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Visualizzazione post con etichetta Satirico. Mostra tutti i post
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venerdì 16 dicembre 2022

FANTOZZI

1182_FANTOZZI . Italia 1975; Regia di Luciano Salce.

Approdo del personaggio letterario e televisivo e primo capitolo di una fortunata saga cinematografica, Fantozzi, il lungometraggio del 1975, è naturalmente un eccellente esempio di cinema comico anche considerandolo di per sé stesso. Il cardine dell’opera è il personaggio, validissima incarnazione in chiave comico-surreale delle debolezze italiche che ha avuto un impatto di grande portata sul paese, tanto da divenire un simbolo universale per la figura del perdente vessato dai prepotenti di turno e da influenzare in modo massiccio persino il linguaggio comune con una serie di peculiari definizioni come megadirettore galattico, sedie in pelle umana e via di questo passo. Questo enorme successo popolare consolidato da dieci film in venticinque anni, ha forse addirittura finito per rendere un po’ scontata tanto l’eccezionalità del personaggio di Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio, ma che lo dico a fare) quanto il suo clamoroso esordio sul grande schermo. Che, ben orchestrato da Luciano Salce in regia, fila dritto come un fuso inanellando una serie di gag che sono rimaste nella Storia del cinema italiano, dalla partita di calcio ‘scapoli vs ammogliati’, alla gara di tennis tra Fantozzi e il mitico Filini (Gigi Reder), oltre ai continui quanto vani assalti del ragioniere più famoso d’Italia alla conturbante signorina Silvani interpretata da una scintillante Anna Mazzamauro. La Mazzamauro merita almeno una nota: Villaggio, assai poco elegantemente, in seguito affermò che per quel ruolo scelse l’attrice “come si sceglie un cesso” parafrasando sui lineamenti non proprio accattivanti di Anna. 

Tuttavia, la signorina Silvani della Mazzamauro quello che è lo è camminando sui tacchi alti in modo impareggiabile, e questo è innegabile, cosa che le conferisce un fascino, certo ironico e ruspante ma irresistibile e non solo per Fantozzi. Forse il ruolo della Silvani, e il suo charme mai realmente riconosciuto pubblicamente, è l’aspetto meno risaputo in un testo su cui c'è davvero poco da aggiungere a quanto ormai entrato nel patrimonio genetico del paese. Se non forse un paio di passaggi certamente noti ma in genere poco considerati o comunque meno degli altri. 

Sono due frammenti di natura leggermente diversa dal racconto, si tratta di passaggi etici e morali, in ogni caso nelle corde del resto del film, sia chiaro, e comunque importanti perché stabiliscono i limiti entro i quali si può ridere e scherzare. E questo, nel paese dove tutto è concesso – se non ti fai beccare – non è cosa da poco. Fantozzi, infatti, pone almeno due limiti precisi alla sua feroce ironia, alla sua vena dissacrante che chiama in causa persino Gesù Cristo e San Pietro per farci delle gag comiche. E questo considerando che, nel 1975, il detto ‘scherza coi fanti e lascia stare i santi’ era ancora uno spartiacque da tenere bene in mente dal cinema che volesse essere davvero popolare nel belpaese. Il primo limite che Villaggio e Salce tracciano è nella presa in giro per l’aspetto estetico, nella famosa scena in cui la piccola Mariangela (Plinio Fernando opportunamente truccato), figlia del ragioniere, viene chiamata Cita, come la scimmia amica di Tarzan, dai dirigenti della megaditta al momento della consegna dei regali natalizi. Fantozzi, che si accorge della crudele presa in giro, interviene e cerca di giustificare la cosa tirando in ballo la famosa Cita Hayworth, bellissima attrice di Hollywood. Il che abilmente serve a stemperare nell’ironia il passaggio che tuttavia rimane particolarmente emozionante. 

L’altro confine che tracciano gli autori è che per quanto sia possibile venire umiliati ed accettare passivamente la cosa, e in questo Fantozzi è un vero campione, non si deve far umiliare un’altra persona a causa nostra. La scena è quella del bigliardo dove, arrivato ad essere chiamato pubblicamente coglionazzo per la 38° volta da Cattelani (Umberto D’Orsi), suo dispotico superiore, il nostro eroe intravvede la sofferenza e la vergogna per la situazione negli occhi della moglie Pina (Liù Bosisio). Fantozzi dice basta, ribalta in modo improbabile la partita e, per non subirne le conseguenze, rapisce la madre del Cattelani virando una scena di ribellione personale più che sociale in uno dei passaggi più comicamente assurdi del film – con la vegliarda che invece di imbufalirsi si innamora del ragioniere (!). Ci sarebbe anche da osservare un altro limite nella satira dell’opera, quello politico, con la feroce critica sociale che si accanisce solo contro la borghesia industriale, lasciando per l’aristocrazia il benevolo, benché intriso di compatimento e commiserazione, sguardo che tratteggia la contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare (Elena Tricoli), ma ci bastano i due citati passaggi di natura etica immersi nella comicità surreale e plastica del film per stabilire che Fantozzi, oltre a farci scompisciare dalle risate, sia indiscutibilmente un capolavoro ancora oggi indispensabile.  






Anna Mazzamauro 



Liù Bosisio 


Elena Tricoli 


Galleria di manifesti 




venerdì 14 settembre 2018

MORTO STALIN SE NE FA UN ALTRO

208_MORTO STALIN SE NE FA UN ALTRO (The death of Stalin). Regno Unito, Francia, Stati Uniti 2017;  Regia di Armando Iannone.

Tratto dal capolavoro a fumetti La morte di Stalin dei francesi Fabien Nury e Thierry Robin, Morto Stalin se ne fa un altro è uno di quei casi (non frequenti, per la verità) in cui la trasposizione sul grande schermo arricchisce addirittura il già formidabile testo originale. I paragoni in genere sono poco utili, soprattutto passando da una forma artistica ad un’altra ma, in questo caso, è una considerazione che viene spontanea: la bande dessinée è infatti frutto del lavoro di due artisti che dovettero dar vita ad una numerosa schiera di personaggi, ovvero i vari membri del Comitato Centrale del Partito Comunista; gente del calibro storico di Nikita Kruscèv o Lavrentij Berija, per capirci. Il lavoro fatto dai due fumettisti francesi è notevole, ma basta già vedere Steve Buscemi nella parte di Kruscev per capire quanto possa essere importante l’apporto degli attori in un’operazione come questa. Oltre a Buscemi, strepitoso e assolutamente al suo meglio, meritano una citazione almeno: Simon Russell Beale nella parte del temibile e subdolo Berija; Jeffrey Tambor, un Georgij Malenkov che, nonostante il busto indossato, appare prono al prepotente di turno; Michael Palin scorazzante per lo schermo come ai tempi di Monty Python nel ruolo, in realtà spesso scomodo, di Vjaceslav Molotov; e per restare ai personaggi principali, un ferreo Jason Isaacs è il brutale generale dell’Armata Rossa Georgij Zucov. La prova d’attori generale è notevole e messa in particolare risalto dal tono grottesco dell’opera, che permette agli interpreti di giocare (come dal termine inglese player) con i propri ruoli, contribuendo a discostare efficacemente l’atmosfera generale del racconto da una asettica rievocazione storica dei fatti.

Non si tratta certo di una novità, quella di raccontare in tono leggero eventi o momenti storici tragici: basti citare Il grande dittatore di Charlie Chaplin del 1940. Però l’operazione del regista scozzese Armando Iannucci alla base di Morto Stalin se ne fa un altro (per dovere di cronaca, già presente nel soggetto a fumetti), è comunque geniale: in questo caso, non si tratta di una parodia, o perlomeno, il film funziona in ottica grottesca, ma può reggere, e purtroppo è anche più credibile, come resoconto storico fin troppo attendibile.

L’intuizione degli autori è quindi che non è necessario introdurre una chiave di lettura umoristica per parlare di un momento tanto tragico; con buona pace dei perbenisti che si indignano per la satira (quando magari non l’han fatto per le malefatte oggetto della satira stessa), lo humor nero è infatti uno dei modi per affrontare temi altrimenti troppo spinosi. Ma il vero dramma, purtroppo concretamente reale (e che calza spaventosamente per il nostro paese) e che questa operazione linguistica non è nemmeno necessaria: non serve, insomma, fare la parodia degli eventi storici e se gli interpreti giocano con i loro ruoli un po’ sopra le righe, è perché devono recitare i panni di giullari, guitti e comici che si trovano proiettati in situazioni decisive per la collettività. Ed è per questo gli attori diventano cruciali nel rendere questo testo ancora più efficace, perché sono chiamati ad interpretare personaggi reali e decisivi nella storia dell’umanità, ma verso i quali il rischio maggiore è quello di farli scadere in macchiette senza spessore. E’ questo il vero pregio di Morto Stalin se ne fa un altro: riuscire a far comprendere che quello mostrato non è la parodia della storia dell’Unione Sovietica ai tempi della morte di Stalin.
Piuttosto, è la Storia ad essere ormai una parodia di se stessa.