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venerdì 25 aprile 2025

L'UOMO LEOPARDO

1658_L'UOMO LEOPARDO (The Leopard Man). Stati Uniti, 1943. Regia di Jacques Tourneur

Grazie al successo de Il bacio della pantera [Cat People, Jacques Tourneur, 1942], il produttore Val Lewton si vide forse allentare un po’ il guinzaglio dalla RKO, ottenendo maggiore autonomia. Naturalmente le tre regole che gli aveva imposto lo Studio –budget sotto i 150.000 dollari, durata inferiore ai 75 minuti e titoli dei film decisi preventivamente dalla società– andavano comunque rispettate. Inoltre, Lewton, che fu uno dei pochi Produttori cinematografici ad avere una sorta di pretesa autoriale, non si affidava, in ottica di veder rispettato la propria idea di cinema, a malleabili registi di second’ordine. Pur riuscendo ad imprimere, grazie ad una minuziosa supervisione che lo vedeva metter mano alle sceneggiature anche quando non venne poi accreditato, la sua personale visione delle cose, si avvalse di registi che, nel tempo, dimostrarono poi il proprio valore. Se Tourneur, quando diresse Il bacio della pantera, aveva un minimo di carriera alle spalle, Mark Robson e Robert Wise, poi cineasti di valore assoluto, furono fatti esordire dietro la macchina da presa proprio da Lewton. In quel 1943 l’unità della RKO che realizzava horror a basso costo, capeggiata dal produttore di origine russa, si poteva permettere di realizzare ancora un solo film alla volta e Tourneur, dopo Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie [I walked with a zombie, Jacques Tourneur, 1943] poté dedicarsi anche a L’uomo leopardo. Nonostante tutte queste premesse, anche ne L’uomo leopardo, è riconoscibile, più di ogni altra caratteristica, la cifra distintiva del cinema di Val Lewton. Come detto, i titoli erano scelti dallo studio a priori ed era compito poi di Lewton e dei suoi collaboratori imbastire qualcosa che fosse comunque plausibile. Il fascino felino che Il bacio della pantera aveva lasciato ancora aleggiante nell’aria spinse i capoccia della RKO ad inventarsi un improbabile «uomo leopardo» che Lewton e Tourneur sconfessarono poi sostanzialmente sullo schermo. Va comunque messo a referto che allo studio della torre radio, passato giusto qualche anno, riuscirono a proporre un doppio spettacolo di repliche che preannunciava due creature bestiali: King Kong [King Kong, Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933] e, appunto, L’uomo leopardo

Tornando alla realizzazione di quest’ultimo, per assecondare inizialmente l’idea dello studio, e per giustificare almeno in parte un simile titolo, si pensò di coinvolgere ancora Dynamite, il leopardo nero che già era stato portato sullo schermo ne Il bacio della pantera. Il pretesto, per la verità, è un po’ debole: Jerry Manning (Dennis O’Keefe), l’agente di Kiki Walker (Jean Brooks), una ballerina da night club, affitta un leopardo per enfatizzare l’entrata in scena della sua stellina. Uno stratagemma sensazionalistico, è evidente, ma c’è da contrastare il successo di Clo-Clo (Margo): siamo in un’imprecisata cittadina del New Mexico, e la ballerina di flamenco sta rubando la scena a KiKi, grazie al suo charme latinoamericano più in sintonia con l’ambiente. Non è un paese per bionde, il New Mexico, costata amaramente Eloise (Ariel Heath) la platinata ragazza delle sigarette; e allora tanto vale provarci con un bel gattone per sparigliare le carte. Nonostante L’uomo leopardo sia passato alla storia del cinema come uno degli archetipi dello slasher –genere horror basato sulle gesta di un maniaco omicida che furoreggerà una trentina d’anni dopo– non tutte le donne del film, seppur siano le vittime preferite di questi criminali, sono creature docili e indifese. In effetti, quando si ha a che fare con autori del calibro di Tourneur o Lewton, si scoprono significati sorprendenti in contesti impensabili. 

Come, nel caso specifico, con l’uomo più colto e istruito che si rivela ben più pericoloso di una belva feroce. Perché il buon Dynamite, il leopardo che è apparentemente al centro dell’attenzione del film, se la squaglia quasi subito, ovvero non appena Clo-Clo lo affronta sfoderando i suoi, di artigli, metaforicamente parlando. Come previsto da Jerry, Kiki aveva fatto il suo ingresso in scena, gattone al guinzaglio, con il preciso scopo di rompere le uova nel paniere a Clo-Clo, che stava ammaliando il pubblico al ritmo di nacchere e movimenti sinuosi. All’arrivo del leopardo la ballerina di flamenco non si scompone: non sarebbe stato certo quel micione troppo cresciuto a mettere in discussione il suo successo e lo mette subito in chiaro con un duro faccia a faccia col l’animale. Detto, fatto: il leopardo, al cospetto di una simile tigre, taglia la corda e si dilegua prima che qualcuno possa bloccarlo. L’idea di Lewton e Tourneur, almeno per imbastire il proprio racconto, è quindi avere un leopardo libero di scorrazzare per il piccolo villaggio, mettendo a rischio l’incolumità degli abitanti. Certo, l’animale è addestrato ma, una volta solo e affamato, potrebbe diventare davvero pericoloso. Una situazione simile è l’ideale per questi horror targati RKO degli anni 40 che aggiornarono il genere dopo il decennio di marca Universal: atmosfere cupe, ombre che nascondono insidie, una paura strisciante che pervade tutta quanta la storia. Da un punto di vista narrativo, anche il soggetto, ispirato al romanzo Black Alibi di Cornell Woorlich, non offre una sponda sicura, ma continua a cambiare punto focale. L’obiettivo della macchina da presa di Tourneur è sempre una ragazza, ora Kiki, ora Clo-Clo, ora Terésa (Margaret Landy), ora Consuelo (Tuulikki Paananen) e, di volta in volta, il racconto indugia su di loro, al punto che ognuna sembra poter divenire la protagonista della nostra storia. Ma si tratta di false piste. Come è, del resto, una falsa pista anche il titolo: non c’è, infatti, nessun «uomo leopardo» del tipo che sarebbe facile immaginare –seppure ci sia un cameriere che rimane graffiato dal felino, quasi a lasciar intendere una possibile «infezione» di stampo fantastico– e perfino il leopardo stesso è un indizio fuorviante. Ma il tema della falsa pista è davvero costruito a più livelli: perché, in realtà, sebbene non venga mai citato espressamente, un uomo leopardo c’è: è Charlie (Abner Biberman), il proprietario del felino, che reca questo altisonante nome d’arte –The Leopard Man– sul carrozzone da artista ambulante. 

È quindi lui il killer seriale, l’«uomo leopardo» a cui si riferisce il film? Sembra impossibile, vedendo il tipo; eppure… Ma, come detto, siamo in mezzo ad un dedalo di false piste: il vero colpevole, quello davvero colpevole perché si macchierà di delitti «bestiali», talmente brutali da essere attribuiti ad una belva, sarà l’uomo più acculturato del lotto. E qui torniamo alla riflessione sui risvolti imprevedibili del cinema di Lewton di cui si accennava poco sopra: una giovane ragazza può tener testa a un leopardo, ma nulla può contro l’animale più feroce della terra, l’uomo civilizzato. La trama prevede che, con il felino in libertà, una serie di efferati omicidi mietano vittime tra la popolazione femminile del pueblo. Subito si pensa alla belva: Terésa, Consuelo, Clo-Clo sarebbero quindi state uccise dal leopardo. Oppure no? Se Terésa, protagonista suo malgrado di una delle più terrificanti sequenze della storia del cinema dell’orrore, sembra davvero finita sotto gli artigli dell’animale, a Jerry, che si sente giustamente responsabile di questa situazione, qualche dubbio sorge nel merito dei successivi omicidi: perché la belva non si è cibata delle carni delle sue vittime? Neppure il professor Galbrath (James Bell), esperto di zoologia, ha una spiegazione plausibile e si dice comunque scettico sull’ipotesi di Jerry, che pensa possa esserci un uomo dietro gli omicidi. Galbrath non prende troppo sul serio questa teoria e, provocatoriamente, cerca di incolpare il mite Charlie, il proprietario del leopardo. Il domatore, la sera, è solito recarsi alla cantina a farsi un goccio, e Galbrath, che ne conosce la propensione ad alzare il gomito, ipotizza che potrebbe aver agito sotto l’influsso dell’alcool, dimenticandosi di quanto fatto una volta passata la sbronza. Il professore è talmente persuasivo, seppur con un fare tra il sornione e il divertito, che Charlie si autoconvince di essere il colpevole e si costituisce alla polizia. Quello della colpa è il tema de L’uomo leopardo, un argomento talmente strisciante che finisce per coinvolgere anche chi non dovrebbe, come appunto Charlie; ma, forse, il tema è proprio quello della colpa indiretta, di una colpa non specifica. Perché, a ben vedere, Charlie, seppure sia ovviamente innocente dei delitti in modo diretto, è comunque in qualche modo corresponsabile del fatto che una belva feroce sia stata portata fin lì dall’Africa e abbia poi ucciso la povera Terésa; e volendo, degli sviluppi successivi della storia che ne sono in qualche modo la conseguenza. Il leopardo, per quanto sia quindi il «colpevole» del primo omicidio, è ampiamente giustificato dalla propria natura e dalle circostanze; ma è l’unico ad avere serie e credibili attenuanti, oltre a pagare con la vita, saldando con ampio margine ben più dei suoi debiti, qualora ci fosse chi volesse chiedergliene conto. Il killer seriale, in ogni caso, non è Charlie ma è, come mezzo anticipato, Galbrath, l’uomo di cultura della vicenda; certamente una soluzione a sorpresa, soprattutto se si pensa che il film è del 1943. Ma i motivi che portano lo studioso a compiere i delitti sono solo abbozzati; L’uomo leopardo è comunque un film antesignano di questi temi, tuttavia più di dieci anni prima nel capolavoro di Fritz Lang M – Il mostro di Düsseldorf [M – Il mostro di Düsseldorf (M), Fritz Lang, 1931] il personaggio di Peter Lorre aveva dato ben altro spessore ai turbamenti interiori del maniaco. Forse il punto nevralgico è che a Lewton e Tourneur non interessa la figura deviata, malata, ma il contesto che facilita poi la fuoriuscita del Male dall’individuo. 

Il Male primordiale e belluino è sì già dentro l’uomo, perfino dentro all’uomo più emancipato ed istruito; ma sono le condizioni a portarlo alla luce. Condizioni che, negli Stati Uniti, e nel mondo occidentale in generale, si stavano evidentemente creando o quantomeno incrementando. Dal terrore evidente e diffuso, con il mondo sull’orlo di una guerra mondiale quando ancora non si era spento il ricordo della precedente –che il cinema aveva manifestato con l’espressionismo tedesco e i film horror Universal– si passava ad una situazione diversa. La Seconda Guerra Mondiale era alfine scoppiata e, dopo l’ormai proverbiale reticenza, anche gli Stati Uniti ne erano rimasti coinvolti. D’acchito, trovare i colpevoli di averla scatenata era oltremodo semplice: Adolf Hitler, i nazisti e i loro alleati italiani e giapponesi. Ma, ad uno sguardo un po’ più approfondito, qualcosa non tornava. E la domanda delle domande finiva per essere sempre sostanzialmente una: era stato fatto davvero tutto per evitare il ripetersi di una simile catastrofe? La colpa diretta era una questione semplice da archiviare; più difficile trovare qualcuno che si azzardasse a fornire una risposta al secondo quesito, vuoi per la generale diffusione delle responsabilità, vuoi per la scomodità di doverle ammettere. Era un tasto scomodo, e questo tipo di responsabilità rimase aleggiante, senza che nessuno se ne facesse carico. Forse è anche per questo ne L’uomo leopardo e, nel complesso, nei film prodotti da Lewton per la RKO, la sensazione di colpevolezza indiretta è così diffusa. Nel film di Tourneur, il tema della colpa del serial killer non è molto approfondito; quasi per contraltare, ci sono accenni, per quanto lievi ma sono comunque numerosi, alle colpevolezze minori degli altri personaggi. Ad esempio il tormento di Jerry e Kiki che, pur di conquistare la ribalta dello spettacolo, si erano presi un rischio enorme senza calcolarne adeguatamente le conseguenze. Fanno gara a chi è più cinico, in prima istanza, ma in realtà il rimorso li rode eccome. E che dire ancora di Charlie, che affida la sua belva ad un bellimbusto per niente pratico di animali, soltanto per il compenso? E poi c’è la madre di Terèsa, che la lascia fuori dalla porta, mentre sua figlia, terrorizzata, sta per essere aggredita dal felino, nella tremenda scena citata. E ancora il fidanzato di Consuelo, che se ne va, probabilmente in anticipo, incurante di quello che potrebbe accadere alla ragazza. Ma può forse passarla totalmente liscia, almeno da un punto di vista morale, il custode del cimitero?  D’accordo, l’uomo avverte la giovane dell’orario da rispettare ma, detto questo, fa ben poco per evitarle eventuali seccature. In questo caso, le seccature sono ben più gravi di quanto prevedibile, e questo non è certo colpa del custode, ma anche rimanere chiusi in un campo santo la notte non è un’esperienza esattamente simpatica eppure l’uomo bada unicamente ai fatti suoi. Insomma, tutto quanto il film è permeato di questo senso di colpa indiretta, sul quale il capo della polizia (Ben Bard) si esprime direttamente, prima minimizzandolo ma poi sottolineandolo in modo sibillino. E perfino nel battibecco iniziale tra Kiki e Eloise, il problema tra le due ragazze sembra essere il successo della prima, quasi fosse una colpa, a dispetto delle ambizioni frustrate della seconda. Se presi in chiave sociale o addirittura geopolitica, gli horror Universal mettevano in guardia dal grande pericolo che incombeva sul mondo. Il cinema di Val Lewton è, in un certo senso, più costruttivo e ci pone un’angosciosa domanda. Si era certi di aver fatto –chiunque, in prima persona– tutto il possibile per scongiurare questo pericolo?








venerdì 11 aprile 2025

THE SHROUDS

1651_THE SHROUDS . Francia, Canada, 2025. Regia di David Cronenberg

Proiettato in anteprima nazionale al BAFF, Busto Arsizio Film Festival, The Shrouds: segreti sepolti avrebbe dovuto giovarsi della presenza sul palco del suo autore in persona, David Cronenberg: purtroppo una banale influenza ha tenuto lontano il regista che si è comunque connesso in videochiamata per rispondere alle domande di Gianni Canova, critico cinematografico, e Giulio Sangiorgio, direttore artistico del Festival. Curioso annotare come un virus –ricordate il filone virale dei primi film di Cronenberg? – si sia a suo modo vendicato impedendo al regista di muoversi con il proprio corpo – e ricordate anche quello della «nuova carne»? In ogni caso, Cronenberg, nel suo collegamento, è stato molto presente, anzi si può dire anche puntuale e pungente, ad esempio quando ha negato, in buona sostanza, i rimandi a Hitchcock di cui chiedeva Canova, o quando ha risposto allo stesso critico che non fosse necessario approfondire sui riferimenti autobiografici del film. Punto di vista comprensibile da parte di un autore, dovuto a quella sorta di pudore d’artista misto ad un pizzico di sadico piacere nel tenere celati i propri assi, anche questo peculiarità dei creativi d’arte. Ma ha ragione da vendere Canova, critico italiano per eccellenza in ambito cinematografico e di Cronenberg nello specifico. Il recente tragico passato di Cronenberg, la morte della moglie Carolyn avvenuta nel 2017 e quella della sorella Denise nel 2020, avevano già avuto un’importante influenza nel cortometraggio di un minuto scarso The death of David Cronenberg, codiretto con la figlia Caitlin dallo stesso David, e importanti sono anche le eredità di questi lutti che The Shrouds: segreti sepolti si porta addosso. A partire sin dal titolo originale, The Shrouds, che significa «i sudari», ma anche nella trama stessa, con Karsh (Vincente Cassel), vedovo inconsolabile che cerca conforto nella sua attività di inventore di cimiteri tecnologici. Cassel, per pettinatura, aspetto generale, istrionico carisma, è il nuovo e convincente avatar di Cronenberg: e anche questo è un dettaglio autobiografico. Ma, a questo punto, subentrano i rimandi ad Hitchcock accennati da Canova: perché, dal 1940, qualunque indimenticabile «prima moglie» dello schermo deve confrontarsi con la Rebecca del famoso film del «maestro del brivido» inglese, autentica pietra angolare cinematografica. [Rebecca - La prima moglie (Rebecca), Alfred Hitchcock, 1940]. 

Per sgomberare il campo da qualsivoglia obiezione, basti dire che, effettivamente, la defunta consorte di Karsh, al di là del diminutivo Becca con ci si riferisce a lei nel film, si chiama appunto Rebecca (interpretata, nei flashback, da Diane Krueger). Ma i rimandi a Hitch non finiscono qui: Terry, la cognata del protagonista e sorella di sua moglie, è praticamente identica a lei, acconciatura più casual della Krueger, che interpreta entrambi i personaggi, a parte. È lampante sin dal primo incontro tra Karsh e Terry a cui assistiamo che i due finiranno, prima o poi, a letto, proprio per via della forte somiglianza tra le due sorelle. L’uomo è attratto dalla donna non come soggetto in sé, ma in quanto simulacro, sosia, della sua amata consorte: ogni riferimento a La donna che visse due volte [La donna che visse due volte (Vertigo), Alfred Hitchcock, 1958] è evidentemente voluto. Questi rimandi al cinema di Hitchcock sono sorprendenti, dal momento in cui Cronenberg, in tutta la sua carriera, pur frequentando il cinema di generi anche simili al maestro inglese, come il thriller o l’horror, aveva sempre avuto un approccio completamente diverso. Tuttavia, un primo motivo per cui il canadese si rivolge ad Hitchcock appare abbastanza chiaro: tutto il plot narrativo di The Shrouds, di cui si potrebbe parlare per ore, è un gigantesco MacGuffin, il celebre pretesto narrativo citato spesso dal regista britannico. Tra l’altro, il castello di colpi e contro-colpi di scena è talmente ricco e ben orchestrato che quest’ultima fatica del regista nato a Toronto, nonostante la verbosità dei dialoghi, scorre in modo assai più decifrabile dei suoi abituali film. A tal proposito, si possono annotare le numerose e colorite espressioni di Karsh che, sostanzialmente per tutto il racconto, viene stupito da una serie di sorprese non sempre gradite, come l’atto vandalico al suo cimitero, il passato fedifrago della moglie o il doppio gioco del cognato Maury (Guy Pearce). Se la trama sembra essere un gigantesco pretesto narrativo, alcuni elementi sono tipici della poetica di Cronenberg, anche nel loro essere spiazzanti e inaspettati, come il cimitero tecnologico di Karsh. 

L’attività della GraveTech, la società del protagonista, è l’ennesimo colpo geniale del cinema Cronenberg: un’azienda che, attraverso l’utilizzo di sudari speciali, permette ai propri clienti di monitorare costantemente lo stato delle salme seppellite in un cimitero appositamente allestito. L’utente, quando si reca in visita al cimitero, può connettersi tramite App sullo smartphone al monitor posto sulla lapide, e osservare a che punto è la putrefazione del caro estinto. O forse non è proprio questo lo scopo, forse c’è un tentativo di rimanere connessi, almeno visivamente, al defunto. Già, parlando di monitor e di sudari che funzionano come telecamere, è chiaro che uno dei temi portanti di The Shrouds sia l’atto di vedere, cosa naturalmente anche prevedibile essendo quello di Cronenberg un cinema metalinguistico e la vista il senso maggiormente coinvolto nella settima arte. Ma, del resto, è l’intera nostra società ad essere dominata dal senso della vista, stando a Marshall McLuhan già dalla scoperta della tipografia a caratteri mobili, nel XV secolo. Oggi, siamo talmente abituati ad avere nella vista il massimo e supremo riferimento, che un’idea come quella della GraveTech ci appare geniale, pur nel suo lato malsano e, probabilmente, immorale. Manca qualcosa nel rispetto che si deve alla vita, se pensiamo che filmare un cadavere sia un tentativo in qualche modo plausibile di elaborare un lutto. Cronenberg sta provocando, è evidente, ma non in modo gratuito: considerato le assurdità a cui stiamo assistendo quotidianamente, piazzare una telecamera in una bara non è poi così fuori luogo, anzi. Ma, oltre alla vista, esistono anche altri modi per comprendere, capire, cosa ci sta attorno e Cronenberg ce lo dice sin dalla prima scena, quando Karsh è nello studio dentistico e il dottore azzarda una curiosa teoria, secondo cui il dolore ai denti del suo paziente sia un’espressione della sofferenza per la morte della moglie. Un’altra brillante provocazione cronenberghiana, d’accordo, però è innegabile che anche il dolore sia un mezzo per comprendere la realtà. La società occidentale, al contrario, si fonda essenzialmente su ciò che può vedere. Il protagonista, ad esempio, si fida di Hunny, il suo assistente digitale, finché lo vede nelle fattezze umane di una ragazza mentre lo trova inaffidabile se assume quelle di un koala. Con lo stesso criterio, è attratto da Terry sostanzialmente perché questa è esteticamente uguale a Becca, del resto è sempre la Krueger ad interpretare entrambi i personaggi. Il problema di Karsh, e di tutta la società occidentale, è che la vista è un senso parziale ma, al contempo, talmente acuto e incisivo al punto da ingannarci, da indurci a credere che sia totale, in grado di fornirci un quadro completo ed esaustivo. Già Giovanni Verga e i veristi, che furono affascinati dalla fotografia, e in seguito Dziga Vertov, l’avanguardista russo del «cineocchio», si erano già, a loro modo, scontrati con la difficoltà di rappresentare la realtà pura e semplice attraverso una visione pur fedele della stessa. Son passati decenni, la tecnologia si è raffinata in modo esponenziale, ma un qualunque appassionato di calcio può confermare le inaspettate difficoltà riscontrate dal VAR (Video Assistant Referee, assistenza video all’arbitro) nello stabilire ciò che accade sui campi da gioco, nonostante le tante differenti e contemporanee angolature delle riprese. 

L’avvento del VAR, al netto del risultato specifico ottenuto dello strumento, ha avuto l’effetto di alimentare nuovi dubbi, nuove incertezze, ottenendo il risultato opposto a quanto prefissato. Allo stesso modo, le tante immagini da cui siamo bombardati, non chiariscono la situazione ma, semmai, offrono il fianco a nuovi interrogativi. In The Shrouds, una telecamera in una bara dovrebbe forse svelarci cosa succede dopo la morte e, al contrario, ecco che si scoprono strane protuberanze che sorgono sulle ossa di Becca e altri defunti del cimitero GraveTech. Strane e inspiegabili, almeno dalla scienza conosciuta: e qui si arriva al cuore del discorso di Cronenberg. Perché una spiegazione è possibile, ed è la stessa spiegazione a cui ormai, chi più chi meno, siamo abituati a rivolgerci: il complotto. Cronenberg, nel rispondere ad una domanda di Sangiorgio, il direttore artistico del BAFF, lo rivela esplicitamente: il complottismo può essere una sorta di rifugio del suo protagonista, e questa soluzione, considerata la natura del cinema di Cronenberg, possiamo intenderla valida anche per l’uomo dei nostri giorni. Con questo non è che il regista canadese voglia perorare il complottismo in senso letterale ma si tratta di una sorta di provocazione simile a quella del precedente Crimes of the future, dove aveva sostanzialmente insinuato il dubbio di essere un conformista borghese. Qualcosa che, almeno artisticamente, gli era totalmente estraneo. Con The Strouds il regista canadese invita a riflettere sul tanto diffuso complottismo, dando una spiegazione folgorante è illuminata al fenomeno. E per rendere più evidente il discorso, utilizza la geopolitica, i russi e i cinesi del racconto, in un vortice di intrighi che ci confonde e non ci permette di capire cosa sia vero o cosa frutto di congetture. Non a caso, alla fine, Karsh tra Terry, che lo attrae perché soddisfa il desiderio di rivedere sua moglie, e Soo-Min (Sandrine Holt), sceglie quest’ultima. La donna, moglie di un possibile facoltoso cliente in fin di vita, è cieca –e quindi ha sviluppato altre capacità di percezione della realtà, si veda la scena della registrazione audio– oltre ad essere coreana e vivere a Budapest – la Corea, almeno quella del Nord, e l’Ungheria sono tra i paesi meno allineati alla comunità occidentale. Soo-Min veicola quindi due elementi, totalmente diversi ma che, nel loro esserlo, rappresentano il cortocircuito finale della società occidentale. L’essere non-vedente della donna ci riporta ai tempi precedenti alla alfabetizzazione estrema introdotta dalla stampa a caratteri mobili, quando l’udito, il tatto e gli altri sensi avevano almeno lo stesso valore della vista. E quando il concetto stesso di meccanizzazione scomponibile del linguaggio studiato da McLuhan non aveva ancora reso l’uomo occidentale quello che è stato finora. I rimandi geopolitici intrinseci alla figura di Soo-Min, come detto Ungheria e Corea del Nord sono due tra gli agenti più coinvolti negli intrighi internazionali, simboleggiano il fenomeno del complottismo, il luogo terminale in cui ci si rifugia tutti quanti da quando, subissati dalle tante informazioni contraddittorie, perlopiù sotto forma di immagini, non sappiamo più in cosa credere. McLuhan disse che, con l’invenzione della consonante (scritta) abbiamo dato un orecchio per avere in cambio un altro occhio. Adesso che l’occhio, sopraffatto dalla sua stessa ingordigia di immagini, ci inganna, non sappiamo più come fare per capire cosa sia vero o cosa non lo sia. In questa situazione, il complottismo, diviene la nostra ultima spiaggia. Dopo aver fatto ammenda sull’inutilità del suo cinema con Crimes of the future e con il paragone al cinema morale di Fritz Lang, Cronenberg ne rivendica l’importanza in qualità di MacGuffin che, come il complottismo, è uno strumento per cercare di sopravvivere.
Sempre McLuhan disse che il medium è il messaggio; Hitchcock, dal canto suo, diceva che la trama, (plot, in inglese), era unicamente un pretesto. Cronenberg, in The Shrouds, fa una sorta di sintesi e ci dice che il complotto (plot, in inglese) è sia pretesto che messaggio. È il senso di tutto quanto, perlomeno quello che possiamo illuderci di trovare. Ed è tutto ciò che ci rimane.
A parte il buon sesso.   



domenica 29 dicembre 2024

THE WITCH: REVENGE

1599_THE WITCH: REVENGE . Ucraina, 2024: Regia di Andriy Kolesnyk

Il cinema bellico inerente al conflitto russo-ucraino si è visto come abbia mostrato, in qualche caso, punti di contatto con il «genere» horror. A pensarci, sembra una cosa ovvia, tuttavia, storicamente, il «genere» di riferimento per i film di guerra è il cinema d’azione, d’avventura drammatica, forse perché gli autori hanno sempre cercato di evitare quelle derive oniriche che il cinema dell’orrore evoca. Insomma, la guerra è qualcosa di tremendamente reale e meglio non creare equivoci. Naturalmente ci sono state eccezioni, basti citare i recenti Deathwatch – La trincea del Male [Deathwatch – La trincea del Male (Deathwatch), Michael J. Bassett, 2002] o Trench – 11 [Trench 11, Leo Scherman, 2017], ma anche alcuni passaggi del classico Fräulein Doktor [Alberto Lattuada, 1969], di cui, in particolare, le scene con il terribile «gas mostarda» sono incubi a pieno titolo. Purtroppo, la guerra, deprecabile sin dalla notte dei tempi, sembra essersi, ai giorni nostri, ulteriormente incattivita e il cinema, per renderne conto, ha spesso incrementato questa tendenza narrativa. Nello specifico del conflitto russo-ucraino un esempio eclatante, in questo senso, è Luce solare calda [Luce solare calda (Solntsepyok) Maksim Brius e Mikhail Vasserbaum, 2021], ma elementi simili sono presenti anche in opere a prima vista insospettabili come This rain will never stop [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020]. In questo studio si sono analizzati anche film non strettamente legati alla guerra in oggetto e, tra questi, Minsk [Boris Guts, 2022] esprime in modo più compiuto l’idea di ricorrere al cinema dell’orrore per raccontare la situazione attuale. Come detto nel paragrafo in proposito, il regista, il russo Boris Guts, ha esplicitamente paragonato il suo film ad un horror americano di quelli con i ragazzi che fanno sesso e poi incontrano gli zombi, con la differenza che, in questo caso, al posto dei morti viventi ci sono i poliziotti. [Nikolay Nelyubin traduzione di Vladimir Kolosov, Boris Guts su Minsk, intervista dal sito NewProspect.ru, pagina web https://newprospect.ru/news/english-prospect/this-is-a-horror-movie-only-we-don-t-have-the-evil-dead-here-we-have-cops-boris-guts-about-the-minsk/ visitata l’ultima volta il primo di settembre 2024].

L’idea di utilizzare un film horror per raccontare come i cittadini civili ucraini vivano l’invasione russa non è quindi estemporanea o del tutto improvvisata e, in ogni caso, è un eccellente punto di partenza. Nella realizzazione dell’opera, il regista Andriy Kolesnyk decide quindi di puntare forte sul versante fantastico, mantenendo al contempo un fortissimo ancoraggio alla realtà bellica che sta vivendo l’Ucraina. Il risultato è The Witch: Revenge, un bell’horror, potente, nel quale, per una volta, si può serenamente parteggiare per la strega, in genere relegata nel ruolo di «cattiva» come tutti i rispettabili mostri dei film di paura. Ma qui ci sono i soldati russi, qualcosa che il regista sembra voler dire che sia ben peggiore dei mostri del cinema dell’orrore; impressione purtroppo condivisibile. La vendetta annunciata dal titolo è ben motivata: in principio, la strega si presenta negli insospettabili panni della bellissima Olena (Tatiana Malkova, affermata star ucraina dello spettacolo), una ragazza innamorata del fidanzato (Taras Tsimbalyuk nel ruolo di Andriy). La coppia vive felice e serena insieme al piccolo cane Ozzy (Charlie, un buffo bulldog francese) quando l’invasione su larga scala russa piomba nelle loro vite. I tre vengono fermati da una pattuglia russa mentre cercano di mettersi al sicuro e la situazione precipita: Andriy riesce a forzare il posto di blocco ma rimane ferito mortalmente. Disperata e furibonda, Olena rispolvera le arti magiche e si accanisce contro i soldati russi che, nel frattempo, hanno stuprato una ragazza e ammazzato alcuni civili senza alcuna ragione. Da questo punto di vista la trama non è certo un esempio di originalità ma, per quel che riguarda gli aspetti folcloristici, va riconosciuto che la tradizione ucraina, ed esteuropea in generale, è particolarmente affascinante. Inoltre, il senso del ritmo della direzione di Kolesnyk è buono e il racconto filmico che ne scaturisce è teso e avvincente, come da manuale del cinema d’intrattenimento. Gli unici dubbi che possono venire sono a proposito di quanto il regista e i suoi collaboratori si prendano sul serio, visto che la matrice propagandistica che percorre il film, per quanto si tratti di un’opera di finzione, è smaccata. Innanzitutto va detto che, nonostante per tutto il film si sottolinei come gli invasori meritino la sorte che la strega protagonista gli infligge, alla fine, si opta per una soluzione conclusiva assai moderata. Certo, Olena, nella sua versione demoniaca, si lascia alle spalle una bella scia di sangue ma, quando scopre di essere incinta, si redime e risparmia proprio il peggiore dei suoi nemici, Rovnyy (Pavel Vishnyakov), il comandante della truppa. L’importanza della vita in arrivo, che al cinema è sempre un forte segnale di ottimismo, rappresenta anche l’importanza della comunità che si oppone alla sua cancellazione da parte degli invasori: in questo senso sono decisivi anche la «zia» Yevdokia (Olena Khokhlatkina) e il cagnolino Ozzy, con la loro vicinanza a Olena anche quando questa ha completamente perso il controllo di sé. Insomma, pur se la tentazione di ricorrere alla legge del taglione è forte, e, in questo senso, si veda anche la scena della rivalsa della ragazza stuprata, gli ucraini sono ben consci che non devono farsi divorare dal demone della vendetta finendo per divenire del tutto indistinguibili dagli aggressori. 

Questi motivi di riflessione, per altro decisamente condivisibili e apprezzabili –anche e soprattutto perché arrivano in un film «di cassetta»– sono ben dissimulati dalla tipica ironia ucraina che, per quanto ruspante, si dimostra ancora una volta piuttosto raffinata. Considerato l’utilizzo «strumentale» del «media» cinema, Kolesnyck ricorre giustamente più volte ad un linguaggio metalinguistico. La velata citazione al cinema d’azione americano, nella risposta di Andriy ad Olena prima del posto di blocco, è un simpatico esempio in questo senso. La coppia di protagonisti è appena stata fermata dai russi e Olena si raccomanda al fidanzato: “Andriy, per favore, non iniziare a litigare. Per favore, stai attento”. La risposta del giovane è degna di Jack Burton [Jack Burton, interpretato da Kurt Russell in Grosso guaio a Chinatown (Big trouble in Litlle China, John Carpenter, 1986) è ricordato per le tante iconiche battute, tra cui: “Sei pronto?”. “Io sono nato pronto”] “Rilassati. Attento è il mio secondo nome”. Ancora più gustose, e, in un certo senso, metalinguistiche, sono poi le didascalie iniziali, nelle quali gli autori strizzano più volte l’occhio allo spettatore. La prima delle quasi si scusa per la violenza di alcune scene del film che va ad iniziare; d’altra parte, proseguono le didascalie, le malefatte degli invasori non possono essere ignorate dal cinema ucraino. In sostanza, si sottolinea la differenza tra la violenza innocua della componente fantastica del film, da quella realmente traumatizzante che riprende le attività degli aggressori. Ma il bello deve ancora arrivare. Le «istruzioni per l’uso» proseguono e l’informazione seguente è che la nuova normativa ucraina vigente obbliga i film a non utilizzare lingue straniere per oltre il 10% dei lungometraggi. In conseguenza di ciò, dal ventitreesimo minuto i soldati invasori passeranno dal russo volgare al doppiaggio in ucraino. In pratica, i russofoni in Ucraina, nel film, da quel momento in poi parlano ucraino; “Presto lo faranno anche nella vita reale” prosegue sibillina la didascalia. Un 18+ ci ricorda il divieto per i minori, quindi, l’ultimo avvelenato messaggio. “Il film contiene morte violenta degli occupanti”. Al quale succede un “Buona Visione” in caratteri maiuscoli che non prova nemmeno a mascherarne la soddisfazione che trapela. Cattivo gusto? Che dire, un innocente film horror in risposta ad un’aggressione militare è perfino troppo buon gusto, altroché.  



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Tatiana Malkova



giovedì 19 dicembre 2024

CAPTUM

1594_CAPTUM . Ucraina 2015: Regia di Anatoliy Mateshko

Una caratteristica che rende comunque interessante un film, un testo, un documento, al di là della qualità o dell’utilità dello stesso, è il fatto che quest’opera scontenti tutte le parti chiamate in causa. Questa è un’iperbole, sia chiaro, tuttavia è innegabile che Captum di Anatoly Mateshko, anche solo per come è stato accolto, un po’ di curiosità la suscita. Il film, nonostante sia apparentemente astratto, sotto il profilo dell’ambientazione sembra raccontare una tipica storia che può succedere –e, purtroppo, le notizie dicono succeda con troppa frequenza– nell’ATO, la zona di antiterrorismo nell’est dell’Ucraina, dove, dal 2014, sono insorti i separatisti. La guerra, infatti, infuria nel Donbas tra i nazionalisti ucraini e i filorussi appoggiati da Mosca, e, a farne le spese, sono sempre i civili. Captum, come accennato, non fa riferimenti specifici, mostrando due uomini in uniforme che tengono reclusi una dozzina di individui in condizioni disumane, divertendosi a torturarli e ad eliminarli. I prigionieri vengono infatti rilasciati in un campo minato e i due carcerieri scommettono su chi riesca a sopravvivere più a lungo, prima di saltare inevitabilmente per aria calpestando un ordigno. La lingua parlata nel film è il russo, nonostante Captum sia una produzione ucraina; questo non sarebbe nemmeno troppo strano, il russo, da quelle parti, è una lingua diffusissima. Nel 2015, tuttavia, la cosa assume probabilmente un significato preciso: ovvero che, al netto della vaghezza voluta dagli autori, siamo nel Donbas con due separatisti che tengono segregati un militare nemico ferito gravemente (Fedir Hurinec) e alcuni civili, situazione raccontata troppo spesso dalle cronache. Eccole, quindi, le due fazioni che vengono scontentate in Captum: gli ucraini e i filorussi, se non proprio direttamente i russi, posto che ci sia una differenza. Secondo il sito Ukinform, il film è stato rifiutato al Film Festival di Mosca e al Kinotavr, la rassegna cinefila che si tiene a Sochi, sempre in Russia. [dal sito Ukinform, pagina web https://www.ukrinform.ua/rubric-culture/1960101-u-kogo-zbroa-toj-i-pravij-novij-film-anatolia-mateska.html, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. D’altra parte, l’accoglienza in Ucraina non è stata troppo migliore, con recensioni per lo più negative e, almeno stando alle informazioni circolanti, scarso riscontro al botteghino. [Questo secondo la pagina ucraina di Wikipedia del film https://uk.wikipedia.org/wiki/Captum#cite_note-11, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024 che riporta il link per il Box-Office del paese esteuropeo della settimana di uscita di Captum, pagina web https://web.archive.org/web/20160314000908/http://kino-teatr.ua/uk/main/box_article/article_id/256.phtml, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. È, quindi, un film così brutto Captum? Non particolarmente; è invece una sorta di horror che si lascia guardare senza problemi, seppure ci siano scene violente. Chissà, sul momento, può dare l’impressione di non riuscire a mantenere le premesse che lascia intravvedere. Però talune critiche sono davvero eccessive, come quelle di Olena Rubashevska per KinoUkraina: “Indubbiamente, si ritiene che Mateshko abbia una scuola «Karpenko» [I. K. Karpenko-Karyi Università Nazionale di Teatro, Cinema e Televisione di Kiyv] nel senso peggiore. Non c’è un accenno di cinematografia: né nella costruzione della messa in scena, né nella sceneggiatura, né nella recitazione, tranne forse nell’ingiustificabile bianco e nero, che in qualche modo salva almeno il film”. [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Come visto, Captum è un’opera che ha scontentato tanto gli uno e quanto gli altri, e questo è uno dei suoi potenziali titoli di merito, per quanto da approfondire. L’impostazione teatrale è evidente, tutto quanto il film è ambientato nello scalcinato edificio, una sorta di cascina rurale, in parte adibito a prigione e in parte a postazione per i due militari, situato in mezzo ad una desolata e deserta pianura innevata. Oltre all’unità di luogo, quella di tempo, il racconto si svolge in poche ore, aiuta a dare solidità ed efficacia al racconto. Il bianco e nero contrastato della fotografia accentua l’irrealtà della situazione; a questo punto, l’interpretazione degli attori non sembra affatto fuori luogo o troppo enfatizzata, tutt’altro. La Rubashevska, per altro, non è d’accordo “La scenografia, costruita in modo completamente teatrale, accoglie organicamente tra le braccia attori di teatro, per esempio, Ostap Stupka. Ma ciò che sembra organico in teatro a volte dà un effetto completamente opposto sul grande schermo: plasticità innaturali, gesti e suoni sono «migrati» dal palcoscenico allo schermo, creando una sorta di «effetto film muto»: gli attori recitavano allo stesso modo all’inizio del ‘900, avendo nel loro arsenale interpretativo principalmente solo la propria plasticità. [Ibidem]. Punti di vista, certamente, ma quello che è certo che lo scopo di Mateshko è di tenersi lontano da una rappresentazione realistica e, almeno su quello, si può essere d’accordo che vi sia riuscito. Tuttavia la didascalia biblica nel finale, il passaggio preso dal Vangelo secondo Matteo [Matteo 7,2: «perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi»] nel quale si invita a non giudicare, lascia intendere che è previsto, dallo stesso autore, che il suo film venga interpretato come metafora. L’utilizzo del Vangelo come citazione rafforza l’impressione che il regista avesse mire assai significative e non costruire una sorta di falso snuff movie in cui mostrare un po’ di crudeltà gratuita. Lo stesso Matehsko dichiara in un’intervista che i personaggi protagonisti sono dodici come gli apostoli [dal sito Ukrayina Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] e, sempre a proposito di rimandi biblici, c’è anche la scena della «lavanda dei piedi», sebbene questi riferimenti sembrano rimanere un po’ sterili, senza offrire chiave di lettura specifica. Quello che pare mancare, a Captum, è anche uno sviluppo di un personaggio principale, qualcosa su cui riflettere in ottica costruttiva; a meno che lo scopo del film sia quello di affogare tutto in un pessimismo senza alcuna speranza. Ma è davvero così? Tra i personaggi che si alternano, con una buona scansione narrativa, si potrebbe pensare che i protagonisti siano i due rivali, il superiore tra i due militari (Vladimir Goryanskiy) e il prigioniero silenzioso. Il carceriere più giovane è, infatti, solo lo stereotipo del soldato violento e ignorante, senza spessore, né come individuo né come personaggio; la donna alla ricerca del figlio (Larysa Rusnak) è la classica madre disperata, ma non si limita all’amore materno, dal momento che quando vede il soldato prigioniero sfigurato e ferito gravemente che sembra essere in punto di morte, si prodiga lodevolmente per salvarlo col massaggio cardiaco. Forse, questo passaggio è meno banale e superfluo di quello che può apparire. Intanto, è clamoroso, oltre ad essere un altro punto a favore del film, che, ad aiutarla, sia il losco trafficante (Dmitry Surzhikov) amico degli aguzzini ma da loro scaricato, che era sembrato, almeno fin lì, un tipo scontato e ovvio, nella sua banale e opportunistica ricerca di un tornaconto personale senza curarsi di alcuna morale. Tra l’altro, gli autori sembrano quasi metterlo alla prova, costretto com’è a fare la respirazione «bocca a bocca» ad un moribondo, e lui, pur con tutta la reticenza del mondo, si dà da fare finché il ferito non si riprende. Quasi ironicamente, il più stupito della cosa sembra proprio lui stesso. Il copione, in questi passaggi, non è quindi affatto male: ad esempio, quello che potrebbe essere un reporter (Ostap Stupka) –il condizionale è d’obbligo perché nel film tutto e vago e non viene rivelato il nome di nessuno dei personaggi– si lascia andare a due comportamenti simili ma diversi ed entrambi discutibili. Ad un certo punto cerca di ammazzare a mani nude il soldato moribondo, per alleviargli la sofferenza, senza riuscirci; in compenso, si accanisce contro un gatto e lo uccide picchiandolo più volte contro il muro, semplicemente per sfogare la rabbia. Da quel che si intuisce, l’uomo è una persona famosa e istruita e non un individuo senza cultura e istruzione. Ma, come detto, i rivali che si giocano la partita sono il capo degli aguzzini, un ex insegnante –altro affondo alla élite culturale della trama– e il prigioniero che non parla, che è anch’egli un soldato, per quanto, ovviamente, dell’altra parte della barricata. Quest’ultimo sa qualcosa ma è chiuso nel più totale silenzio; l’arrivo della donna, in cerca del figlio, presumibilmente catturato dai militari, scuote l’ambiente, in particolar modo ad essere turbato è il capo degli aguzzini. Perché anche lui vuole informazioni, e le vuole dal soldato nemico silenzioso: promette allora alla donna, che è ancora avvenente, di rivelarle del figlio cercato se riuscirà a convincere il soldato silenzioso a parlare. Se l’aguzzino più giovane ha visto nell’arrivo di una bella ed elegante signora la possibilità di stuprarla, il suo più anziano commilitone è scosso più profondamente e sembra quasi ravvedersi. Si rade, si cambia vestito, offre dell’acqua calda alla donna, per la citata scena della lavanda dei piedi: perché? Forse perché vede nella donna una speranza di convincere il «silenzioso» finalmente a parlare. Forse perché spera che il fatto che anche la donna, come lui stesso, sia alla ricerca di un figlio rapito dai soldati nemici, sia un segno del destino. Forse il soldato «silenzioso» si impietosirà e racconterà finalmente che ne è di suo figlio. Il finale, naturalmente, precipita, gli aguzzini si scontrano, e quello vecchio elimina quello giovane e uccide anche il trafficante; ma, nel rivolgersi al «silenzioso», quasi l’implora di parlare, di dirgli finalmente dove si trova suo figlio. Il «silenzioso» coglie una debolezza nel nemico e lo aggredisce e, mentre lo sta strozzando, forse proprio perché lo sta vedendo morire, finalmente gli parla: di suo figlio non ha lasciato niente, non avrebbe avuto neanche una tomba su cui piangere. L’aguzzino ha un’ultima reazione ma dopo una breve colluttazione, si trova dalla parte sbagliata del mitra. La madre interviene e fredda il «silenzioso»: l’uomo taciturno aveva finalmente parlato, ora l’aguzzino doveva rivelarle dov’era suo figlio, era questo l’accordo. Ma il militare è ormai completamente svuotato dalle parole che ha sentito dal nemico silenzioso. Una donna e un uomo, nemici nella guerra in corso, condividono la tragedia di perdere il proprio figlio. La donna rimane in ginocchio, per terra, poi sente il soldato moribondo lamentarsi, lo prende tra le braccia; lui mentre delira, la scambia per sua madre, senza sbagliarsi di molto. In fondo la donna lo rianimato poco prima, dandogli di nuovo la vita. Intanto l’aguzzino è uscito e si incammina nel campo minato, mentre una triste cantilena in ucraino [il film è recitato in russo, mentre la cantilena finale è in lingua ucraina, almeno stando a quanto riferito dal sito Ukraiyna Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] lo accompagna al suo triste destino. Insomma, in definitiva Captum non sembra affatto così male, almeno non da meritarsi addirittura il quarto posto tra i film peggiori del 2015 nel panorama internazionale, secondo il sito ucraino Kinobuk [pagina web https://kinobuk.com/survey/pidsymki-buk-2015/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. La già citata Olena Rubashevska, critica cinematografica di KinoUkraina, chiude la sua recensione negativa cercando di mettere spalle al muro il film di Matehsko, accusato di essere troppo influenzato dalla fiction televisiva russa: “E di cosa parla, in effetti, il film? Di come l’esercito ucraino non sia in grado di sconfiggere chissà quali creature che spuntano dal nulla, che non hanno letto nulla di più intelligente dell’etichetta sui deodoranti per ambienti e vivono come animali, bevendo vodka tutto il giorno? Di come i nostri soldati in prigionia dimentichino l’onore e la coscienza e muoiano, scordandosi tutto ciò che amavano e per cui hanno combattuto? Del fatto che, a parte una madre single, nessuno faccia nulla per liberare i nostri ragazzi dalla prigionia?” [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Parole che sembrano troppo dure, forse dettate dal momento non certo facile che si vive nel Paese. Perché, Captum, ad uno spettatore distaccato, sembra piuttosto raccontare la vicenda di due personaggi in cerca di un figlio perduto. Chi, nel farlo, si accanisce contro il nemico, con l’uso della violenza come unico linguaggio, è destinato a perdere la propria anima, coma l’anziano aguzzino che vaga nel campo in cerca di una mina. Chi, pur non potendo fare a meno di ricorrere alla stessa violenza –il colpo sparato al «silenzioso», che, per altro, era in procinto di uccidere un uomo– non dimentica la propria umanità, come la donna che si affanna per salvare il soldato prigioniero già mezzo morto, può avere invece ancora una speranza. Fosse anche solo l’illusione di una speranza, come quella legata all’attimo in cui un giovane sconosciuto ti chiama “mamma” prima di morire, farebbe comunque tutta la differenza del mondo. Non c’è ragione di avere dubbi: a conti fatti, non è affatto male questo Captum


sabato 27 luglio 2024

IL CACCIATORE DI UOMINI

1519_IL CACCIATORE DI UOMINI (El Canìbal). Spagna, Germania Ovest, Francia 1980; Regia di Jesùs Franco.

Una valutazione può spesso dipendere dalla prospettiva che si adotta nell’analisi: ad esempio, se Il cacciatore di uomini, film dell’ineffabile Jesús Jess Franco, lo prendiamo in sé, c’è un po’ da mettersi le mani nei capelli. Diversamente, se vi si approccia dopo aver visto La dea cannibale, opera dello stesso autore, anno, genere e tenore, allora le sensazioni potrebbero essere più positive. In effetti, Il cacciatore di uomini, ha qualche spunto positivo, o almeno migliore rispetto al citato precedente di Franco in ambito cannibal: innanzitutto l’ambientazione è assai più plausibile. Anche la tribù cannibale, forse il tasto più dolente ne La dea cannibale, è stavolta molto più presentabile, non poi meno credibile di quanto in genere queste figure non lo siano nelle produzioni a basso costo. Il canovaccio lascia qualche perplessità, a dirla tutta, ma va detto che, nella fruizione, giova la narrazione scarna che non rivela troppi dettagli, almeno nella prima parte. C’è, per la verità, un insistito montaggio alternato che viene presto a noia, soprattutto perché lascia intendere un parallelismo, tra la vita degli indigeni e quella di una moderna città occidentale, piuttosto estemporaneo. Si può leggere, in effetti, un malcelato moralismo da parte di Franco, che sembra alludere che tra le due società mostrate, quella dei cannibali e quella cosiddetta occidentale, non ci sia poi tutta questa differenza. Il confronto sembra proprio un atto di accusa ai pregiudizi dell’uomo bianco ma, poi, Franco, nella sua messa in scena, ne fa pesantemente ricorso.
La trama si snoda su passaggi poco plausibili su cui lo spettatore è chiamato a sorvolare e le bellezze discinte che imperversano sullo schermo sono un incentivo in questo senso. Un gruppo di criminali rapisce Laura, (Ursula Buchfellner), una bellissima modella, chiedendo un cospicuo riscatto. Incautamente, i rapitori portano la ragazza in una misteriosa isola popolata da una tribù cannibale; intanto, il reduce del Vietnam Peter Weston (Al Cliver alias Pierluigi Conti) è ingaggiato per liberarla. Tra i passaggi davvero troppo superficiali del racconto, salta all’occhio lo stratagemma di Peter per ingannare i criminali: il nostro prode eroe si lancia da un elicottero lasciando il velivolo libero di schiantarsi, simulando quindi un incidente. Al netto del fatto che i banditi poi manco ci cascano, viene da chiedersi se qualcuno di coloro abbia lavorato al soggetto o alla sceneggiatura, abbia una vaga idea di quanto possa costare un elicottero. Domande forse inopportune, a fronte di un film di Jess Franco, ma in un film che insiste a percorrere sentieri narrativi avventurosi sono anche ineludibili. Nel complesso, come detto, il film è gravemente insufficiente, penalizzato dai troppi elementi risolti in modo dozzinale e superficiale. Stavolta le scene cannibaliche non sono il piatto forte del film di Franco, per quanto possano essere considerate accettabili, perlomeno nel loro essere disgustose. Ursula Uschi Buchfellner, infatti, è davvero uno spettacolo e la sua bellezza folgorante riesce a rimanere immacolata anche in mezzo all’immondizia cinematografica.


Ursula Uschi Buchfellner




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martedì 25 giugno 2024

INFERNO IN DIRETTA

1503_INFERNO IN DIRETTA . Italia 1985; Regia di Ruggero  Deodato.

Tra le motivazioni che resero i cannibal movie italiani tanto affascinanti –almeno per giovani e giovanissimi dell’epoca– c’era forse il palese disimpegno del genere. Intendiamoci: ragioni sociologiche per un simile fenomeno erano sicuramente alla base del successo, ma si trattava di situazioni ambientali, generiche e riferite al clima sociale che si respirava negli anni Settanta in Italia. Parlando dei testi filmici in sé, bisogna riconoscere che questi non avessero particolare profondità, e la cosa pare evidente. Soprattutto, la violenza così efferata, in particolare quella a danno degli animali, era puro nonsense: per quanto l’atmosfera potesse essere plumbea, e negli anni di piombo lo era di sicuro, perché diamine masse di giovanissimi si eccitavano parlando di una scena reale in cui una povera scimmietta finiva brutalmente ammazzata? Poteva davvero essere questa una risposta diretta alla violenza sociale? Forse, una simile aberrazione, apparentemente immotivata, era, piuttosto, l’anticipo del vuoto pneumatico che avrebbe caratterizzato la scena sociale dagli anni Ottanta in poi. Un vuoto che, negli anni Settanta, anni che avevano la violenza come linguaggio quotidiano, era colmato appunto da questa violenza, e che, nella Settima Arte, avrebbe dato luogo al genere più deviato della storia del cinema italiano. Queste impressioni furono evidentemente percepite anche dagli autori, o almeno dai principali del filone. Se Sergio Martino non aveva dato seguito alla sua unica incursione nella corrente, La montagna del dio cannibale (1978), Umberto Lenzi aveva cercato di chiudere la questione con il suo Cannibal Ferox (1981), un modo per prenderne anche le distanze. Ruggero Deodato, soprannominato Monsieur Cannibal, per la sua competenza nel genere, cercò invece una strada diversa per superare l’impasse, ovvero l’incapacità di giustificare un cinema tanto violento e senza ragione. In parte, la soluzione di Deodato, cristallizzata nel film Inferno in diretta, sembra quella di virare sulla pura avventura, e su questo aspetto niente da dire, era una scelta anche condivisibile. Oltretutto, quella avventurosa, era una traccia da sempre presente nei cannibal, che però veniva tenuta sullo sfondo dai peculiarissimi e sempre presenti cliché narrativi della “corrente”. Deodato cercò, con Inferno in diretta, di dare maggiore slancio alla componente avventurosa, tenendola sempre connessa alla matrice violenta, del resto la natura era violenta quasi per definizione, e, in questo modo, provare a mantenere una certa coerenza all’interno di questo particolare sottogenere cinematografico. 

La connessione con l’horror o con il cinema bellico erano ulteriori desinenze che alimentavano questa soluzione: il cannibal poteva quindi trasformarsi in un genere di film di ambientazione nella giungla, dove la violenza era notoriamente di casa, perdendo i suoi tratti più deleteri a favore di tematiche più accettate, come appunto quella orrorifica o quella bellica. In questo senso sembra anche andare il lavoro di Dardano Sacchetti che, nella stesura della sceneggiatura, dichiarò di essersi ispirato al romanzo Congo di Michael Crichton, non un riferimento da poco. Oltretutto, il film, in origine, era stato affidato a Wes Craven, che abbandonò, in seguito, il progetto; il regista americano era un altro pezzo da novanta in qualche modo riconducibile ad Inferno in diretta. In carriera, Craven era riuscito a trasformare gli impulsi di violenza anarchica degli esordi, L’ultima casa a sinistra (1972), in una seria e credibile critica alla società degli anni Ottanta, Nightmare, dal profondo della notte (1984). È quindi evidente che, tra eredità del progetto originario e ambizioni in sede di sceneggiatura, Deodato finisca per trovarsi per le mani un lavoro di un certo peso. Il cineasta italiano regge bene in fase di regia, dosa sapientemente il ritmo e la violenza efferata, dimostrandosi ancora una volta un maestro nella specialità. La presenza di un attore come Michael Berryman (è il folle Quecho) è un elemento controverso: la sua è una presenza ingombrante e la trama non sembra tenere in debito conto l’impatto che l’interprete americano ha sullo schermo, tanto che, in un paio di momenti, sembra quasi che Deodato si sia scordato del suo personaggio. Ma, tutto sommato, si tratta di dettagli narrativi di secondaria importanza. Bello l’incipit, con l’attacco nella giungla e il primo, e unico, passaggio antropofago del film; quasi un debito da scontare il prima possibile, da parte del regista, che poi si può concentrare su quello che davvero gli preme. 

Ovvero dimostrare una motivazione sociale alla violenza del film, anche attraverso la trama stessa del racconto, quasi a smentire l’eventuale impressione che le giustificazioni portate, nel corso degli anni, a difesa dei cannibal, fossero posticce e poco credibili. Almeno, questa è l’idea che tutta quanta la faccenda del traffico di stupefacenti lascia intendere. La droga era un problema sociale già da decenni ma, negli anni Ottanta, la coscienza collettiva nel merito andò sempre più facendosi consapevole. Le notizie sulla violenza che circondava il traffico di stupefacenti, indotte dall’immane circolo di denaro, avevano spostato il fuoco del problema: se nel decennio precedente la tossicodipendenza era vista perlopiù come malsana e pericolosa scorciatoia per affrontare le difficoltà della vita di un’intera generazione, ora il traffico di droga diveniva anche il volano per il dilagare di una violenza inaudita. L’intuizione di collegare il problema del narcotraffico con la violenza del cannibal poteva anche essere funzionale, ma non era onesta e, in fin dei conti, nemmeno credibile. È infatti proprio qui che Deodato scivola, nel suo tentativo di nobilitare il cinema di cui era ritenuto il maestro, Monsieur Cannibal, quando, lui per primo, avrebbe dovuto sapere che la violenza dei film sui cannibali non aveva motivazioni così scontate e prevedibili come quelle legate all’attualità, per quanto tragica. Forse era davvero il clima, l’aria che si respirava, a contaminare l’immaginazione dei giovanissimi degli anni Settanta. O forse era la natura stessa, di quella immaginazione, che per la prima volta da secoli nella Storia dell’Umanità, poteva finalmente rivelare la sua matrice più autentica. 

Gli sconquassi della rivoluzione sessantina avevano demolito le istituzioni tradizionali, sull’onda del motto quanto mai inequivocabile “né Dio, né Stato, né Famiglia”, e i ragazzi dei Settanta potevano finalmente pensare (quasi) liberamente. Era quindi violenta, la natura stessa dell’uomo? Ma certo che sì, la risposta a questa domanda è perfino banale. Quello che più inquieta nell’ipotesi formulata poc’anzi, è che, oltre che violenta, la natura umana può facilmente prendere una deriva sadica, qualora ne scorgesse l’opportunità. Era quello che succedeva, ad esempio, durante il periodo del Servizio di Leva, dove giovanotti abitualmente educati e “per bene”, si trasformavano in aguzzini degni delle SS, alimentando con impensabile vigore il becero fenomeno del nonnismo, che prosperò indisturbato per decenni nelle caserme italiane. Questa inclinazione, questa natura deviata, era –ed evidentemente è– alla base della natura stessa dell’uomo ed è quella che fece appassionare i giovani degli anni Settanta ai cannibal, proprio per la presenza dell’inaudita violenza. Non servivano pretesti; i pretesti erano stati eliminati dalla contestazione giovanile e ora la “bestia umana” era finalmente libera di manifestarsi. Presto, o relativamente presto, sarebbe arrivato il Politicamente Corretto, ad insabbiare ogni possibile elemento fuori registro, ma nel 1985 c’era ancora tempo per chi, come Deodato, poteva provare a spacciare il cannibal come genere in qualche modo legato alla contestazione sociale. Inferno in diretta è, in buona sostanza, un maldestro tentativo di far proprio questo: dare da intendere che i film dei cannibali fossero una manifestazione che risentiva della violenza del tempo. In realtà, la violenza nei cannibal ha una radice ben più profonda, appartiene alla natura umana forse più di ogni altra cosa, e fu, semmai, l’assenza di influenze, nello specifico quelle restrittive della morale costituita e tradizionale, a farla sgorgare. Il genere cannibal non è una risposta alla violenza sociale, ma è piuttosto, l’esplosione della violenza intrinsecamente individuale, qualcosa di assai più antico e personale. E, proprio per questo, così affascinante. Ancora oggi.    

  


Lisa Blount 


Valentina Forte 


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