente un testimone: è in grado di reggere la complessità dell’intrigo, si accorge di dettagli come le tracce sul ponte e sull’auto, da buon detective, ma capisce anche il dramma che sta vivendo Danon. Ma è unicamente testimone, non risolutore.
L’Italia, sembrano dire Proietti e D’Anza, si può forse capire, ma non salvare.      



Valérie Lagrange 



martedì 1 luglio 2025

MASTRO DON GESUALDO

1691_MASTRO DON GESUALDO , Italia 1964. Regia di Giacomo Vaccari

Il regista Giacomo Vaccari non ha una filmografia particolarmente corposa: una trentina scarsa di titoli per la televisione, perlopiù assai difficili da reperire. In compenso, i pochi film ancora disponibili per la visioni sono molto interessanti, come nel caso de Il club dei suicidi (1957), tratto da Robert Louis Stevenson o L’idiota (1959), da Fëdor Dostoevskij. Purtroppo, pare che La Pisana (1964), sceneggiato ispirato a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, sia andato perduto. In ogni caso, rimane reperibile quello che forse è il suo capolavoro: Mastro don Gesualdo, tratto dal sostanzialmente omonimo romanzo di Giovanni Verga. Lo sceneggiato venne trasmesso dal Secondo Programma della Rai nel 1964, quando lo sfortunato regista era già morto da un anno. L’opera detiene un paio di curiosità che possono essere utili a tratteggiarne alcune caratteristiche: è il primo sceneggiato ad essere impresso su pellicola cinematografica, ed è anche il primo inedito trasmesso dalla seconda rete Rai, che fino allora aveva mandato in onda solo repliche. Il che è un record quantomeno insolito: perché essere relegato sul «secondo» non può certo essere un vanto per l’opera in questione, in quanto il Nazionale, l’odierna Rai Uno, era anche più di oggi considerata universalmente l’ammiraglia dell’emittente di stato. Se consideriamo l’enorme sforzo produttivo di Mastro don Gesualdo, sia per l’uso della pellicola, ma anche per l’accuratezza delle ricostruzioni e della scelta delle location, per l’attenzione al linguaggio, ai passaggi della trama, la cosa desta un po’ di stupore. Tra gli attori, che dire poi di Enrico Maria Salerno, che per incarnare il protagonista dà corpo ad una prestazione di assoluto rilievo, riempendo lo schermo con la sua verve interpretativa. Benissimo poi anche Lydia Alfonsi, triste e dolente Bianca Trao, la moglie nobile presa da Mastro Gesualdo per provare, vanamente, ad agganciarsi alla nobiltà; ma tutto il cast è di ottimo livello, a partire da Sergio Tofano e Romolo Costa, nei panni degli stralunati fratelli Trao, personaggi caricaturali ed emblematici della vetusta e decadente nobiltà siciliana dell’epoca. 

Nonostante la ricchezza anche numerica del cast e una presenza ingombrante come quella di Salerno, Vaccari riesce a mettere in primo piano il contesto, per un risultato in cui, nonostante la verve di quello che è il protagonista assoluto della vicenda, a rimanere nella memoria è l’affresco generale. Un’operazione clamorosamente ben riuscita, perché la mano in regia di Vaccari è autorevole, e forse in questo senso è da pensare la scelta della pellicola in luogo dei tradizionali sistemi audiovisivi: il capolavoro di Verga trova quindi degna rappresentazione sullo schermo. Scrisse, in proposito, Aldo Grasso: “Vaccari firma il suo capolavoro, scardinando le regole linguistiche che fino allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata. (…) Vaccari utilizza in parte il dialetto e riproduce i quadri corali di Verga attraverso il sovrapporsi di voci chiassose; anche queste scelte ribadiscono il rifiuto dell'impostazione pedagogica a vantaggio di un deciso accostamento alla sensibilità e alle suggestioni cinematografiche». [
dal blog di Silvia Iannello, pagina web https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html, visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Ma, anche grazie a questo lavoro di attualizzazione, i temi del maestro siciliano risaltarono nitidamente, proprio quando stavano probabilmente divenendo davvero attuali, in quel 1964, dal momento che si può tranquillamente dire che per l’epoca di pubblicazione del romanzo fossero in anticipo. Ovviamente tali spunti erano presenti già ai tempi, al punto che un genio come Verga poté appunto coglierli, ma solo con il noto «miracolo italiano» la scalata sociale, l’individualismo materiale, l’ossessione per la ricchezza –la celebre «roba» verghiana– contageranno in modo diretto o indiretto grosso modo chiunque nel Belpaese, senza fare prigionieri. Verga non difendeva, come si evince splendidamente proprio da Mastro don Gesualdo – il sistema in vigore in precedenza, con la ferrea divisione in classi sociali, ma stigmatizza anche il nuovo corso sociale che propone come ricetta per superarlo l’arrivismo senza scrupoli. Un avvertimento inascoltato.  


mercoledì 21 maggio 2025

NESSUNO DEVE SAPERE

1671_NESSUNO DEVE SAPERE Italia, Germania, 1972. Regia di Mario Landi

Nel settembre del 1972, Il Padrino di Francis Ford Coppola [Il Padrino, Francis Ford Coppola, 1972] era uscito anche nelle sale cinematografiche italiane; un film che aveva portato alla ribalta internazionale l’argomento mafioso. Peraltro, nel Belpaese, Pietro Germi, Francesco Rosi, Elio Petri, Giuseppe Ferrara, Damiano Damiani, tra gli altri, avevano già dato corpo ad un filone cinematografico che poteva assurgere a rango di vero e proprio «genere». Curiosamente minore l’attenzione al fenomeno che aveva fin lì prestato la nostrana televisione; che al tempo, in Italia, voleva sostanzialmente dire Rai, l’emittente di stato che più che un emittente era una vera e propria istituzione nazionale. Nell’ottobre del 1972 era stato trasmesso Joe Petrosino, uno sceneggiato storico-biografico per la regia di Daniele D’Anza, ambientato prevalentemente a New York ma con passaggi in Sicilia e strettamente connesso all’argomento mafioso di origine italiana. Intanto, contemporaneamente, in quello stesso ottobre ’72, nella Germania Ovest andava in onda una coproduzione tra le tedesche Taurus e Westdeutscher Rundfunk e l’italiana Rai: Blutige Straße, uno sceneggiato televisivo di oltre quattro ore e mezza ambientato in Calabria. Nessuno deve sapere, questo il titolo italiano dell’opera, verrà trasmesso nello Stivale solo nel corso del 1973, nonostante fosse stato realizzato nel 1971 e comunque pronto per la messa in onda l’anno successivo, come evidenziato dai palinsesti tedeschi dell’epoca. Un ritardo nella messa in onda, un po’ clamoroso per la verità, che è, o sembra essere, semplicemente il primo di una serie di episodi che ha sempre messo Nessuno deve sapere in ombra, in secondo piano, quasi a voler intendere il titolo in senso metalinguistico. Uno sceneggiato che è meglio non sia visto, insomma. Un’impressione mantenuta vivida tutt’ora dalla perdurante difficoltà di visione dell’opera, sia in DVD che su qualche piattaforma streaming; e dire che la Rai ne gestisce una, Rai Play, che offre un’ampia scelta tra gli sceneggiati d’epoca. Questo, soprattutto, in considerazione dell’eccelso valore del film di Mario Landi, regista di Nessuno deve sapere, che va ascritto senza alcun timore di smentita tra le produzioni meglio riuscite del citato genere mafioso. Lo sceneggiato venne girato completamente in esterni, cosa non ancora del tutto abituale per questo tipo di produzioni televisive, e Landi fa un utilizzo del mezzo di ripresa in linea con i criteri cinematografici –le zoomate, i carrelli all’indietro, i movimenti di macchina– che impreziosiscono il linguaggio tecnico dell’opera. Le ambizioni del regista siciliano sono dichiarate anche da evidenti riferimenti al cinema «di genere» italiano, ad esempio con lo spazio riservato agli inseguimenti in auto, un topos dei poliziotteschi, e l’attenzione prestata alle vetture coinvolte, in questo caso spicca la Maserati Indy del protagonista, è la conferma che non si tratta di scene inserite per mere esigenze narrative. La bottiglia di J&B whisky, che compare distintamente in un paio di occasioni, è il sigillo di garanzia sull’operazione di affiliamento di Nessuno deve sapere al cinema «di genere» italiano, essendone il liquore dalla bottiglia verde con etichetta gialla e rossa il riconosciuto marchio di fabbrica. Questi rimandi non sono sterili virtuosismi cinefili ma la dichiarazione d’intenti di Landi, che stempera efficacemente il clima narrativo di Nessuno deve sapere che, diversamente, rischierebbe di essere troppo cupo e pessimista. C’è la necessità, sentita da parte dell’autore, di essere credibile e fedele alla realtà storica, ma c’è anche la volontà di lasciare uno sguardo ottimista, di non annegare tutto quanto in un fatalismo senza speranza. Questa difficoltà nel ricercare un punto di equilibrio tra istanze diverse, e forse anche contrastanti, si evidenzia anche nel linguaggio parlato nello sceneggiato: una stretta aderenza al dialetto locale avrebbe infatti reso l’opera intelleggibile dal pubblico nazionale. La presenza nel racconto di numerosi protagonisti provenienti dal nord Italia, permette di utilizzare sostanzialmente sempre l’italiano come lingua «ufficiale» del film, con le varie cadenze e inflessioni dei vari personaggi di turno. L’argomento è, infatti, la costruzione di un’infrastruttura autostradale in Calabria ad opera della Mondial-Strade, una società di Milano, che subappalta quindi i lavori ad imprese locali. A questo punto subentra il tema legato alla criminalità organizzata, con cosche mafiose che si contendono la concessione dei lavori, facendo ricorso al tritolo e causando la morte di un guardiano di un cantiere. Pietro Rusconi (Roger Fritz), il giovane ingegnere arrivato dal capoluogo lombardo per dirigere i lavori, ne rimane sconvolto ma non intende assolutamente accettare queste intimidazioni; anzi, vuole andare a fondo della questione, e scoprire chi sono mandanti ed esecutori del crimine, a costo di dare le dimissioni dal suo incarico in azienda. 

Il ragionier Meneghini (Corrado Olmi), che gestisce il cantiere, cerca di farlo desistere, in luogo ad un maggior pragmatismo d’interessi; suo zio Giovanni (Claudio Gora), titolare dell’azienda, da Milano si precipita in loco per schiarire le idee al nipote. Intanto i mafiosi locali si disputano l’appalto e la supremazia territoriale: don Nico Crifodo (Renato Baldini), boss mafioso in carica e titolare della Sud Strade, scoraggia a suon di esplosivo i fratelli Cosenza (Gianni Ottaviani e Giuseppe Scarcella), concorrenti venuti da fuori, da Castrovillari. Ma Crifodo ha le ore contate: don Sante Badalamessa (il grande Salvo Randone), il vecchio padrino tradito a suo tempo proprio da Crifodo, è tornato per riprendere il suo ruolo e saldargli il conto. In controluce a queste vicende criminose, la trama prevede una robusta ma sobria trama sentimentale: Maria (Stefania Casini), sensibile ma immatura ragazza calabrese, si invaghisce di Pietro, il giovane venuto dal nord, scatenando la gelosia di Mario Cuturi (Antonello Campodifiori), amico di infanzia e ora geometra del cantiere. In seguito arriva sulla scena anche Daria (una spumeggiante Gaia Germani), fidanzata di Pietro oltre che superficiale esponente della borghesia milanese capace tuttavia di alcuni tra i momenti più acuti e interessanti dell’intero film. Sono infatti i dialoghi i passaggi che rendono davvero profondo l’approccio di Nessuno deve sapere al tema trattato: sul momento, dopo il primo episodio, l’attacco alla società calabrese, così legata ad un sistema dove la violenza e la prevaricazione siano la norma, sembra durissimo. Ma nel corso del racconto, il quadro si delinea con maggiore dettaglio. Nella terza puntata, ad esempio, c’è un bel dialogo tra Pietro e il sindaco Cesare Cuomo (Adolfo Lastretti) che chiarisce meglio la situazione: “Ma l’avete guardato bene, questo paese”, attacca la sua arringa il primo cittadino, “industrie qui non ce ne stanno, lavorare la terra ormai non basta più e si fatica per niente, per un pezzo di pane, e non potete neanche immaginare quanto ci costa. E poi domani? La gente ormai non ce la fa, e per questo continua a scappare. Ma questi sono mali antichi. Adesso insieme ai mali c’è la delusione che ci avete dato voi”. “Noi?” chiede stupefatto l’ingegner Rusconi. “Certo”, continua il sindaco, “il Nord. L’industria. La civiltà. Ci s’era allargato il cuore alla speranza. Arriva la strada, arriva lavoro. E invece il lavoro serve a rinforzare, a dare altro potere a chi ci succhia il sangue. E noi che dobbiamo pensare? Quello che penso io quando ho visto come agisce la vostra impresa. Voi li aiutate. Con voi la parte marcia mette radici nel cemento, nell’asfalto”. Poi la discussione si sposta sulla differenza dei cittadini di fronte alla legge. Ancora Cuomo alle prese con lo stupore del giovane lombardo: “Perché lei non la sa differenza che c’è tra uno del nord e uno di qui?” Pronta la replica dell’ingegnere: “No. Di fronte alla Legge non c’è nessuna differenza”. “Lo dite voi” controreplica il sindaco, “Per essere considerato buon cittadino dello stato italiano, uno del nord deve rispettare la Legge e farla rispettare. Deve pagare le tasse eccetera eccetera. Ma per considerare buon cittadino uno del sud si richiede, oltre a tutto questo, che rischi la vita, sua e dei suoi famigliari, i suoi beni e tutto quello che ha”. 

In effetti, la Mondial-Strade, per eseguire i lavori aveva indetto formalmente un appalto, del quale si erano interessanti anche i Cosenza, arrivando da fuori paese; i quali, prima di partecipare, avevano chiesto all’ingegnere se fosse il caso. Pietro Rusconi, in totale buona fede, li aveva invitati a fare la propria offerta che sarebbe stata presa in esame con serietà e rispetto. Meneghini prima, suo zio poi, gli avevano imposto si scegliere l’impresa del paese, la Sud Strade, senza creare problemi. Per chiarire: il tritolo sotto la macchina dei Cosenza era uno di quei problemi. E anche la successiva esplosione nel cantiere della Sud Strade, quella che aveva causato la morte del guardiano, era un altro di quei problemi. Oltre ad essere da ascrivere alla logica delle faide tra le cosche e, in questo senso, accusando apparentemente i Cosenza. In realtà, a quel punto, stava rientrando in gioco Badalamessa che aveva un vecchio conto da regolare con Crifodo. Le parole del sindaco erano sacrosante, questo è chiaro; ma, in un certo senso, anche le spiegazioni dello zio Giovanni, più che le vaghe giustificazioni di Meneghini, non erano del tutto campate in aria. Il problema della Mafia, o della Ndrangheta, come viene definita esplicitamente da Maria nel primo episodio, deve essere risolto principalmente dal basso, dalla popolazione civile. Naturalmente le istituzioni e le influenze dall’esterno, come le imprese del nord, devono collaborare in senso onesto e rispettoso delle regole, ma occorre un cambio di mentalità costruttivo da parte dell’individuo che per primo subisce le conseguenze di questa situazione. Difficile stabilire se questa conclusione sia giusta o quantomeno realizzabile: è, peraltro, quella che emerge dal finale di Nessuno deve sapere, opera che segue la regia di Mario Landi, siciliano di Sicilia, terra di Mafia anch’essa come la Calabria. Infatti, Pietro Rusconi, l’emancipato uomo del nord, che arriva con la Maserati e cerca di risolvere le questioni di petto, ponendosi addirittura sopra la Legge, si veda il rapimento del piccolo Pietruccio, viene spedito a New York. Un luogo evidentemente a lui più consono e dove potrà far valere le sue qualità in un contesto adeguato. I problemi di Nessuno deve sapere, simbolicamente quelli della Calabria, deve risolverli altrettanto simbolicamente il geometra Mario Cuturi, uno del posto. Emancipato e istruito, ma del posto. A cui spetta, a parziale ricompensa per la bella gatta da pelare che gli autori rifilano, la prevedibile storia sentimentale con Maria, sua storica fidanzata, che ormai ha dimenticato Pietro. Questo finale, in qualche modo ottimista, compensa adeguatamente l’atmosfera cupa che lo sceneggiato assume spesso, soprattutto nel suo prendere il periodico congedo di puntata quando Domenico Modugno intona la struggente ma tremendamente evocativa Amara terra mia. Ma tutto il commento sonoro è notevole, opera di Ennio Morricone, del resto. Altrettanto efficaci sono le immagini, per quanto spoglie e minimaliste, che mostrano alcuni viadotti autostradali in cemento armato e che, accompagnate dal malinconico motivo della sigla, introducono ogni episodio. Nessuno deve sapere: un capolavoro che si intuisce sin dal primo fotogramma.       




Stefania Casini 


Gaia Germani 




giovedì 3 aprile 2025

DOSSIER MATA HARI

1647_DOSSIER MATA HARI . Italia, 1967. Regia di Mario Landi

Tra i tanti interessanti sceneggiati proposti dalla Rai negli anni Sessanta/Settanta, un posto particolare spetta sicuramente a Dossier Mata Hari. L’elemento che rende importante questa fiction d’epoca, è l’approccio scelto: su una base rigorosamente storica, o almeno frutto di ricerca su documenti del tempo, si innestano i dubbi di natura umana e morale degli autori. Oltretutto, il tema è delicato, considerando che lo sceneggiato venne trasmesso su quel Canale Nazionale – l’odierna Rai Uno – che, da sempre, ha mantenuto una filosofia moderata e attenta agli argomenti proposti. La rete ammiraglia della Rai era, e in parte ancora è, considerata il riferimento domestico e famigliare e Mata Hari – nel film interpretata in modo convincente da Cosetta Greco – vista in questa prospettiva, è un personaggio quantomeno ambiguo. La fama poco lusinghiera che accompagna la ballerina olandese, al secolo Margaretha Geertruida Zella, è sfruttata, tra l’altro, in modo ‘scaltro’ – narrativamente parlando – da Mario Landi e Bruno di Geronimo, autori del soggetto: l’atteggiamento scostante del capitano Bouchardon (Gabriele Ferzetti, eccellente) riassume probabilmente la comune opinione a riguardo della figura di Mata Hari. Per quanto nei varietà televisivi le soubrette in quegli anni Sessanta stessero sgambettando già da un po’, da un punto di vista ‘morale’, un paese ipocritamente bigotto come l’Italia non si poneva particolarmente ben disposto nei confronti di un personaggio come la seducente spia olandese. Il capitano Bouchardon è chiamato a svolgere le indagini preliminari per decidere se mandare a processo Mata Hari; il suo scetticismo, la sua diffidenza, nei confronti della donna, sono quelli del pubblico, verrebbe quasi da dire del popolo, a fronte del quale la spia doveva essere nuovamente condannata o assolta. In questo senso l’opera degli autori è notevole: non già una pedestre ricostruzione degli eventi, ma un nuovo processo, fatto a mezzo secolo di distanza, per comprendere se Mata Hari fosse davvero colpevole. Colpevole al punto da meritarsi la fucilazione, beninteso, e questo pur in un contesto del tutto peculiare come la guerra. 

Per le quattro puntate in cui è diviso il racconto filmico, sono previsti quattro incipit in cui Riccardo Cucciolla fa il punto della situazione, all’occorrenza riassumendo gli avvenimenti ma cristallizzando anche i dubbi che, man mano, aleggiano sull’operato dei giudici militari francesi. L’opinione degli autori è, ovviamente, già formata sin dall’inizio ma allo spettatore vengono forniti gli indizi un poco alla volta, in modo coerente con una ricostruzione investigativa della faccenda. Qualche scorciatoia, per la verità, Landi e di Geronimo, se la prendono: ad esempio, nella riunione militare nella quale il generale (Mario Ferrari) incarica Bouchardon di preparare il processo, è evidente che l’esito del lavoro del capitano è, o deve essere, quello preventivato. Ma questo passaggio, posto al principio del primo episodio, se predispone gli sviluppi successivi, può essere inteso come una sorta di introduzione e, di conseguenza, finire per essere considerato meno rilevante. Quindi: la Francia, per risollevarsi dalla crisi in cui si trova in quel frangente della guerra, ha bisogno di una scossa, di un colpevole
interno che funga da capro espiatorio. Mata Hari è perfetta, in questo senso. Eppure, sebbene questi elementi ci siano, il racconto si focalizza soprattutto su altro. Quando entra in scena Mata Hari, Bouchardon enfatizza, infatti, il fastidio per la consapevolezza che la ballerina manifesta a proposito del suo fascino sugli uomini. È, quindi, questo uno dei temi del film e, forse, del processo? Una donna che approfitta spudoratamente il suo essere desiderata deve essere quindi punita: ma, con la fucilazione? Cioè, si tratta di una colpa così grave, imperdonabile? La stessa ballerina è incredula che questa possa essere la sua sorte e, quando quasi ci scherza con il capitano, Bouchardon ne sembra seccato. Eppure, a fronte delle labili prove, anche quelle tirate fuori all’ultimo momento e ritenute schiaccianti, è difficile credere che si possa aver fucilato qualcuno nella Francia di inizio XX secolo con questi elementi. D’accordo, c’era la guerra, ma la vicenda non si svolge mica in trincea e Mata Hari sembra tutto tranne che una persona così pericolosa in chiave bellica. A differenza dell’altro celebre agente segreto tedesco in gonnella, Mademoiselle Doctor, quella sì una tipa da prendere con le pinze. 

Anche in ottica, diciamo così, metalinguistica, perfino il ricorso ad un asso come Nando Gazzolo nei panni del tenente Mornet, incaricato di sostenere il ruolo inquisitorio nel processo vero e proprio, sembra confermare che l’impianto accusatorio in sé stesso lascia a desiderare. Nessuno, o quasi, infatti, ha la retorica persuasiva di Gazzolo, che è l’interprete ideale per un personaggio che, in un processo, debba forzare la mando ai giudici. Stando alle parole del narratore, l’intenzione degli autori era di avvicinarsi il più possibile alla realtà, con una pretesa, tipicamente televisiva, di farsi ambasciatori della verità. In questo senso la missione fallisce, visto che sulla questione rimane più di una zona d’ombra. Ma, probabilmente, il vero scopo di Landi e dei suoi collaboratori è riuscito: si trattava, in sostanza, di mostrare quanto sfumata, fuggente, irraggiungibile, potesse essere la realtà. In quest’ottica un personaggio come Mata Hari, in effetti ambiguo da qualunque parte lo si prenda, era l’ideale e Cosetta Greco riesce a darne un’interpretazione emozionante e credibile. Ma ci si poteva fidare delle parole della donna? E verrebbe voglia di rispondere proprio sì, perché il fascino consapevole, la classe, lo stile, e, al contempo, l’infantile civetteria, formano un mix irresistibile. Tra i tanti bei momenti che regala la Greco, in gran forma, è interessante una considerazione di Mata Hari durante il processo in cui si sta decidendo della sua vita:
“vorrei solo aver messo un altro vestito. Sono più vistose le loro divise dei militari di questa maledetta redingote”
si lamenta con l’avvocato. Chissà quanto della vera Margaretha c’è in questa apparentemente superficiale, ma pungente e ironica, riflessione? Suvvia, con tutti i problemi bellici che avevano i francesi, perché diamine si intestardirono a condannare Mata Hari, una delle poche note liete di quel tempo infausto? E, proprio dando corpo a queste perplessità, ci si può rendere conto del ‘problema-Mata Hari’: è impossibile non essere sedotti da quella donna. E, allora, forse questa era la sua colpa: avere troppa influenza sugli uomini. Certamente esiste la possibilità che Mata Hari utilizzò questa sua verve seduttiva per il lavoro di spia, ma in questo senso mancano prove concrete e, quindi, in un processo, non dovrebbe essere condannata. Se invece la sua colpa è quella di essere una sorta di calamita che attira le attenzioni di chiunque le graviti intorno, allora le motivazioni dell’accusa, per quanto discutibili nella loro stessa ragion d’essere, tengono. In quest’ottica si possono giustificare il pregiudizio del generale, che la vuole condannata sin da subito, l’ostilità di Bouchardon e perfino i voltafaccia dell’ultimo minuto dei presunti testi a suo favore, il capitano Ladoux (Antonio Pierfederici) e il capitano Masloff (Arnaldo Ninchi). Al generale serviva un elemento di grande risonanza, per scuotere il paese che stava quasi per cedere di fronte all’incessante pressione bellica tedesca. In pratica Mata Hari era una sorta di agnello sacrificale per riscattare la Francia. Tanto più che il generale non conosceva direttamente la celebre spia e, quindi, non era particolarmente coinvolto in prima persona. Bouchardon era invece toccato da vicino, dalla cosa, avendo un ruolo decisivo e anche perché Mata Hari gli aveva fatto delle avances abbastanza esplicite. L’idea che gli atteggiamenti così sfacciati della donna lo potessero turbare, lo infastidiva e, ancor di più, il timore di veder condizionata la sua capacità di giudizio lo rendeva, per reazione, ancora più rigido e inflessibile. Quanto a Ladoux, questi era il capo dei servizi segreti francesi ed era palesemente invaghito della donna: di fronte alla corte, considerato i tanti uomini che la donna aveva sedotto, lavarsene le mani era un modo per cavarsela alla meno peggio. E per Masloff, che di Mata Hari era addirittura il fidanzato, valeva lo stesso discorso ma in maniera ancora maggiore. Se è difficile comprendere come possano aver giustiziato Mata Hari con delle prove così vaghe sulla sua attività di spionaggio, è più compressibile – seppur ancor meno giustificabile – se consideriamo questi altri elementi. Senza dimenticare che c’è ancora da citare l’elemento decisivo, cruciale: Mornet. Per quanto abile, il capitano non è nient’altro che la personificazione dell’individuo-medio, della persona comune: l’eroe borghese, sebbene vesta i panni militari. In particolari circostanze, l’uomo qualunque della società moderna, che nel 1917 cominciava a prender coscienza di sé, è l’essere più determinato che esista: quando fiuta il sangue della vittima, non mollerà mai la preda. E più la preda è nota, famosa, ricca, potente, più il gusto del sangue è saporito. E Mata Hari non è che una delle tante.     



domenica 1 dicembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - TESTIMONI RETICENTI

1585_QUI SQUADRA MOBILE - TESTIMONI RETICENTI . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano

L’ultimo episodio conferma il livello della serie e lascia il rammarico che sia l’ultima possibilità di vedere all’opera la Squadra Mobile guidata dal commissario Salemi. Ancora una volta, l’episodio è corale con lo stesso Salemi, e il coprotagonista principale, il commissario Solmi, che lasciano ampi spazi di manovra non solo ai commissari Argento, Moraldi, Astolfi ma anche agli colleghi di grado inferiore, il maresciallo Mandò e l’agente Di Franco. Sempre presente anche l’ispettrice Nunziante, per un gruppo di lavoro che funziona in modo perfetto sia come personaggi sullo schermo che come cast di attori. Il tema di questo episodio sono le spietate ed efferate rapine che, al tempo, infiammavano la capitale: i riferimenti all’attualità sono anche stavolta tempestivi, suggellati dal riferimento al bandito arrivato dalla Francia che se ne torna a Marsiglia. In effetti, i primi episodi di criminalità organizzata a Roma furono introdotti dal Clan dei Marsigliesi, che lasciarono in seguito posto a bande armate autoctone, come la celebre Banda della Magliana. Tra gli interpreti occasionali, ad impressionare è soprattutto Silvia Monelli, nel ruolo di Arlette Bartoli, un’attrice davvero poco utilizzata da cinema e televisione e che aveva carisma scenico da vendere. Nell’episodio abbondano le scene d’azione, in genere non proprio il terreno ideale degli sceneggiati Rai, ma, in questo caso, il risultato è ampiamente sufficiente. In una storia ricca di ambientazioni diverse tra loro, a destare qualche perplessità sono le scenografie, davvero troppo povere e minimaliste per essere credibili. I muri troppo spogli nel bar dove si ritrovano i criminali o del casale di Trevignano, si sommano ai già scarni arredi dei luoghi peculiari della serie. Ma sono dettagli marginali, che la bravura degli attori, Luigi Vannucchi su tutti per distacco, relegano sullo sfondo. Interessante il ritorno in auge della sponda scientifica, mentre, dal punto di vista umano, Salemi perde le staffe con la testimone reticente per eccellenza del racconto, la signora Ceccacci (Maresa Gallo). La donna era stata peraltro pesantemente minacciata dai criminali che, se avesse parlato, avrebbero infierito sulla figlia e i suoi timori appaiono ampiamente comprensibili. Anche perché la polizia non si rivela così infallibile, e si veda il finale, quando, prima di intervenire, aspetta che la ragazza olandese (Eva Axen) arrivi al casolare dei banditi, mettendone inutilmente la vita a rischio. Poco male; probabilmente si tratta di esigenze narrative, visto che sarà la ragazza a chiudere il conto al boss della banda Salvatore Loferro (Mario Bardella). Loferro, per sfuggire ai controlli, si fa chiamare Arrigo Lenzi, un nome che è un evidente richiamo al regista Umberto Lenzi, maestro dei poliziotteschi del cinema italiano e a cui, Qui Squadra Mobile, coi suoi inseguimenti e le sue Alfa Romeo Giulia che sfrecciano a tutto gas, è certamente debitore. Il cinema, come rimando, torna proprio in chiusura e, quando il capo della Mobile Salemi degna di attenzione un caratterista come il maresciallo Mandò, in genere bonariamente bistrattato da Solmi, c’è la conferma che la serie ha fatto tesoro degli insegnamenti del poliziesco all’italiana del grande schermo. Chiusura in bellezza, su tutti i fronti, insomma.