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sabato 27 agosto 2022

TIENILO A CUORE (TRYMAY BILYA SERTSYA)

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1084_TIENILO A CUORE (Trymay bilya setsya). Ucraina, 2017;  Regia di Valeriy Shalyga.

Tienilo a cuore: questo, grosso modo, il senso del titolo originale del film di Valeriy Shalyga, nel complesso un’opera confezionata dignitosamente, che sprona gli ucraini a non scadere nell’indifferenza verso ciò che succede nell’est del paese. Nel 2017, infatti, nella regione del Donbass, infuria ancora una sorta di guerra civile coi separatisti filorussi che vogliono l’indipendenza da Kiev. Se il centro politico ucraino non sente ragioni e risponde colpo su colpo ai separatisti, molti ucraini delle città dell’ovest del paese, stando al discorso di Shalyga, sono troppo impegnati nei loro affari per prendere a cuore la questione ucraina. C’è, probabilmente, una critica al modello occidentale di vita che parte dell’Ucraina ha ormai adottato: Katia (una bella e intrigante Anna Polozhenko) pensa solo al suo lavoro di organizzare party e feste e trascura il marito Serhji Vitruk (Igor Volkov) ma anche la figlioletta Zorianka. L’uomo è un ex ufficiale militare che grazie ad un parente ha ereditato il posto di corriere, guidando un camion per le consegne. Non è un lavoro molto gratificante e nemmeno ben retribuito mentre la moglie, imprenditrice, sembra interpretare assai meglio lo stile europeista che sta contagiando gran parte dell’Ucraina. Le cose, tra i due, vanno sempre peggio al punto che Vitruk decide di arruolarsi per combattere nel Donbass. La sua spedizione, per altro non propriamente attrezzata a dovere (ai militari al fronte manca perfino l’acqua da bere!), sarà sciagurata e il nostro verrà subito catturato dai separatisti. Prima che un bombardamento gli darà rocambolescamente modo di fuggire, Vitruk si ritroverà a tu per tu con un vecchio commilitone, Rusik, ora suo nemico e al comando dei ribelli che l’hanno catturato. 

Il confronto tra i due mette sul piatto i classici temi della disputa tra nazionalisti e filorussi: questi ultimi accusano i primi di servire un governo corrotto. Accusa che in genere, e Vitruk non fa eccezione, gli ucraini non si affannano troppo a smentire. Piuttosto la propaganda russa è contestata sull’insistenza con cui si definiscono fascisti i soldati agli ordini di Kiev e, più nel complesso, gli ucraini (verrebbe da aggiungere filo-ucraini se non suonasse un filo assurdo). Le truppe separatiste sono dipinte in modo spietato, come sadiche e crudeli, dal film che si allinea alla normale ottica ucraina; se è un difetto, è un difetto perdonabile, si tratta pur sempre di un’opera con una forte connotazione bellica, (anche se il genere non lo rispetta pienamente avendo il dramma sentimentale un ruolo preponderante). Il titolo del film, oltre al senso di prendersi a cuore il destino del paese, è simbolicamente rappresentato da un fiore che la figlioletta dona a Vitruk al momento della sua partenza per il fronte. L’uomo lo tiene nella tasca della mimetica, proprio sul cuore e, forse anche grazie ad esso, riesce alla fine a cavarsela. Il finale, con la telefonata che lo riavvicina a Katia, in forte pena per la sua sorte, e con l’uomo seduto a guardare dei bambini giocare, lascia qualche speranza. Ma non si può non notare che il film finisca prima che Vitruk si congiunga con la moglie che, a quanto risulta dal racconto, viene lasciata dal finale ancora in disperata attesa. Le cose possono migliorare, se diamo retta al soldato quando parla con il ragazzino, nell’ultimo dialogo del film, ma c’è ancora molta strada da fare. Si potrebbe chiudere qui ma c’è un passaggio che è impossibile da dimenticare e allo stesso tempo emblematico della situazione. Vitruk, ferito gravemente, sta cercando di lasciare la cosiddetta ATO zone (Anti-Terrorist Operation), quando viene scoperto da quelli che sembrano due volgari teppisti. In realtà i due hanno intenzioni criminali, intrisi come sono di odio per i nazionalisti di Kiev. Il protagonista, si è detto, è un militare di lungo corso e, pur se ferito, si sbarazza facilmente dei due ceffi. Certo, l’indifferenza e la naturalezza con cui prende di mira il ragazzo che scappa sono forse indispensabili alla sua sopravvivenza (il teppista sarebbe tornato a vendicarsi o robe del genere). Ma, perlomeno da occidentali, e soprattutto al cinema, sparare alla schiena di un uomo che fugge, chiunque esso sia, è sempre una cosa che fa male anche allo spettatore. 









Anna Polozhenko





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venerdì 26 agosto 2022

ALISA IN WARLAND

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1083_ALISA IN WARLAND . Polonia, Ucraina, 2015;  Regia di Liubov Durakova e Alisa Kovalenko.

Ad un certo punto, verso la fine di Alisa in Warland, si intravvede il volto di un soldato ucraino morto e avvolto in una coperta a mo’ di sudario. La cosa desta un po’ di impressione, nello spettatore, ed è effettivamente strano a pensarci: dopo un’ora di documentario per lo più ambientato al fronte durante la Guerra del Donbass, la vista di un cadavere non dovrebbe certo stupire. Ma è davvero indovinato il titolo dell’opera, Alisa in Warland, che fa ovviamente il verso al famoso libro di Lewis Carroll: come la sua quasi omologa Alice del libro, la protagonista e regista del film si muove sulla scena, il fronte di guerra, come fosse qualcosa a metà strada tra il gioco e il sogno. Non è una sciocca, Alisa Kovalenko, intendiamoci; nei discorsi sulla natura del conflitto in corso tra nazionalisti e separatisti dimostra di sapere il fatto suo. Eppure il suo approccio alla guerra, alla prima linea di guerra, sembra eccessivamente leggero; in realtà, col passare del tempo, dimostrerà di capire quelle dinamiche meglio di certi suoi saccenti coetanei, che la rassicuravano sul fatto che non vi sarebbe mai stato un conflitto in stile Seconda Guerra Mondiale. E comunque va riconosciuto che, seppur non sembri propriamente consapevole di tutti i rischi che corra, Alisa si dimostra fermamente convinta a partecipare attivamente alla lotta per la libertà del suo paese, anche a costo di perdere il fidanzato, il francese Stephane, preoccupatissimo del suo continuo peregrinare lungo il fronte di guerra. Che la ragazza frequenta aggregandosi al famigerato Settore Destro, il corpo militare spesso accusato di nazismo e fascismo. Alisa, con la sua sincera ingenuità, ci rassicura che si tratta di propaganda russa e i militari sono comuni bravi ragazzi. Con questo non è che si debba credere sempre a quello che si sente dire; certo Alisa sembra più affidabile del Cremlino. Giusto un filo, eh.  





Alisa Kovalenko 


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giovedì 25 agosto 2022

CRIMES OF THE FUTURE (2022)

1082_CRIMES OF THE FUTURE . Francia, Grecia, Canada, Regno Unito, 2022;  Regia di David Cronenberg. 

Per assurdo, avrebbe dovuto essere in qualche misura prevedibile: in un film di David Cronenberg ci si aspetta sempre di essere spiazzati. A maggior ragione se l’opera esce ben otto anni dopo il suo ultimo lavoro, Map to the Stars, risalente al 2014. E la natura della sorpresa più grande in Crimes of the Future è lei stessa inattesa: quello che mai ci saremmo aspettati di vedere, infatti, è l’ammissione del buon David di essere un infiltrato. Il che non chiarisce forse del tutto: occorre probabilmente specificare che, almeno al cinema, l’infiltrato è quasi sempre dalla parte della legge, delle istituzioni, del potere, e va ad arruolarsi nei cattivi di turno solo per riportare ordine e disciplina anche da quelle parti deviate. Perché se Cronenberg fosse stato una talpa, ma ancor meglio un virus, che si intrufola nelle istituzioni per sabotarle non sarebbe stato per niente sorprendente. Ma Viggo Mortensen, che oltre ad interpretare il protagonista Saul Tenser in Crimes of the Future è anche l’alter ego del regista, verso la fine del film si rivela proprio essere un infiltrato al soldo della New Vice Unit, un’istituzione che cerca di controllare in qualche modo le deviazioni del futuro distopico in cui è ambientata la storia. Detta così sembra una cosa vaga: in effetti, Cronenberg, per il suo film, non si rivolge solo alla fantascienza distopica ma anche al noir, con il quale Crimes of the Future condivide l’idea che il racconto non serva per chiarire gli snodi della trama ma piuttosto per creare delle suggestioni di intreccio narrativo solo presunto o presumibile. 

Quel che si capisce è che nel futuro di Crimes of the Future non si prova più dolore e sono scomparse le infezioni; di contro, la razza umana sta cambiando geneticamente e questo può rappresentare un problema. O almeno così la pensano al New Vice Unit e al Registro Nazionale degli Organi: il primo rappresenta le forze dell’ordine, il secondo la burocrazia, due armi nelle mani di ogni potere che si rispetti. Il punto che pare metta sul chi va là i citati due istituti, è che mutando verrebbero meno i connotati di umanità dei soggetti. Tra questi ultimi, Tenser, il personaggio di Mortensen, è divenuto un’autentica celebrità, un artista. Insieme alla partner Caprice (Léa Seydoux) si esibisce in operazioni chirurgiche dal vivo in cui la donna, un tempo chirurgo traumatologica, asporta gli organi che crescono spontaneamente nel corpo di Tenser. 

Questi, afflitto dalla Sindrome dell’evoluzione accelerata, è tra i pochi individui che avverte ancora dolore, a cui è costantemente sottoposto. Per alleviare ciò, e per poter sopportare le operazioni durante gli show, l’uomo si è provvisto di una serie di macchinari – una sorta di sarcofago, una speciale sedia, un letto sospeso – che, oltre a rimandarci ai precedenti film di Cronenberg del versante della nuova carne, ricordano le creazioni di Hans Ruedi Giger. Ma questi aspetti, di cui si potrebbe parlare a lungo, riguardano solo il décor narrativo del film, che vuole essere – e tutto sommato ci riesce – una sorta di summa di tutto quel filone del cinema cronenberghiano che va dagli iniziali lungometraggi degli anni Settanta Il demone sotto la pelle e Rabid - Sete di sangue, passando tra altri da Videodrome e La Mosca, fino ad arrivare a eXistenZ del 1999. Ma, questo, se vogliamo, non ci stupisce più di tanto: dopo una ventina d’anni abbondanti il regista canadese è dunque tornato ad occuparsi della nuova carne. Era inevitabile, più che sorprendente, se pensiamo che nei suoi primi film trattava di virus e infezioni e sono ormai tre anni che, a livello planetario, siamo flagellati da questo tipo di problemi (tra gli altri). Ma Cronenberg non è certo il tipo che passa alla cassa, non torna certo dietro la macchina da presa per dirci di quanto sia stato lungimirante. 


E nemmeno è poi così cruciale il passaggio, peraltro rimarcato, che la chirurgia sia il nuovo sesso: nel film la chirurgia ha sostituito l’arte e, almeno già dai tempi di Michelangelo, dovremmo aver compreso come l’arte sia il migliore surrogato del sesso. Il sesso è lo strumento attraverso il quale la specie umana sopravvive alla morte; l’artista, grazie all’immortalità della sua arte, prova anche in questo modo a superare i propri limiti corporei. La fisicità sensuale dell’arte di Michelangelo, per restare all’esempio lampante, è lì a dimostrare proprio la connessione tra l’arte e il sesso. A questo punto, la cosa realmente interessante è che la chirurgia ha soppiantato l’arte; del sesso old style, come elemento davvero stimolante, a questi livelli se n’erano già perse le tracce da tempo. Inoltre, a livello cinematografico, in parte questi temi erano stati già sondati dallo stesso Cronenberg sin dai primi film sulla nuova carne, tanto che il passaggio con la cerniera nell’addome richiama esplicitamente quello simile in Videodrome

L’atto orale, che arriva proprio in questo frangente, sembra più una provocazione, uno scherzo, se si pensa anche alla battuta di Tenser (
“attenta a non ingoiare”). Ma di questi particolari Cronenberg aveva già dato ampiamente saggio e ormai non destano particolare sensazione; non è certo per questo motivo che il canadese è tornato in azione. Casomai, e qui sta il vero choc, il regista è tornato per confessarci, come detto, che è un infiltrato delle istituzioni, del conformismo, dell’omologazione. Non è certo un caso che il detective Cope (Welket Bungué) della New Vice Unit sia un uomo di colore: l’unico individuo che ha un ruolo davvero istituzionale, i due del Registro Nazionale degli Organi sono alquanto loschi, rispetta nel pieno il dogma del politicamente corretto

A proposito dei due burocrati, Timlin (Kristen Stewart) e Wippet (Don McKellar), è proprio nel rapporto tra loro e il protagonista che si capisce ancor meglio che il ruolo di artista di Tenser sia da intendere in controluce a quello cinematografico di Cronenberg. Oltre al loro specifico compito, i due incarnano le varie anime dello Star System, dalla critica inquisitoria, agli avidi organizzatori di eventi, ai famelici fan adoranti, di cui Tenser, proprio come Cronenberg, finisce vittima. E’ in questo contesto che il protagonista, estroso e provocatorio artista di fama mondiale, si rivela in combutta col detective Cope. L’oggetto delle sue indagini diviene un certo Lang (Scott Speedman), membro di un gruppo i cui adepti, tramite un’operazione, sono divenuti in grado di digerire la plastica. 

Nello spiazzante incipit, avevamo infatti visto il figlio di Lang, Brecken (Sotiris Sozos) mangiarsi un cestino dei rifiuti in plastica, prima di venire soffocato, e ucciso, dalla madre Djuna (Lihi Kornowski), inorridita dal vedere che il frutto della sua carne fosse un simile mostro. Tra Lang e sua moglie si era a quel punto già arrivati ai ferri corti, avendo la donna scoperto che il figlioletto aveva clamorosamente appreso geneticamente la capacità di assimilare la plastica. Cosa che, come detto, il padre aveva invece ottenuto mediante un’operazione. Il che è naturalmente incredibile dal punto di vista scientifico, non si possono trasmettere in linea ereditaria i frutti di un’operazione e Cronenberg, attraverso le parole di Tenser, si premura di ammetterlo; ma è un dettaglio che, in un film di fantascienza distopica, si può comodamente tralasciare. 

Quello che esalta Lang, tornando nel racconto filmico, è che se il figlio è mutato geneticamente, siamo di fronte ad una svolta epocale nella storia dell’umanità. Forse anche una perdita di umanità, dando ascolto al detective Cope e ai due del
Registro Nazionale degli Organi; da controllare e contenere, se non sopprimere. Ma Lang è entusiasta: vuole che Tenser esegua un’autopsia pubblica che mostri il miracolo genetico nel corpo del figlio. La razza umana si è evoluta, grazie al lavoro di Lang e dei suoi, ed ora è in grado di riciclare i propri rifiuti, garantendo un futuro per sé e per il pianeta. Narrativamente le cose non andranno per il verso auspicato da Lang, complice il fatale intervento di Router (la sensuale Nadia Litz) e Berst (Tanaya Beatty), oscure addette dell’azienda che produce gli strumenti che utilizza Tenser. Ma un po’ di pessimismo è da mettere in preventivo, almeno a livello narrativo, in un simile contesto. 

Piuttosto, a fronte di questa dichiarazione di impegno civico e morale, per il quale Lang è pronto ad offrire il corpo del figlio – e finirà lui stesso sacrificato – Tenser/Cronenberg riflette sulla vacuità del suo lavoro. I suoi organi vestigiali che si riproducono e vengono rimossi durante le esibizioni con Caprice, sono metaforicamente i film di Cronenberg: qualcosa artisticamente anche valido, o riconosciuto come tale, ma di cui l’autore ammette in un certo senso il limite di essere un po’ fini a sé stessi. E’ un’autocritica eccessivamente severa, quella del canadese, perché non c’è stato un altro cinema che ha analizzato con lucidità la realtà contemporanea come il suo. Eppure il rischio di finire sterilizzati una volta assoldati dalle grinfie del perbenismo, in una società che fa del tatuaggio – un tempo sentito segno religioso e in seguito addirittura additato come marchio d’infamia – il principale elemento distintivo del superficiale conformismo sfrenato di questi tempi, non è da sottovalutare. I tatuaggi sugli organi vestigiali di Tenser sono uno degli emblemi di questo
Crimes of the Future: da sempre hanno affascinato l’autore canadese, espressione del verbo che si faceva carne. Ma ora il pericolo è che anche il cinema di Cronenberg, alla stregua dell’arte del tatuaggio, possa divenire uno strumento di omologazione. Vedendo il suo film, con la solita scarsa facilità di fruizione, verrebbe da dire che è un rischio davvero minimo; ma del resto il regista nato a Toronto si ritaglia il ruolo di infiltrato, e non certo quello di portabandiera. Eppure, forse non è un caso se, nel film, l’uomo che con il suo lavoro eticamente imprescindibile aveva impresso una svolta positiva e cruciale nella storia dell’umanità si chiamasse proprio Lang. Chissà, forse c’è un’altra connessione o è un semplice nome come un altro. Ma in questo frangente ci piace pensare a Fritz Lang, che è stato il regista il cui rigore morale ha contraddistinto l’opera come nessun altro autore nella settima arte. Ecco, se vogliamo, così come Tenser in chiusura sembra finalmente trovare sollievo nella barretta sintetica alla plastica, anche i tormenti di Cronenberg possono trovare soluzione nella moralità del maestro viennese.
Posto che non l’avessero già fatto. 



Léa Seydoux




Kristen Stewart




Nadia Litz






Denise Capezza 



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