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sabato 9 agosto 2025

LA BATTAGLIA DI VERDUN

1711_LA BATTAGLIA DI VERDUN (Le grandes battailles Verdun), Francia 1966. Regia di Daniel Costelle 

Premiato in patria con il premio Grand Prix de la Critique de télévision, Verdun, il documentario di Deniel Costelle, è un testo ricco di immagini di repertorio ed interviste a protagonisti dell’immane battaglia. Da un certo punto di vista, la battaglia di Verdun si presta meglio ad essere raccontata da un documentario piuttosto che da un prodotto di finzione: a vederla oggi si tratta di un’operazione talmente priva di senso che se fosse parto della mente di uno scrittore per il cinema rischierebbe di risultare poco credibile. Invece fu proprio per una serie di puntigli, che rispondevano ad una loro logica, per quanto contorta, che si mandarono al macello centinaia di migliaia di soldati. Pur in un contesto bellico, è infatti la cifra in termine di vite umane a rendere poco plausibili le scelte dei comandi militari: va bene l’importanza strategica e simbolica di Verdun, va bene il tentativo di fiaccare il morale dei nemici con un’azione di grande impatto emotivo, va anche bene il motto francese "Ils ne passeront pas!" (non passeranno) ma sull’altro piatto della bilancia il conto di sangue fu inaccettabile. Era per’altro proprio lo scopo tedesco: dissanguare la Francia e farlo a Verdun. Il regista Daniel Costelle mostra le terrificanti scene di battaglia inframezzate a testimonianze, anche tedesche, a prova di una più che accettabile ricerca di imparzialità. Non sono passati molti anni, poco più di cinquanta, e i reduci hanno impresso bene in mente quello che accadde. Le loro voci e il puntuale commento ci permettono di conoscere i luoghi del massacro, le dinamiche delle azioni, l’andamento di una battaglia che si protrasse per mesi e mesi. Immagini terribili pensando anche e soprattutto che si tratta di documenti, di immagini dalla credibilità storica: quando la realtà supera la più macabra fantasia.  


sabato 7 giugno 2025

INGHILTERRA NUDA

1680_INGHILTERRA NUDA , Italia, 1969. Regia di Vittorio De Sisti

All’interno del giro del mondo che incarna lo spirito degli pseudo-documentari, prosegue la recente attenzione data ai paesi più sviluppati della civiltà occidentale. Vittorio De Sisti si incarica di andare a sbirciare dal buco della serratura di quello che succede in Inghilterra, e a Londra in particolare, indiscutibilmente uno degli snodi nevralgici del pianeta. Soprattutto in quegli anni Sessanta che, seppur stessero finendo, avevano visto la british invasion, capitanata dalla band musicale dei Beatles, tornare a dominare il mondo. In realtà, De Sisti, non sembra cogliere l’aspetto complessivo del fenomeno, concentrato com’è a cercare, nel puzzle filmico che compone Inghilterra nuda, ogni pretesto per mostrare le bellezze d’Albione al naturale. Del resto il titolo lo chiarisce subito e la deriva sexy dei Mondo movie, in fondo, non si era mai sopita del tutto, nemmeno quando aveva preso piede la sua controparte, quella sadico-violenta. La critica, al tempo, liquidò sbrigativamente il film: “Scotland Yard indaga sull’uccisione di una bambina in St. Bartholomew Park. Si vede il cadaverino (ma è una bambola) e gli agenti che lo compongono. Il commento si rivolge alla vittima, definita un'ingenua che era andata nel bosco per trovarvi Cappuccetto Rosso ed è invece incappata nel lupo: ma, come nella favola della nonna, toccherà alla polizia fare giustizia di chi non è buono. É questo uno dei vari reportage del documentarlo Inghilterra nuda e ne indica chiaramente i limiti. Vittorio De Sisti offre materiale non sempre di prima mano e di buon gusto e comunque mai illuminato da un'autentica idea di regia”. [Un curioso a Londra, Stampa Sera, anno 101, n. 111, 14, 15 maggio 1969, pagina 8]. Tuttavia alcuni passaggi, si lasciano ricordare, soprattutto per i particolari più scabrosi, che peraltro rendono particolare il film di De Sisti. Tra questi c’è senz’altro il club, inteso come sorta di locale, agghindato in stile nazista, con i camerieri che maltrattano i clienti, e la crocifissione volontaria a cui si sottopone un tizio. Più prevedibili i passaggi con il catch femminile, il teatro sperimentale che si riduce ad un’orgia collettiva, la nude-fashion, una presunta nuova tendenza della moda, e le ragazze completamente senza veli in una fattoria fuori Londra. Ritorna all’interno del genere mondo, dopo qualche film in cui se ne erano un po’ perse le tracce, il tema del transessualismo, con lo scrittore che si innamora del proprio domestico e decide, per poterlo sposare, di cambiare sesso. Tra i passaggi particolarmente assurdi merita una menzione il tipo che pratica dei buchi nella calotta cranica dei suoi pazienti per migliorare l’irrorazione di sangue nel cervello. Bella, nel complesso, la fotografia di Marcello Masciocchi; tra le scene memorabili, si può citare la ragazza nuda con il corpo dipinto dalla Union Jack, la bandiera britannica, che chiude il documentario camminando sulla neve. Notevole la colonna sonora di Piero Piccioni, e note di merito per la sua Richmond Bridge, cantata in modo convincente da Lydia MacDonald, già interprete per alcuni brani in Svezia inferno e paradiso. Eccezionale, poi, il manifesto del film, opera del maestro Sandro Simeoni (Symeoni), che, da solo, giustifica l’intera operazione cinematografica.   





  

         

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


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giovedì 5 giugno 2025

EASTERN FRONT

1679_EASTERN FRONT (Shidniy front), Stati Uniti, Ucraina, Lettonia, Repubblica Ceca, 2023. Regia di Vitaly Manskiy e Yevhen Titarenko

Quasi verso la fine di Eastern Front, Yevhen Titarenko, tra il serio e il faceto, prova ad immaginare come finire il documentario di cui, insieme al decano Vitaly Manky, è regista. La riconquista di Kherson, che ne farebbe la prima grande città ripresa ai russi dopo la violenta invasione cominciata il 24 febbraio 2022, sarebbe un finale a suo modo soddisfacente. Titarenko prova anche a formulare alcune ipotesi più ottimistiche: se Fronte Orientale fosse un film di guerra, un film «di genere», allora, ad essere liberata sarebbe l’intera Ucraina, Donbas e Crimea compresi. Se poi fosse un film di Science Fiction, allora il giovane regista immagina la Piazza Rossa in fiamme, cadaveri sparsi ovunque, la salma di Lenin oltraggiata, insomma, per Titarenko è fantascienza poter rendere quello che si dice «pan per focaccia» agli invasori. Anche in questo passaggio, che sembra un innocuo diversivo per annunciare la fine del documentario, c’è un bell’esempio dell’umorismo ucraino: mentre si finge di fare una battuta feroce contro il nemico, si dichiara la propria impotenza a fronte di una situazione ingiusta e insostenibile. Eastern Front è frutto della collaborazione tra Vitaly Mansky e Yevhen Titarenko: stando ai titoli di coda, il primo è autore e regista; il secondo è regista e direttore della fotografia. In pratica, si tratta di un’operazione metalinguistica simile, per restare nell’ambito dei film che trattano la crisi russo-ucraina, all’ottimo The Earth is blue as an Orange [The Earth is blue as an Orange, Iryna Tsilyk, 2020] della bravissima Iryna Tsilyk, ovvero un documentario che mostra come venga realizzato un documentario. In questo caso abbiamo Mansky che dirige, per così dire, «dall’esterno», nel ruolo di supervisione generale peculiare del regista cinematografico; dal canto suo Titarenko, «interpreta» la parte del regista d’assalto, tipico dei documentari, colui che si reca sulla scena dei fatti per prendere le notizie di prima mano. Il tema metalinguistico è quindi strutturale, in Eastern Front e, come già visto, in chiusura viene anche sottolineato in modo evidente, con Titarenko che immagina tre finali diversi in base agli ipotetici «generi», documentario, film bellico o di fantascienza. Ma c’è anche l’esplicito rimando agli spaghetti western, visto che, ad un certo punto, si sente il celebre tema musicale di Per qualche dollaro in più [Per qualche dollaro in più, Sergio Leone, 1965] di Ennio Morricone; un richiamo forte, considerato che, del cinema di «genere», il western all’italiana è forse l’esempio più sfacciato. Per quale motivo Mansky –che dei due registi è l’«autore», almeno stando ai credits– vuole sottolineare che Eastern Front è sì un documentario, ma è cinema esattamente come gli action movie bellici, i film di fantascienza e persino i western di Sergio Leone e compagnia? Perché Vitaly Mansky –che, tra i tanti incarichi di prestigio ha ricoperto anche quello di Responsabile della Produzione e della Trasmissione di Documentari per TV Russia, il primo canale pubblico del Paese, dirigendo personalmente documentari su Gorbaciov, Eltsin e Putin– conosce molto bene la differenza tra il cinema e gli altri media audiovisivi. Il cinema è sempre soggettivo e lo mette subito in chiaro, ribadendo l’importanza di chi dirige le operazioni e che, con la sua attività, offre sempre e comunque solo il suo personale punto di vista, che può anche essere collettivo se frutto di collaborazione, ma è sempre riferito al lato umano dei soggetti coinvolti. Naturalmente anche la televisione o internet sono soggettivi, ma cercano di dissimulare questa caratteristica spacciandosi per media «trasparenti». Mansky vuole evidenziare proprio questa caratteristica autoriale e personale –artistica in una parola– del cinema: mette infatti in scena un regista, Titarenko, che dirige un film ambientato in prima linea, nella guerra russo-ucraina. Per questo è possibile vedere i «dietro le quinte», perfino i dialoghi su come cercare di finire un documentario che, per sua natura, dovendo seguire delle vicende reali, non ha necessariamente una chiusa definibile a piacimento. Inoltre, ad inizio film, viene sottolineato come il nome di battaglia di Titarenko sotto le armi sia Rezhik, abbreviazione di Rezhiser, che significa appunto direttore, regista. Il giovane cineasta ha in effetti anche un ruolo di rilevanza nel Battaglione Hospitallers, un gruppo di volontari che si occupa di recuperare i feriti e portarli nei posti di soccorso. Insomma, Titarenko è regista dentro e fuori lo schermo, a sottolineare la natura metalinguistica dell’opera.  

Per Vladan Petkovic, recensore del sito Cineuropa.org, Eastern Front è “il documentario definitivo sui primi sei mesi dell’aggressione russa all’Ucraina”. [pagina web https://cineuropa.org/it/newsdetail/439199/, visitata l’ultima volta il 2 dicembre 2024]. Un’investitura mica da ridere, ma pienamente meritata da Mansky, Titarenko e i loro collaboratori: Eastern Front è un film notevole sotto ogni aspetto. Titarenko, con i suoi compagni, nello svolgere la fondamentale attività di soccorso, può attingere ad immagini direttamente dalla Prima Linea, e questo è già un valore assoluto per il documentario. Cosa che, per altro, si era già vista nel precedente lavoro del regista, Vouna Rady Myra/War for Peace; ma, con il suo apporto, Mansky cerca di andare oltre al semplice resoconto. In aggiunta a ciò, infatti, il film mostra una rara efficacia nel raccontare per immagini, anche attraverso l’ordine del montaggio delle scene, e qui è, appunto, assai probabilmente, la sapiente mano di Mansky a fare la differenza. L’avvio del film coglie la curiosa coincidenza della ricorrenza del Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina, il 24 agosto, che coincide con i sei mesi dall’inizio della guerra: i carri armati russi arrugginiti abbandonati per le strade di Kyiv sono efficaci monumenti al pericolo che ancora sovrasta l’Ucraina e la sua indipendenza. Poi si entra nel vivo dell’azione: una corsa a perdifiato in l’ambulanza, il ferito grave, molto grave, troppo grave, e bisogna andare veloci ma, allo stesso tempo, vanno possibilmente evitati scossoni e bruschi cambi di direzione. Il tempo stringe, il ferito è ferito ovunque, in ogni parte del corpo o quasi; il percorso è difficoltoso, ci sono le barricate da schivare, così come le buche della strada bombardata, mentre niente si può fare per i dossi artificiali ancora presenti sulla carreggiata, ma occorre fare in fretta. La telecamera inquadra l’interno dell’ambulanza, il caos coi soccorritori che si affannano e, nella concitazione, il ferito è visto solo di sfuggita. Poi, quando forse è troppo tardi, la telecamera sale e mostra la gravità della situazione, l’uomo ha il colore della morte sebbene gli addetti si affannino col massaggio cardiaco e l’ossigeno nell’estremo tentativo di riportalo in vita. Una scena traumatizzante; ma Mansky sa bene che non è brutalizzando gli spettatori che riuscirà a rendere la pesantezza della situazione nel suo Paese, e allora concede subito un po’ di respiro, con uno stacco radicale. Siamo da qualche parte nell’ovest dell’Ucraina, i ragazzi del Battaglione Hospitallers sono in costume da bagno, nei pressi di un lago, conversando tranquillamente sulla situazione, immersi nella calda luce solare. L’argomento più interessante è la costatazione di come la generazione precedente, quella dei genitori di questi giovanotti, sia stata talmente forgiata dal regime sovietico al punto che, per Putin e la sua propaganda televisiva, è un gioco da ragazzi imbottirgli la testa di falsità. Un membro del gruppo racconta di come sua madre fosse talmente convinta che i russi non fossero coinvolti negli scontri al fianco dei separatisti nel Donbas, al punto di non credergli quando le diceva di averli combattuti in prima persona. La donna riteneva più attendibili le bugie raccontate da un elettrodomestico piuttosto che la verità vista da suo figlio coi suoi propri occhi. Il montaggio prosegue alternando scene belliche, evidenziate da una luce dominante color seppia, ad altre prese da attimi di vita lontani dalla prima linea. 

Questo permette di confrontare le due situazioni, riportando sempre la realtà della guerra alla sua assurdità in rapporto alla normalità della vita quotidiana. Intanto, ci sono un paio di passaggi dal fronte insoliti, che servono a far ulteriormente riflettere lo spettatore sulla scala di gravità in cui si trova un Paese sotto brutale aggressione. La prima scena è spiazzante: i ragazzi protagonisti del documentario trovano alcune vacche di una fattoria che sono state abbandonate e sono ora immerse completamente nella palta e nel fango, bloccate senza alcuna possibilità di fuga. I giovani provano a tirarle fuori da questa sorta di sabbie mobili ma non c’è niente da fare per le povere bestie. Può sembrare strano, in un film che racconta della guerra, di soldati morti a decine, di civili massacrati, di città distrutte, ma vedere degli animali domestici lasciati agonizzare stringe il cuore. In fondo, le bestie, che colpa hanno della follia umana? Uno dei presenti commenta efficacemente: “È come l’Inferno di Dante!”. Davvero. L’altra scena che sorprende completamente lo spettatore è quella in cui uno dei militari entra in una residenza e viene aggredito dal cane di casa; l’uomo spara ripetutamente all’animale, lo insegue, continua a sparargli, finché non lo uccide. Una reazione spropositata, come sembra sottolineare anche uno dei presenti alla scena. In guerra, per quanto assurdo possa sembrare, ci si abitua al concetto di uccidere il nemico, che è costituito da persone come noi soltanto con un’altra divisa; o anche senza, visto che le vittime civili abbiamo imparato a considerarle come «effetti collaterali». Forse non è una cosa che accettiamo, nel nostro profondo, semplicemente è come se sospendessimo il giudizio morale sulla questione. Basta che l’oggetto nel mirino del mitra sia un animale domestico e non un umano, perché che questa sospensione decada e assistere all’uccisione di un cane ci turba. Genialità degli autori. Con questi carichi emotivi la tensione si accumula, seppure le scene con le riunioni famigliari tengano la situazione sotto controllo, ma nel complesso il documentario trova una strada originale per raccontare la guerra russo-ucraina, rispetto agli altri prodotti simili. Non che se ne dissoci, sia chiaro: forse sono solo coincidenze, ma non mancano nemmeno stavolta le tende svolazzanti delle finestre sventrate, simili a fantasmi, forse il cliché figurativo per antonomasia di questa guerra. E non manca nemmeno il tema della paura ucraina di venire cancellati dall’umanità, una vera fobia che certifica, più di ogni altra cosa, la brutalità degli invasori. C’è la solita ironia ucraina, per cui, in quest’occasione, si va sull’argomento parlando di una possibile raccolta dello sperma degli uomini impegnati al fronte prima che, con la loro morte, non si estingua del tutto l’etnia ucraina. Una preoccupazione che affligge le compagne dei nostri protagonisti, che sembrano quasi scherzarci su, ma che rivela la radicata preoccupazione ucraina di venire eliminati più che sconfitti. Questi dettagli, comuni agli altri documentari, sembrano ascrivere consapevolmente Eastern Front al filone dei film sulla guerra russo-ucraina, del resto Mansky e Titarenko hanno sottolineato in più modi che il loro è vero cinema e non un banale reportage. E, come il vero cinema, riserva un gran finale, seppure non si può certo dire che sia lieto, anzi. Dopo avercene dato un assaggio subito in apertura, con la citata scena dell’ambulanza, dopo averci mostrato il rapporto tra la guerra e la vita quotidiana, dopo aver sottolineato la gravità della situazione, dimostrando quanto gravi sono le sofferenze inflitte agli animali, si arriva al nocciolo, il fronte durante la battaglia. La scena è veloce, brutale come un’incursione, il bosco brullo, pattume sparso ovunque, poi l’esplosione, il fumo, le grida. Si fatica a raccapezzarsi, a capire quello che succede, la telecamera, un Iphone posto nel taschino di Titarenko, rotola insieme al regista, il mondo va sotto sopra ma tutto ciò conta poco al confronto con l’immagine della morte, dei caduti in battaglia, o forse sono solo feriti, chi può dirlo; ma, nel caso, devono essere davvero gravi. Gli Hospitallers ne raccolgono uno e via, di corsa a perdifiato verso il mezzo di soccorso. Il fiatone, qualcuno dice che è tutto ok, la telecamera inquadra il cielo lattiginoso tra i rami spogli poi lo schermo dissolve in un bianco abbagliante. È dunque questo, il destino dell’Ucraina? Sparire nel nulla? È un rischio, certo, ma Mansky e Titarenko hanno ancora qualcosa da dire. Una didascalia finale ci informa che i personaggi del film hanno parlato tra loro in russo e in ucraino. In un film ucraino, che racconta di come gli ucraini debbano combattere per non venire cancellati dagli aggressori, gli autori sottolineano l’utilizzo, nel loro film, della lingua russa, che è il primo elemento che contraddistingue un popolo. L’Ucraina ribadisce il suo diritto di esistere riconoscendo l’esistenza di chi la vuole eliminare. 





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domenica 25 maggio 2025

WE WILL NOT FADE AWAY

1673_WE WILL NOT FADE AWAY Ucraina, 2020. Regia di Alisa Kovalenko

Cinque anni di attività bellica insistente e martellante, dal 2014 al 2019, potevano lasciar intendere che il destino della gente del Donbas, fosse quello di rimanere completamente tagliati fuori dal mondo. La Guerra del Donbas è stata tremenda e ne vediamo gli effetti nell’eppur splendide scene di We will not fade away, documentario con una storia da raccontare di Alisa Kovalenko. Immagini stupende, nonostante le macerie e la devastazione inquadrate, merito dell’ottima fotografia della Kovalenko e Serihiy Stetsenko. Il significato del titolo, in inglese anche nell’edizione originale, è Noi non svaniremo, che sembra un po’ la preoccupazione di Andriy, Liza, Lera, Ruslan e Illia, i cinque adolescenti protagonisti del film. Se l’Ucraina è già una terra di confine, tra l’Europa e il Russkiy Mir [Mondo Russo], in quest’ottica il Donbas ne è il punto ancora più estremo. Nel film, i giovani protagonisti utilizzano un linguaggio più colorito, per esprimere il concetto, ma il significato è la palpabile sensazione di essere completamente tagliati fuori dal «villaggio globale». Tra cinquant’anni, ipotizza uno di loro, il nostro paesino non esisterà più. Insomma, Alisa Kovalenko cerca di farci comprendere la preoccupazione dei suoi giovani concittadini che non riescono a vedere un futuro per le loro vite. E questa era la situazione, a Stanytsia, Oblas't di Luhans'k, Donbas, Ucraina, nel 2019, quando la Kovalendo cominciò a girare il suo film. Un’opera anche complessa, se si considera che il centro del racconto è rappresentato da un viaggio in Himalaya per i cinque adolescenti. Il che è un momento clamoroso, un sogno che si concretizza per questi ragazzi, che sembra davvero che possano sfidare e vincere il proprio destino. Andare sull’Himalaya, grazie all’intercessione di Valentin Sherbachov, un famoso esploratore ucraino, non è cosa che capiti a chiunque e che un desiderio tanto ambizioso venga esaudito per i nostri baldi giovanotti del Donbas potrebbe essere una svolta decisiva. Il che, sarà vero solo in parte. Perché, si è detto, i tempi di realizzazione del film sono stati lunghi e, nel frattempo, era cominciata l’invasione su larga scala che ha fatto sembrare la Guerra del Donbas combattuta fin lì un semplice aperitivo bellico. “Cinquant’anni e qui non ci sarà più niente”, diceva preoccupato uno dei ragazzi, senza rendersi conto di quanto fosse ottimista. E, forse, quando pensavano a Stanytsia come l’«ass-hole» del mondo, perché non se la filava nessuno, non immaginavano che fosse una condizione di cui poter aver rimpianto. La Kovalenko è una regista brava e sensibile, le sue immagini sono belle e poetiche, la musica –Wojciech Frycz, Blink-182,  Radiohead– è evocativa, il film lavora bene sul piano emotivo. E quando, dalla didascalia finale, apprendiamo che di due dei cinque ragazzi, i due rimasti nella zona sotto occupazione, non si hanno più notizie, l’emozione cristallizza in tristezza e sconforto. 






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lunedì 19 maggio 2025

100% OFF

1670_100% OFF, Ucraina, 2023. Regia di Sashko Protyah

Dal punto di vista formale, il mediometraggio 100% Off di Sashko Protyah, composto da filmati di differenti formati e integrato dai disegni animati di Natasha Tzeliuba, più che sperimentale, si potrebbe definire «sfidante». Una sfida, quella dei due cineasti ucraini che fanno parte del collettivo Freefilmers, non solo formale ma radicale, sia nell’aspetto del film che nel suo opporsi concettualmente tanto all’oppressione russa che al sistema capitalistico a cui ha aderito l’Ucraina. Il tema, intorno al quale ruotano le immagini, i dialoghi e le affascinanti animazioni, sono i saccheggi avvenuti a Mariupol' nella primavera del 2022, quando la città portuale fu costantemente sottoposta a bombardamenti. Certamente quello dei saccheggi, delle ruberie e delle vili speculazioni è un fenomeno che, in questi casi, affligge puntualmente i luoghi già colpiti da queste tragedie. È successo a Mariupol', è successo in altre mille città bombardate dalla guerra, ed è successo perfino dove sono i terremoti o altre calamità naturali a portare distruzione. Non è, però, tanto l’inclinazione dell’uomo a dare il peggio di sé quando le circostanze sono pessime ad interessare gli autori del film. Anche perché questa tendenza è bilanciata, e lo abbiamo visto proprio nell’altro lavoro di Protyach, My favorite job, da una forza uguale e contraria, ovvero quella di coloro si prodigano per aiutare il prossimo in queste situazioni. Ci sono un paio di passaggi che è utile citare per cogliere, probabilmente, il vero senso di 100% Off: il più esplicito è quello che chiude il film, interamente illustrato dai poetici disegni di Tzeliuba, nel quale si racconta come Kiusha, con il compagno e il cane, si avventurino nella città in macerie alla ricerca di latte per i bambini. C’è da aver paura, visto il contesto, ma in tre si possono fare almeno un po’ di coraggio l’un l’altra. Di latte non se ne trova ma, ad un certo punto, accanto ad un carro armato in fiamme, scorgono una stazione di servizio distrutta dal bombardamento. Tra gli scaffali rovesciati e in rovina, Kiusha riesce a trovare intatta una bottiglia di liquido infiammabile per caminetti, che andrà bene per accendere il fuoco, dal momento che la legna che hanno è tutta bagnata. È anche questo un saccheggio, sembra provocatoriamente chiedere nella sua chiusa Protyah? Formalmente sì, che si può dire. Eppure è chiaro che, a fronte di una tragedia immane –un numero incalcolabile di vittime, di traumi, di dolore, di sofferenza– voluta e ottenuta scientemente, il recupero –si può davvero parlare di saccheggio? seriamente?– di una bottiglia di alcool può avere una qualche –anche concettuale, simbolica, quel che si vuole– rilevanza? Ma, qui –adesso qui sì– entra in gioco il punto di vista morale della questione: se saccheggiare, in taluni casi, è tollerabile, chi stabilisce quali siano questi casi? Una guerra? Una carestia? La sopravvivenza? E che tipo, che livello, di sopravvivenza? È qui che i contorni si fanno sfumati e le regole del sistema capitalistico vanno in crisi. Ma c’è un altro momento, forse ancora più consono, per cogliere il nocciolo della questione. Ad un certo punto, scherzando, in un dialogo, si osserva come, per sopravvivere alla guerra, sia necessario vivere in una zona dove ci siano parecchi supermarket. Da notare anche il successivo riferimento all’«algoritmo» che, nella logica della battuta, avrebbe generato questa conclusione. L’algoritmo è forse il più grande totem della società capitalistica attuale, un concetto o riferimento che giustifica le peggiori nefandezze in virtù di una presunta scientificità che ne santifichi i presupposti. La realtà è che non serve l’algoritmo fittizio di 100% Off e nemmeno serve vivere in una città bombardata, per comprendere come la logica capitalistica sia contraria alla sopravvivenza di ciascuno, a meno che non risponda al profilo del consumatore ideale. In genere, nella mia attività di scrittura, non faccio riferimenti personali ma, per una simile occasione, farò un’eccezione. Vivo in Italia, in una cittadina perfettamente servita di ogni genere di servizio e infrastrutture; se non che, io personalmente abito in una frazione lievemente periferica. Particolare irrilevante se hai la patente, l’auto o, volendo anche la bicicletta. Ma una mia vicina di casa è sola, se non per il suo cagnolino e, forse mi è venuta in mente proprio guardando Kiusha camminare col suo cane. In ogni caso, la mia vicina è una donna anziana, non guida, non ha l’auto, non ha la bicicletta, né può andarci, vista l’età e la pericolosità delle strade. Nella mia frazione c’è una chiesa, memoria di un tempo in cui il Bettolino era una comunità, piccola ma con tutti i servizi necessari e indispensabili a ciascuno, a portata di cammino. Oggi è rimasto un panetterie, tre ristoranti –che in Italia non si morirà mai di fame– il British college e due saloni di parrucchiere. Non c’è una farmacia, un fruttivendolo, un’edicola, un macellaio; certo, a cinque minuti d’auto sono raggiungibili numerosi supermercati e centri commerciali, con buona pace della mia vicina e del suo cagnolino che, finché ne hanno la forza, vanno in giro a piedi. Parafrasando il buon vecchio Bogey ne L’ultima minaccia: «È la libertà, bellezza!». Almeno quella in chiave capitalista.

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sabato 17 maggio 2025

MY FAVORITE JOB

1669_MY FAVORITE JOB, Ucraina, 2022. Regia di Sashko Protyah

Mediometraggio sperimentale, My favorite job, racconta di come alcuni autisti volontari aiutino i civili ad evacuare da Mariupol, presa brutalmente d’assalto dall’invasione su larga scala russa. I protagonisti sono Ania e Yura, che raccontano le loro peripezie per attraversare i posti di blocco, con i militari filorussi particolarmente suscettibili di fronte all’operato dei volontari. La situazione è particolarmente tragica, ma i due attivisti la stemperano con massicce dosi di ironia nera, indispensabile per reggere l’urto dell’orrore bellico. Sashko Protyah, fa un gran lavoro assemblando filmati di formato diverso, interviste e scene dell’Ucraina distrutta dai pesantissimi bombardamenti, alle quali integra alcuni passaggi in computer grafica (Vova Morrow). Il problema principale, infatti, era filmare proprio dove si concretizzava parte della missione di Ania e Yura, ovvero il percorso tra  Mariupol' e Zaporizhzhya, disseminato di posti di blocco presidiati da militari russi particolarmente suscettibili a qualsiasi attività di documentazione della faccenda. L’aspetto quasi onirico di queste sequenze, enfatizzato da alcune scelte registiche –l’oscurità, una sorta di velata foschia, gli occhi demoniaci dei soldati, nere sagome minacciose– alimentano l’aspetto orrorifico della guerra. Nel finale, una carrellata sui volti delle persone messe in salvo da Ania e dai suoi volontari, ne propone le immagini ingrandite 5600 volte: non si riesce a coglierne le espressioni, così come è impossibile comprendere la tragedia che hanno dovuto sopportare. Se i soldati russi sono rappresentati come veri e propri diavoli, gli evacuati rischiano di essere fantasmi di loro stessi, come mostrato dagli sfuggenti ritratti conclusivi. Un destino atroce e ingiusto. Il titolo dell’opera fa riferimento alle parole di  Yura che, ad un certo punto, è bandito dalle terre occupate in quanto accusato di spionaggio: se vi verrà catturato, verrà passato per le armi senza troppe cerimonie. Yura, che aveva già perso il suo appartamento, non sembra farne drammi –ma è solo una diversa forma di sarcasmo per sopportare quest’ennesima ingiustizia– e si limiterà a dare una mano restando nei territori liberi dall’occupazione. La domanda che viene posta, a questo punto, è se il volontario non provi anche una sorta di sollievo, non dovendo recarsi nuovamente nei luoghi più pericolosi, avendo cioè una scusa valida per non farlo, una sorta di giustificazione morale. Ma Yura è consapevole di quello di cui l’han privato e risponde in modo sibillino: “È stato come perdere il tuo lavoro preferito” significa, infatti, vedersi privato della libertà. Non è importante se questo sia più o meno sicuro, se comporti più o meno rischi per la tua incolumità. La libertà non è questione di sicurezza ma, piuttosto, è un diritto inalienabile e, quella ucraina, è esattamente l’obiettivo da colpire e distruggere dall’Operazione Militare Speciale putiniana. 

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giovedì 15 maggio 2025

SCHOOL NUMBER 3

1668_SCHOOL NUMBER 3 , Germania, Ucraina, 2017. Regia di George Genoux e Yelizaveta Smit

Presentato alla 67sima Berlinale, School Number 3 di George Genoux e Yelizaveta Smit è un documentario ambientato a Mykolaïvka (Nikolaevka in russo), una cittadina di 15.000 abitanti, situata nel Donbas e contesa strenuamente da separatisti e nazionalisti ucraini. Nel 2017, quando il film venne girato, era già ripassata in mano ucraina, dopo essere stata occupata dalle forze della Repubblica Popolare di Donetsk; in ogni caso si trova in una posizione che, a tutt’oggi, non si può dire del tutto definitiva. Il documentario lascia libertà di espressione a tredici adolescenti, alunni della Scuola Numero 3 a cui si riferisce il titolo dell’opera, che condividono qualche passaggio della loro vita, mettendo in genere al centro del racconto un oggetto o qualcosa di molto specifico. Si tratta di una forma originale di cinema, mutuata dal «teatro documentario» che i due co-registi avevano già sperimentato. Proprio a Mykolaïvka, nel 2015, Genoux, era arrivato insieme ad altri artisti di Kyiv, membri del gruppo New Donbas, per ricostruire la Scuola Numero 3, distrutta da un missile che non si era riusciti a capire quale provenienza avesse. Il regista è tedesco ma ha studiato in Russia: un paese che ama anche se odia quello che sta facendo il Cremlino [sue dichiarazioni prese dal sito Taz.de, pagina web https://taz.de/Theater-im-Krieg/!5200597/, visitato l’ultima volta l’11 novembre 2024], e, forse, è proprio per risolvere questa contraddizione che l’artista si dà questo gran d’affare per dare voce a chi, di solito, la guerra la subisce e basta. Genoux, a quel tempo, aveva allestito lo spettacolo teatrale My Mykolaïvka, collaborando già allora coi ragazzi della scuola, aiutandoli a costruire meglio i monologhi, e aveva chiesto loro di portare qualche oggetto su cui focalizzare l’attenzione dello spettatore. Lo stesso sistema è poi stato utilizzato per realizzare School Number 3, dove è intervenuta, come co-regista, anche Yelizaveta Smit, un’altra artista che ama e conosce il «teatro documentario». I racconti degli adolescenti sono interessanti, curiosi, commoventi ma, forse proprio per il formato del lungometraggio, la noia può affiorare qua e là. Non è una connotazione poi così negativa: naturalmente è ovvio che lo spettatore prediliga essere divertito, anche al cinema, ma, forse, alcune emozioni hanno bisogno di un percorso diverso, che passa anche da momenti di stanca, e, sempre rimanendo nel campo delle ipotesi, non è un male imparare ad adeguare la propria capacità di fruizione a ritmi che non siano necessariamente frenetici. Questi ragazzi, che raccontano storie semplici, stanno mettendo sullo schermo, di fronte a noi, la loro vita e, nonostante il lavoro di costruzione che ci possa essere alle spalle, non si può pretendere che le loro vicende abbiano il ritmo narrativo di un film d’azione. Tuttavia, è innegabile che siano storie vere, toccanti, anche nella loro semplicità, nella loro ingenuità, nel loro candore, anche quando i ragazzi bisticciano scioccamente tra loro perché alla moto si è bruciata la frizione. Tra i monologhi che restano più in mente c’è quello di Alina Kobernik con le miniature della Torre Eiffel collezionate dal padre, anche perché l’idea di Genoux di associare un oggetto al racconto rivela qui tutta la sua efficacia. Certo, l’esperienza narrata della giovane ha ben altra vetta emotiva, ovvero quando racconta della prima esplosione, di come sua madre ne fu terrorizzata e la chiamò per la prima volta “figlia”: un appellativo che, per Alina, da quel giorno in poi, sarà sempre associato alla paura, ai bombardamenti. Ma tutti i vari spezzoni hanno momenti intensi: dal ragazzo che non comprende come si possa fare la guerra, lui che non è in grado di uccidere un insetto, al timido che si emoziona mentre è in videochiamata con la ragazzina del cuore, alla ragazza che ricorda di aver tagliato una tenda di casa per giocare a fare la sposina, e, quando si rese conto del danno che aveva combinato, temeva di venire sgridata. Invece i suoi genitori risero, di fronte alla cosa, e non la punirono affatto. Dovrebbe essere un ricordo dolce ma, quando ripensa a quei tempi, non può fare a meno di rammentare un amico morto a causa della guerra. La tenda è rimasta e il suo amico non c’è più. I racconti hanno un retrogusto amaro, questo è anche logico visto che i ragazzi sono stati tutti, chi più chi meno, toccati direttamente dall’immane tragedia bellica. Curiosamente, e anche in modo un po’ inquietante, i registi lasciano spazio solo verso la fine del documentario a Viktoria Gorodynska, che già aveva impressionato Genoux ai tempi della rappresentazione teatrale. Viktoria è innamorata di un ragazzo secessionista, per il quale aveva confezionato un braccialetto coi colori della Russia; non si interessava di politica, ma delle persone, diceva. E amava quel ragazzo. Poi però qualcosa era cambiato e, pur continuando a provare sentimenti per lui, non riusciva più a gestire la cosa, era in crisi. Fino al giorno prima aveva indossato il braccialetto coi colori della Russia; adesso, costretta a scegliere tra l’amore per il fidanzato e quello per il suo paese, si ritrovava incapace rimetterselo al polso. Il ragazzo allampanato che ascolta i Radiohead ci prova, a farle dimenticare il coetaneo filorusso, ma il suo è un vano tentativo; forse Viktoria ha colpito Genoux perché la ragazza, nel suo piccolo, è una sorta di metafora dell’Ucraina. Parte del suo cuore batte ancora per la Russia, ma la sua mente non può più accettare questo sentimento, non dopo quello che ha visto durante la guerra. Comunque la si veda, è una storia lacerante.       

LA STUDENTESSA E L'ORSO è uno studio sulla guerra russo-ucraina attraverso il cinema. 


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venerdì 9 maggio 2025

IL SASSO IN BOCCA

1665_IL SASSO IN BOCCA . Italia, 1969. Regia di Giuseppe Ferrara

L’esordio in regia di Giuseppe Ferrara è un sorprendente ibrido tra il documentario –le scene di repertorio, la voce narrante– e il cinema di finzione –le ricostruzioni degli avvenimenti con attori– che, per autorevolezza, lascia a bocca aperta. Ferrara, del resto, è sicuro di sé e delle sue idee e il suo cinema non semina dubbi ma spara certezze a raffica, e, in questo suo procedere «a tesi» c’è il limite del regista toscano. L’argomento del film è la mafia, come si potrebbe capire dal titolo – che fa riferimento dall’uso di Cosa Nostra di infilare una pietra in bocca ai cadaveri di chi avesse parlato troppo – e, se fa piacere vedere un giovane autore affrontare a muso duro tale argomento, forse qualche semplificazione nello spiegare il fenomeno pare eccessiva. Ferrara è politicamente di Sinistra e il suo associare la Mafia al Capitalismo è certamente lecito, come tutte le opinioni, ma, per essere credibile, andrebbe motivato un po’ più a fondo. Che gli americani, durante la Seconda Guerra Mondiale, abbiano agevolato i mafiosi per poter meglio controllare la Sicilia, isola su cui prevedevano di sbarcare, è storia nota, e probabilmente si trattò di una scelta di comodo. Ferrara cerca ancora più indietro nel tempo, all’epoca dell’elezione di Roosevelt quando, stando al suo commento, Frank Costello, il noto mafioso, fu uno dei suoi più illustri elettori. Tanto per non sbagliare, il famosissimo Lucky Luciano (Bill Vanders), altro mafioso italoamericano, spalleggiò l’avversario di Roosevelt, Smith: qui Il sasso in bocca sembra davvero un Mondo movie, almeno per l’azzardo e la libertà con cui sono ricostruiti gli intrallazzi tra i vertici politici americani e i boss della mafia locale. Ma non è finita qui: stando al testo Al Capone era al servizio degli industriali per combattere il sindacato. Un parallelo tra la situazione negli Stati Uniti e quella siciliana è imbastito coinvolgendo, da una parte le compagnie monopoliste americane, dall’altra la società italiana dei baroni che mantennero, con l’aiuto della mafia, i contadini in condizioni di semischiavitù. L’avvento del capitalismo, che faceva dell’opportunismo una delle sue prerogative, permise alla mafia di trarne giovamento. Però andrebbe dimostrato, per suffragare le affermazioni con cui Ferrara introduce il suo film, che prima dello sviluppo dell’«economia di mercato» la mafia non ci fosse o fosse qualcosa di folcloristico e di relativa importanza. Ma il regista toscano è un fiume in piena e non ha tempo da perdere con chi si pone qualche dubbio: il suo schema è semplice, il Capitale si serve della Mafia per controllare i contadini e i proletari, di conseguenza, da uomo di sinistra, sono suoi nemici sostanzialmente allo stesso modo. In sostanza, la mafia è, per usare direttamente le parole del commento del film “la forma più violenta del Capitale per la conservazione dei privilegi”. Da buon cineasta militante, Ferrara insiste poi con particolare forza con le stoccate al regime fascista e alle sue collusioni con la mafia. Ma, come detto, Il sasso in bocca non argomenta su questi passaggi, che sono più che altro coordinate per capire il fenomeno mafioso, almeno secondo il regista. Proprio per questa sua scarsa riflessività Il sasso in bocca lascia piuttosto perplessi, se preso come documentario: la mancanza di approfondimento, la scarsa accuratezza di certi passaggi a favore della loro efficacia scenica, l’attenzione ai dettagli morbosi su cui in qualche momento si insiste. Un altro fattore un po’ destabilizzante è l’utilizzo di un montaggio frenetico, compulsivo, associando scene completamente diverse per veicolare parallelismi. Lo scopo di Ferrara è stupire, scuotere, e in questo la sua opera è anche funzionale; ma certi argomenti richiederebbero calma, rigore, freddezza, e, in questo senso, Il sasso in bocca non ha la necessaria lucidità. Anche l’impiego di filmati di natura e forma differente è un elemento che viene utilizzato per dare un quadro di autenticità, al testo nel suo insieme, ma, non venendo specificato di volta in volta l’origine dei vari frammenti, l’operazione risulta strumentale. Le scene di repertorio servono a far pensare che si tratti di un’opera storicamente attendibile, e anche l’utilizzo di sequenze tratte da Salvatore Giuliano, film del 1962 di Francesco Rosi, aumentano la confusione. Scene in bianco e nero di repertorio, spezzoni di finzione a colori, sequenze in bianco e nero dal forte sapore documentaristico tratte appunto dal film di Rosi; se ci fossero anche le ballerine sculettanti, sarebbe un Mondo movie perfetto e l’opera avrebbe un senso come provocazione più che come testo di approfondimento.
Ah, naturalmente, le ballerine seminude ci sono eccome. 
  







Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


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lunedì 21 aprile 2025

UKRAINIAN SHERIFFS

1656_UKRAINIAN SHERIFFS . Ucraina, Lettonia, Germania 2015. Regia di Roman Bondarchuk

Non è un film semplice, Ukrainian Sheriffs di Roman Bondarchuk, ma non perché ci sia qualcosa di complicato da capire; quello che sfugge, allo spettatore estraneo al microcosmo ripreso dal regista ucraino, è se ci sia, effettivamente, qualcosa da capire. Che si sia di fronte ad uno spaccato della realtà rurale dell’Ucraina sudorientale, d’accordo, è evidente, ma ci sono alcuni dettagli che, forse, andrebbero conosciuti, per assaporare meglio la situazione mostrata. Prima di riportare commenti che corroborano quest’impressione, che suona effettivamente critica, è però giusto tributare i meriti all’opera di Roman Bondarchuk, dal momento che Ukrainian Sheriffs è senza alcun dubbio un film interessante. Il documentario ha vinto ben due premi, il Premio Speciale della Giuria all’International Documentary Film Festival di Amsterdam e il Mayor of Gdynia al Millenium Docs Against Gravity, in Polonia, a testimonianza della qualità tecnico artistica del lavoro di Bondarchuk. Tuttavia, come scrisse Anna Yakutenko sul Kyiv Post, troppe cose vengono date per scontate e risultano quindi difficili da decifrare alcuni passaggi: “Il film mostra gli sceriffi che consegnano i documenti di chiamata (alle armi, NdA), raccolgono aiuti umanitari per i soldati ucraini e tengono un discorso ispiratore dedicato al Giorno della Vittoria il 9 maggio. Ma lo spettatore non ha mai un’idea di quale sia l’atteggiamento dei normali abitanti del villaggio nei confronti della guerra, o se cambi o si evolva durante il conflitto. Un altro forte svantaggio del film è che alcune scene potrebbero creare confusione per un pubblico straniero che non ha familiarità con le tradizioni della vita dei villaggi ucraini. Inoltre, il brusco finale del film ha lasciato alcune persone presenti alla proiezione a grattarsi la testa e a chiedersi se fosse il momento di applaudire”. Ma non solo. Il film di Bondarchuk è ambientato a Stara Zburjivka, un minuscolo villaggio a nord della Crimea, dove l’unica carica che sembra avere una qualche forma di ufficialità è il sindaco, Viktor Marunyak; questo rischia, per la verità, di essere un commento un po’ ingrato nei confronti dell’uomo che, in più di un’occasione, mostra di avere un rispetto formale, oltre che concreto, per il suo ruolo. Tuttavia è innegabile che Stara Zburjivka sia quanto di più lontano ci possa essere, o almeno quasi, dalla burocrazia della nostra realtà. E qui cominciano gli equivoci: perché Ukranian Sheriffs, come ben evidenziato dal titolo, è incentrato sugli sceriffi del paesino. Eppure, il loro ruolo non è poi così chiaro, di sicuro non è argomentato a dovere da Bondarchuk nel suo film. Fino al 2015, in Ucraina, l’unica forza di polizia era la Militsiya, un’istituzione che risaliva all’epoca sovietica e che, storicamente, era stata una forza di repressione più che d’ordine. 

Con l’indipendenza le cose erano cambiate poco, e la Militsiya continuava ad essere percepita dalla popolazione come qualcosa da temere mentre, nel resto d’Europa, la sua fama di forza di polizia più corrotta del continente, non accennava a diminuire. A Stara Zburjivka, considerato l’isolamento del villaggio e gli scarsi affari che si potevano imbastire, i poliziotti si vedevano ben raramente; in ogni caso, grosso modo mentre Bondarchuk girava il suo documentario per le sterrate stradine del paese, la Militsiya veniva sciolta. Dopo i fatti di Euromaidan, nel luglio del 2015, con il giuramento di 2000 agenti, venne istituita una nuova forza di polizia, denominata Politsiya, sebbene è evidente che prima che questi poliziotti si siano fatti vedere dalle parti di Stara Zburrjika, sia occorso del tempo. Questo è quindi lo scenario in cui si trova ad operare il sindaco Marunyak e, per cercare di tenere un minimo di ordine, ricorre alla nomina di due sceriffi, l’anziano Viktor Kryvoborodko e il massiccio Volodymyr Rudkovsky. Viktor e Volodymyr, che girano su una scassata Lada Classica gialla, sono quindi formalmente i protagonisti del documentario e, perlomeno in alcuni atteggiamenti, ricordano i personaggi di certi film americani, ma è davvero giusto un’impressione. I problemi che devono affrontare sono di natura del tutto peculiare: ad esempio, c’è un anziano signore che in inverno ha ospitato un senzatetto e questi, dopo alcune divergenze, ha danneggiato il portone dell’appartamento. Il padrone di casa si è quindi trattenuto il passaporto del vagabondo e i due sceriffi riescono ad accomodare la situazione trovando un artigiano per riparare il danno in modo che i documenti vengano restituiti al legittimo proprietario. Nella loro attività quotidiana, gli sceriffi tengono particolarmente sott’occhio Kolya, un mezzo criminale sempre ubriaco che picchia la moglie e mangia i cani dei vicini, convinto che quest’ultima attività lo preservi dalla tubercolosi. Ma, forse, la situazione più assurda capita al sindaco Marunyak che deve ascoltare per l’ennesima volta la denuncia di una donna convinta che il vicino abbia liberato un anaconda nel suo capanno per la legna. Spesso, Ukrainian Sheriffs è indicato come un ibrido tra il documentario e la commedia nera, ma va detto che l’umorismo non è particolarmente evidenziato dalla regia, per cui si ritorna ai limiti dell’opera denunciati all’inizio, ovvero un film che non sfrutta tutte le sue potenzialità. L’uomo di guardia all’inquietante torre d’avvistamento, è forse l’elemento che rappresenta meglio il documentario di Bondarchuk: ha l’aspetto di un personaggio di un film di Quentin Tarantino, e si trova in una situazione perfetta perché succeda qualcosa di interessante. È in un luogo pericoloso di suo, data l’altezza e la precaria struttura; inoltre, da quella visuale, può scorgere qualsiasi cosa succeda nei dintorni con anticipo e, come detto, la Crimea non è distante e, di conseguenza, i venti di guerra spirano già forti su Stara Zburrjika. Eppure, quando è di scena il guardiano, non succede sostanzialmente niente. Quello che ci lascia tanto il guardiano nella torre che tutto quanto Ukrainian Sheriffs è una sensazione di attesa, di pericolo imminente, di un qualcosa che possa accadere da un momento all’altro. Ma anche il dubbio che non accada mai. 


sabato 19 aprile 2025

EUROMAIDAN: ROUGH CUT

1655_EUROMAIDAN: ROUGH CUT . Ucraina, 2014. Regia di autori vari

Proiettato al Festival Internazionale del Film Documentario dei Diritti umani di Kyiv quasi immediatamente dopo la chiusura delle proteste di Piazza Indipendenza, Euromaidan – Rough Cut è il frutto di un lavoro collettivo direttamente dal campo di battaglia –è proprio il caso di dirlo– da parte di dieci giovani registi ucraini. Il titolo dell’opera, oltre a far riferimento al nome con cui è altrimenti nota la Rivoluzione della Dignità Ucraina, lascia intendere che il film sia un prodotto grezzo, privo di un vero e proprio montaggio definitivo. In effetti l’impressione che lascia Euromaidan – Rough Cut è un po’ quella ma, sembra evidente anche dalle tempistiche ravvicinate tra eventi e presentazione dell’opera al citato Festival, è probabilmente una sorta di effetto collaterale quasi ricercato dagli autori. Ai quali non interessa presentare un prodotto raffinato quanto piuttosto un resoconto brutale dei fatti tanto quanto furono brutali gli scontri di piazza.

Le scene –realizzate, tra gli altri, da Roman Bondarchuk, Roman Liubyl e Volodymyr Tykhyy– sono prese direttamente dal cuore degli scontri, filmando la terribile escalation della violenza. Come detto, il montaggio di Bondarchuk assembla sommariamente i vari filmati e l’impatto violento delle immagini finisce per travolgere anche lo spettatore che può sperare di raccapezzarsi solamente grazie all’ausilio delle didascalie.

Naturalmente il coraggio e la volontà del collettivo di registi è da plaudire, senza se e senza ma, tuttavia va tenuto conto che si tratta di una tipica produzione militante. Del resto, il timore era che le autorità potessero insabbiare i fatti o comunque darne una lettura distorta a piacimento. Poi, visto come sono andate le cose, con la fuga del presidente Janukovyč e il cambio al potere a Kyiv, e il pericolo è stato scongiurato.

Tuttavia rimangono i punti di vista contrapposti: secondo i nazionalisti Euromaidan è stata una rivoluzione, secondo i filorussi un colpo di stato. Se dare velocemente notizia di quanto accaduto, sostituendo o affiancando i media delegati abitualmente all’informazione d’attualità, era lo scopo di Euromaidan – Rough Cut, la missione è compiuta. Per lo spettatore il film è altresì utile come strumento per farsi un’opinione sebbene vada tenuto bene a mente che, proprio per il suo essere palesemente schierato, per quanto sia un’opera che arrivi dal cuore vivo dei fatti, da solo non è sufficiente. Tuttavia questo non è affatto un limite perché, per comprendere bene qualcosa, occorrono più punti di osservazione diversi tra loro. Per i fatti di Piazza Indipendenza Euromaidan – Rough Cut è certamente uno di questi. 





giovedì 13 marzo 2025

LE SCHIAVE ESISTONO ANCORA

1636_LE SCHIAVE ESISTONO ANCORA . Francia, Italia, 1964. Regia di Maleno e Roberto Malenotti e Folco Quilici

Nel 1964 Folco Quilici era già un autore televisivo affermato e, al cinema, aveva convinto tutti con Sesto continente (1954), mentre i successivi L’ultimo paradiso (1955) e Dagli Appennini alle Ande (1959) avevano ottenuto riconoscimenti nei festival sparsi per il globo. Con quest’ultimo film tratto dal libro di Edmondo De Amicis, Quilici aveva pienamente dimostrato la capacità di reggere una narrazione che si discostasse dal testo documentaristico e anche il successivo Ti-Koyo e il suo pescecane (1962) proseguiva su questa linea. Se, per adattare De Amicis, Quilici aveva trovato subito la sintonia giusta, qualcosa del racconto di Clement Richer, alla base del successivo lungometraggio, non lo convinceva affatto. Nel libro, il protagonista, Ti-Koyo, un ragazzino che viveva in un’isola, addomesticava un piccolo squalo e lo utilizzava per compiere atti di pirateria. Questo aspetto non rientrava nella poetica di Quilici che cambiò completamente la filosofia della storia, in senso più edificante: il finale scelto, più triste che lieto, non trovò però l’approvazione della Produzione. Questo tipo di problemi caratterizzarono anche il successivo approccio cinematografico del naturalista nato a Ferrara. Ingaggiato per realizzare Le schiave esistono ancora, cominciò il suo reportage sul grave problema che affliggeva l’umanità con il giusto piglio documentaristico. La Produzione intendeva però cercare di sfruttare il traino del famigerato Mondo cane, inserendosi in qualche modo in quel tipo di documentario sensazionalista. Quilici, severo censore del cinema di Jacopetti e compagni, abbandonò quindi il suo posto, sostituito da Maleno e Roberto Malenotti. Il risultato finale, Le schiave esistono ancora, è un documentario che, seppure lasci intendere a più riprese i propri intenti seri e attendibili, li annacqua poi volontariamente con la scelta di inserirsi esplicitamente nella scia dei Mondo movie. A vederlo oggi, il film, in certi passaggi, è sorprendente per la sua franchezza: l’accusa per lo schiavismo che affligge l’Africa è rivolta esplicitamente agli arabi, senza troppi giri di parole. Del resto, nel film, i reporter seguono la rotta degli schiavi che, dal “continente nero”, si dirige inequivocabilmente alla penisola araba. In generale, l’Islam è palesemente messo sotto accusa per questa grave situazione, definita “terrorismo religioso”. 

Le popolazioni primitive dell’Africa, secondo il documentario, sono perennemente tenute in condizione di sottomissione dagli stregoni locali e accettano, di conseguenza, trovandolo quasi “naturale”, di sottostare ai nuovi padroni che li comprano al mercato degli schiavi. Anzi, in un passaggio è mostrato come siano direttamente gli africani ad offrirsi gratuitamente come schiavi, convinti di migliorare il loro originario tenore di vita divenendo mera proprietà di un ricco arabo. Questa facoltà economica dei paesi arabi è, lo si evince dall’incipit del film, legata al petrolio e, in questo senso, parte della responsabilità ricade sul cosiddetto mondo occidentale. Per chiudere con la questione religiosa, certamente complessa, c’è anche un tentativo di definire meglio l’atto di accusa, facendo riferimento a quelle parole del Corano in cui Maometto si dice contrario alla schiavitù. Non sarebbe, quindi, un problema della religione in sé ma di una sua distorta applicazione. Il giro del mondo della schiavitù tocca alcuni villaggi dell’Africa, gli harem della penisola araba e la squallida Falkland Road di Bombay, in India, costellato da alcune riprese di trattative e commercio di “carne umana”. Dal commento apprendiamo siano immagini autentiche, prese di nascosto con un teleobiettivo: sarà vero? Certo, l’ossequiosa idea di rispettare alcuni cliché dei Mondo movie, ad esempio quello dei travestiti, nel finale, non alimenta la credibilità del film. Anche il titolo, in effetti, con il riferimento alle schiave e le immagini in qualche modo lascive dei manifesti sono altri elementi in questo senso. Forse un generico “schiavitù” nel titolo avrebbe aiutato a chiarire meglio gli intenti originari, sebbene vada riconosciuto che questa piaga, nel complesso, riguardi più le donne che gli uomini. In effetti, la condizione della donna è già subalterna, anche nelle società più civilizzate, e, quindi, in condizioni critiche, è quella che paga maggiormente. In sostanza, anche il titolo non fa che confermare il rammarico: visto le potenzialità di Le schiave esistono ancora sarebbe stato meglio mantenere un profilo più serio, e lasciare il qualunquismo sensazionalista a chi era in grado di saperlo fare ad arte.      



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