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giovedì 22 dicembre 2022

ATTENTATO AL PAPA

1185_ATTENTATO AL PAPA Italia 1986; Regia di Giuseppe Fina.

Se è vero che l’attentato al papa Giovanni Paolo II avvenne il 13 maggio 1981, il processo che provò a far luce sulla vicenda si chiuse alla fine di marzo del 1986. Questo fa di Attentato al papa, miniserie TV uscita nei primi giorni di aprile di quello stesso anno, una sorta di instant movie. Anche perché il racconto filmico di Giuseppe Fina si basa sul libro Anatomia di un attentato di Claire Sterling, una scrittrice e giornalista specializzata in terrorismo, e segue sostanzialmente le indagini del giudice Martella (Ian Bannen) e gli interrogatori a cui venne sottoposto l’attentatore, Mehmet Ali Ağca (Christopher Buchholz). Il punto è che tra la primavera dell’81 e quella dell’86 si arriva a capo di ben poco: Ağca è buono solo a far perdere tempo, tra una dichiarazione e la successiva di senso contrario. Per cui, quando si chiude il processo, le notizie che si hanno in mano, a parte la colpevolezza di Ağca colto in flagranza di reato, sono scarne. Per quel che riguarda mandanti, complotti e altre ipotesi su chi possa aver commissionato l’assassinio del pontefice, ci sono ancora pochissime informazioni. Per questo Attentato al papa, sebbene esca cinque anni dopo l’evento, di fatto presenta le lacune degli instant movie senza aver la freschezza tipica di queste produzioni; in fondo dall’attentato era passato un mucchio di tempo. Di contro, l’opera scontava i limiti di questo genere di film: ricostruzione fedele degli accadimenti ma scarso approfondimento dei motivi o delle implicazioni del caso. Certo, emerge il coinvolgimento dei Lupi Grigi, organizzazione terroristica turca, a cui apparteneva Ağca, e quello più interessante dei servizi segreti bulgari. Cose risapute e che non davano però senso credibile al tentativo di eliminare il papa polacco. Di veramente valido, il film propone un paio di interessanti coincidenze che Ağca sforna e che mettono in serio imbarazzo i due rappresentati bulgari presenti agli interrogatori. Ma è un po’ poco nell’arco di due ore e mezza di film. Mimetica l’interpretazione di Christopher Buchholz nei panni del terrorista turco, sebbene il suo comportamento enfatizzato, in un contesto narrativo privo di ritmo, venga presto a noia. Il rischio peggiore che corre l’intera operazione filmica. 



martedì 20 dicembre 2022

9 SETTIMANE E 1/2

1184_9 SETTIMANE E 1/2 (9 1/2 weeks)Stati Uniti 1986; Regia di Adrian Lyne.

A suo tempo, e per molti anni, 9 settimane e ½ è stato considerato uno dei più emblematici esempi del cinema patinato anni Ottanta, dove il sesso e l’erotismo erano il principale soggetto – i corpi scolpiti dalla palestra e il denaro ostentato nel lusso ne erano semplici metafore – perlopiù fine a sé stesso. Il che rimane pur vero, in quanto quello di Adrian Lyne è un signor film che funziona a più livelli e quindi per impostare una feroce disamina sul decennio pneumatico – nel senso di vuoto – il regista orchestra magistralmente una perfetta storia che ne rispetti e rispecchi gli stilemi. Ma se le esplicite allusioni edonistiche di Mickey Rourke (è John Gray, il protagonista maschile) e di Kim Basinger (è Elizabeth McGraw, la controparte femminile) sono giustamente arcinote a tutti, e in ogni caso facili da cogliere, il film possiede una struttura rigorosa che a quel tempo, a saperla leggere, sarebbe stata illuminante. Dal momento che il film è impostato nello stile delle pubblicità e dei videoclip degli anni Ottanta – di cui riprende alcune hit come colonna sonora, Slave to love di Brian Ferry o This city never sleeps degli Eurythmics giusto per fare due titoli – una certa superficialità contraddistingue lo schematismo dell’architettura della storia. Questo fatto, lungi dall’essere un limite di per sé, lascia che il romanticismo istigato da John e desiderato da Elizabeth colmi lo scarno tessuto narrativo del film senza appesantirlo. E’ vero, a guardare oggi 9 settimane e ½ lo schema che inchioda gli eighties nel racconto appare anche troppo esplicito ma all’epoca nessuno se ne accorse, basta leggersi le recensioni o le valutazione attribuite all’opera. 

In ogni caso anche questa presumibile semplicità nella struttura del film è congeniale al film stesso: 9 settimane e ½ è un’opera godibile e i tanti passaggi ironici, se non proprio umoristici, mantengono il racconto sempre agile e scorrevole. E veniamo quindi a questa architettura nella quale, impietosamente, Adrian Lyne ci metteva in guardia dall’andazzo che la situazione generale stava prendendo. Siamo a metà del decennio, giova ricordalo, in pieno boom economico degli 80. Elizabeth, una mercante d’arte, conosce John, agente di borsa. Ma questo non è il punto più critico; il peccato originale, come da nome, sta infatti già all’origine. Elizabeth gestisce una galleria d’arte ma, lo vediamo bene ad inizio film, sostanzialmente vende quadri. L’arte, che dovrebbe essere qualcosa di puro e disinteressato, è divenuta una merce: e questo è il primo segnale sinistro che ci fornisce Lyne. Come si diceva, a questo punto la dolce Elizabeth incontra John, uno speculatore di borsa, forse la figura simbolo del decennio: chi ha trasformato l’arte in denaro non può che finire tra le braccia di chi quel denaro è abituato a gestirlo. Naturalmente, essendo una love story, che dura appunto nove settimane e mezza, il corpo del racconto si basa sulle implicazioni sessuali, sul sadomasochismo di coppia, nello specifico il maschilismo di John che prevarica la remissività di Elizabeth ma, in questo caso, Lyne sembra meno interessato all’aspetto erotico e più al significato sociale che nella storia assume. Certo, ci sono molte scene hot prima fra tutte il celeberrimo spogliarello della Basinger sulle note di You can leave hat on di Joe Cocker. 

Della quale va detto che è una sequenza eccezionale, ben fotografata da Peter Biziou, e che consente ad una stratosferica Kim Basinger un posto nella galleria delle attrici più iconiche della Storia del Cinema, insieme a Marlene Dietrich de L’angelo azzurro, Marilyn Monroe de Gli uomini preferiscono le bionde o Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany, tanto per fare tre esempi. La scena, tra l’altro, con le tende veneziane in controluce, richiama l’onnipresenza degli schermi televisivi nel film. La teledipendenza, termine oggi desueto, è mostrata in tutte le sue forme e tirata in ballo esplicitamente; così come profeticamente viene portato un simbolico esempio, lo zio di Elizabeth che muore per la troppa televisione, degli effetti che il fenomeno avrà sulla società. La televisione è però lo strumento e non la vera causa del malessere sociale, che rimane l’astratto potere economico, un’entità priva di umanità; proprio come John. La mancanza di umanità del protagonista è indicata per prima cosa dal suo generico e asettico lavoro: vende e compra denaro, il che è una sorta di cortocircuito autocompiaciuto, esattamente come il personaggio di Rourke che sorride beffardo e sornione per tutto il film. I suoi vestiti tutti uguali, piegati e ordinati, sono un altro indizio della sua inesorabile prevedibilità. Il giovane conosce molto bene le leggi che governano le cose, dall’alta finanza alle regole dell’attrazione sessuale, ed è molto bravo a gestire questi meccanismi tanto da esserne lui stesso parte. Il tema della meccanica è solo accennato per quel che riguarda l’aspetto finanziario che, peraltro, è metaforicamente ben sviluppato dal tema erotico del racconto. 

Il desiderio segue dinamiche meccaniche al pari di come gli orologi presenti nel film sono governati dai meccanismi, tra i quali avviene anche una delle tante scene piccanti. Il paragone col cibo, presente in un altro momento bollente, ci ricorda invece come il desiderio sia qualcosa di fisiologico e non demandabile e su questa debolezza umana il sistema nei confronti dell’individuo, o John in quelli di Elizabeth, stabilisce un rapporto di prevaricazione. Lo scopo è creare dipendenza e in questo senso c’è il regresso imposto al soggetto, che è fatto ritornare prima allo stadio infantile – “hai fatto la brava bambina?” – poi addirittura animale – quando Elizabeth si mette a quattro zampe. Ma a questo punto la ragazza si accorge che il gioco non è più tale e qualcosa ha fatto cortocircuito. Ma cosa? Forse la chiave è nascosta in uno dei momenti caldi, quello alimentare, andato in scena davanti al frigorifero aperto, con il freddo prodotto dall’elettrodomestico a significarne il contrasto logico. Ma non è certo l’utilizzo del ghiaccio per momenti hot, a far saltare il banco, così come non lo sono le pratiche sadomaso, solo ad una superficiale prima vista fuori posto in un momento di reciproca ricerca di piacere. 

Il punto cruciale è piuttosto la mancanza di rispetto per l’altro, l’incapacità di comprenderne i reali bisogni ma, al contrario, il costante e persistente lavoro per indurne di nuovi che creino dipendenza, non generino mai appagamento e, di conseguenza, mai soddisfazione e tantomeno felicità. Elizabeth, una giovane che, ad inizio film, con una storia sentimentale in frantumi alle spalle è perlomeno in grado di sentirsi viva e appassionata sul proprio lavoro, diventa triste e dolente proprio all’apice della storia d’amore con l’uomo dei sogni. Simbolicamente, mancava poco a fare dieci ma a quel dieci Elizabeth e John non ci arriveranno mai, fermandosi, appunto a 9 e ½. Non c’è però nessun lieto fine alternativo a salvare la ragazza e tantomeno il baldo giovanotto. Del resto l’ambiente in cui si muovono i personaggi è piuttosto desolante. In realtà Lyne ci inganna per bene, in avvio, mostrandoci una New York piena di vita e di scene di quotidianità che ci illude sulla natura socievole del periodo. Ma basta una cena con Elizabeth e i suoi colleghi della galleria per capirne il grado di sofisticazione artefatta – i riferimenti alla nouvelle cuisine francese – e quando John conquista la ragazza, portandola in un più genuino locale italiano, questo si rivela implicato con la mafia. Nel finale, poi, il critico – si badi, il critico, colui che dovrebbe meglio di altri comprendere ciò che gli sta intorno – chiede ad una distrutta Elizabeth di soccorrere Farnsworth (Dwight Weist) il vecchio artista che gli sembra a disagio in mezzo alla calca della mostra a lui dedicata. In realtà il pittore è in condizioni assai migliori della giovane, moralmente devastata dagli sviluppi nefasti della sua love story e soltanto uno stolto non se ne sarebbe accorto. 

E tra i tanti invitati alla mostra d’arte, quindi gente che dovrebbe avere una spiccata sensibilità, nessuno si accorge invece di niente, se non forse il vecchio pittore che nota qualcosa che non va alla povera Elizabeth. Il personaggio del pittore Farnsworth è significativamente interpretato da Dwight Weist che era stato un noto annunciatore alla Radio prima dell’avvento della televisione e il cui programma più famoso fu The March of the time (La marcia del tempo). Sono le sue parole a sancire la fine della storia, quando dice a Elizabeth quale dovrebbe essere il reale senso della vita. “Io mi ricordo di mangiare quando ho fame e di dormire quando ho sonno”, esordisce laconico il vecchio. In pratica, rispondere ai reali bisogni e non ai desideri indotti dalla società, nel capitalismo, o da John, nel film in questione. Lei ne esalta la capacità di cogliere l’attimo nei suoi quadri, di cui sta allestendo la citata mostra. Lapidario il commento del pittore: “è il momento quando una cosa ti appartiene. Ed è già passato.” Seppellendo sotto una semplice frase tutta la retorica arrivista e accumulatrice, di denaro, cose, persone, degli eighties. Ecco spiegata la presenza dei tanti orologi della pellicola – dopo che il titolo già ci aveva istradato in quel senso, dando già una scadenza alla storia d’amore – nell’esigenza di controllare il tempo, il suo trascorrere e, con esso, il suo rendere vani gli sforzi di arricchirsi, di essere sempre più potenti. Quando Elizabeth lascia John, questi non si dà per vinto, non sia mai, e minaccia di contare: prima che abbia finito è certo che la donna tornerà sui suoi passi. Ma c’è una variabile di cui non ha tenuto conto: perché l’uomo è costretto ad ammette di amare Elizabeth. 

Questo per lui è un bel problema, perché a fronte di una sua trovata umanità, non saprà facilmente – meglio, meccanicamente, ripetitivamente, ad esempio con l’aiuto del solito commesso di fiori – rimettere le cose a posto. Ora diventa tutto più difficile, perché l’amore non segue nessuna regola e non può essere imbrigliato né tantomeno imbrigliare qualcuno. Elizabeth, mentre se ne va, dopo essere stata tante volte ingabbiata visibilmente da ringhiere, testiere del letto, inferriate, meccanismi dell’orologio di una torre, trova davanti a sé la cancellata del palazzo che sembra quella di un carcere che si apre. La ragazza esce come una detenuta quando ha scontato la sua pena; a completare il quadretto c’è anche una sorta di secondino, in realtà il portinaio in livrea, che l’osserva. Nel vialetto, per la strada, le cancellate e le inferriate rimangono ai suoi lati, a sinistra sugli edifici e a destra a sostenere e proteggere gli alberi, e non si frappongono al suo cammino. John, intanto, ha cominciato a contare. Non fino al tre, o al dieci, come gli sarebbe stato facile pensare fino a qualche giorno prima. Tanto Elizabeth sarebbe tornate in fretta. No, ora si prende tempo, che per chi considera il tempo uguale al denaro non è un investimento da poco, e minaccia di contare fino a 50. Ma, adesso che è umano, sente la paura. Il film finisce che non si è ancora deciso a dire due perché dentro di lui sa che non è previsto nessun lieto fine per la nostra love story.
Poco male, al sistema andrà anche peggio. Ma non temete: saprà come al solito riciclarsi.   

Kim Basinger














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domenica 18 dicembre 2022

HO INCONTRATO UN'OMBRA

1183_HO INCONTRATO UN'OMBRA Italia 1974; Regia di Daniele D'Anza.

Capolavoro assoluto in tema di sceneggiati Rai, Ho incontrato un’ombra è un’opera che ancora oggi si distingue per i tanti suoi meriti. Per la verità in rete si può leggere qualche recensione che sottolinea la presunta lentezza del racconto televisivo di Daniele D’Anza: è la solita storia, si accusa un testo di avere un ritmo inadeguato quando le carenze sono semmai di chi guarda, evidentemente assuefatto alla frenesia moderna. Ho incontrato un’ombra non è un film lento più di quanto non lo debba essere. E non è affatto vero, altra osservazione che si imputa allo sceneggiato, che le prime due puntate siano interlocutorie se non addirittura noiose: è proprio nella prima parte del film che si può invece gustare appieno il senso di mistero che l’eccellente soggetto (di Enzo Ungari, Mimmo Rafele e Gianni Amico) ci appioppa senza darci alcuna idea di quale spiegazione ci possa essere. Del resto anche Biagio Proietti in sede di sceneggiatura fa un lavoro perfetto e naturalmente D’Anza in regia completa l’opera, per un film tecnicamente sopraffino. Prova ne è che, ad esempio, il motivo per cui venga scelta la casa di Philippe Dussart (Giancarlo Zanetti, molto convincente) per inscenare il ricatto è lasciato senza spiegazione esplicita: se ci fosse una qualche debolezza nello scritto, considerato che si tratta di un giallo, qui la storia potrebbe scivolare. Invece regge alla grande anche senza che questo dettaglio venga chiarito; che poi, a rigor di logica gialla, la spiegazione c’è anche se viene lasciata alla capacità deduttiva dello spettatore. Infatti a proposito di Dussart viene ripetuto fino alla noia che è un tipo abitudinario, metodico, puntualissimo: certo, apparentemente questo serve per avere un personaggio ordinario che venga sconvolto dall’incontro con l’ombra citata nel titolo. 

Ma è chiaro anche che l’abitazione di un tipo del genere, di cui si può essere certi dei suoi spostamenti – soprattutto dei momenti in cui lascia libera la sua casa – è l’ideale per chi ha bisogno di un luogo per organizzare appuntamenti loschi senza avere poi risvolti compromettenti. In ogni caso, lo spaesamento di Dussart è simile al nostro: le misteriose tracce di incontri avvenuti in casa sua durante la sua assenza lo inquietano più per l’incomprensibilità della cosa che per un effettivo pericolo; e lo spettatore si trova nel medesimo stato d’animo. E questa sensazione di curiosità mista a disagio è la cosa migliore del film o almeno la seconda, se consideriamo il fascino della protagonista femminile, la citata ombra: Beba Loncar è Silvia, una presenza dapprima fugace, poi sempre più centrale e in definitiva davvero indimenticabile. 

La Loncar all’epoca era abbastanza nota alla televisione italiana ma tutto sommato aveva ancora qualcosa di inusuale che le conferiva un fascino che nelle sue prime apparizioni nel film la rende irresistibile e che anche quando prende possesso definitivamente della ribalta non viene certo meno. A contendergli la scena, in ambito femminile, è Laura Belli nel ruolo di Catherine, la fidanzata di Dussard che si vede soppiantata dall’apparizione della bionda rivale. La Belli in avvio è davvero sensuale, snella e naturalmente elegante ma, nel corso del racconto, comprensibilmente, perde un po’ si smalto: a ben vedere è forse anche questa una qualità che l’attrice dimostra di avere, smorzando in modo adeguato la propria carica attrattiva. Per chiudere con il cast, tra gli interpreti vanno citati almeno Renato De Carmine nel ruolo del commissario Vian, sornione, e Corrado Gaipa nei sudaticci panni di Buache, viscido ricettatore che mette disagio solo a vederlo nella sua stanza riscaldata oltre ogni limite. In uno sceneggiato che non ha punti deboli un posto di rilievo è occupato dalla musica, di cui A blue shadow (di Romolo Grano e Berto Pisano) è il pezzo trainante e memorabile. 
Tornando alla storia, dal terzo episodio si comincia a comprendere almeno la natura del mistero che affligge Dussard: non è che si capisca ovviamente subito tutto, ma perlomeno si può inquadrare meglio la questione. Infatti, come il protagonista, attratto dalla figura di Silvia, anche lo spettatore si era probabilmente concentrato sul ruolo della donna all’interno della casa di Dussard; in realtà la ragazza non ne aveva sostanzialmente alcuno di così inerente, se non essere ospitata dall’uomo che la stava ricattando. La pista nazista – Silvia è figlia di un gerarca tedesco sopravvissuto che vive in Svizzera in incognito – si fa poi via via più prevedibile fino al finale che peraltro alza i toni drammatici mantenendo grazie a questo vivo l’interesse. Detto di questi aspetti, che sono certamente quelli più succulenti da un punto di vista emotivo, ci sono altri elementi di natura più riflessiva, nell’opera, che stupiscono per profondità in quello che, a prima vista, sembra un semplice prodotto d’evasione televisivo. Il racconto è ambientato a Ginevra, in Svizzera; e già questo non è un dettaglio casuale. Nel 1974 la Confederazione Elvetica era una sorta di paradiso fiscale, assai più di quanto non lo sia ancora oggi, e il mondo in cui si muovono i nostri personaggi è esattamente quello. Dussard e Christine lavorano infatti in un’agenzia che si occupa di vendere ville di lusso. Il tema della casa, come abbiamo visto, è quindi centrale alla storia: l’abitazione di proprietà, negli anni Settanta, era divenuto il principale status symbol italiano, e dava sicurezza e prestigio. La Svizzera rappresentava per gli industriali del nord Italia, l’élite della nostra società, una sorta di casa rafforzata, una casa nella casa, un rifugio inviolabile e inattaccabile. 

Il personaggio Dussard è appunto svizzero, d’accordo, ma interpreta il tipico borghese di successo modello di riferimento anche nel nostro paese; la giovane con cui flirta in principio, la Christine a cui presta le sembianze Laura Belli, pur essendo svizzera pure lei, si presenta come la classica bella ragazza italiana. I riferimenti fatti subito in avvio, alle forze eversive, alle organizzazioni di estrema destra che operano nella colpevole indifferenza generale, sembrano centrare poco invece sarà proprio Duclos (Bruno Cattaneo), che le aveva introdotte nel racconto, a mettere sulla pista giusta Christine e quindi il commissario Vian. Ho incontrato un’ombra è insolitamente cupo e angosciante, anche per essere uno sceneggiato Rai dell’epoca, soprattutto per il desolante finale. Certo, il paese era in un periodo non certo facile, tra la contestazione sessantottina e gli anni di piombo, ma accanto a questi fenomeni la borghesia riusciva comunque a celebrare i propri riti – la casa di lusso, le auto costose, le feste – provando a convincere tutta quanta la società che le cose stavano andando per il meglio. Se nel decennio successivo ci sarebbe riuscita, in quegli anni Settanta, anche per via di opere come Ho incontrato un’ombra, trovò certamente qualche difficoltà in più. Persino la casa, il bene rifugio per eccellenza, il luogo dell’intimità, la personale roccaforte di ognuno, diveniva un posto ostile – quasi ironico lo slogan creato da Dussard nel film “non siate estranei in casa vostra”. Che, nell’economia complessiva del film, significa di non estraniarsi del tutto da ciò che ci accade proprio in casa nostra, fossero anche realtà scomode come le citate forze eversive. E considerato anche che molte scene della Ginevra di Ho incontrato un’ombra, sono girate sul Lago Maggiore, a Lesa e Stresa, è chiaro che si sta parlando proprio dell’Italia. Come Storia confermerà.  



Beba Loncar 








Laura Belli 



Galleria di copertine 


venerdì 16 dicembre 2022

FANTOZZI

1182_FANTOZZI . Italia 1975; Regia di Luciano Salce.

Approdo del personaggio letterario e televisivo e primo capitolo di una fortunata saga cinematografica, Fantozzi, il lungometraggio del 1975, è naturalmente un eccellente esempio di cinema comico anche considerandolo di per sé stesso. Il cardine dell’opera è il personaggio, validissima incarnazione in chiave comico-surreale delle debolezze italiche che ha avuto un impatto di grande portata sul paese, tanto da divenire un simbolo universale per la figura del perdente vessato dai prepotenti di turno e da influenzare in modo massiccio persino il linguaggio comune con una serie di peculiari definizioni come megadirettore galattico, sedie in pelle umana e via di questo passo. Questo enorme successo popolare consolidato da dieci film in venticinque anni, ha forse addirittura finito per rendere un po’ scontata tanto l’eccezionalità del personaggio di Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio, ma che lo dico a fare) quanto il suo clamoroso esordio sul grande schermo. Che, ben orchestrato da Luciano Salce in regia, fila dritto come un fuso inanellando una serie di gag che sono rimaste nella Storia del cinema italiano, dalla partita di calcio ‘scapoli vs ammogliati’, alla gara di tennis tra Fantozzi e il mitico Filini (Gigi Reder), oltre ai continui quanto vani assalti del ragioniere più famoso d’Italia alla conturbante signorina Silvani interpretata da una scintillante Anna Mazzamauro. La Mazzamauro merita almeno una nota: Villaggio, assai poco elegantemente, in seguito affermò che per quel ruolo scelse l’attrice “come si sceglie un cesso” parafrasando sui lineamenti non proprio accattivanti di Anna. 

Tuttavia, la signorina Silvani della Mazzamauro quello che è lo è camminando sui tacchi alti in modo impareggiabile, e questo è innegabile, cosa che le conferisce un fascino, certo ironico e ruspante ma irresistibile e non solo per Fantozzi. Forse il ruolo della Silvani, e il suo charme mai realmente riconosciuto pubblicamente, è l’aspetto meno risaputo in un testo su cui c'è davvero poco da aggiungere a quanto ormai entrato nel patrimonio genetico del paese. Se non forse un paio di passaggi certamente noti ma in genere poco considerati o comunque meno degli altri. 

Sono due frammenti di natura leggermente diversa dal racconto, si tratta di passaggi etici e morali, in ogni caso nelle corde del resto del film, sia chiaro, e comunque importanti perché stabiliscono i limiti entro i quali si può ridere e scherzare. E questo, nel paese dove tutto è concesso – se non ti fai beccare – non è cosa da poco. Fantozzi, infatti, pone almeno due limiti precisi alla sua feroce ironia, alla sua vena dissacrante che chiama in causa persino Gesù Cristo e San Pietro per farci delle gag comiche. E questo considerando che, nel 1975, il detto ‘scherza coi fanti e lascia stare i santi’ era ancora uno spartiacque da tenere bene in mente dal cinema che volesse essere davvero popolare nel belpaese. Il primo limite che Villaggio e Salce tracciano è nella presa in giro per l’aspetto estetico, nella famosa scena in cui la piccola Mariangela (Plinio Fernando opportunamente truccato), figlia del ragioniere, viene chiamata Cita, come la scimmia amica di Tarzan, dai dirigenti della megaditta al momento della consegna dei regali natalizi. Fantozzi, che si accorge della crudele presa in giro, interviene e cerca di giustificare la cosa tirando in ballo la famosa Cita Hayworth, bellissima attrice di Hollywood. Il che abilmente serve a stemperare nell’ironia il passaggio che tuttavia rimane particolarmente emozionante. 

L’altro confine che tracciano gli autori è che per quanto sia possibile venire umiliati ed accettare passivamente la cosa, e in questo Fantozzi è un vero campione, non si deve far umiliare un’altra persona a causa nostra. La scena è quella del bigliardo dove, arrivato ad essere chiamato pubblicamente coglionazzo per la 38° volta da Cattelani (Umberto D’Orsi), suo dispotico superiore, il nostro eroe intravvede la sofferenza e la vergogna per la situazione negli occhi della moglie Pina (Liù Bosisio). Fantozzi dice basta, ribalta in modo improbabile la partita e, per non subirne le conseguenze, rapisce la madre del Cattelani virando una scena di ribellione personale più che sociale in uno dei passaggi più comicamente assurdi del film – con la vegliarda che invece di imbufalirsi si innamora del ragioniere (!). Ci sarebbe anche da osservare un altro limite nella satira dell’opera, quello politico, con la feroce critica sociale che si accanisce solo contro la borghesia industriale, lasciando per l’aristocrazia il benevolo, benché intriso di compatimento e commiserazione, sguardo che tratteggia la contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare (Elena Tricoli), ma ci bastano i due citati passaggi di natura etica immersi nella comicità surreale e plastica del film per stabilire che Fantozzi, oltre a farci scompisciare dalle risate, sia indiscutibilmente un capolavoro ancora oggi indispensabile.  






Anna Mazzamauro 



Liù Bosisio 


Elena Tricoli 


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