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martedì 25 ottobre 2022

KLONDIKE

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1143_KLONDIKE Ucraina, Turchia 2022;  Regia di Marina Er Gorbach.

“Hanno bombardato il passeggino!” Questa curiosa esclamazione racchiude perfettamente lo spirito della guerra in Ucraina anzi, probabilmente della guerra in senso assoluto. Senza alcuna ironia, intendiamoci, perché Irka (un’intensa Oksana Cherkashyna), protagonista di Klondike, non ha alcuna voglia di scherzare dopo che si è ritrovata la casa sventrata da un colpo di mortaio. Il personaggio cardine del fondamentale film di Maryna Er Gorbach è una donna incinta che, nel 2014, vive nell’area del Donbass contesa da nazionalisti ucraini e secessionisti filorussi. Un’area al margine di quella che è la terra al margine per definizione, dal momento che ‘Ucraina’ vuol dire appunto confine o qualcosa del genere. Il tema della marginalità dei personaggi, del loro essere quasi insignificanti rispetto alle forze in gioco – quanto un passeggino che finisce sotto una bomba – è rimarcato dalla storia, dalla stessa struttura del film e perfino dalle scelte registiche della Gorbach che anche in questo particolare specifico si dimostra autrice di rango. Andiamo con ordine e cominciamo con qualche cenno del racconto su cui verte Klondike: insieme al marito Tolik (Sergey Shadrin), Irka vive in una landa desolata con una vacca e qualche gallina. L’uomo è filorusso, mentre Yaryk (Oleg Shcherbina), fratello di Irka, è un fervente nazionalista: Tolik cerca di barcamenarsi come può, mantenendo buone relazioni coi secessionisti ma cercando di non inasprire troppo i rapporti in famiglia. Per la verità con la moglie ci sarebbe anche un bel legame intimo di coppia ma la pesantezza della guerra, non ultimo il bombardamento che devasta la loro casa, rende le cose molto più difficili, con la donna sempre più insofferente. 

Irka ha ragione da vendere, sia chiaro, soprattutto quando vede i miliziani filorussi spadroneggiare e fare i prepotenti, sequestrare la loro auto e pretendere dal marito che la vacca venga macellata e consegnata per sfamare i militari. Da parte sua Tolik, pur palesando simpatie politiche per gli occupanti, rivela anche una natura pratica badando alla sicurezza e alla sopravvivenza della famiglia, considerato che Irka proprio non ne vuole sapere di lasciare la sua terra. Con Yaryk, invece, l’uomo è in aperto contrasto, anche per via dell’intransigenza del cognato, arroccato su posizioni nazionaliste. Appare quindi chiaro che le ragioni che minano la serenità famigliare sono tutte di natura geopolitica, almeno per quel che si vede. Se ne potrebbe quindi dedurre che il conflitto non è una logica conseguenza di una situazione che arrivi dal campo ma, al contrario, sia vero che l’odio che si va propagando tra la popolazione sia stato indotto dalle scelte politiche e militari dei potenti. 

Il ruolo passivo della popolazione, di cui la famiglia protagonista di Klondike può essere un efficace campione, è evidenziato dal loro essere spettatori. Sul muro hanno un telo che propone uno scorcio tropicale, che possono guardare sognando di essere al mare; oppure possono semplicemente guardare la televisione, uno dei pochi elementi moderni della casa. Quando la bomba gli squarcerà il soggiorno, potranno direttamente godersi i tramonti del Donbass dall’impolverato divano. Sono semplici spettatori, fuori campo rispetto al centro dell’azione e se per disgrazia ci finiscono in mezzo, non è mai un buon segno, si veda appunto il bombardamento come esempio. Il tema del fuori campo è il tema di Klondike che prova a ribadire le ragioni di chi è tenuto ai margini: non a caso il film è dedicato alle donne che, nelle guerre, sono relegate fuori dalla scena pur pagando conseguenze durissime. 

L’idea di mettere al centro del racconto l’abbattimento dell’aereo malese MH17, che costò la vita a 298 persone, è emblematico: l’evento non fu rimarcato come avrebbe dovuto, dal momento che, errore di valutazione o meno, si trattò di un fatto gravissimo. I tentativi di insabbiare le responsabilità da parte degli occupanti filorussi dell’area furono probabilmente efficaci ma, al di là dell’unanime cordoglio, la comunità internazionale si interessò relativamente poco alla cosa, come del resto fece per il conflitto nel Donbass, almeno fino al 24 febbraio del 2022. Eppure, l’avvistamento, nei pressi dell’area dell’abbattimento del MH17, di un Buk, un sistema missilistico di fabbricazione russa, smentiva palesemente le dichiarazioni di Putin. Nel film il mezzo militare si vede prima arrivare e poi andare in direzione opposta; non è un vezzo narrativo, visto che si tratta di un passaggio cruciale, una tangibile prova dell’ingerenza militare del Cremlino già da allora, oltre che della malafede nelle dichiarazioni di facciata. Nonostante questo, come detto, l’occidente non prestò particolare attenzione al significato dell’accaduto. Questa indifferenza è, come detto, tema del film anche se si rivela in un certo senso reciproca: se la Russia è evocata più volte come coinvolta, perfino nella provocazione di Tolik che risponde a Yaryk che il figlio in arrivo si chiamerà Vladimir, l’Europa è sostanzialmente ignorata. Per la regista è probabilmente più importante sottolineare l’influenza americana, tanto che il titolo del film richiama un’area degli Stati Uniti ricca di miniere, proprio come il Donbass. Interrogata in proposito, ovvero sul motivo della scelta di un titolo così criptico, la Gorbach ha dichiarato: “Se qualcuno può chiamare un lanciarazzi col dolce nome femminile di Katyusha, allora io posso a mia volta chiamare il film Klondike, perché credo anch’io nel fantasma degli Stati Uniti.” 

Nonostante si tratti di un testo dai contenuti così rilevanti, uno degli aspetti più interessanti e originali di Klondike è anche di natura squisitamente tecnica. Il ritmo del racconto è lento e la macchina da presa si muove quasi con circospezione, del resto si è detto che la messa a fuoco del film non è al centro dell’azione. La ripresa caratteristica più tipica di Klondike è un carrello laterale che spesso si perde i personaggi, superandoli oppure venendo lasciato indietro dal loro muoversi, in ogni caso finendo per mettere in scena il fuori campo. La scena emblematica in questo senso è nel finale, quando la macchina da presa in un primo momento segue Tolik e il miliziano che si avventurano in un luogo che si intuisce sarà fatale. Pur essendo ufficialmente un filorusso, l’uomo ha infatti appena ammesso di aver visto qualcosa di troppo in merito al citato abbattimento del Boeing malese MH17. La macchina da presa nel suo incedere a fianco degli uomini scorre leggermente in avanti, lasciandoli indietro: quando si ferma, compare sullo schermo Yaryk che Tolik teneva legato in cantina e che i miliziani hanno evidentemente trovato. Stavolta il fuori campo non è vuoto ma ha riservato una sorpresa, perché prima o poi i nodi vengono al pettine. 

E’ una svolta, una svolta finale, chiaramente tragica. Del resto, non ci si può certo aspettare un lieto fine, almeno non in Ucraina e tanto meno nel Donbass. Eppure Yaryk e Tolik, pur nel deplorevole detestarsi vicendevolmente, troveranno il modo, tragico fin che si vuole, di uscire con onore dalla situazione disperata in cui finiscono per trovarsi. E non è poco. Ma ancora meglio farà Irka. E’ sola, in mezzo al nulla, in una casa diroccata, con spietati criminali in divisa che si aggirano nei dintorni; è incinta, povera ragazza, cosa mai potrebbe succederle? Che le si rompano le acque, che domande. Nella scena di parto più esplicita e insostenibile della Storia del Cinema, Ykra si contorce per il dolore sul divano impolverato dai detriti, mentre uno dei militari le passa accanto nella più totale indifferenza, preoccupato di recuperare le sue armi. Ma si è detto, l’indifferenza può finire per essere reciproca. Mentre Ykra recide a mani nude il cordone ombelicale, il militare se ne va. Silenzio, la tensione lascia il campo alla paura: poi, il pianto infantile e possiamo tirare il fiato. Nonostante le avversità, anche oggi la vita ha vinto la sua battaglia. Quando i maledetti guerrafondai si renderanno conto dell’inutilità del loro affannarsi, sarà sempre troppo tardi. Ma la granitica convinzione che la vita non si farà mai piegare è il messaggio che Klondike, in modo forse insospettabile visto la crudezza, ci lascia dentro. Perché, manuale del cinema alla mano, se nasce un bambino nel finale del film c’è un solo significato possibile.
E non c’è alcuno motivo di dubitarne: Klondike è un film ottimista.    


  
Oksana Cherkashyna



Galleria di manifesti 





lunedì 24 ottobre 2022

MARIUPOLIS 2

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1142_MARIUPOLIS 2 .Lituania, Francia, Germania 2022;  Regia di Mantas Kvedaravicius.

Come noto, il regista Mantas Kvedaravičius è rimasto ucciso prima di aver completato Mariupolis 2, film che è stato poi concluso dai suoi collaboratori, a cominciare dalla moglie Hanna Bilobrova. L’impressione generale del film, se lo si confronta con Mariupolis del 2016, opera dello stesso regista, è che in questo secondo capitolo manchi un po’ di postproduzione. D’accordo le riprese fortemente documentaristiche ma, per fare un banale confronto, nel film precedente dedicato a Mariupol’ c’erano le storie di diversi personaggi che si intrecciavano. Il che, anche solo a livello di ritmo narrativo, aiuta non poco la fruizione dell’opera; Mariupolis 2 è, al contrario, un testo pesante, estenuante. Se questa fosse l’intenzione di Kvedaravičius o se piuttosto sia il frutto del lavoro di assemblaggio di tutto il girato senza scartare nulla, forse con un filo di timore referenziale visto che il film assurge quasi naturalmente a titolo di testamento dell’autore sull’argomento, non lo sapremo mai. Certo è che non si può evitare di ammettere che il film sia faticoso da sostenere, nonostante l’evidente lodevole intento dell’opera, ovvero riportare la tragedia della guerra per quello che è. Accompagnato al 9° Film Festival dei Diritti Umani di Lugano da Irina Prudkova e dalla figlia Valeria Gavrikova, due collaboratrici di Kvedaravičius, Mariupolis 2 è un atto dovuto alla memoria del suo autore. Le due donne ci informano che il regista lituano non solo aveva a cuore di documentare la nuova e più cruenta fase della guerra in Ucraina nella città portuale ma era anche preoccupato per la sorte dei protagonisti del suo primo film, di cui aveva accompagnato parte della vita durante le riprese. E che, stando a quanto emerso dal dibattito seguito alla proiezione, pare non si possa escludere che siano morte. Tra l’altro, sempre ascoltando la signora Prudkova, è interessante riflettere sulle sue parole riguardo alla fine di Kvedaravičius. In base alle notizie pervenute in occidente, in un primo momento si era parlato di una morte in seguito ad una esplosione, poi ad un più generico decesso in circostanze poco chiare. Il racconto di Irina è più specifico e riferisce di una improvvisa sparizione dell’uomo, cercato dalla moglie per una manciata di giorni dopo i quali il cadavere sarebbe stato trovato semplicemente sulla strada. Ipotesi se possibile più inquietante di un banale scoppio di uno dei tanti missili che abbia colpito Kvedaravičius, come nella ferocia della guerra indiscriminata sono stati colpiti tanti altri innocenti cittadini. Quegli scoppi che martellano inesorabilmente la colonna sonora di Mariupolis 2, ambientato nei pressi di una chiesa usata come rifugio, ultimo avamposto concesso alla possibilità per il regista di avvicinarsi all’epicentro della guerra. O verrebbe da pensare che sia anche oltre, quella possibilità, visto che alla fine Kvedaravičius è stato ucciso. Ma se le circostanze della sua morte sono diverse da quelle raccontate in prima istanza, allora non è stata tanto la sua vicinanza fisica al pericolo ad essergli fatale. Quanto quella alla verità.  


domenica 23 ottobre 2022

MINSK

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1141_MINSK .Estonia, Russia 2022;  Regia di Boris Guts.

Prima di entrare nello specifico del perché Minsk di Boris Guts sia un film eccezionale, alcuni dettagli che ci aiutano, almeno in parte, a capire come il risultato finale sia meritato, figlio degli straordinari sforzi e della genialità dei suoi autori. Perché Minsk non è certo un’opera che fondi la sua riuscita sul budget a disposizione ma piuttosto sulla capacità di fare di necessità virtù. E allora, tanto per capire che razza di tipo sia il regista, ecco che la prima voce che il nostro va ad eliminare per il suo capolavoro filmico è il montaggio, ossia la pura essenza del cinema. Cerchiamo di capirci, non si intende dire che sia stata necessariamente una scelta di natura economica o almeno non solo; Guts vuole realizzare un film traumatizzante e l’idea di una ripresa unica di 83 minuti serve anche a stremare i suoi attori in modo da sfruttarne lo sfinimento in modo quanto mai credibile. Ma probabilmente anche per creare una costante tensione emotiva, dal momento che è evidente che ogni passo falso durante la recitazione sia un errore capitale; questa tensione si crea e rimane costantemente aleggiante sul film. Che poi, pensandoci, è un po’ la tensione della realtà, dell’imprevedibilità della realtà, a cui, anche se non ci rendiamo conto, siamo sempre preparati; col tempo, infatti, si impara che un evento imprevisto può sempre accadere all’improvviso, e questa latente e sottile attenzione con cui impariamo a convivere è spesso la differenza con quella realtà che vediamo rappresentata in certi film ben confezionati ma platealmente prevedibili. Il piano sequenza che costituisce per intero Minsk riesce invece a ricostruire in modo più che convincente la realtà, forse proprio per via di questa tensione a cui sono sottoposti gli interpreti nell’apnea recitativa degli 83 minuti da girare difilato. Ad alimentare con violenti strappi questa inquietudine, minore in avvio e già crescente in modo automatico man mano che passano i minuti e la stanchezza si accumula, arrivano i picchi di adrenalina della storia. I passaggi topici del racconto trasformano l’impercettibile atmosfera elettrica in momenti di puro terrore con sferzate narrative di rara brutalità. Brutali come una carica della milizia bielorussa, verrebbe amaramente da portare come paragone. Per ottenere il suo film, Boris Guts lo gira in concreto sette volte in tre notti: dopo una prima una semplice prova, sei veri e propri tentativi fino all’eccellente risultato finale. Un pugno nello stomaco dello spettatore che bisogna essere bravi ad incassare, ma ne vale la pena. 

Lo si è accennato:
Minsk è un capolavoro. Una botta di adrenalina pura, di paura allo stato solido, di dolore, di violenza, di rabbia: talmente realistico da venir scambiato per un documentario, come su alcune presentazioni trovate in rete in occasione della prima visione Svizzera in quel del 9° Film Festival dei Diritti Umani di Lugano. Credibile, credibilissimo, altroché. Dovunque, e certo anche in Italia – che, giova ricordarlo, è anche il paese di Stefano Cucchi e Andrea Soldi – non ci dovrebbero essere ragionevoli motivi per dubitare della veridicità dell’inaudita violenza delle forze dell’ordine che in Minsk, ambientato durante le proteste del 2020, si scagliano brutalmente e indiscriminatamente contro chiunque gli capiti a tiro. Giusto ad onor di cronaca, un attivista della diaspora bielorussa (rimasto anonimo per evidenti motivi di sicurezza) presente in sala durante la proiezione nel citato festival di Lugano ha confermato l’attendibilità di quanto mostrato dal film, ma è una rassicurazione superflua: Minsk è naturalmente in grado di reggersi con le proprie forze. E poi, siamo onesti, come detto, per quanto violento, il comportamento delle milizie non dovrebbe sorprenderci più di tanto: sono passati più di vent’anni ma i fatti della scuola Diaz di Genova gridano ancora vendetta. I tragici eventi accaduti durante il G8 del 2001 possono avere anche un’altra utilità perché ci permettono di capire la vera differenza nello specifico di questo discorso tra un paese come l’Italia e la Bielorussa, dove è ambientato Minsk. Da quei giorni, in Italia, si sono succeduti una decina di Presidenti del Consiglio con annessi governi, appartenenti ad aree politiche diverse ed opposte. In Bielorussa nel 2001 Aljaksandr Lukašėnka era al potere già da sette anni ed è ancora lì adesso: ecco, i fatti di Minsk del 2020, al centro del film di Guts, sono proprio in relazione all’ennesimo a dir poco discutibile mandato di quello che è stato definito l’ultimo dittatore d’Europa. 

Questi aspetti di
Minsk, che rimane pur sempre un’opera di finzione, non sono dettagli marginali: in questo caso abbiamo la ‘fortuna’ di assistere ad un film altamente drammatico, un vero e proprio horror, che ci racconta qualcosa che appartiene alla nostra quotidianità. Sarebbe un po’ come, in un ipotetico universo alternativo, fossimo negli Stati Uniti nel 1850 e vedessimo un western di quelli tosti. Trovarsi nel posto giusto al tempo giusto. Non è una cosa da poco perché il ‘quotidiano’ al cinema, in genere, è rappresentato in modo dimesso, e in effetti la vita di tutti i giorni è – almeno da un punto di vista avventuroso – povera di spunti per non dire noiosa (il che è anche una fortuna, intendiamoci). Abitualmente sul grande schermo in occasione di un evento eccezionale contemporaneo, nella ricerca della massima credibilità, si ricorre al documentario o al massimo alle docufiction. Boris Guts arriva allo stesso risultato – la credibilità, tanto che a qualcuno il suo film è parso documentaristico – ma ci arriva dalla parte opposta, con una storia puramente inventata. Geniale anche sotto questo aspetto. Per usare le parole dello stesso autore: “Minsk è un film di genere. Un tipico horror all’americana. I giovani protagonisti fanno sesso, bevono e poi vanno da qualche parte… solo che non incontrano ‘morti viventi malvagi’ ma poliziotti.” Se lo schema di base del racconto è in effetti semplicemente questo, la sceneggiatura e i dialoghi ne arricchiscono la struttura dando corpo anche su un piano ulteriore a quello esplosivo delle pure immagini che scorrono sullo schermo. Il racconto infatti prevede una serie di ripetizioni di situazioni, riferimenti, battute che alimentano la sensazione di girare su sé stessi, visto il continuo ritrovarsi in contesti simili. 

Questa sorta di vertigine è ulteriormente rimarcata dal tipo di ripresa stessa del film, con l’operatore costretto necessariamente ad una serie di svolte per evitare di inquadrarsi in un riflesso o in un’ombra. L’impressione è di scendere inesorabilmente una spirale in cui ad ogni situazione che si ripete siamo ad una spira più in basso. Di queste ripetizioni, la più evidente è lo schema tipico del cinema horror americano per cui la violenza arriva dopo il sesso, quasi fosse una sorta di punizione. Il film comincia con i giovani protagonisti Yulia (l’eccellente Nastya Shemyakina) e Pasha (Aleksey Maslodudov) che fanno l’amore; di lì a poco finiranno nell’inferno della repressione delle proteste di quella che è conosciuta anche come rivoluzione delle ciabatte. Quando vengono salvati da Irina (Yuliya Aug), personaggio più spiazzante dell’intero film, c’è ancora un momento intimo tra i due, giusto prima del tracollo narrativo con i nostri che finiscono ad Akrestsina, il centro di detenzione preventiva di Minsk per quel che non sarà certo una permanenza di piacere. 

Il binomio sesso-violenza è così ripetuto, ma ci sono altri elementi che ritornano: ad esempio il racconto sul pub Dirty-Queen di Londra, con annesso riferimento omosessuale che turba entrambe le volte l’ascoltatore di turno. Oppure la domanda su cosa stiano pensando i protagonisti dopo aver fatto sesso, i miagolii di Yulia, il Padre Nostro cantato, l’uccisione dei due maschi principali del racconto con un colpo di fucile al petto, situazione che comporta anche un doppio passaggio al garage dello zio. Sin dai primi dialoghi, sulla coppia di protagonisti aleggia la ex di Pasha, Tania (Anastasiya Pronina), che poi fa il suo ritorno fisico sulla scena; la sua figura di disturbo sulla coppia fa il paio con quella di Vasya (Phillip Mogilnitskiy) che, da parte sua, cerca invece di insidiare Yulia. Questo doppio triangolo amoroso (Tania-Pasha-Yulia e Pasha-Yulia-Vasya) è attorcigliato dallo sviluppo narrativo che, nel suo scorrere, lo spoglia fino a lasciarlo nell’improbabile coppia finale ‘Tania & Yulia’ con quest’ultima che potrebbe anche essere rimasta incinta. Ed è proprio nel finale, con le due ragazze sdraiate sul pavimento, dopo il ritorno nell’appartamento visto all’inizio del film, che c’è una terza esortazione a respirare. E’ necessario, anche per lo spettatore, perché il film, i suoi personaggi e perfino i suoi interpreti, fin lì hanno corso a perdifiato. 

Però occorre una precisazione: è vero che il film è un unico estenuante piano sequenza ma non si tratta di una mera e semplice ripresa delle scene previste dal copione. Boris Guts realizza un film vero e proprio anche se, come detto, rinuncia al montaggio, che è la vera e propria peculiarità della settima arte. Come noto in sala taglio si può drammatizzare a piacimento una determinata scena, ad esempio semplicemente con l’utilizzo del campo/controcampo durante un dialogo in luogo di una ripresa che veda i due personaggi insieme sullo schermo. A Guts non serve drammatizzare il suo film in quanto i fatti nudi e crudi sono già drammatici a sufficienza; come detto la singola ripresa toglie il respiro mettendo quindi all’angolo lo spettatore, facendogli vivere la situazione senza via di scampo dei personaggi in modo convincente. Il punto è che in questo horror – che aimè assomiglia troppo alla nostra realtà – nel ruolo dei cattivi non ci sono gli zombie ma i poliziotti e questo non concede proprio alcuna possibilità di salvezza, di lì la scelta azzeccata di togliere respiro al racconto. Tra l’altro Guts, se rinuncia al montaggio, e lo fa con cognizione di causa, non risparmia idee negli altri aspetti cinematografici, come per la spettacolare resa cromatica degli scontri o per la musica, che è uno degli elementi più funzionali dell’opera. C’è il classico contrasto tra la traccia audio di tenore leggero e quanto mostrato sullo schermo, un espediente strausato e sempre funzionale, con l’orecchiabilità delle canzoni sottolineata anche da un dialogo del film. 

Ma il momento culminante di Minsk, compreso tra le uccisioni di Vasya e Pasha, è caratterizzato da una potenza della colonna sonora che ci trasporta letteralmente in piazza in mezzo all’inferno che è diventata la capitale bielorussa. Un passaggio di cinema assolutamente fantastico per trasporto emotivo. Oltre a tutto questo, ci sono altri elementi che affiorano prepotenti durante la storia: San Bartolomeo scuoiato vivo, il rapporto con la religione, da Irina il cui modo di collezionare Icone – e farsi collezionare da esse – rivela la propria natura ambigua – la stessa della fede? – ai citati Padre Nostro cantati pretesi dagli aguzzini in divisa. Senza dimenticare il ruolo del calcio, coi tifosi del MTZ-Ripo al tempo caotici e ribelli e non ancora comprati e arruolati come nashisti dal potere come pare sia avvenuto. Il tutto in ottantatre minuti senza fiato. 
Hanno ragione, i personaggi di Minsk; c’è davvero bisogno di respirare, dopo tutta questa violenza.
Devono averlo pensato anche Stefano e Andrea. 





Nastya Shemyakina


Anastasiya Pronina


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venerdì 9 settembre 2022

ATLANTIS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1097_ATLANTIS (Atlantyda)Ucraina, 2019;  Regia di Valentyn Vasyanovych.

La genialità è soprattutto una questione di tempistica. Un vero genio non è colui che si immagina qualcosa di impossibile; di quello, con un po’ di fantasia, siamo capaci tutti. Il vero genio è colui riesce a cogliere quegli elementi, già a disposizione di chiunque, e li plasma in qualcosa di nuovo e che, a quel punto, sarà quasi naturale (per non dire ovvio) per tutti quanti, dal momento che si basa su presupposti condivisi. Valentyn Vasyanovych è, evidentemente, un genio. Perché con il suo Atlantis, nome che evoca il continente perduto dei racconti di fantascienza, arriva a dirci che l’attesa è finita, siamo nel futuro. E non è per niente piacevole (e lo si capisce già dal titolo, visto che il mito di Atlantide non è una faccenda a lieto fine). Atlantis è una storia (?) ambientata in un futuro molto prossimo, quando la guerra in Ucraina è terminata: in un certo senso, a vederlo oggi, si può leggere la cosa come ottimistica, per la verità. Tuttavia, nel 2019, quando uscì il film di Vasyanovych (premio Orizzonti per il miglior film alla Mostra di Venezia dello stesso anno) era lecito ritenere che la Guerra del Donbass, che già di per sé era una catastrofe, non deflagrasse su larga scala (e quanto larga ancora non si sa) come poi è tragicamente successo. Non è però nello sviluppo geopolitico o bellico che è incentrato il film di Vasyanovych; del resto tecnicamente il film potrebbe davvero essere considerato fantascienza post-apocalittica. Ma si tratta di un falso movimento temporale, perché il lieve scostamento nel futuro è del tutto fittizio, pretestuoso: quello che vediamo è già il presente, senza bisogno alcuno di applicare metafore o similitudini. 

Un futuro già scritto e inseguito con perversa costanza dall’umanità, che ha cercato in tutti questi decenni di distruggere il proprio ambiente e, in questo, la guerra, l’evento comunque peggiore in assoluto, è peraltro semplicemente un acceleratore. La distruzione che reca rende le macerie impossibili da smaltire in modo ottimale ma i prodotti della civiltà sono perlopiù inquinanti e non riciclabili: di fondo il problema esiste, con la guerra manca la possibilità di fingere di essere in grado di gestirlo. Le grandi fabbriche siderurgiche, che sono uno dei teatri privilegiati dal film, sono autentiche calamità ecologiche anche in tempo di pace; una guerra non migliora certo le cose, ma lo sfruttamento indiscriminato del territorio da parte di questi giganti d’acciaio è, in buona sostanza, un’aggressione umana a madre natura. Una guerra, combattuta senza esclusione di colpi, in un’area già così pesantemente sfruttata dalla siderurgia come è l’Ucraina (ma il discorso vale per tutto quanto il mondo industrializzato) rende l’ambiente inospitale esattamente come nei film fantascientifici più pessimisti. Questo, però, è solo l’ambientazione di Atlantis: perché il film di Vasyanovych mette al centro, o meglio cerca se ancora esiste, l’umanità; posto che possa ancora essere trovata in un simile panorama. E per farlo ricorre ad un espediente tecnologico, del resto l’abbiamo detto che Atlantis è un film di fantascienza. 

Il film si apre, infatti, con le riprese di una telecamera termica: una scena di guerra, lo si intuisce, in cui alcuni soldati seppelliscono un nemico in una grezza buca, non prima di essersi assicurati che sia morto a colpi di pala sulla testa. Come dire: non basta nemmeno la tecnologia per scovare un briciolo di umanità. In realtà, nel finale, la ripresa agli infrarossi ritornerà proprio quando il protagonista, Serhij (AndriJ Rymaruk) ritroverà un minimo di intimità con Katja (Ljudmyla Bileka): una pseudo struttura circolare del racconto, a testimoniare la fatica ad uscire dall’impasse, ma da cui è possibile evolversi. A patto di smettere di restare ancorati agli stessi schemi mentali, scambiando unicamente posto ai bersagli per ingannare la noia. Il rischio, continuando a vivere come soldati anche a guerra finita, andando a sparare a sagome di ferro ora in un ordine, ora nell’altro, ora con il compagno che ti ostacola, è che ci si finisca per sparare l’un l’altro. 

Metafora efficacissima della guerra e dei suoi perché, al netto dei tanti pretestuosi motivi scatenanti. Serhij, nella concitazione dell’esercitazione, spara direttamente a Ivan (Vasyl’ Antonjak); va beh, c’è il giubbotto antiproiettile. Ma fa comunque un male cane. E non è un bel gesto. Chissà, forse anche questo, vedere il tuo amico che ti spara al culmine di un’esercitazione un po’ troppo esasperata, ha segnato Ivan. Il ragazzo, il più debole, sotto ogni aspetto, dei due, voleva infatti andare a fare il sicario da qualche parte, per risolvere i problemi con l’unico sistema che conosceva. Ma quel passaggio era stato anche più chiaro delle perplesse parole dell’amico Serhij a proposito: ancora morte, non ne aveva la nausea? 

Quello stesso amico che, quasi a beffarda conferma, in un eccesso di adrenalina, gli aveva sparato contro. La guerra non era la soluzione di una vita disumanizzata lavorando negli alti forni: non c’erano vie di uscita. Anche perché, a questo punto, a guerra finita, i nuovi proprietari, che non a caso parlavano inglese, la lingua ufficiale del mondo occidentale, intendevano chiudere le fabbriche e lasciare a casa gli operai: i quali potevano sempre sfruttare le tante opportunità che il futuro riservava loro. Un refrain falso e colmo di malcelato scherno sentito troppe volte anche nella nostra vita quotidiana: sotto questo profilo, se questo è il futuro, siamo già abbondantemente preparati. Ma l’estremo gesto di Ivan, magistralmente inscenato da Vasyanovych, scuote profondamente Serhij: il passaggio al ferro da stiro ne è l’emblema mentre il regista smorza con il più macabro umorismo la liturgia comunque potente del funerale siderurgico che viene riservato al povero ragazzo. 

In queste scene, come anche in quelle dei nuovi proprietari occidentali alla festa per la chiusura della fabbrica (!), strepitose nell’interpretare la fantascienza in chiave d’attualità, Vasyanovych vince a mani basse la sua partita cinematografica. Ma, come detto, l’autore ucraino, seppure non sia un narratore che si affidi ad un ritmo trainante o a momenti di maniera per alleggerire la narrazione, ha un suo modo per equilibrare la desolazione disperata della sua storia. 


Il bagno di Serhij nella benna di un escavatore, nel nulla del panorama distrutto dalla guerra, con il fuoco acceso sotto al metallo per scaldare l’acqua, è un piacevole intermezzo che al contempo alimenta la voglia di quotidianità dell’uomo in modo più efficace rispetto alla visita al suo vecchio appartamento. La chiave per la riuscita in questo proposito sarà naturalmente Katja. Ma attenzione, perché Vasyanovych non è mai scontato, nemmeno quando parla del sentimento basilare che tutti conosciamo, l’amore. Serhij, nella storia, soccorre due ragazze (dimostrandosi quindi vero cavaliere): di Katja si è detto ma ben più importante è il salvataggio riservato ad una ragazza straniera, finita con l’auto su una mina e a rischio di andare arrosto se non fosse intervenuto in nostro aitante giovanotto. Colma di gratitudine, la fanciulla, una volta rimessasi, offre a Serhij la possibilità di un impiego nella sua organizzazione, che opera anche in aree meno disperate e senza futuro rispetto all’Ucraina. La terra è inquinata, l’acqua non sarà potabile per anni, mine disseminate ovunque: se una ragazza ti offre un’alternativa altrove, è certamente appetibile. Ma, in fondo, sarebbe una scelta in linea con quelle fatte finora e che ci hanno portati in questa situazione. E non ci sarebbe comunque futuro. Piuttosto, quello che c’è da fare è cominciare a ritrovare noi stessi, la nostra umanità. E la nostra umanità si trova proprio dove l’abbiamo persa, uccidendo il prossimo senza alcun motivo valido, come succede in guerra. In guerra, più che in ogni altro luogo, ma non solo; la guerra è solo l’acceleratore, la summa negativa, della nostra quotidianità. Una realtà in cui non c’è alcun rispetto, nemmeno per i morti; come nella scena agli infrarossi, quella citata che apre il film. E allora l’unica soluzione che rimane a Serhij è aiutare Katja, un’archeologa, una che guarda al passato, che fa volontariato cercando di dare un nome e una sepoltura dignitosa ai tanti morti che disseminano l’ex campo di battaglia che è diventata l’Ucraina. E’ nel passato, e non nel futuro, in questo futuro, la nostra salvezza. E’ in quello cha abbiamo fatto, nei morti che abbiamo ammazzato o lasciato ammazzare che dobbiamo cercare quello che abbiamo perso. E lo potremo trovare proprio nel cadavere putrefatto e mummificato di un ignoto nemico, abbandonato e magari volutamente nascosto senza alcun riguardo, nell’indifferenza generale.
La morte è, infatti, più umana di quello in cui abbiamo trasformato la vita. 











 
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