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mercoledì 3 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO

1724_IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Nel 1959 la Rai mise in onda un curioso programma, Giallo club – Invito al poliziesco, che inseriva, all’interno di una sorta di quiz televisivo, alcuni lungometraggi della durata di un’oretta che avevano come protagonista un personaggio che rimarrà nella storia della televisione italiana: il tenente Sheridan. Interpretato da Ubaldo Lay, che finì per essere identificato per sempre con il poliziotto dall’impermeabile color ghiaccio, Sheridan era a capo della Sezione Omicidi di San Francisco ed era ritagliato sulle figure della narrativa hard-boiled americana, come il Philip Marlowe di Raymond Chandler o il Sam Spade di Dashiell Hammett, tenendo figurativamente d’occhio soprattutto Humphrey Bogart nei suoi celebri noir. Ma con qualche significativa correzione: via il cappello, forse troppo comune ai gangster, e niente whisky, visto che il buon tenente beveva latte. Un particolare che sembrava voler stemperare un po’ il clima plumbeo degli argomenti, come detto il tenente lavorava alla Omicidi, con un rimando ai fumetti e a quel Cocco Bill, personaggio di Jacovitti quasi coevo di Sheridan, che girava i saloon del far west bevendo camomilla in luogo del più comune torcibudella. Del resto il rifermento al mondo delle nuvole parlanti era ufficialmente dichiarato dagli autori che si ispirarono a Ezechiele Lupo della Walt Disney per il nome di battesimo di Sheridan, poi familiarmente chiamato Ezzy. Questo rimando –a quello che è in sostanza uno dei cattivi dell’universo disneyano, per la precisione il lupo cattivo che vuole mangiarsi i tre porcellini– è un elemento curioso, perché presenta Sheridan come personaggio non del tutto positivo. Lay, oltretutto, alimenta questa deriva, con una maschera poco espressiva se non per il suo trasmettere inquietudine; insomma, non certo un personaggio rassicurante. Forse è anche per questo che gli autori ambientarono la serie fuori dall’Italia, e non solo genericamente oltreoceano ma a San Francisco, ben più lontano, per esempio, della Nuova York che con la sua Little Italy aveva comunque un’area famigliare nel Belpaese. L’«invito al poliziesco», di cui parlava il programma contenitore, forse aveva proprio questo scopo: far comprendere agli italiani che le forze dell’ordine, anche per la natura del loro ruolo, non erano necessariamente composte da cherubini e anime nobili. Una preoccupazione inutile, a dirla tutta, considerata la Storia del nostro Paese, ma onesta in ambito teorico e necessaria a non creare equivoci. E, rammentando le parole del commissario Alzani –ricordato come il primo poliziotto della Tv italiana, dove Sheridan è il secondo– si può comprendere come quest’operazione di caratterizzazione delle forze dell’ordine sia stata fatta prendendola alla larga, ovvero passando dalla lontanissima California. Alzani (Renato De Carmine), nell’ultimo episodio della serie Aprite: polizia! sostiene infatti che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. In pratica, parole in linea alla strategia alla base della scelta di ambientare a San Francisco la serie cardine di Giallo club – Invito al poliziesco, ovvero un po’ quella di gettare il sasso nascondendo la mano. Per «svezzare» il Paese e farlo crescere – compito primo della televisione di stato – occorreva fargli fare i conti con la propria metà oscura –lo scopo catartico del racconto giallo– e con la natura delle forze dell’ordine – quello più didattico del poliziesco– ma non era il caso di essere traumatizzanti. Per cui, per prendere confidenza con questo tema, ovvero l’ambiguità nel quale si muovono gli uomini deputati alla sicurezza della collettività, meglio uno sguardo senza filtri ma che non ci coinvolga subito direttamente. In fondo un saggio emblematico della politica intrisa di spirito paternalistico che caratterizzava la classe dirigente dello Stivale. La serie, una volta fatta la tara alle circostanze dell’epoca, si può affermare sia realizzata con solido mestiere e, oltre al tenente protagonista, prevedeva personaggi fissi come il sergente Steve Howard (Carlo Alighiero) e l’agente Mills (Sandro Moretti), figure ricorrenti che aiutavano lo spettatore a familiarizzare con i racconti. Il primo episodio, Qualcuno al telefono, mette subito in mostra le capacità intuitive del tenente della Omicidi e l’accuratezza formale del film, sceneggiato da Mario Casacci, Alberto Cianbricco e Giuseppe Aldo Rossi, e poi diretto da Stefano De Stefani.      


domenica 1 dicembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - TESTIMONI RETICENTI

1585_QUI SQUADRA MOBILE - TESTIMONI RETICENTI . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano

L’ultimo episodio conferma il livello della serie e lascia il rammarico che sia l’ultima possibilità di vedere all’opera la Squadra Mobile guidata dal commissario Salemi. Ancora una volta, l’episodio è corale con lo stesso Salemi, e il coprotagonista principale, il commissario Solmi, che lasciano ampi spazi di manovra non solo ai commissari Argento, Moraldi, Astolfi ma anche agli colleghi di grado inferiore, il maresciallo Mandò e l’agente Di Franco. Sempre presente anche l’ispettrice Nunziante, per un gruppo di lavoro che funziona in modo perfetto sia come personaggi sullo schermo che come cast di attori. Il tema di questo episodio sono le spietate ed efferate rapine che, al tempo, infiammavano la capitale: i riferimenti all’attualità sono anche stavolta tempestivi, suggellati dal riferimento al bandito arrivato dalla Francia che se ne torna a Marsiglia. In effetti, i primi episodi di criminalità organizzata a Roma furono introdotti dal Clan dei Marsigliesi, che lasciarono in seguito posto a bande armate autoctone, come la celebre Banda della Magliana. Tra gli interpreti occasionali, ad impressionare è soprattutto Silvia Monelli, nel ruolo di Arlette Bartoli, un’attrice davvero poco utilizzata da cinema e televisione e che aveva carisma scenico da vendere. Nell’episodio abbondano le scene d’azione, in genere non proprio il terreno ideale degli sceneggiati Rai, ma, in questo caso, il risultato è ampiamente sufficiente. In una storia ricca di ambientazioni diverse tra loro, a destare qualche perplessità sono le scenografie, davvero troppo povere e minimaliste per essere credibili. I muri troppo spogli nel bar dove si ritrovano i criminali o del casale di Trevignano, si sommano ai già scarni arredi dei luoghi peculiari della serie. Ma sono dettagli marginali, che la bravura degli attori, Luigi Vannucchi su tutti per distacco, relegano sullo sfondo. Interessante il ritorno in auge della sponda scientifica, mentre, dal punto di vista umano, Salemi perde le staffe con la testimone reticente per eccellenza del racconto, la signora Ceccacci (Maresa Gallo). La donna era stata peraltro pesantemente minacciata dai criminali che, se avesse parlato, avrebbero infierito sulla figlia e i suoi timori appaiono ampiamente comprensibili. Anche perché la polizia non si rivela così infallibile, e si veda il finale, quando, prima di intervenire, aspetta che la ragazza olandese (Eva Axen) arrivi al casolare dei banditi, mettendone inutilmente la vita a rischio. Poco male; probabilmente si tratta di esigenze narrative, visto che sarà la ragazza a chiudere il conto al boss della banda Salvatore Loferro (Mario Bardella). Loferro, per sfuggire ai controlli, si fa chiamare Arrigo Lenzi, un nome che è un evidente richiamo al regista Umberto Lenzi, maestro dei poliziotteschi del cinema italiano e a cui, Qui Squadra Mobile, coi suoi inseguimenti e le sue Alfa Romeo Giulia che sfrecciano a tutto gas, è certamente debitore. Il cinema, come rimando, torna proprio in chiusura e, quando il capo della Mobile Salemi degna di attenzione un caratterista come il maresciallo Mandò, in genere bonariamente bistrattato da Solmi, c’è la conferma che la serie ha fatto tesoro degli insegnamenti del poliziesco all’italiana del grande schermo. Chiusura in bellezza, su tutti i fronti, insomma. 


venerdì 29 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - OMISSIONE DI SOCCORSO

1584_QUI SQUADRA MOBILE - OMISSIONE DI SOCCORSO . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano

Prosegue il momento proficuo della serie Qui Squadra Mobile, arrivata al quinto episodio della seconda stagione: Omissione di soccorso conferma quanto di buono visto nel precedente La polizia non deve essere avvertita. Anche in questo caso, il racconto filmico ha praticamente l’enfasi di un prodotto per il grande schermo, soprattutto nella prima parte, ricca si suspense e che riserva un colpo di scena clamoroso. Si può ravvisare, anche stavolta, qualche leggerissima lacuna nella recitazione, in particolare dei due personaggi secondari dei coniugi Brandolin (Gastone Pescucci e Jole Fierro), ma in generale bisogna ammettere che il racconto d’azione, genere in cui sempre più spesso scivolano gli episodi di Qui Squadra Mobile, non calza propriamente a pennello per interpreti di matrice teatrale. Tuttavia si tratta di sfumature perché, nel complesso, Omissione di soccorso è uno splendido esempio di come gli sceneggiati Rai dell’epoca fossero fatti con serietà e professionalità. Anche stavolta il tema trattato era al tempo assoluta attualità e gli autori, Felisatti e Pittorru e il regista Majano, non ci vanno certo leggeri: il problema della droga è affrontato senza sconti e il finale, particolarmente amaro, è la conferma della loro onesta e sincera volontà di denuncia. Un finale triste, con la morte della ragazza al centro del racconto (Silvana Panfili) e il sostanziale fallimento dell’operato della polizia, per un prodotto che veniva trasmesso sulla Rete 1, l’ammiraglia televisiva della TV si stato, era un atto di coraggio non da poco. Da un punto di vista tecnico, Omissione di soccorso si pregia di un’incalzante prima parte, nella quale la trama si snoda e rivela, preparando, come accennato, un primo colpo di scena già prima di superare il giro di boa. Pian piano entrano in gioco i protagonisti della serie e, anche stavolta, si può osservare il pregevole lavoro in sede di scrittura da parte degli autori. Il capo della Squadra Mobile, Salemi, il commissario Solmi e anche il commissario Argento, hanno relativamente meno spazio, essendo i volti ormai più noti; grazie al loro carisma e alla già avvenuta caratterizzazione dei personaggi, gli basta però poco spazio narrativo per lasciare la loro impronta. In questo modo hanno più possibilità di manovra i protagonisti secondari, in questo caso, su tutti il commissario Astolfi (Gino Lavagetto), come è anche logico essendo a capo della sezione narcotici della Squadra Mobile. Bene anche il commissario Moraldi e, soprattutto l’agente Di Franco, prototipo del poliziotto dal volto umano. Proprio la partecipazione sofferta di quest’ultimo, a fronte delle giovani vite spezzate dalla droga, insieme al coinvolgimento costante dell’ispettrice Nunziante e al carattere intenso del commissario Solmi, sottolineano il cambiamento di registro di questa seconda serie rispetto a quella d’esordio. Se nel 1973 si era sottolineato l’efficienza tecnica della moderna polizia italiana –il cervellone, la sala operativa, la polizia scientifica– ora si punta in modo deciso sul lato umano. Una scelta certo condivisibile; peccato siano unicamente racconti televisivi, verrebbe quasi da pensare.      


mercoledì 27 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - LA POLIZIA NON DEVE ESSERE AVVERTITA

1583_QUI SQUADRA MOBILE - LA POLIZIA NON DEVE ESSERE AVVERTITA . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano

Con il quarto appuntamento, La polizia non deve essere avvertita, la seconda stagione di Qui Squadra Mobile arriva finalmente a regime di giri. L’episodio riesce addirittura ad assurgere alla «dignità» di un film per il grande schermo, con momenti di grande tensione, ma tutto quanto il racconto è ben sostenuto dal punto di vista del ritmo. A voler essere pignoli, si può sottolineare qualche eccesso di teatralità, nelle scene iniziali tra il capo della Mobile Salemi, il commissario Solmi e l’accomodante Procuratore Melita (Dario De Grassi), ma si tratta di una caratteristica tipica degli sceneggiati dell’epoca. In seguito, le indagini e le scene d’azione, molto valide, stemperano questi elementi e l’aspetto complessivo è di un poliziesco sobrio e robusto. Come accennato, anche questa seconda serie prende ispirazione dall’attualità e il tema di La polizia non deve essere avvertita sono i rapimenti a scopo di ricatto, che stavano prendendo piede, all’epoca, nella Penisola. La tempestività degli autori, Felisatti e Pittorru, che hanno colto questo spunto con grande anticipo, non ha tuttavia permesso di sviscerarne appieno tutti gli sviluppi. Quando l’episodio venne trasmesso, infatti, il 28 settembre 1976, suscitò qualche perplessità il fatto che, nella storia, i beni della famiglia del sequestrato non fossero bloccati dall’autorità, o che non si facesse nemmeno cenno dell’eventualità. Il punto è che quando il soggetto venne steso, questi aspetti non erano ancora emersi dalla cronaca, essendo il fenomeno giusto ai suoi inizi. A parte questi elementi, come detto, la puntata è ricca di suspense, soprattutto nelle scene in cui viene organizzata la trappola a danno dei sequestratori. In quei casi anche la musica di Francesco De Masi è di grande aiuto, alimentando la tensione con un motivo perfettamente in linea con altri esempi del cinema d’azione degli anni Settanta. Come si intuisce dal titolo, il soggetto calza a pennello su uno degli evidenti propositi della serie, alimentare la fiducia nelle forze dell’ordine in un Paese che, da sempre, ne ha nutrita ben poca; non senza ragione, ad essere onesti. L’enfasi con cui si mostra tanto il lato umano della Polizia, incarnato da Solmi ma anche da Salemi, quanto la fiducia nella scienza al servizio della Giustizia, è perfino eccessiva ma, tutto ciò, si può accettare considerando i fini in qualche modo «educativi» dell’operazione. Tra i protagonisti dell’episodio spicca Silvia (Giovanna Grifeo), la giovane figlia del sequestrato che, coraggiosamente, decide di collaborare con la Polizia. Trovata quindi la giusta alchimia tra i vari protagonisti, in particolare tra Silemi e Solmi, anche la seconda serie si avvia ad un risultato più che lusinghiero. A cui, come detto, La polizia non deve essere avvertita fornisce un considerevole contributo.     


lunedì 25 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - RAGAZZI TROPPO FORTUNATI

1582_QUI SQUADRA MOBILE - RAGAZZI TROPPO FORTUNATI . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano 

Da sempre gli sceneggiati dell’epoca d’oro della televisione italiana non hanno mai brillato particolarmente per le scene d’azione. C’erano motivazioni tecniche –non sia avevano a disposizione budget degni del cinema per le scene in esterni convincenti– e artistiche –gli interpreti di scuola teatrale non erano particolarmente avvezzi all’azione. D’altro canto, questo tipo di attori erano indispensabili proprio per colmare le citate carenze produttive, perché riuscivano con la mimica o l’espressività, a trasportare il racconto e lo spettatore oltre alle scenografie, spesso piuttosto povere. Va precisato che tra gli esempi migliori dello sceneggiato italiano si annoverano moltissime produzioni di questo tipo, perché l’equilibrio di alcuni «originali televisivi» d’epoca rasenta il sublime. Tuttavia la seconda stagione di Qui Squadra Mobile è del 1976, quando, cioè, la golden age della Rai stava avvicinandosi al capolinea, e i costi produttivi erano cominciati a lievitare. Si già detto come i tempi di realizzazione furono piuttosto lunghi e anche le ambientazioni prevedono numerose scene in «esterni», ovviamente più impegnative anche sotto il profilo economico. Naturalmente un maggior budget non può essere un limite, questo è evidente, ma in questo caso, forse, rappresenta un piccolo rischio. Per capirci: la Rai aveva prodotto in quello stesso 1976 Sandokan (regia di Sergio Sollima) e l’anno precedente L’amaro caso della baronessa di Carini (di Daniele D’Anza), sceneggiati a colori che erano capolavori in grado di reggere il confronto scenico perfino con il cinema, e i cui budget erano ovviamente adeguati. È intuitivo che le risorse a disposizione per la seconda serie di Qui Squadra Mobile siano decisamente più contenute, eppure si percepisce un tentativo di migliorare, anche sotto questo profilo, la precedente proposta. Purtroppo sono proprio le scene d’azione, in questo terzo episodio in particolare quelle dell’inizio nella scena della finta rissa nel night, a destare perplessità. Il tema di Ragazzi troppo fortunati è il tentativo di innestare il disagio giovanili e la perdita dei valori tradizionali dalla nuova generazione, con la violenza tipica degli Anni di Piombo. Donatella Gallerani (Laura Becherelli), una ragazza di buona famiglia, è scomparsa: ma non si tratta di una scappatella. La giovane faceva parte della famigerata «banda della 126» e qualcosa, con i propri complici, deve essere andato storto. Non è un’indagine semplice, perché i feroci e determinati rapinatori non sono malavitosi ma insospettabili ragazzi benestanti, quelli «troppo fortunati» a cui fa riferimento il titolo. Tra questi, anche il figlio di un giudice, il che costringe gli uomini della Squadra Mobile ad andari coi piedi di piombo; l’unico a non appartenere ai ceti abbienti è Massimo Toschi (Mauro Gravina) che, compensa l’impossibilità ad essere strafottente per motivi di casta, con un’antipatia genuinamente personale. Ma sulle qualità caratteriali si può tranquillamente sorvolare: i ragazzi della banda della 126, dall’auto utilizzata per le rapine, sono veri criminali e non si lasciano intimorire nemmeno di fronte alla morte, pare accidentale, di una di loro, la Gallarani. L’indagine è ben gestita da Salemi, anche perché Vannucchi prende sempre più il centro della scena con la naturale classe. Solmi, della Omicidi, scivola sempre più nel macchiettistico, in questa puntata ha l’influenza e il suo continuo starnutire lo assimila ad una tipica spalla comica; combina, anche in questo caso, qualche mossa azzardata in autonomia, ma ormai anche Salemi sembra aver compreso che non è riconducibile del tutto al gioco di squadra. Tra gli altri personaggi, Moraldi ha finalmente un po’ di spazio in più, mentre torna ad avere un ruolo di rilievo l’agente Di Franco, seppure si fatichi a capire perché. Se la scena della rissa iniziale aveva, come accennato, destato qualche perplessità, la seconda parte con la serie di ispezioni nelle case dei ragazzi indagati, tutti residenti ancora in famiglia, è particolarmente funzionale. Lo stupore e l’indignazione dei genitori si sgretolano quando gli agenti trovano borsoni colmi di armi e denaro, prove inconfutabili dell’attività criminale dei ragazzi troppo fortunati.    


sabato 23 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - IL BOTTO

1581_QUI SQUADRA MOBILE - IL BOTTO . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano

Prima di prendere realmente il via, il racconto su cui si fonda la seconda puntata deve risolvere la questione tra il nuovo capo della Squadra Mobile Salemi e l’indisciplinato commissario della Omicidi Solmi: come prevedibile, dopo qualche scintilla, i due trovano il modo di cooperare. Il tema de Il botto è una rapina organizzata ai danni di un importante gioielliere della capitale e, di conseguenza, pane principalmente per i denti del commissario Argento –capo della sezione Rapine, appunto– che prova, nel contempo, a riconquistare l’ispettrice Nunziante, per il momento senza successo. La trama è ben organizzata e permette ai vari personaggi di mostrare le proprie caratteristiche: a saltare all’occhio è la leadership di Salemi che, grazie al carisma di Luigi Vannucchi è già divenuto un capo stimato e ascoltato da tutti i membri della Squadra Mobile. Solmi, dal canto suo, trovato l’accordo con il suo superiore, è costantemente «fuori giri», come è nel suo carattere; del resto il soggetto prevede che debba tenere testa a Silemi, badare al figlio Matteo (Francesco Baldi), civettare con la giovanissima Elisabetta (Barbara Nay) e battibeccare con il maresciallo Mandò. Oltre a svolgere le indagini col suo solito piglio irruento. Tra gli agenti, ha modo di mettersi in luce Stagni (Pietro Tiberi) che si infiltra nella banda del «Professore» (Virginio Gazzolo), i rapinatori che organizzano il «botto» a cui si riferisce il titolo della puntata. Meno impegnati il capo della Narcotici, Astolfi, e ancor meno quello della Buoncostume, Moraldi, per il secondo episodio consecutivo relegato nella Sala Operativa. Del resto il registro di questa seconda stagione ricalca quello d’esordio, e il tema piccante, che vedrebbe appunto Moraldi maggiormente coinvolto, è completamente ignorato dagli autori. Tra le note che si possono appuntare a questo episodio, c’è però una presenza sensuale, ovvero l’attricetta francese Blanchette, interpretata con un pizzico di malizia dalla bella Giovanna Benedetto.   


giovedì 21 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - POLLICINO VA IN CITTA'

1580_QUI SQUADRA MOBILE - POLLICINO VA IN CITTA' . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano 

La seconda stagione di Qui Squadra Mobile venne trasmessa tre anni dopo la prima, e questo è un fatto certamente curioso, se consideriamo il successo della serie nel 1973. Tuttavia uno dei motivi di questo «ritardo» è legato alla cura maniacale con cui sono stati realizzati gli episodi. Per concludere le sei puntate che compongono anche questa seconda serie, è stato necessario più di un anno di lavorazione. Giancarlo Sbragia, che nella prima stagione era il capo della Mobile, il commissario Carraro, stante i suoi impegni teatrali, non ha potuto partecipare considerato l’impegno in termini di tempo che richiedeva questa produzione televisiva. I soggetti sono, anche in questo caso, sono ispirati a episodi di cronaca, finemente lavorati in sede di scrittura da Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, ai quali si aggiunge poi il regista Anton Giulio Majano, per una sceneggiatura congiunta. Rispetto alla prima serie, c’è la volontà da parte degli autori di enfatizzare ancor meno gli eventi, nonostante la verosimiglianza fosse già la caratteristica dello sceneggiato, come il sottotitolo, Cronache di Polizia Giudiziaria, lascia intendere.

1 POLLICINO VA IN CITTA’

Come accennato, Giancarlo Sbragia, che interpretava il protagonista principale, il commissario Carraro, non era disponibile per questa nuova stagione. Gli autori approfittano di questo elemento per mettere sul terrendo nuovi elementi narrativi. In pratica il primo episodio, al netto della trama investigativa legata ad un originale innesto tra il traffico di droga e l’«affitto» di minori ai mendicanti per chiedere le elemosina, serve per inserire il nuovo personaggio del capo della Mobile, Guido Salemi. Ad interpretarlo, un’assoluta star degli sceneggiati della televisione italiana, Luigi Vannucchi: il suo carisma scenico, basta da solo ad innalzare le aspettative su questa seconda serie. Che non vengono deluse neppure da questa prima puntata, come detto, sostanzialmente introduttiva: c’è da trovare i nuovi equilibri tra i vari membri della Squadra, problema non di poco conto considerato che Salemi in qualità di capo della Mobile regge le fila di tutti i filoni d’indagine. Da quel che si apprende, il nuovo commissario capo è di estrazione manageriale, non è, cioè, uomo che arriva dal campo d’azione, e questo è un tema da una parte interessante e, dall’altra, anche triste. Prevedibilmente, dopo un iniziale scetticismo di qualche membro della Mobile nei confronti di un «imbrattacarte» o «mezzemaniche» che dir si voglia, Salemi saprà farsi valere, risolvendo a suon di pistolettate il primo episodio. Il che è anche normale, Vannucchi come physique du rôle sovrasta di due spanne chiunque altro nel cast dello sceneggiato. Tuttavia l’idea che emerge è che il manager, come professione a sé stante, sia la soluzione ideale per la società italiana che, in quegli ancora tribolati anni Settanta, si preparava al boom economico del decennio successivo. Il rampantismo sarà la conferma di queste teorie, dichiarate espressamente dal commissario Moraldi (Giulio Platone) in un dialogo dello sceneggiato, e, ancora oggi, nonostante gli sfaceli economico-sociali che il ricorso ai manager –in luogo a dirigenti provenienti dal settore specifico– ha determinato nel corso di questi anni un po’ ovunque, si tratta dell’unica soluzione di gestione aziendale utilizzata e riconosciuta come vincente. Per altro, al tempo, poteva essere un’ingenua fiducia nell’adozione di sistemi in uso nelle più evolute economie anglosassoni, del resto Moraldi utilizza proprio il termine «manager» quando «dirigente d’azienda» sarebbe stato anche più comprensibile. Si sarebbe compreso, cioè, che in questo modo si andava ad intendere qualunque ruolo di gestione come se ci si trovasse in un’impresa privata, commerciale o industriale. E se l’utilizzo di personale istruito a comandare –i manager– anziché elementi promossi dall’interno dell’azienda, potrebbe avere un valore –e non ce l’ha– in ambito dell’impresa privata, assai più arduo utilizzare scegliere i vertici di comando con questo criterio per strutture di matrice pubblica come la Squadra Mobile. La nostra società, nel tempo, ha fatto di ben peggio, utilizzando la figura del manager in ambito sanitario e trasformando gli ospedali in aziende, autentica blasfemia del nostro quotidiano. Ma torniamo allo sceneggiato in questione, sul quale, per altro, queste considerazioni gravano costantemente e ne influenzano, senza alcuna attenuante, la valutazione finale. In ogni caso, tra le varie coordinate che gli autori devono dettare, per questa nuova stagione, ci sono i rapporti tra i vari membri. Il secondo personaggio per ordine di importanza, già dalla serie del 1973, è il commissario Solmi (Orazio Orlando), capo della Omicidi: la sua scarsa attitudine ad agire in equipe, è ribadita in questo Pollicino va in città, primo episodio della seconda stagione. Si tratta di un ponte ideale con la prima serie, dove, nell’ultima puntata, Solmi aveva vanamente promesso a Carraro di evitare, in futuro, colpi di testa; a parziale difesa del capo della Omicidi va detto che, nello sceneggiato come nella realtà, sono passati tre anni e, quindi, se non altro, il commissario non ha rotto immediatamente la sua promessa. Più spazio viene dato al commissario Astolfi (Gino Lavagnetto), capo della Narcotici che collabora con l’ispettrice Giovanna Nunziante (Stefanella Giovannini). Per quel che riguarda la traccia sentimentale, la Nunziante sembra essersi allontanata da Alberto Argento (Elio Zamuto), capo della sezione Rapine, ma la cosa sembra ovviamente solo pretattica narrativa. Sul profilo umoristico, tengono banco le gag tra Solmi e il maresciallo Mandò (Marcello Mandò), un personaggio nuovo così come il più diligente agente Di Franco (Claudio Capone). Il risultato complessivo di questa puntata d’esordio è equilibrato tra le parti e sufficientemente scorrevole. 

lunedì 21 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! LA TRAPPOLA

1564_APRITE: POLIZIA! LA TRAPPOLA. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza 

Prima del racconto vero e proprio, nell’ultimo episodio della serie Aprite: Polizia! il commissario Alzani approfitta del solito incipit, nel quale si rivolge direttamente agli spettatori, per congedarsi. Il pretesto narrativo è una promozione, tuttavia un po’ di malinconia viene lasciata intendere, soprattutto per merito del maresciallo Patanò. Per stemperare la commozione, Alzani gli ruba la battuta tormentone, “Se nasco un’altra volta, lo sai che cosa faccio?”, ma stavolta è il maresciallo ha non voler sapere la risposta. Quando le parole di commiato lasciano spazio all’azione, ci troviamo in un Luna Park dove il padrone del baraccone, Calabrese (Giuseppe Pertile), sta per ricevere la sgradita visita del «Rosso» (Aroldo Tieri). Il «Rosso» è un boss della malavita emigrato in America per sfuggire alla cattura, quando proprio Calabrese aveva «cantato» mettendolo nei guai: la sua vendetta è implacabile, nonostante la Polizia ne avesse previsto le mosse. Nella successiva fuga, il «Rosso» finisce asserragliato in un appartamento con un bambino, che minaccia di uccidere se la polizia interverrà. Quello dell’ostaggio indifeso in mano al criminale è un topoi del poliziesco e il regista D’Anza fa un ottimo lavoro, anche perché Aroldo Tieri è strepitoso a tratteggiare la disperazione che man mano assale il criminale. Sorprendentemente ottima anche la prova del giovanissimo Massimo Giuliani, nei panni di Danilo, il bambinetto preso in ostaggio dal «Rosso»: il racconto non sconfina mai nel sentimentalismo facile, anche perché Tieri è bravissimo a tenere questa deriva sotto apparente controllo. Apparente, perché in realtà, l’impressione è proprio che sia l’innocenza del piccolo Danilo a insinuare qualche dubbio, nella mente del criminale, come testimonia la sua tragica scelta di uscire di scena. Un altro finale notevole, perché il suicidio del «Rosso» costringe anche lo spettatore più severo ad ammettere che quando un individuo, sia esso anche un fuorilegge, decide di togliersi la vita, è tutta la società ad aver perso. 


sabato 19 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! UN GENTILUOMO NELL'IMBARAZZO

1563_APRITE: POLIZIA! UN GENTILUOMO NELL'IMBARAZZO. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza 

Gli autori di Aprite: Polizia! continuano nella loro operazione di alleggerimento dei toni: dopo il morto che morto non era, e la storia di spionaggio bucolico –dove il cadavere era peraltro arrivato, seppur del tutto inaspettatamente– ne Un gentiluomo nell’imbarazzo la trama non ci riserva macabre sorprese. Il quinto episodio è una commedia sofisticata in chiave italiana, sorretta dalla performance divertita di Franco Volpi nei panni del conte Ludovico Ildebrando Maria eccetera eccetera, ben spalleggiato dalla grande Elisa Cegani nel ruolo di Dora. Il conte, in realtà, non è un nobile caduto in disgrazia economica ma un imbroglione di professione che circuisce povere donne alla ricerca del grande e romantico amore. L’inserimento, nella trama, della attempata diva del cinema Hilda Moser (Lia Angeleri), che inscena il furto di una collana –finta– per attirare un po’ l’attenzione su di sé, è solo uno stratagemma che serve a muovere la trama e a dare corpo all’episodio. Il punto cruciale è che, una volta smascherato l’imbroglione, la povera Dora, innamorata delle sue illusioni romantiche più che dell’elegante mariolo, non si dia comunque per vinta, accettando di aspettare che il «conte» sconti la sua pena per sposarlo. Ha ragione, il commissario Alzani: la colpa peggiore dell’imbroglione, non è il reato in sé ma l’approfittarsi dell’altrui ingenuità. Una colpa per la quale non esista galera che sia abbastanza. 


giovedì 17 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! UN PAESE CHE LEGGE

1562_APRITE: POLIZIA! UN PAESE CHE LEGGE. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Dopo le prime due puntate, in cui ci era scappato il morto, nella terza la vittima, alla fine dell’episodio, si era scoperto che l’aveva scampata. Chissà, forse era il modo per sdoganare altre forme di indagine otre a quelle che vertevano su un assassinio. Fatto sta che nel quarto episodio, Un paese che legge, siamo in pieno clima di spionaggio industriale, con i segreti di una ditta chimica del centro Italia che vengono trafugati all’estero. Già il fatto che ad indagare sia mandato un commissario della Squadra Mobile di Roma può sembrare inconsueto, ma poi la stranezza più grande è che la vicenda tutto sembra tranne che una storia di spie. Oltretutto, l’ambientazione agreste del paesino sperduto nelle Marche, sembra l’antitesi di una questione di formule rubate tra impianti e laboratori chimici. Il piano del commissario Alzani è poi, un’altra idea bizzarra: nessuno, nel paesino, si beve la storia che sia un pittore, e anche Patanò, come venditore ambulante, non convince assolutamente. Ma questo era appunto il piano di Alzani, forse per costringere gli avversari a fare la prima mossa. Le storie di spionaggio sono molto particolari e non si può dire che Un paese che legge ne interpreti a dovere gli stilemi; si può semmai annotare che nel titolo è nascosta già la chiave dell’enigma, ovvero il modo in cui le formule venivano trafugate. La talpa, il dipendente della ditta chimica che fa uscire le informazioni, è Luigi (Alberto Lupo), che sottolinea parole e cifre alla bisogna da alcuni libri, in modo da comporre le formule segrete. I volumi in questione vengono fatti circolare in tutto il paese grazie alla biblioteca, gestita dalla fidanzata di Luigi, Maria (Milly Vitale): in questo modo anche intuendo il sistema sarà arduo stabilire chi, tra i tanti che si passano di mano il libro, è il destinatario della soffiata. Lo sceneggiato non si può dire particolarmente avvincete, sebbene il finale concitato ribalti perfino le previsioni: dopo una impensabile scazzottata tra Alzani e Luigi, questi viene freddato prima che possa parlare. A sparare è quello che era sembrato più innocuo di tutti, Clorindo (Arturo Bragaglia), il vecchietto appassionato di pittura, che conosceva Giovanni Segantini e il Divisionismo. Amare l’Arte –come fa anche Alzani, peraltro– non è garanzia di rettitudine; e già anche solo questa sottolineatura, permette comunque di salvare una puntata magari non irresistibile.   


martedì 15 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! GIOCHI DI SOCIETA'

1561_APRITE: POLIZIA! GIOCHI DI SOCIETA'. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Lo spunto alla base di Giochi di società, terzo episodio della serie televisiva Aprite: Polizia! è assai intrigante: un gruppo di giovani decide di giocare all’Assassino, soltanto che il morto quasi ci scappa d’avvero. L’Assassino è un curioso gioco di società: si distribuiscono le carte, il Re di Picche è il poliziotto, e si deve assentare un attimo; nel frattempo, chi ha pescato il Fante di Fiori, può scegliere la vittima e portare a termine il suo compito, ovviamente in modo simulato. A questo punto il poliziotto ritorna sulla scena e interrogando i presenti deve scoprire chi è il colpevole; un po’ come in un vero processo, i testimoni sono costretti a dire la verità, mentre il killer ha facoltà di mentire. Questo aspetto, su come ci si pone di fronte ad un interrogatorio, è molto interessante, perché spesso non se ne tiene conto quando si guardano i processi in televisione o in altre circostanze simili: il Diritto concede, infatti, la possibilità a chi è colpevole di mentire, senza che questa eventuale falsa testimonianza risulti, di per sé, un’aggravante. Diversa è la situazione di chi è un semplice testimone e, non avendo nulla da perdere, la Legge in questo caso è lapidaria e lo costringe a parlare. Tra l’altro, sarà proprio grazie ad un escamotage nell’ambito dell’interrogatorio dei presenti che il commissario Alzani smaschererà il colpevole. Prima dell’intervento della Polizia, si fa però conoscenza tra i vari convenuti al festino, una manciata di rampolli della buona società che battibecca per sterili questioni sentimentali. Tra questi, da ricordare Stefano (Vanni Materassi), soprattutto perché il play boy che finirà steso sul pavimento, e le ben più accattivanti Adriana (Patrizia Della Rovere), una presenza scenica davvero mozzafiato, e Giovanna, interpretata da Vira Silenti, che sciorina, oltre alla riconosciuta bellezza, il carisma di attrice di rango. Dopo i due casi di omicidio nei primi episodi della serie, il finale della terza puntata alleggerisce un po’ i toni in tal senso, visto che Stefano l’ha scampata. Chissà, forse non si voleva esagerare con i morti ammazzati sullo schermo televisivo; e forse anche il pistolotto moraleggiante con cui il commissario Alzani ammorba più gli spettatori che i bellimbusti della festicciola, avrà presunte motivazioni educative. Per carità, i rampolli in questione, presi a simbolo per la nuova generazione come i gusti musicali lasciano perfettamente capire, sembrano svogliati bambocci ma Alzani con i suoi atteggiamenti paternalistici ci fa una figura persino peggiore. Molto meglio il povero Patanò, peraltro perennemente zittito dal superiore. 


domenica 13 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! JAZZ FREDDO

1560_APRITE: POLIZIA! JAZZ FREDDO. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Si è detto che a livello di tradizione, il «giallo» negli anni Cinquanta, in Italia, era ancora praticamente inesistente. Da un punto di vista letterario il riferimento principale erano i paesi anglosassoni mentre, per quel che riguarda il cinema, gli Stati Uniti –dove aveva appena finito di furoreggiare il «noir»– potevano servire da spunto per l’interpretazione televisiva operata da Danza ne Aprite: Polizia!. Il secondo episodio della serie, Jazz freddo, è uno riuscito tentativo di interpretare in chiave italiana una tipica storia noir, con tanto di gangster e dark lady. Non manca, ovviamente, nemmeno l’ignaro protagonista, in questo caso il giovane rampollo di buona famiglia Giacomo (Matteo Spinola), adescato dalla femme fatale Mignon (Lia Zoppelli), che lo circuisce per conto del suo boss, Vandini (Carlo D’Angelo). Il commissario Alzani e il fido maresciallo Patanò stanno però tenendo d’occhio da tempo i loschi traffici che accadono al Gran Canaria, il night club con bisca clandestina annessa, proprietà di Vandini. L’idea dei malfattori è abbindolare Giacomo approfittando del fatto che è innamorato perso di Mignon; Danza, conosce bene i meccanismi del cinema noir americano e, sebbene il racconto abbia qualche difficoltà iniziale a carburare, quando si arriva al dunque i conti tornano alla perfezione. Come tutte le dark lady che si rispettino, Mignon ha il cuore tenero e non ha affatto un’indole malvagia, sono state semmai le delusioni della vita a renderla così cinica. L’amore folle e appassionato di Giacomo risveglia la sua vera natura –anche le rosee prospettive di una vita agiata e più che benestante insieme al figlio di papà aiutano, questo va riconosciuto– e, al momento cruciale, la donna sottrae Giacomo all’inganno, scacciandolo. Qui il regista milanese si trova di fronte ad un bel problema: secondo le regole del «noir» la sorte di Mignon è segnata, ma sul Programma Nazionale –l’odierna Rai 1– alla fine degli anni Cinquanta, chiudere il film con la protagonista femminile che veniva premiata con la morte per la sua redenzione, era un tantino azzardato. Va sottolineato che il genere «noir» era visivamente stilizzato in modo deciso, uno stratagemma che permetteva agli autori di far passare scene e situazioni non del tutto abituali negli anni Quaranta. D’Anza trova quindi la soluzione in modo coerente, all’interno del genere che era servito da spunto per Jazz freddo: la scena finale, il confronto fatale tra Mignon e Vandini si vede attraverso una vetrata, come se i personaggi fossero semplici ombre. Alzani, volendo, arriva anche per tempo, ma anche lui, sebbene sia al di qua della vetrata, sembra unicamente una siluette, nel controluce che si crea: e, proprio come una figura bidimensionale, è impotente di fronte al Destino che si deve compiere per redimere completamente Mignon, vera protagonista del film. Stilisticamente un finale notevole per un racconto filmico non del tutto irresistibile, per la verità; e nel quale, la Polizia, col suo attendismo, non ci fa una gran figura.    


venerdì 11 ottobre 2024

APRITE: POLIZIA! RAGAZZE IN VETRINA

1559_APRITE: POLIZIA! RAGAZZE IN VETRINA. Italia 1973; Regia di D'Aniele D'Anza

Considerata in genere la prima serie televisiva gialla italiana, Aprite: Polizia! non gode di un particolare prestigio, anzi. Si tratta di un tentativo, da parte della TV di stato italiano, di approcciare al poliziesco e, per farlo, si scelse di una realizzazione completamente italiana: non solo regista e interpreti, il che era, al tempo, quasi ovvio, ma anche gli autori del soggetto, i personaggi e l’ambientazione sono tutti rigorosamente del Belpaese. Ed è proprio questa soluzione totalmente autarchica che viene individuata come origine del modesto risultato e della scelta operata in Rai, da lì in poi e per un lungo periodo di tempo, di introdurre sempre qualche elemento d’importazione. Già il successivo tenente Sheridan, che apparirà sui teleschermi l’anno successivo, pur se interamente italiano come prodotto, aveva un’ambientazione americana; in seguito si prenderanno sempre più spesso soggetti stranieri e angloamericani in particolare, considerati superiori per tradizione e qualità nel campo specifico della detective-story. Ma erano davvero così modesti i film televisivi per la serie Aprite: Polizia!?

Il primo episodio è ambientato in un negozio di moda e, se vogliamo essere fiscali e prendere il titolo alla lettera, in vetrina più che le commesse o le modelle della boutique, ci finisce il proprietario. Il signor Balman viene infatti trovato morto avvelenato nella vetrina del suo negozio, inizialmente scambiato per una sorta di trovata pubblicitaria delle prime due passanti che vedono l’uomo sdraiato tra i capi in esposizione, e lo scambiano per un ubriaco che faccia da bizzarro testimonial. D’Anza, in regia, mette subito una nota umoristica, successivamente delegata al maresciallo Patanò (Enzo Turco), il sottoufficiale che accompagna il protagonista della serie, il commissario Alzani (Renato De Carmine), come prevedibile più serio e risoluto. Ma eccoci al giallo: a compiere l’omicidio può essere stato solo il personale del negozio, dal momento che l’esercizio non era ancora aperto al pubblico. Il giovane Ernesto (Rodolfo Cappellini), sorta di fac-totum, non viene mai preso in considerazione come possibile indiziato e rimangono quindi unicamente le donne della storia. L’altezzosa Mirella (Luisa Rivelli) e la grintosa Adriana (Grazia Maria Spina), due indossatrici della boutique, avevano un potenziale movente: la prima aveva una relazione con il signor Balman, che cominciava a divenire opprimente e geloso della molto più giovane ragazza; la seconda era stata da poco “scaricata” dal principale, proprio quando questi si era “messo” con Mirella. In realtà, l’unica che sembra aver avuto la possibilità concreta di avvelenare il signor Balman era Elena (Leonora Ruffo), che, peraltro, oltre a non aver un motivo valido per uccidere il datore di lavoro è anche priva del nerbo necessario a compiere un simile gesto. In realtà, in questo primissimo episodio della primissima serie gialla prodotta e realizzata in Italia con personaggi italiani, ci sono due curiose eccezioni. Una è l’identità della vittima, indicata genericamente come signor Balman con la conseguente impressione che il personaggio non sia italiano ma anglofono. La seconda, ovviamente, il colpevole, o meglio, la colpevole, ovvero madame Germaine (Evi Maltagliati) che, dalla lettera di licenziamento, scopriamo chiamarsi Fisher, ovvero un altro nome straniero. In ogni caso, se il commissario Alzani può, in questa prima apparizione, destare qualche perplessità nel modo brusco in cui tratta gli indagati, la vicenda gialla imbastita da D’Anza e Giuseppe Mangione è ben costruita e, soprattutto, presenta personaggi credibili. In particolar modo la figura di madame Germaine sorprende perché, pur essendo un’assassina, dimostra una certa umanità, quando prende le difese di Elena che, messa pesantemente sotto accusa da Alzani, arriva addirittura a confessare il delitto pur essendo innocente. Ma, l’accorata difesa di Madame Germaine, oltre che un gesto compassionevole, ricorda qualcosa del classico demone della perversità di cui raccontava Poe: l’eccesso di sicurezza aveva portato la donna a prendere le difese della sua sottoposta; la stessa sicurezza che l’avrebbe poi indotta a rompere “incidentalmente” il bicchiere usato per avvelenare il titolare del negozio, celato fino a quel momento sotto un vaso di fiori. Insomma, come prima colpevole, in questa serie, c’è una donna, non più giovanissima ma pur sempre affascinante come Evi Maltagliati, che alterna slanci di umanità a passaggi degni di Edgar Allan Poe. Tutt’altro che modesto, come inizio.  

mercoledì 9 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - SENZA DIFESA

1558_QUI SQUADRA MOBILE - SENZA DIFESA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

L’incipit dell’ultimo episodio della prima stagione di Qui Squadra Mobile, comincia in modo traumatico: il cane Brick, a spasso per il parco con il proprio padrone, trova casualmente un cadavere di una povera ragazza. Majano non vuole però sconfessare i suoi propositi, e calma subito la tensione narrativa con una gag che coinvolge Carmelo (Giacomo Furia), l’agente che si preoccupa di portare il caffè ai commissari, e i due protagonisti principali, il capo della Mobile Carraro e quello della Omicidi Solmi. L’occasione è quella di rammentare ai telespettatori che, nonostante le condizioni di lavoro tra omicidi e assassini, e il carattere brusco, l’uomo al comando della Squadra Mobile è un appassionato d’arte – nello specifico colleziona copie dei quadri che tappezzano il suo ufficio. Una caratteristica che lo accomuna a molti altri esponenti delle forze dell’ordine del piccolo schermo, dal commissario Alzani (Renato De Carmine) di Aprite: Polizia!, al suo successore nella seconda stagione di Qui Squadra Mobile, il commissario Guido Salemi (Luigi Vannucchi) per citare un paio. Quella della passione per l’arte è un altro ingrediente che gli autori Rai sono evidentemente sempre attenti ad aggiungere, nella caratterizzazione dei poliziotti protagonisti di queste serie, per alimentarne il carisma umano, che rimane uno degli obiettivi primari di questi sceneggiati. Tornando alla trama gialla, quella trovata morta è solo una povera ragazza di campagna appena giunta a Roma dalla Sardegna, sfortuna vuole che si imbatta nelle persone sbagliate, senza avere alcuna colpa. Queste persone altro non sono che Tonino Corrias (Soko), un capellone tossico suo paesano, e Romeo Rovigati (Gianni Musy), losco gestore di un’agenzia di collocamento fittizia che serve da copertura per il traffico di stupefacenti. L’episodio si segnala anche per la manovra «insubordinata» del commissario Solmi che abbandona il gioco di squadra, che puntava ad arrivare all’assassino mediante un procedimento collettivo, affidandosi al suo istinto. L’intuizione del capo della Omicidi è giusta, tuttavia l’operazione in solitaria lo espone a rischi che, concertando l’azione con i colleghi, si potevano evitare. Insomma, alla fine perfino un tipo burbero come Carraro è costretto a fare i complimenti al suo collaboratore, che, da parte sua, promette di fare tesoro della lezione e farsi in futuro più prudente. Ma, per quel 1973, la Squadra Mobile protagonista della serie Rai, aveva finito il suo mandato. Con onore, questo è sicuro.  


lunedì 7 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - UN'INDAGINE ALLA ROVESCIA

1557_QUI SQUADRA MOBILE - UN'INDAGINE ALLA ROVESCIA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

“Roma è un’immensa fabbrica di disadattati” così, laconicamente, commenta la situazione il Capo della Mobile, commissario Carraro, discutendo con il procuratore Lancia, in apertura del quinto episodio. L’occasione è il ritrovamento di due cadaveri nel Tevere, di cui non si sa niente: se non si riuscirà a scoprire l’identità delle vittime, sarà impossibile risalire al colpevole. Secondo Carraro, e qui prende la motivazione la sua affermazione, si tratta di un delitto occasionale e non legato alla malavita. Come già visto in precedenza, in particolare nella seconda puntata, nella capitale il crimine non si era ancora organizzato ma questo rendeva le cose, sotto un certo aspetto, anche più difficili per le forze dell’ordine. Il che è, certamente, una provocazione, in ogni caso le indagini, in questo specifico caso, fanno subito un deciso passo in avanti grazie al puntuale lavoro della scientifica guidata da De Maria. L’identikit delle due vittime, nonostante fossero in acqua da più di quaranta giorni, è somigliante al punto che, tra le tante telefonate di mitomani, c’è quella di Agata Mainardi (Isabella Riva), un’anziana signora che imbastisce una prima gag umoristica coi due centralinisti della sala operativa del 113 (Silvio Anselmo e Mario Righetti) e poi con il commissario Argento e il maresciallo Attardi. La signora, infatti, che ha riconosciuto le due persone ritrovate nel Tevere, chiede e ottiene da Argento che questi, con la scusa dell’interrogatorio, le porti a domicilio del “polmone per i suoi gatti”. La donna, per altro –dopo essere stata cruciale per l’indagine rivelando l’esistenza della piccola Gabriella (Emanuela Rossi), ragazzina con un lieve ritardo, figlia della coppia trovata morta – cercherà di pagare l’alimento per i suoi micetti al commissario, rivelando la sua indole onesta a tutto tondo. Si tratta di un passaggio certamente secondario, sebbene riveli il dettaglio cruciale, ma la simpatica cura con cui viene gestito denota lo spirito alla base di Qui Squadra Mobile, un lavoro nel quale si cerca, oltre ad intrattenere il pubblico, di dare fiducia nelle istituzioni e, più in genere, nella società. Questo senza edulcorare il contesto: infatti l’asilo lager gestito da un guardiano (Aleardo Ward) e una direttrice (Lia Curci) a dir poco squallidi, sembra, in effetti, perfino esagerato nel senso opposto, considerato il target dello sceneggiato. Ma questo è niente: la scena in cui piccola Gabriella racconta come quello che credeva un amico di famiglia, Michelangelo (Daniele Tedeschi) –un contrabbandiere omicida, sedicente mago, nonché vero «cattivo» della puntata– si preparasse ad ucciderla, fa gelare il sangue nelle vene. L’uomo temeva che la ragazzina potesse aver visto qualcosa a proposito della brutta fine dei genitori, eliminati dal contrabbandiere, e, mentre cercava di accertarsi di questo fatto, aveva portato Gabriella nel bosco e si era già messo preventivamente a scavare. Un passaggio di forte emozione utilizzato, narrativamente, dagli autori, per riavvicinare il commissario Argento e l’investigatrice Nunziante, che avevano il compito di interrogare la piccola. Quel giorno, nel bosco, la povera giovane aveva davvero creduto all’uomo, che le diceva di scavare una trappola per conigli? Michelangelo aveva stranamente insistito, per sapere da Gabriella se aveva guardato nella serratura, quella sera in cui i suoi genitori, prima di partire, avevano urlato tanto. Naturalmente la ragazzina certe cose non le faceva ma il contrabbandiere aveva bisogno di essere sicuro. Ma, forse, aveva finito per insistere troppo, forte del fatto che Gabriella non fosse troppo sveglia? Ma la ragazzina aveva davvero questi problemi o era soltanto capitata in una famiglia non esattamente ideale per crescere? E se avesse compreso a cosa serviva la buca e non si fosse bevuta del tutto la storia della trappola per conigli? Dubbi che rimangono aleggianti sulla storia e, pur essendo atroci, sono forse la cosa migliore di questa prima stagione di Qui Squadra Mobile


sabato 5 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - IL SALTAFOSSI

1556_QUI SQUADRA MOBILE - IL SALAFOSSI . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Per i primi tre episodi, gli autori, preoccupati di convincere lo spettatore-cittadino della bontà complessiva dell’apparato delle forze dell’ordine, avevano dipinto uno scenario all’interno della Polizia praticamente idilliaco. I commissari, gli ispettori e gli agenti protagonisti di Qui Squadra Mobile andavano d’accordo, cooperavano con ottima sinergia e perfino il magistrato Lancia si era dimostrato una persona disponibile e collaborativa. Un quadro, come accennato, ben poco realistico e che cozzava con la pretesa di verosimiglianza della serie televisiva. L’arrivo sulla scena del Procuratore Giustolisi (Aldo Massasso) evidenzia invece le divergenze ideologiche tra la Magistratura, di matrice politica, e la Squadra Mobile, di natura più operativa. I contrasti non sono solo dialettici ma ben più profondi, in particolare tra Giustolisi e il capo della Mobile Carraro e, forse ancor più, con il sanguigno capo della Omicidi Solmi. La trama di quest’episodio si basa su un omicidio di un ricettatore, risolto grazie al solito colpo di fortuna, uno dei cliché della serie, che si concretizza in un bambino in grado di riconoscere a menadito qualunque automobile, compresa la Toyota Celica di uno dei due assassini, oltre all’utilizzo del «saltafosso» che dà il titolo alla puntata. Il saltafosso è uno stratagemma utilizzato durante gli interrogatori, in buona sostanza un bluff, con cui Solmi e i suoi colleghi riescono ad incastrare i colpevoli. Anche quest’episodio si contraddistingue per la manovra collettiva della Squadra Mobile, con i vari personaggi ormai ben definiti nelle rispettive personalità a cui basta poco per dare comunque un contributo significativo. Tra i passaggi da segnalare si può citare il clima migliorato in casa Carraro, con la figlia Laura più serena nei confronti del padre, e, di segno opposto, la crisi sentimentale tra Argento e l’ispettrice Nunziante. Una puntata tutto sommato in cui migliora la scorrevolezza della narrazione seppure l’intreccio investigativo, di per sé stesso, non scaldi eccessivamente. Comunque pienamente sufficiente.    


giovedì 3 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - UN CASO ANCORA APERTO

1555_QUI SQUADRA MOBILE - UN CASO ANCORA APERTO . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Nel terzo appuntamento gli autori di Qui Squadra Mobile si prendono un rischio mica da ridere: al centro della scena è infatti il piccolo Paolo (Fabrizio Mazzotta), un bimbo di una decina d’anni abbandonato a sé stesso. Il pericolo, soprattutto per una serie poliziesca, è che la commozione derivante da vicende che vedano coinvolti innocenti bambini finiscano per ammosciare la tensione narrativa, finendo per svilire un racconto che fa dell’azione il suo punto di forza. Ma lo si è detto: uno degli obiettivi di Qui Squadra Mobile è mostrare il lato umano della Polizia e quindi la scelta degli autori è di un rischio calcolato. Superato in modo indenne, per altro, soprattutto grazie alla simpatica verve di Mazzotta –che, in seguito, diverrà esperto doppiatore– che, nonostante la giovanissima età, si disimpegna con sorprendente nonchalance. La presenza di un ragazzino con cui avere a che fare è il pretesto narrativo che consente alla coppia Alberto Argento –capo della Sezione Rapine– e Giovanna Nunziante –ispettrice della Polizia Femminile– di prendere il centro della scena. L’attenzione che lo sceneggiato riserva alle «donne-poliziotto», definizione che oggi farebbe inorridire gli amanti del politicamente corretto ma che al tempo si usava abitualmente, vuole probabilmente essere, negli intenti degli autori, un riconoscimento a tutte quelle agenti che cercavano di sovvertire anche un certo scetticismo nei loro confronti. In Italia, la professione di agente di polizia era aperta agli individui di sesso femminile dal 1961 e non aveva ancora una tradizione particolarmente consolidata. Con una certa dose di onesta ingenuità, Majano e i suoi collaboratori riservano alla Nunziante i compiti dove possa far valere la propria sensibilità, caratteristica che, almeno nell’immaginario comune, vede le donne essere particolarmente dotate. E anche questo, volendo vedere, rientra a pieno titolo nel tentativo di riqualificazione della reputazione della Polizia agli occhi dell’opinione pubblica che è un po’ la cifra stilistica complessiva di Qui Squadra Mobile. Tra le operazioni di cui si incarica la Squadra Mobile, per risolvere il caso al centro di questo episodio, c’è quella di rintracciare il padre di Paolo, il bambino trovato a vivere di espedienti in avvio di puntata. Un lavoro collettivo che coinvolge anche Leonello Astolfi (Gino Lavagetto), capo della Sezione Furti, e Ugo Moraldi (Giulio Platone), capo della Buoncostume. Senza dimenticare il sottoufficiale della Squadra, il maresciallo Enrico Attardi (Francesco di Federico), un personaggio un po’ macchiettistico ma che, con la sua spiccata umanità, scala posizioni su posizioni nel gradimento con l’andar degli episodi. In uno sceneggiato particolarmente avaro dal punto di vista del glamour femminile, anche comprensibilmente, considerato l’ambientazione, salta subito all’occhio la fugace presenza di un’attrice del calibro di Vira Silenti. L’elegante Vira, nei panni di «una crocierista», ci mostra amabilmente come bere tequila con sale e limone. Nel 1973, sul Programma Nazionale, l’odierna Rai Uno, in prima serata: noblesse oblige.  

martedì 1 ottobre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - RAPINA A MANO ARMATA

1554_QUI SQUADRA MOBILE - RAPINA A MANO ARMATA . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

Il secondo episodio di Qui Squadra Mobile sembra rispondere all’esigenza di aumentare il grado di intensità del racconto come si può già intuire dal titolo, Rapina a mano armata. La puntata comincia subito con il pedale dell’acceleratore premuto, con la scena della rapina in cui gli spietati criminali non esitano a freddare uno degli impiegati. Alcuni passaggi, come le telecamere di sorveglianza dell’istituto di credito in grado di rilevare la targa dell’auto dei banditi in fuga – operazione tecnicamente all’epoca quasi impossibile – lasciano intravvedere eccessivamente uno degli scopi alla base della serie, ovvero infondere fiducia e sicurezza nelle forze dell’ordine. Non si fatica a credere che, come riportano le cronache, a collaborare ai soggetti come consulente tecnico fosse l’ex capo della Squadra Mobile di Roma Salvatore Palmieri. [Qui Squadra Mobile, secondo episodio: Rapina a mano armata, Radiocorriere TV, n. 20, 13 maggio 1973, pagina 57, Edizioni ERI, Torino]. In effetti l’enfasi con cui si sottolinea l’efficienza della Polizia, in questo episodio ma in generale nella serie, è perfino eccessiva, al punto da correre il rischio di far passare come una sorta di spot promozionale l’intera produzione. In ogni caso, la storia procede più speditamente, avendo alle spalle già la puntata precedente e, di conseguenza, i personaggi sono già stati adeguatamente introdotti. Oltre a Carraro, che tira la fila delle indagini, tra i tanti membri della squadra comincia a farsi sempre più strada l’esuberante umanità di Solmi. Anche del capo della Sezione Omicidi, interpretato da Orazio Orlando, veniamo a conoscenza della vita privata, nel suo caso incentrata quasi unicamente sul figlioletto Matteo (Francesco Baldi); Solmi è infatti rimasto vedovo e anche per lui, come per Carraro, non è semplice conciliare la vita famigliare con le esigenze professionali. Tuttavia l’attore napoletano, assecondato dal regista, ebbe carta bianca riuscendo a tratteggiare un personaggio credibile: “Non volevo ripetere i canoni”, dichiarò ad una intervista, “non volevo rifare Maigret; ho tentato di uscire fuori da certi modelli sfruttando le mie corde. Il regista Majano m’ha accordato fiducia ed il mio temperamento ha fatto il resto. Costruire un personaggio è un’impresa ardua ma eccitante; darne una connotazione attraverso i gesti, con l’intonazione della voce, penetrare i blocchi di realtà con tutte le sue parvenze, questo è quello che bisogna tentare”. [Intervista a Orazio Orlando, da Salvatore Bianco, Un napoletano che beve tè, Radiocorriere TV, n. 23, 3 giugno 1973, pagina 92, Edizioni ERI, Torino]. Il risultato è molto buono: Orlando sfrutta in modo misurato ma convincente la propria natura napoletana, intercalando l’eloquio del commissario Solmi con qualche espressione tipicamente partenopea che contribuisce nell’opera di caratterizzazione del personaggio, senza sconfinare mai nella caricatura. Curioso che anche l’attore si riferisca a Maigret come modello da evitare quando, nella serie, per ricondurlo al lavoro di equipe, Carraro più volte lo redarguisca con un perentorio “Smetti di fare il Maigret!”. In un episodio che quindi registra un passo in avanti dal punto di vista qualitativo rispetto al già positivo esordio, si possono segnalare altri due membri del variegato gruppo di protagonisti: il Procuratore Lancia (interpretato dal bravo Carlo Alighiero) è un magistrato con cui Carraro riesce ad avere una discreta sintonia. Quella delle difficoltà d’intenti tra poliziotti e magistrati sarà un tema che emergerà più avanti, nella serie e, per il momento, Lancia lascia quasi sorpresi per quanto sia accomodante nei confronti della Squadra Mobile. Una figura che non ha poi molto spazio, ma è trattato con deferenza sia dai personaggi del racconto che dal racconto stesso, è Angelo De Maria (Gianfranco Mauri), dirigente della Polizia Scientifica. La fiducia nella scienza è, in effetti, un altro compito che si era posta da sempre la Rai e che si prefiggeva anche Qui Squadra Mobile: dall’onnipresente Sala Operativa, con tanto di Cervello Elettronico interrogato con puntualità, e particolarmente attivo in questa puntata, alle analisi biologiche o balistiche dell’unità guidata da De Maria. Si è detto della consulenza tecnica alla serie di Palmieri, ex capo della Mobile di Roma, e il suo operato è perfettamente leggibile nello schema che sorregge il canovaccio dell’episodio. Nel film, viene praticamente escluso sin da subito che una rapina di tale ferocia, con un impiegato ucciso per pura crudeltà, sia opera della malavita romana, al tempo scarsamente organizzata. In effetti, l’utilizzo dei sistemi scientifici, aiuta a capire velocemente che uno dei rapinatori sia un «marsigliese» proveniente dal nord Italia. Questo passaggio narrativo fa riferimento ad un momento storico: come detto Roma, fino all’alba degli anni Settanta, era un terreno ancora relativamente vergine per la malavita organizzata. Alcuni evasi, ricercati e pregiudicati appartenenti al Milieu Marsigliese, uno dei cartelli criminali francesi, erano entrati in Italia cercando nuovi territori e, dopo aver bazzicato un po’ nel nord del Paese, erano infine approdati a Roma. Si trattava del celebre Clan dei Marsigliesi, in buona sostanza la prima organizzazione criminale attiva nella capitale italiana. Un passaggio epocale nella vita sociale italiana e averlo colto con tale puntualità e precisione è un altro segno del valore degli autori di Qui Squadra Mobile.   


domenica 29 settembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - TUTTO DI LEI TRANNE IL NOME

1553_QUI SQUADRA MOBILE - TUTTO DI LEI TRANNE IL NOME . Italia 1973; Regia di Anton Giulio Majano

In un paese che, per tradizione e cultura, non vedeva di buon occhio le forze dell’ordine, tra i tanti compiti che la Rai si era assegnata, c’era anche quello di riqualificarne la figura. Sin quasi dalle sue origini –era il 1958 quando fu trasmesso Aprite: Polizia!– la televisione di stato aveva prodotto costantemente sceneggiati, telefilm o originali televisivi con protagonisti commissari, detective e marescialli vari. La caratteristica che li contraddistingueva, più o meno tutti, era la spiccata umanità, un’attitudine che, evidentemente, interessava assai di più gli autori rispetto alle specifiche qualità d’investigazione. Ma, nel 1973, con «gli anni di piombo» ormai deflagrati, occorreva qualcosa di più specifico, di più intenso, per provare a riappacificare il clima e cercare di cancellare alcuni incresciosi episodi che, durante quel turbolento periodo, avevano visto protagonisti anche i rappresentanti delle forze dell’ordine. Proprio il 1973 si era aperto malissimo, in tal senso, con l’uccisione per mano di un agente di polizia di Roberto Franceschi, durante una manifestazione del Movimento Studentesco, a Milano. [pagina web Chi era costui? https://www.chieracostui.com/costui/docs/search/scheda.asp?ID=337 visitata l’ultima volta il 25 settembre 2024]. La fama della polizia raggiunse in quei giorni uno dei punti più bassi in termini di popolarità, anche perché, come detto, non si trattava affatto né di un caso isolato e nemmeno del primo morto che gli agenti lasciavano sull’asfalto. E, purtroppo, non sempre si trattava di persone coinvolte nelle dilaganti proteste: era ancora fresco il ricordo del povero Giuseppe Tavecchio, un pensionato colpito e ucciso accidentalmente da un lacrimogeno lanciato dalle forze dell’ordine, sempre a Milano. [sito del Comune di Milano, pagina web http://www.comune.milano.it/web/milano-memoria/-/lancio-targa-giuseppe-tavecchio visitato l’ultima volta il 25 settembre 2024]. È in questo clima che Massimo Felisatti e Fabio Pittorru scrivono il soggetto per Qui Squadra Mobile, la cui regia sarà affidata al solido Anton Giulio Majano. Il regista, per presentare il suo lavoro, in un’intervista al Radiocorriere, diede alcune dritte: “La tecnica narrativa da me adottata, non è quella del cosiddetto «doppio binario» che consente di raggiungere il massimo della suspense, alternando indagine poliziesca e comportamento del criminale. Nei miei film televisivi l’assassino è solo l’ultimo anello di una lunga catena investigativa, il risultato di un mosaico pazientemente costruito. La scoperta del colpevole, insomma, avviene con gli occhi e i mezzi del poliziotto, rifiutando il brivido facile e nel rispetto totale dei metodi di indagine che sono tipici della nostra Polizia. Sotto questo profilo, quindi, i miei telefilm posseggono un innegabile valore documentario sulle tecniche operative in uso nel nostro Paese nella lotta per la repressione del crimine”. [intervista a Anton Giulio Majano, Giuseppe Tabasso, Gli anti-Maigret di casa nostra, Radiocorriere TV, n. 19, 6 maggio 1973, pagina 42 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. In effetti, il primissimo episodio, Tutto di lei tranne il nome, non è particolarmente avvincente, ma è comprensibile che più che sull’enigma da risolvere, nell’esordio di una serie televisiva, ci si concentri sui personaggi. Ed essendo Qui Squadra Mobile, come si comprende fin dal titolo, basato sul lavoro d’equipe, è chiaro che la fase introduttiva possa risultare un tantino ferruginosa. Anche perché, seppur c’era la necessità di migliorare la considerazione popolare della Polizia, si decise di riuscirvi insistendo nella tradizione italiana televisiva che voleva gli agenti dotati di spiccate caratteristiche di umanità. Era quindi necessario prendersi il tempo per approfondire le psicologie di ogni personaggio, non bastava mostrare detective infallibili alla Sherlock Holmes, dal momento che lo scetticismo che accompagnava le forze dell’ordine aveva, come abbiamo visto, radici assai più dure da estirpare. Per capirci, Ernesto Baldo, ai tempi, scriveva esplicitamente –e non su un ciclostilato della contestazione ma sempre sul Radiocorriere Tv, in pratica l’organo di stampa ufficiale della televisione di stato– “La Polizia italiana non ha mai goduto popolarità” [Ernesto Baldo, In primo piano la donna-poliziotto, Radiocorriere TV, n. 21, 20 maggio 1973, pagina 110 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. Al protagonista di spicco, il capo della Mobile, Antonio Carraro (Giancarlo Sbragia), spetta quindi il compito di fare un po’ gli onori di casa nei confronti dello spettatore; per via del suo ruolo preminente, è ovviamente sempre la figura di riferimento della serie, ma questo fatto salta maggiormente all’occhio nella prima puntata, quando non si conosce alcuno dei personaggi. Sbragia è in gran forma e si muove con la massima disinvoltura sullo schermo; a proposito di Carraro, l’interprete ne sottolinea efficacemente il carattere solo apparentemente senza zone d’ombra. In un’intervista, lo stesso Sbragia osservò: “La contraddizione di quest’uomo consiste in questo: che, impegnato a risolvere i problemi che quotidianamente gli pone il suo lavoro, non si accorge che le cose in casa sua vanno male. Da qui il conflitto con la figlia, che è una ragazza di sedici anni, con tutti i problemi delle ragazze della sua età”. [intervista a Giancarlo Sbragia in Salvatore Piscicelli, Anche ai figli spetta la libertà di sbagliare, Radiocorriere TV, n. 20, 13 maggio 1973, pagina 34 e seguenti, Edizioni ERI, Torino]. Nella serie, come accennato, la componente umana è fondamentale e, non a caso, i problemi famigliari dei protagonisti, primo fra tutti proprio Carraro, sono uno dei punti fermi del racconto. Ne consegue che anche i famigliari, in questo caso la moglie Mafalda (Mariolina Bovo) e la già citata figlia, Laura (Roberta Paladini), sono membri di un discreto rilievo all’interno del cast. Come detto, il primo episodio non è in sé trascendentale, la traccia principale, con un oscuro scrittore di storie per il mercato della letteratura pornografica che viene ucciso inscenando un suicidio, non decolla mai realmente. Per la verità, nonostante il giallo non sia del tutto avvincente, lo spettatore può tirare un sospiro di sollievo quando si rende conto che l’incipit, con la «banda degli elettrodomestici», è un semplice diversivo. Le scene d’azione con i teppisti che si aggirano per Roma e il loro soci, i ladri veri e propri, sono tra le cose meno convincenti del film. Nonostante siano numerose le scene girate all’aperto, la capitale italiana, ambientazione della serie, è vista prevalentemente in scene d’interno, come da tradizione degli sceneggiati Rai d’epoca. Tra i locali più iconici di Qui Squadra Mobile c’è naturalmente la Sala Operativa che, a detta degli autori, è stata ricostruita in studio prendendo fedelmente a modello quelle della realtà in uso alla Polizia. [Che cos’è la Sala Operativa, Radiocorriere TV, n. 19, 6 maggio 1973, pagina 44, Edizioni ERI, Torino]. Se è subito chiaro che, tra i collaboratori di Carraro, il personaggio designato al ruolo di coprotagonista è il capo della Omicidi, Fernando Solmi (Orazio Orlando), è interessante la presenza di una donna nella squadra. L’ispettrice Giovanna Nunziante (Stefanella Giovannini) ha un duplice compito, in questo primo episodio: da una parte deve reggere la storia sentimentale con il capo della sezione Rapine, Angelo Argento (Elio Zamuto), dall’altro deve occuparsi di una dei colpevoli, in quanto donna. Nel complesso una prima puntata interlocutoria ma che lascia intravvedere buone potenzialità, a patto di mettere in scena un intreccio investigativo più accattivante. 


lunedì 11 marzo 2024

L'UOMO IN NERO

1451_L'UOMO IN NERO (Judex). Francia, Italia, 1963; Regia di Georges Franju.

Dopo i suoi primi lungometraggi, Il delitto di Thérèse Desqueyroux sembrava una svolta alta, nella filmografia di Georges Franju: l’intimo e impegnativo testo letterario all’origine del film con Emmanuelle Riva, e la superba capacità di tradurlo in pellicola da parte del regista francese, poteva far presagire l’intenzione da parte dell’autore di un approccio più colto alla Settima Arte. Abituato nei suoi film a spiazzare lo spettatore, Franju impone anche alla sua carriera una nuova sterzata, stavolta di senso opposto rispetto alla precedente: L’uomo in nero, il successivo lungometraggio, è una sorta di remake del serial cinematografico Judex del 1916, opera di Louis Feuillade ispirato all’omonimo romanzo d’appendice di Arthur Bernède. Sia che si consideri come riferimento l’opera letteraria, sia che si prendano i film, è evidente che si tratti di lavori di grana decisamente più grossa rispetto al romanzo Thérèse Desqueyroux di François Mauriac. Judex era un personaggio mascherato, l’uomo in nero del titolo italiano del film in questione, simile al celebre Fantomas ma con la non trascurabile differenza che non era un criminale ma un giustiziere. Negli anni Dieci del XX secolo in Francia spopolarono i serial cinematografici dedicati a personaggi cattivi, il citato Fantomas ma anche I vampiri, sempre per mano di Feuillade. Judex fu una sorta di risposta alle critiche che l’autore aveva ricevuto per aver raccontato sempre storie di criminali e malfattori. In realtà si trattava solo di un aggiustamento di facciata, visto che la critica alla società borghese, tipica di queste produzioni che sconfinavano spesso nel surreale, rimaneva inalterata. Probabilmente c’è anche una certa logica evolutiva, nella cronologia della comparsa di questi personaggi: prima arrivarono dei protagonisti che, per farsi largo contro la convenzione borghese, dovettero assumere un ruolo negativo

Una volta messo sotto accusa il sistema, si poteva presentare un eroe come Judex, che si poneva dalla parte della Giustizia a fronte della corruzione borghese. Cinquant’anni dopo, Franju, che ha sempre una matrice sociale nella sua opera, dovendo scegliere tra questi personaggi pone l’obiettivo su quello positivo, quello che può legittimamente sconfessare l’ipocrisia del sistema borghese e denunciarne il suo essere criminale. Curiosamente, proprio in quegli anni, in Italia, attecchiranno invece i fumetti neri, a cominciare da Diabolik i cui debiti con Fantomas sono sempre stati riconosciuti. Fosse uscito nelle sale qualche anno dopo, L’uomo in nero, forse, avrebbe potuto essere inteso come una risposta al fenomeno degli eroi neri italiani ma, come detto, Franju anticipò i tempi e quindi può trattarsi di una mera coincidenza (per la verità il primo fumetto di Diabolik uscì a fine 1962 ma non ebbe certo immediata rilevanza internazionale). Il quasi contemporaneo ricorso a questi eroi mascherati, comunque inquietanti, in contesti diversi, lascia intendere che i tempi fossero maturi in quest’ottica ma è da notare che L’uomo in nero di Georges Franju è un film superiore anche ai migliori adattamenti cinematografici degli eroi neri italiani. Oltre ad avere alle spalle un diverso retroterra. Il regista bretone, capace sin dal principio della carriera di trovare la giusta alchimia tra realismo e fantastico, dimostra anche stavolta la straordinaria abilità nel dosare i vari ingredienti, anche apparentemente poco conciliabili, con rara maestria. 

L’approccio al film è dichiaratamente ironico, si vedano le didascalie in perfetto stile cinema muto, ma anche nostalgico. Al tempo stesso le gag umoristiche sono ben distribuite, perlopiù affidate ad un personaggio marginale come il detective Cocantin (Jacques Jouanneau) sebbene una certa ironia di cui è intrisa la storia faccia capolino qua e là man mano che la vicenda si snoda e si riesce a coglierne meglio il clima. Perché, naturalmente, in avvio il film sembra piuttosto cupo; poi la spiazzante scena del ballo inquieta ancor di più e solo lo scorrere dei minuti permette di comprendere lo sguardo sornione con cui Franju sta giocando. La citata scena del ballo in maschera è folgorante ed è probabilmente il passaggio più famoso del film – forse dell’intera filmografia di Franju – ed è giustamente significativa. Il regista sottolinea e rinnova il collegamento con il surrealismo tipico dei serial cinematografici d’epoca, con l’annessa contestazione al mondo razionale borghese, mentre sfuma il tenore della storia visto che il banchiere Favraux (Michel Vitold) non viene ucciso ma spedito nel mondo dei sogni. Sogni drogati, naturalmente, a simularne la morte ma Judex (Channing Pollock) rivela fin da questa scena, posta quasi in principio, di non essere un criminale; piuttosto si scopre che le lettere che accusano il banchiere di essere un affarista senza scrupoli sono veritiere. La scena del ballo con i personaggi che indossano inquietanti maschere da uccello non è solo di fortissimo impatto scenico, quindi, ma è anche il punto cruciale del racconto. Le continue svolte e i ripetuti colpi di scena successivi serviranno unicamente a sorreggere il racconto: ormai si è capito che Judex è l’eroe e Favraux, da buon capitalista, il criminale. 

Non l’unico, per la verità, visto che l’istitutrice di casa Favraux, Marie/Diana (una conturbante Francine Bergé) e il suo amico Moralès (Théo Sarapo) provano a recitare il ruolo di cattivi della storia, collezionando peraltro più fiaschi che successi. Una caratteristica comune ai personaggi della storia, si è detto dello sguardo ironico della stessa, a cui non fa eccezione nemmeno Judex che, sul finire della vicenda, finisce legato come un salame. A cavarlo dai pasticci spunta dal nulla Daisy (una Sylva Koscina in vesti attillate, convocata solo per il finale): Franju sembra voler ribaltare i cliché dei romanzi d’appendice mettendo l’eroe in pericolo (Judex legato) e la damigella Daisy che s’arrampica sulla torre per salvarlo. La presenza della Koscina vestita con un fasciante costume d’acrobata bianco è colta al volo dal regista che inscena una lotta corpo a corpo tra il personaggio dell’attrice di origine jugoslava e quello della Bergé, per l’occasione in un altrettanto sexy calzamaglia nera da cattiva. Oltre a queste due figure femminili non manca naturalmente Edith Scob nei panni più eleganti della dolce Jacqueline, figlia di Favraux e oggetto dell’amore di Judex, sorta di trait d’union tra i due personaggi maschili simbolicamente rilevanti della storia. In definitiva il film risulta piacevole, la trama è incalzante e alcuni passaggi sono pregevoli figurativamente, mentre la critica al sistema borghese non manca nemmeno stavolta. Così come la matrice surrealista, che permette di digerire in questa chiave anche gli stratagemmi tecnologici e fantasiosi tipici dei personaggi in calzamaglia. Tra questi, il più inquietante è una sorta di telecamera che, mentre riprende Favraux nella prigione di Judex, ne mostra direttamente le immagini al banchiere stesso. Franju intuisce, con larghissimo anticipo sull’opinione pubblica, che non è la ripresa di nascosto, come ci si attenderebbe da una telecamera posta in una cella, ad essere davvero nociva per il soggetto filmato ma la consapevolezza di essere osservato in continuazione. Ma non è tanto un discorso sulla privacy che interessa al regista quanto il peso morale che lo sguardo del cinema implica. E quello di Franju non è un cinema di soppiatto ma un atto di accusa senza troppe remore.  





Sylva Koscina 




Francine Bergé 



Edith Scob 



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