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venerdì 11 aprile 2025

THE SHROUDS

1651_THE SHROUDS . Francia, Canada, 2025. Regia di David Cronenberg

Proiettato in anteprima nazionale al BAFF, Busto Arsizio Film Festival, The Shrouds: segreti sepolti avrebbe dovuto giovarsi della presenza sul palco del suo autore in persona, David Cronenberg: purtroppo una banale influenza ha tenuto lontano il regista che si è comunque connesso in videochiamata per rispondere alle domande di Gianni Canova, critico cinematografico, e Giulio Sangiorgio, direttore artistico del Festival. Curioso annotare come un virus –ricordate il filone virale dei primi film di Cronenberg? – si sia a suo modo vendicato impedendo al regista di muoversi con il proprio corpo – e ricordate anche quello della «nuova carne»? In ogni caso, Cronenberg, nel suo collegamento, è stato molto presente, anzi si può dire anche puntuale e pungente, ad esempio quando ha negato, in buona sostanza, i rimandi a Hitchcock di cui chiedeva Canova, o quando ha risposto allo stesso critico che non fosse necessario approfondire sui riferimenti autobiografici del film. Punto di vista comprensibile da parte di un autore, dovuto a quella sorta di pudore d’artista misto ad un pizzico di sadico piacere nel tenere celati i propri assi, anche questo peculiarità dei creativi d’arte. Ma ha ragione da vendere Canova, critico italiano per eccellenza in ambito cinematografico e di Cronenberg nello specifico. Il recente tragico passato di Cronenberg, la morte della moglie Carolyn avvenuta nel 2017 e quella della sorella Denise nel 2020, avevano già avuto un’importante influenza nel cortometraggio di un minuto scarso The death of David Cronenberg, codiretto con la figlia Caitlin dallo stesso David, e importanti sono anche le eredità di questi lutti che The Shrouds: segreti sepolti si porta addosso. A partire sin dal titolo originale, The Shrouds, che significa «i sudari», ma anche nella trama stessa, con Karsh (Vincente Cassel), vedovo inconsolabile che cerca conforto nella sua attività di inventore di cimiteri tecnologici. Cassel, per pettinatura, aspetto generale, istrionico carisma, è il nuovo e convincente avatar di Cronenberg: e anche questo è un dettaglio autobiografico. Ma, a questo punto, subentrano i rimandi ad Hitchcock accennati da Canova: perché, dal 1940, qualunque indimenticabile «prima moglie» dello schermo deve confrontarsi con la Rebecca del famoso film del «maestro del brivido» inglese, autentica pietra angolare cinematografica. [Rebecca - La prima moglie (Rebecca), Alfred Hitchcock, 1940]. 

Per sgomberare il campo da qualsivoglia obiezione, basti dire che, effettivamente, la defunta consorte di Karsh, al di là del diminutivo Becca con ci si riferisce a lei nel film, si chiama appunto Rebecca (interpretata, nei flashback, da Diane Krueger). Ma i rimandi a Hitch non finiscono qui: Terry, la cognata del protagonista e sorella di sua moglie, è praticamente identica a lei, acconciatura più casual della Krueger, che interpreta entrambi i personaggi, a parte. È lampante sin dal primo incontro tra Karsh e Terry a cui assistiamo che i due finiranno, prima o poi, a letto, proprio per via della forte somiglianza tra le due sorelle. L’uomo è attratto dalla donna non come soggetto in sé, ma in quanto simulacro, sosia, della sua amata consorte: ogni riferimento a La donna che visse due volte [La donna che visse due volte (Vertigo), Alfred Hitchcock, 1958] è evidentemente voluto. Questi rimandi al cinema di Hitchcock sono sorprendenti, dal momento in cui Cronenberg, in tutta la sua carriera, pur frequentando il cinema di generi anche simili al maestro inglese, come il thriller o l’horror, aveva sempre avuto un approccio completamente diverso. Tuttavia, un primo motivo per cui il canadese si rivolge ad Hitchcock appare abbastanza chiaro: tutto il plot narrativo di The Shrouds, di cui si potrebbe parlare per ore, è un gigantesco MacGuffin, il celebre pretesto narrativo citato spesso dal regista britannico. Tra l’altro, il castello di colpi e contro-colpi di scena è talmente ricco e ben orchestrato che quest’ultima fatica del regista nato a Toronto, nonostante la verbosità dei dialoghi, scorre in modo assai più decifrabile dei suoi abituali film. A tal proposito, si possono annotare le numerose e colorite espressioni di Karsh che, sostanzialmente per tutto il racconto, viene stupito da una serie di sorprese non sempre gradite, come l’atto vandalico al suo cimitero, il passato fedifrago della moglie o il doppio gioco del cognato Maury (Guy Pearce). Se la trama sembra essere un gigantesco pretesto narrativo, alcuni elementi sono tipici della poetica di Cronenberg, anche nel loro essere spiazzanti e inaspettati, come il cimitero tecnologico di Karsh. 

L’attività della GraveTech, la società del protagonista, è l’ennesimo colpo geniale del cinema Cronenberg: un’azienda che, attraverso l’utilizzo di sudari speciali, permette ai propri clienti di monitorare costantemente lo stato delle salme seppellite in un cimitero appositamente allestito. L’utente, quando si reca in visita al cimitero, può connettersi tramite App sullo smartphone al monitor posto sulla lapide, e osservare a che punto è la putrefazione del caro estinto. O forse non è proprio questo lo scopo, forse c’è un tentativo di rimanere connessi, almeno visivamente, al defunto. Già, parlando di monitor e di sudari che funzionano come telecamere, è chiaro che uno dei temi portanti di The Shrouds sia l’atto di vedere, cosa naturalmente anche prevedibile essendo quello di Cronenberg un cinema metalinguistico e la vista il senso maggiormente coinvolto nella settima arte. Ma, del resto, è l’intera nostra società ad essere dominata dal senso della vista, stando a Marshall McLuhan già dalla scoperta della tipografia a caratteri mobili, nel XV secolo. Oggi, siamo talmente abituati ad avere nella vista il massimo e supremo riferimento, che un’idea come quella della GraveTech ci appare geniale, pur nel suo lato malsano e, probabilmente, immorale. Manca qualcosa nel rispetto che si deve alla vita, se pensiamo che filmare un cadavere sia un tentativo in qualche modo plausibile di elaborare un lutto. Cronenberg sta provocando, è evidente, ma non in modo gratuito: considerato le assurdità a cui stiamo assistendo quotidianamente, piazzare una telecamera in una bara non è poi così fuori luogo, anzi. Ma, oltre alla vista, esistono anche altri modi per comprendere, capire, cosa ci sta attorno e Cronenberg ce lo dice sin dalla prima scena, quando Karsh è nello studio dentistico e il dottore azzarda una curiosa teoria, secondo cui il dolore ai denti del suo paziente sia un’espressione della sofferenza per la morte della moglie. Un’altra brillante provocazione cronenberghiana, d’accordo, però è innegabile che anche il dolore sia un mezzo per comprendere la realtà. La società occidentale, al contrario, si fonda essenzialmente su ciò che può vedere. Il protagonista, ad esempio, si fida di Hunny, il suo assistente digitale, finché lo vede nelle fattezze umane di una ragazza mentre lo trova inaffidabile se assume quelle di un koala. Con lo stesso criterio, è attratto da Terry sostanzialmente perché questa è esteticamente uguale a Becca, del resto è sempre la Krueger ad interpretare entrambi i personaggi. Il problema di Karsh, e di tutta la società occidentale, è che la vista è un senso parziale ma, al contempo, talmente acuto e incisivo al punto da ingannarci, da indurci a credere che sia totale, in grado di fornirci un quadro completo ed esaustivo. Già Giovanni Verga e i veristi, che furono affascinati dalla fotografia, e in seguito Dziga Vertov, l’avanguardista russo del «cineocchio», si erano già, a loro modo, scontrati con la difficoltà di rappresentare la realtà pura e semplice attraverso una visione pur fedele della stessa. Son passati decenni, la tecnologia si è raffinata in modo esponenziale, ma un qualunque appassionato di calcio può confermare le inaspettate difficoltà riscontrate dal VAR (Video Assistant Referee, assistenza video all’arbitro) nello stabilire ciò che accade sui campi da gioco, nonostante le tante differenti e contemporanee angolature delle riprese. 

L’avvento del VAR, al netto del risultato specifico ottenuto dello strumento, ha avuto l’effetto di alimentare nuovi dubbi, nuove incertezze, ottenendo il risultato opposto a quanto prefissato. Allo stesso modo, le tante immagini da cui siamo bombardati, non chiariscono la situazione ma, semmai, offrono il fianco a nuovi interrogativi. In The Shrouds, una telecamera in una bara dovrebbe forse svelarci cosa succede dopo la morte e, al contrario, ecco che si scoprono strane protuberanze che sorgono sulle ossa di Becca e altri defunti del cimitero GraveTech. Strane e inspiegabili, almeno dalla scienza conosciuta: e qui si arriva al cuore del discorso di Cronenberg. Perché una spiegazione è possibile, ed è la stessa spiegazione a cui ormai, chi più chi meno, siamo abituati a rivolgerci: il complotto. Cronenberg, nel rispondere ad una domanda di Sangiorgio, il direttore artistico del BAFF, lo rivela esplicitamente: il complottismo può essere una sorta di rifugio del suo protagonista, e questa soluzione, considerata la natura del cinema di Cronenberg, possiamo intenderla valida anche per l’uomo dei nostri giorni. Con questo non è che il regista canadese voglia perorare il complottismo in senso letterale ma si tratta di una sorta di provocazione simile a quella del precedente Crimes of the future, dove aveva sostanzialmente insinuato il dubbio di essere un conformista borghese. Qualcosa che, almeno artisticamente, gli era totalmente estraneo. Con The Strouds il regista canadese invita a riflettere sul tanto diffuso complottismo, dando una spiegazione folgorante è illuminata al fenomeno. E per rendere più evidente il discorso, utilizza la geopolitica, i russi e i cinesi del racconto, in un vortice di intrighi che ci confonde e non ci permette di capire cosa sia vero o cosa frutto di congetture. Non a caso, alla fine, Karsh tra Terry, che lo attrae perché soddisfa il desiderio di rivedere sua moglie, e Soo-Min (Sandrine Holt), sceglie quest’ultima. La donna, moglie di un possibile facoltoso cliente in fin di vita, è cieca –e quindi ha sviluppato altre capacità di percezione della realtà, si veda la scena della registrazione audio– oltre ad essere coreana e vivere a Budapest – la Corea, almeno quella del Nord, e l’Ungheria sono tra i paesi meno allineati alla comunità occidentale. Soo-Min veicola quindi due elementi, totalmente diversi ma che, nel loro esserlo, rappresentano il cortocircuito finale della società occidentale. L’essere non-vedente della donna ci riporta ai tempi precedenti alla alfabetizzazione estrema introdotta dalla stampa a caratteri mobili, quando l’udito, il tatto e gli altri sensi avevano almeno lo stesso valore della vista. E quando il concetto stesso di meccanizzazione scomponibile del linguaggio studiato da McLuhan non aveva ancora reso l’uomo occidentale quello che è stato finora. I rimandi geopolitici intrinseci alla figura di Soo-Min, come detto Ungheria e Corea del Nord sono due tra gli agenti più coinvolti negli intrighi internazionali, simboleggiano il fenomeno del complottismo, il luogo terminale in cui ci si rifugia tutti quanti da quando, subissati dalle tante informazioni contraddittorie, perlopiù sotto forma di immagini, non sappiamo più in cosa credere. McLuhan disse che, con l’invenzione della consonante (scritta) abbiamo dato un orecchio per avere in cambio un altro occhio. Adesso che l’occhio, sopraffatto dalla sua stessa ingordigia di immagini, ci inganna, non sappiamo più come fare per capire cosa sia vero o cosa non lo sia. In questa situazione, il complottismo, diviene la nostra ultima spiaggia. Dopo aver fatto ammenda sull’inutilità del suo cinema con Crimes of the future e con il paragone al cinema morale di Fritz Lang, Cronenberg ne rivendica l’importanza in qualità di MacGuffin che, come il complottismo, è uno strumento per cercare di sopravvivere.
Sempre McLuhan disse che il medium è il messaggio; Hitchcock, dal canto suo, diceva che la trama, (plot, in inglese), era unicamente un pretesto. Cronenberg, in The Shrouds, fa una sorta di sintesi e ci dice che il complotto (plot, in inglese) è sia pretesto che messaggio. È il senso di tutto quanto, perlomeno quello che possiamo illuderci di trovare. Ed è tutto ciò che ci rimane.
A parte il buon sesso.   



lunedì 23 dicembre 2024

NOMERY

1596_NOMERY . Ucraina, Polonia, Francia, Cechia 2020: Regia di Oleh Sentsov e Akhtem Seitablaev

Visivamente, il lungometraggio sembra una mera rappresentazione teatrale ma, ad uno sguardo più attento, non si può dire che gli autori abbiano semplicemente piazzato la macchina da presa davanti al palcoscenico riprendendo attori e scenografia. Certo, c’è l’evidente volontà, espressa in modo cinematografico, e confermata poi dallo stesso regista in un’intervista a Cineuropa [dal sito Cineuropa.org, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/386397/, visitata l’ultima volta il 3 novembre 2024], che la forma si adegui al contenuto, che era appunto prettamente di natura teatrale. Su questo argomento Sentsov non si dilunga in spiegazioni, ma sul fatto che l’impressione ricercata non fosse quella del classico film pare evidente sin dall’inizio, dove il montaggio, la vera essenza del cinema, è usato con parsimonia. Più appariscente, in questo senso, l’ambientazione, che sembra effettivamente il palcoscenico di un teatro, che alimenta la sensazione claustrofobica e la mancanza di vie di uscita. Efficace anche la fotografia di Adam Sikora, che riesce ad assecondare visivamente il surrealismo grottesco della vicenda. Nomery, in sostanza, utilizza gli strumenti propri del cinema per mettere in scena il teatro, ed è, quindi, un prodotto un po’ più raffinato di quel che può sembrare a prima vista. Nel surreale racconto su cui verte il film, i dieci personaggi hanno i numeri al posto del nome e vivono in un ambiente chiuso seguendo pedestremente un programma quotidiano che prevede alcuni passaggi obbligati. Due guardiani li tengono sotto tiro, letteralmente, nel caso i membri di questa bizzarra comunità si facessero venire strane idee, mentre a dirigere tutto quanto questo «mondo» è Zero (Viktor Adrienko). Zero, chiamato in causa spesso da First (Oleksandr Yarema) manco fosse una sorta di divinità, ha l’aspetto di un annoiato pensionato che si comporta come un capriccioso tiranno. Il citato First è, come prevedibile, l’attempato capoccia della combriccola, e non fa altro che badare a mantenere la propria posizione privilegiata, spalleggiato dalla prosperosa Second (Irina Mak), sua compagna per rigorosa convenzione numerica. Difatti, i numeri dispari sono uomini, mentre i successivi pari sono donne e le relazioni previste sono in ordine strettamente progressivo, primo e seconda, terzo con quarta e così via. Oltre ai citati capostipiti, tra gli altri membri si possono ricordare l’affascinante Fourth (Lorena Kolibabchuk), che scombina gli accoppiamenti previsti seducendo Seventh (Evhen Chernykov), vero protagonista della storia. In realtà il più autentico ribelle è Ninth (Aleksandr Begma), che si oppone apertamente alle assurde e inflessibili regole della anomala comunità, ma, dopo un iniziale tradimento, sarà proprio Seventh a raccoglierne il testimone. La natura ambigua di Seventh –resa evidente anche dalla relazione con Fourth senza per questo abbandonare la sua compagna prevista dall’ordine numerico, Eighth (Agata Larionova)– è un segnale da non sottovalutare. A rivoluzione completata, perché è di questo che parla Nomery, Seventh si rivelerà un tiranno assai peggiore di quanto non fosse Zero. Prima che ciò avvenga, fa la sua comparsa Eleventh (Maksym Devizorov) –il cui valore numerico lascia intendere che sia il figlio dal rapporto clandestino tra Seventh e Fourth– che altera l’ordine costituito ma, al momento della verità, si rivela un fuoco di paglia. Per una volta, considerato il messaggio piuttosto esplicito, tanto vale lasciare la parola all’autore a proposito del significato del film. “La pièce è stata scritta nel 2011, tre anni prima degli eventi di Maidan. Forse era una specie di premonizione, ma non c’era modo di sapere cosa sarebbe successo a me. Ma, in ogni caso, questa sceneggiatura simboleggia ciò che pensavo in quel momento sulla necessità di opporsi all'ingiustizia a cui stavo assistendo intorno a me. (…) Questo film è un’opera d’arte che avverte le persone di stare attente ogni volta che iniziano una rivoluzione. Quando sei in grado di rovesciare il vecchio regime, ciò non significa automaticamente che sei in grado di costruirne uno migliore. Quindi fin dall’inizio, devi concentrarti su come migliorare il tuo regno, non solo su quello nuovo”. [Ibidem]. Seppure come progetto originale avesse certamente una natura premonitrice, il film fu distribuito a fine 2020, quindi ben dopo le proteste di Euromaidan –o Maidan, a seconda di come le si vogliano chiamare– e la crisi che ne seguì. Tuttavia, come affermato dallo stesso Sentsov, in Nomery possiamo intravvedere l’incombere della catastrofe; e, in questo senso, il film è certamente molto efficace.  


mercoledì 19 giugno 2024

eXistenZ

1500_eXistenZ . Canada, Regno Unito 1999; Regia di David Cronenberg.

Abitualmente, la natura metalinguistica dei film di David Cronenberg, è suggerita già dai titoli di testa; questo avviene anche in eXistenZ, per la verità. L’ammaliante musica di Howard Shore avvolge le ipnotiche immagini: stratificate su differenti piani e di diverso grado di trasparenza, lasciano intuire origini e temi differenti, senza che se ne riesca ad afferrare il disegno complessivo. Tuttavia, eXistenZ segna una differenza perché Cronenberg utilizza già il titolo –meglio, la grafia del titolo– per dare le prime coordinate. In realtà c’era già stato M. Butterfly [1993] nel quale la emme maiuscola seguita dal punto, oltre che inusuale, poteva far intendere una sorta di abbreviazione di «madame» –da Madama Butterfly, l’opera di Giacomo Puccini che aveva ispirato il film– ma anche rimandare al simbolo che indica «male», maschio. Qui, però, il regista canadese si spinge oltre, perché il racconto filmico si apre proprio con la spiegazione di come si debba scrivere eXistenZ, senza maiuscola iniziale ma con la seconda e l’ultima lettera ad avere questa caratteristica. Nella ricostruzione esaudiente che Gianni Canova ne dà nel «Castoro» dedicato al Canadese [Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro Cinema n.161, Milano, Editrice Il Castoro, Marzo 2007, pagina 107] possiamo notare come l’assenza di iniziale maiuscola sottragga eXistenZ dalle tipiche consuetudini, la cui natura deriva dalle regole grammaticali. La maiuscola, abitualmente, segna l’inizio di una nuova frase o i nomi propri: quindi il film di Cronenberg dichiara sin dal titolo di non avere un inizio chiaro, cosa poi certificata dalla vicenda narrata, e nemmeno assurge a qualcosa di definito e definibile, non essendo un comune appellativo. Di contro, la X e la Z, le lettere sottolineate dal carattere maiuscolo nel titolo, sono due delle tre coordinate del sistema tridimensionale: l’incognita X e la variante Z; mancando però la Y, sarà impossibile stabilire con certezza il senso del messaggio. In modo un po’ inquietante, se il titolo sembra indicare una storia senza inizio, la zeta maiuscola con cui termina eXistenZ pone l’accento sulla fine: da un autore in un certo senso ossessionato dal concetto di morte, la cosa pare quasi naturale. In ogni caso, interpretandola in senso metalinguistico –terreno proprio tanto di Cronenberg che di eXistenZ– si avrebbe poi, a fine visione del film, la conferma che, procedendo all’inverso, nell’epilogo si trovi quello stratagemma narrativo che potrebbe dare logica al racconto. Tuttavia, il regista canadese, seppur ami rispettare i canoni del cinema «di genere» –e, quindi, in una storia distopica di fantascienza sulla realtà virtuale, dove vale un po’ tutto, la coerenza interna al racconto va almeno salvaguardata– non pone certo sui vincoli logici della sceneggiatura il suo interesse. Sia quel che sia, quel che il regista ricercò, non convinse tuttavia il pubblico. Il motivo dello scarso successo del film è in parte da ricercare nell’estetica personale di Cronenberg, forse troppo legata agli effetti speciali artigianali, quando al tempo impazzavano già simulazioni grafiche assai più spinte, ma, soprattutto, all’incapacità dello spettatore di coglierne l’inquietante messaggio. Che, insistendo nell’ambito metalinguistico, è esattamente il tema del film. Cioè, a prima vista, dal momento che eXistenZ, nella storia narrata dal film, è un gioco di realtà virtuale, può sembrare, e certo in parte è, che quest’ultima sia l’argomento portante del lungometraggio. La realtà virtuale era già da tempo un fulcro di interesse collettivo, ma, da questo punto di vista, il 1999 fu lo snodo cruciale: lo sviluppo delle nuove tecnologie unite al fatidico avvento del 2000, per decenni utilizzato come sinonimo di futuro fantascientifico, rendeva l’ultimo anno del millennio [in realtà era il penultimo, ma venne universalmente inteso come ultimo] uno svincolo inevitabile, sia esso come ambientazione, si veda Strange Days [1995, regia di Kathryn Bygelow], sia esso come anno di uscita nelle sale, e l’esempio più eclatante è probabilmente Matrix [The Matrix, 1999, regia dei fratelli Wachowski]. Parlando di realtà virtuale, è normale attendersi una grande attenzione all’aspetto visivo di questi testi e, in effetti, quelli citati, come molti altri dello stesso tipo, sfruttarono a dovere la Computer Grafica e gli effetti speciali, al tempo già sufficientemente evoluti, per fornire una confezione formale accattivante. Matrix, a conti fatti, è ancora oggi invidiabile in tal senso. Cronenberg non è però così interessato a convincere i suoi spettatori che la realtà virtuale del suo film sia credibile; casomai è interessato a farci dubitare della realtà in cui abitualmente viviamo, e, lavorando in questo senso, può lasciare spiazzato –tanto per cambiare– il pubblico. In effetti eXistenZ, come accennato, al botteghino fu un flop clamoroso, e questo nonostante il regista fosse già famoso, avesse un pubblico di fedelissimi e trattasse un tema, come visto, quanto mai attuale. D’altra parte eXistenZ proseguiva nella serie di quei film ben poco concilianti con il pubblico, iniziata con Inseparabili [Dead Ringers, 1988], proseguita fino a Crash [1996] e rinnovata quindi ulteriormente. La particolare estetica, non sempre credibilissima e spesso biologicamente surreale, deve probabilmente essere frutto del gusto dell’autore nato a Toronto ma in questo caso aveva una ragion d’essere più razionale. Secondo Marshall McLuhan –il celebre sociologo canadese a cui Cronenberg ha spesso fatto riferimento, in particolare in Videodrome [1982]– sosteneva che le invenzioni tecnologiche avessero, di fatto, esteso in modo esponenziale la nostra capacità percettiva e, quindi, alterato in maniera, perlomeno concettuale, la nostra stessa biologia. La creazione di quel «villaggio globale» di cui il sociologo canadese parlava come risultato dell’evoluzione dei media elettronici – radio, televisione – con la possibilità di condivisione istantanea su tutto il globo tramite l’uso dei satelliti, unita alla capacità potenziata di percepire notizie ed informazioni da parte dell’individuo, anticipava, di fatto, le caratteristiche dei giochi di simulazione basati sulla realtà virtuale. I social media porteranno poi questi aspetti al limite dell’immaginabile ma, tornando alle scelte registiche di Cronenberg a proposito di eXistenZ, diventa più chiaro il perché l’autore abbia una poetica visiva così «biologica» e assai meno «tecnologica». In effetti, computer, monitor, schermi, ologrammi, sono accessori tipici dei film di fantascienza e sorprende che in eXistenZ non ve ne sia traccia. Questo perché Cronenberg è sì interessato ai «media» –del resto «il medium è il messaggio», per restare su McLuhan– ma nel senso appunto del «messaggio», del contenuto. Quindi, per rappresentare al meglio quell’enorme organismo integrato che è la nostra società, più che mettere in scena gli strumenti che lo rendono tale, il regista preferisce dare una visione cinematografica dell’idea: la «nuova carne», ovvero, i «game pod» di eXistenZ.    
Del resto, Cronenberg non è mai stato tanto interessato a certi canoni estetici del cinema, non lo era con gli horror degli inizi e non lo è nemmeno nel caso di questa fantascienza distopica. È, a suo modo, assai più essenziale e razionale: gli preme la realtà, quella vera, non quella virtuale. Certo è clamoroso che, per analizzarla, utilizzi ancora una volta un cinema metalinguistico, in questo caso, poi, addirittura ultra-metalinguistico. Un cinema, l’arte che riflette la realtà, che parla di una realtà artificiale ma che ha come obiettivo non tanto queste forme di finzione, ma il mondo reale. Il concetto è: se, nel film, non si riesce a distinguere il vero dal falso, nonostante sia tutto palesemente fasullo, posticcio, allora vuol dire siamo abituati a credere –e a vivere– in una realtà non molto dissimile. Come protagonisti del suo film, basato su una sceneggiatura dello stesso regista, Cronenberg prende non a caso dei giocatori di videogiochi: è opinione diffusa che tra i ludopatici della realtà virtuale più o meno spinta, si rischi una sorta di dipendenza ma non solo. Il pericolo maggiore è, per essere gentili, il «narcisistico torpore» di cui parlava ancora Marshall McLuhan; le lusinghe dei giochi elettronici, la competizione che innescano, con gli altri utenti ma anche e soprattutto con sé stessi, nell’autocompiacimento nel divenire totalmente integrato con il mondo virtuale creatosi, erano, nel 1999, già evidenti. In realtà non si trattava affatto di una novità, e non basta scomodare i videodipendenti degli anni Ottanta perché McLuhan trovò quell’efficace definizione a proposito di tecnologie assai più antiche, come, ad esempio, la stampa a caratteri mobili. Se McLuhan ci vedeva lunghissimo e Cronenberg almeno lungo, anche un orbo potrebbe accorgersi che, oggi, nel 2024, gli smartphone e i social network hanno calato tutti quanti nel citato «narcisistico torpore» in un modo finora sconosciuto. È di questo che parla eXistenZ, di questo istupidimento che avvolge tutto e tutti e che non ci permette di comprendere se siamo di fronte alla realtà o ad una sua simulazione. I protagonisti del film non lo capiscono e nemmeno gli spettatori riuscirono ad orientarsi; questi ultimi cercarono all’interno del film quegli ancoraggi per gustarsi la storia –qualcosa di simile alle lusinghe dei media tecnologici avviene anche per i fruitori di cinema, che fanno quasi gara a comprendere meglio un film– e, non trovandoli, rimasero delusi. Essendo un testo metalinguistico nel senso profondo del termine, questi rimandi andavano cercati fuori dalla realtà cinematografica di eXistenZ. Il film, non a caso, si chiama esattamente come il mondo virtuale al centro del racconto, anche se poi, nel finale, si scopre che in realtà ci si trovava all’interno di un altro gioco, transCendenZ, e questo serve a descrivere la sorta di scatole cinesi che è il lungometraggio, di cui la nostra quotidianità è quella successiva, la scatola più grande.
Pur se evidenziando una criticità nella situazione, Cronenberg non fornisce una tesi, una condanna, alle nuove tendenze, o almeno non esplicita e dichiarata. Pare che l’ispirazione per il film venne data al regista canadese da un’intervista a Salman Rushdie, autore dei Versetti satanici che gli costarono la fatwa islamica, una sorta di condanna a morte. Secondo il regista, Rushdie, con il suo libro, aveva messo in discussione la realtà consolidata della tradizione islamica e, per poterla ripristinare, le autorità religiose iraniane ritennero la sua eliminazione fisica l’unica soluzione. Cronenberg trovò, probabilmente, un’analogia tra la sua condizione e quella di Rushdie: anche al suo ultimo cinema veniva imputata la colpa di allontanarsi dalla realtà accettata, comprensibile, i suoi film recenti, Il pasto nudo [
Naked lunch, 1992] e Crash sopra ogni altro esempio. Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh) oltre che la protagonista del film, è la creatrice di eXistenZ, il gioco virtuale, e, praticamente in apertura del racconto, subisce un attentato al grido di “Morte al demone Allegra Geller!”. A volerla morta sono i «realisti» che l’accusano di aver destabilizzato la realtà creando universi virtuali; in pratica, si tratta di una difesa di un mondo, quello ritenuto reale, dall’ingerenza del virtuale o, volendo aggiornare i termini, dell’IA, l’Intelligenza Artificiale. Cronenberg, come detto, forse ci vede una possibile similitudine tra il suo cinema e il resto della normale produzione, e, volendo, anche all’interno della sua stessa filmografia, essendo la sua poetica divenuta via via sempre più ermetica, anche per il suo stesso pubblico. Nel parapiglia successivo all’attentato, dove Allegra rimane ferita, Ted Pikul (Jude Law), l’addetto al marketing dell’Antenna Research, la società produttrice di eXistenZ, l’aiuta a dileguarsi. Ted Pikul ha il ruolo proprio dello spettatore: colto e istruito, è in pratica del tutto impreparato a qualsiasi situazione lo veda coinvolto. In sostanza, l’«idiota tecnologico» di McLuhan, ultra-specializzato nel proprio campo ma incapace, proprio per questo, di cogliere con uno sguardo critico ciò che lo circonda. Egli, infatti, non ha ancora la «bioporta», orifizio artificiale praticato alla base della schiena dove i giocatori devono inserire il cordone che li collega al «game pod», la consolle biotecnologica necessaria per accedere a eXistenZ. Nonostante lavori per un’azienda produttrice di questi nuovi passatempi tecnologici, è restio a queste forme di condivisione estrema che necessitano i giochi come eXistenZ. Lo stesso atteggiamento di diffidenza che, di lì a pochi anni, avrebbero manifestato quelle persone che, oggi, vengono definite appartenenti alle generazioni «boomer» o «X», nei confronti dei social media come Facebook et similia. Un atteggiamento non del tutto da biasimare, in realtà, considerato le conseguenze che provocano questi media sulle persone, evidenziati, con una certa ironia, dai loop in cui cadono spesso i personaggi del gioco. Questi inceppamenti vanno sbloccati da un richiamo forte al contesto in cui si trovano, e sono, da una parte una metafora dei nostri cliché comportamentali indotti dalle nuove tecnologie, dall’altra espressione dal sottile umorismo che, rispetto al suo solito, Cronenberg dispensa maggiormente nel film. Che, in modo un po’ sornione, si può percepire anche nelle scene, dal sapore vagamente sessuale, relative alle citate bioporte. Gli incastri narrativi della storia sono costruiti con mestiere da Cronenberg, che si preoccupa poi che la resa visiva sullo schermo risulti costantemente artificiale, anche negli scenari più realistici. I passaggi da un piano del racconto all’altro, tra la realtà e il gioco, non sono evidenziati da alcun espediente di montaggio cinematografico, risultando quindi indistinguibili e confondendo tutti i livelli narrativi. La cosa è, in un certo senso, proposta anche sotto il profilo etico: il gioco ha passaggi chiave prestabiliti per potersi svolgere correttamente, questo a discapito del libero arbitrio in senso assoluto dei personaggi. Che è poi la stessa situazione, osserva Allegra, che si ha nella realtà. Questo punto è illuminante, e illustra in modo implacabile l’illusione di libera scelta della nostra quotidianità. In pratica, è come se Cronenberg rigirasse la frittata. Accusato di snaturare il realismo della sua arte, il regista dimostra come non vi siano sostanziali differenze tra i suoi onirici mondi e il nostro abituale contesto. Uscendo dal cinema, come fanno Allegra e Ted dalla chiesa, nel finale, potremmo –o dovremmo?– infatti ritrovarci anche noi a chiederci: “siamo ancora nel gioco?”.


martedì 21 maggio 2024

L'ULTIMO BAMBINO

1485_L'ULTIMO BAMBINO (The Last Child). Stati Uniti, 1971; Regia di John Llewellyn Moxey.

La fantascienza distopica è il sorprendente genere del terzo Movie of the Week per la rete televisiva ABC firmato da John Llewellyn Moxey. Il film è noto per essere l’ultima interpretazione di Van Heflin nel ruolo del senatore George: l’attore morì d’infarto poco tempo dopo che si erano chiuse le riprese e, di conseguenza, la triste sorte del suo personaggio nel finale del racconto finisce per avere maggiore enfasi. Che poi, di suo, il soggetto di Peter S. Fischer è già abbastanza sconvolgente: gli Stati Uniti, in un futuro talmente prossimo da sembrare quasi contemporaneo agli anni Settanta in cui venne prodotto il film, sono divenuti una sorta di dittatura democratica. Il che suona contradditorio, è chiaro, ma è appunto qui la cosa che lascia spiazzati. Il tema principale è, come in parte evocato dal titolo, il fatto che il governo americano abbia istituito un ferreo controllo delle nascite, per combattere la sovrappopolazione. Queste teorie ebbero effettivamente applicazione pratica nella realtà in Cina ma solo due anni dopo la trasmissione del film di Moxey, che anticipò quindi i tempi, da buon film di fantascienza. Quello che non riuscì peraltro ad intuire fu l’approccio all’argomento dell’aborto che, nel racconto, viene esercitato dal sistema per controllare le famiglie mentre nella realtà americana, dopo la celeberrima sentenza Roe Vs Wade del 1973, divenne una vittoria delle organizzazioni progressiste. Peraltro il tema dell’aborto è ancora oggi particolarmente delicato e con effetto divisivo immediato e automatico: L’ultimo bambino, con la coppia di genitori che si vuole tenere a tutti i costi il proprio figlio in procinto di nascere in un contesto di una società iper-sorvegliata che ne cerca invece la soppressione, finirebbe con ogni probabilità per scontentare entrambi gli esacerbati schieramenti che, inevitabilmente, si creano in questi casi. Ma se abbandoniamo un attimo l’argomento principale del film, l’aborto e le sue sfaccettature, per focalizzarci su temi meno scottanti e quindi più semplici da affrontare, non possiamo evitare di notare la lungimiranza dell’opera e il suo mettere in rilievo alcune contraddizioni che oggi forse tendiamo ad accettare per buone. Prendiamo l’uso della carta di pagamento, che nel film sembra aver sostituito il denaro: politica e organi di stampa ci martellano inesorabilmente con la demonizzazione del contante, che sarebbe l’anticamera dell’illegalità. 

Bene, il film ci mette in guardia da quelli che sono i rischi di avere forme di pagamento interamente digitalizzate: nel caso di una forma di governo oppressiva, per il cittadino che finisse sotto speciale osservazione non vi sarebbe alcuno scampo, visto che si potrebbe trovare all’improvviso privato di ogni risorsa economica. Il che sembra un rischio solo teorico, considerato come siamo abituati a ritenere le nostre attuali forme di governo. Tuttavia, a tutt’oggi, se dobbiamo parlare di dittatura, in Italia, giusto per fare un esempio, non dobbiamo andare indietro nel tempo nemmeno di un secolo per trovarne una insediata stabilmente al potere. Non si tratta, quindi, di ipotesi poi così remote, almeno storicamente parlando. Un'altra curiosa teoria che mette in campo questo L’ultimo bambino è che la produzione dei veicoli, nel futuro distopico presentato, sia stata fermata; il che è sicuramente il sogno per ogni ecologista che si rispetti di oggi. In effetti l’inquinamento è uno dei problemi più gravi ma nel soggetto di Fischer non è chiaro se le auto siano state messe al bando per motivi ecologici o per carenza di combustibili: quello che emerge, almeno nell’ipotesi messa in campo dalla storia, è che senza le auto sarà assai più semplice controllare gli spostamenti delle persone. Il che è opinabile, in quanto con le targhe e il loro tracciamento non vi è oggi troppa differenza tra girare in automobile o dover passare la propria tessera personale in un controllo della stazione. In ogni caso, quello che L’ultimo bambino riesce efficacemente a comunicare – al netto di previsioni futuribili fatte agli inizi degli anni Settanta che si possono comprensibilmente essere rivelate non del tutto esatte – è che la società, nel momento in cui vuole l’assoluto controllo sulla vita dell’individuo, rischia di essere qualcosa di terribile. In effetti, al momento siamo lontani da una legge che vieti alla medicina di curare gli over 65 – questa la causa della morte del personaggio di Van Hefling – ma anche questa non sembra poi un’ipotesi cosi campata in aria. E, anche in questo caso, le recenti battaglie per il suicidio assistito rischiano di sovrapposti a questo tema del film, facendolo passare per un testo contro l’evoluzione civile. Ma è proprio questo il pregio de L’ultimo bambino: un film concepito come progressista e contrario ai totalitarismi negli anni Settanta, se visto oggi rischierebbe di passare per reazionario. Al netto delle posizioni di ognuno, vedendo il film, almeno un dubbio, su quanto ci viene oggi fatto passare per giusto e insindacabile, ci dovrebbe o almeno potrebbe venire. Tanta roba, comunque.  








 Janet Margolin 

domenica 3 marzo 2024

THE SOLARNAUTS

1447_THE SOLAURNAUTS. Regno Unito, 1967; Regia di John Llewellyn Moxey.

Partorita dalla fertile penna di Roberta Leigh – la polivalente autrice inglese che aveva creato, tra gli altri la serie Space Patrol per restare giusto in tema di fantascienza – The Solarnauts venne concepito come cortometraggio pilota per una eventuale nuova produzione ad episodi. Il bizzarro film, per quanto anche divertente, non fu però ritenuto abbastanza valido da indurre la Wonderama Production a mettere in cantiere una serie televisiva e l’esperimento rimase quindi fine a sé stesso. Effettivamente va detto che l’intera architettura – dal piano narrativo a quello scenografico – fa acqua da tutte le parti ma va riconosciuta una certa autoironia che poteva, con qualche rinforzo, essere un buono spunto di partenza. Per avere un’idea di cosa sia The Solarnatus si può ipotizzare una sorta di via di mezzo tra Star Trek e quei film di fantascienza un po’ naif, roba del calibro di Plan 9 from the Outer Space (1959) di Ed Wood, per intenderci. In ogni caso gli autori coinvolti non erano, almeno sulla carta, affatto male. La Leigh aveva una fantasia fertile anche se in questo caso si affida ad una serie di cliché fantascientifici abbastanza risaputi e non proprio originali. A dirigere il cortometraggio è chiamato John Llewellyn Moxey, un regista molto professionale e con una buona esperienza in ambito televisivo. Il cineasta inglese era stato uno degli autori di punta della serie The Edgar Wallace Misteries ma in questo caso riesce a ben gestire il tono ironico-avventuroso della storia lasciandosi alle spalle le sue tipiche atmosfere inquietanti. Tra gli interpreti, più che i due protagonisti David Garfield (è Power) e Derek Fowlds (è Tempo) a lasciare il segno è Martine Beswick (è Kandia). Martine era stata una Bond-Girl – e in ben due film, A 007 – Dalla Russia con amore (1962) e Agente 007 – Thunderball (1965) – e nell’attillata tutina spaziale che sfoggia in The Solarnauts si capisce bene il perché.   






Martine Beswick




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lunedì 6 febbraio 2023

1997: FUGA DA NEW YORK

1217_1997: FUGA DA NEW YORK (Escape from New York)Stati Uniti, 1981; Regia di John Carpenter.

Tra il 1978 e il 1980 John Carpenter dirige Halloween – La notte delle streghe (1978) e Fog (1980) per il cinema e Pericolo in agguato (1978) e Elvis il re del rock (1979) per la televisione: ha la mano caldissima. Visto il positivo riscontro di pubblico, la Avco Embassy, lo studio che aveva prodotto Fog, chiede a Carpenter un altro film e il regista americano decide di mettere mano ad un vecchio soggetto a suo tempo pensato per Clint Eastwood: 1997 Fuga da New York. Come detto Carpenter a quel tempo è in formissima oltre ad avere guadagnato la stima e la considerazione dell’ambiente. Per capirci: per Halloween – La notte delle streghe Carpenter ebbe a disposizione un budget di 325.000 dollari, per 1997 Fuga da New York 6 milioni. Il film, questo va messo a referto prima di ogni altra cosa, è un assoluto capolavoro frutto di abilità singole, collettive e congiunzioni astrali. A concorrere alla riuscita dell’opera e alla sua capacità di ergersi a icona simbolo di un genere e di un periodo in modo quasi sfacciato, va quindi considerata la capacità di Carpenter di fare tesoro delle proprie esperienze. Il successo planetario e clamoroso arrivò inaspettato per Halloween – La notte delle streghe dopo che il valido esordio Dark Star (1974) era stato ignorato e la stessa sorte era capitata inspiegabilmente al successivo Distretto 13 – Le Brigate della Morte (1976). Dopo la fortunata svolta con protagonista Michael Myers, come detto Carpenter aveva lavorato ad un paio di lungometraggi televisivi, Pericolo in agguato e Elvis il re del rock, nei quali, dovendo farne a meno, si era reso conto di quanto fosse importante la propria abituale squadra di lavoro. 

Fog, il seguente ritorno al grande schermo, segnerà un clamoroso successo ma è interessante notare che “sul banco del montaggio, Fog subisce un radicale cambiamento voluto da John Carpenter” [Il Cinema di John Carpenter, G. Salza e C. Scarrone, Fanucci Editore, 1985, pagina 103, e per stessa ammissione del regista, come si può leggere a pag. 33 del libro-intervista John Carpenter di G. D’Agnolo Vallan e R.Turigliatto, Lindau]. Il regista americano, in quel preciso momento, sa cosa rende un film un successo; molto probabilmente non in modo del tutto consapevole, ma la sua sensibilità artistica sa esattamente cosa fare. Questo ipotetico aspetto della non completa coscienza della propria poetica è interessante perché permette di intuire parte della grandezza di 1997: Fuga da New York. Sempre nell’intervista contenuta nel volume Lindau possiamo apprendere che il regista non si capacitava degli aspetti che gli spettatori trovavano in Halloween – La notte delle streghe. A pagina 31 Carpenter dice: “La gente mi trattava come se sapessi qualcosa che in realtà non sapevo […] Il film aveva assunto una vita tutta sua, indipendente da me.” Sempre usando questa intervista a mo’ di strumento per comprendere meglio alcune dinamiche che stanno intorno a 1997: Fuga da New York non può non sorprendere che il film in questione venga saltato: le domande sono poste un po’ a ruota libera su base cronologica, per cui potrebbe essere un caso, è vero. 

Ma 1997: Fuga da New York è forse il film più celebre di Carpenter, al massimo il secondo dietro Halloween – La notte delle streghe, impossibile non farne parola quando si stanno rievocando i primi anni Ottanta del regista. In ogni caso, pagine e pagine dopo (pag.55), quando si arriva a Fuga da Los Angeles, gli intervistatori si rendono conto che non hanno ancora parlato del primo capitolo della saga, quello appunto ambientato a New York. Carpenter è abbastanza sbrigativo a questo proposito virando presto su Fuga da Los Angeles, per il quale spende parole migliori. Al netto dei gusti, qualunque criterio di valutazione oggettivo (incassi, recensioni) predilige, e di molto, il capostipite al remake/sequel del 1996. Forse, proprio con il fenomeno descritto dallo stesso regista per Halloween – La notte delle streghe, il primo film con Jena Plissken ha assunto una sua propria autonomia, un significato non del tutto conosciuto, almeno a livello consapevole, dallo stesso Carpenter. E per quanto a posteriori se ne possa dire freddo e indifferente 1997 Fuga da New York è la perfetta sintesi della sua poetica. Frutto di una serie di circostanze fortunate, forse, o di un’alchimia di cui l’autore non è del tutto cosciente – chissà – comunque è chiaro che per comprendere il film in questione il suo realizzarsi è forse più utile che non il risultato, perfino troppo disarmante nella sua semplice efficacia. Radunato il proprio staff di collaboratori, a partire da Debra Hill come produttrice, vengono inoltre ingaggiati i migliori tecnici in circolazione: l’art directors a cui dobbiamo l’aspetto visivo del film è Joe Alves, mentre per girare costantemente in condizioni di buio Dean Cundey utilizza lenti Ultra Speed Panatar. Roy Arogast è un altro nome eccellente per gli effetti meccanici mentre pare che negli effetti visivi fosse coinvolto anche James Cameron. Non si tratta di fare un elenco di nomi ma di rendere merito ad uno stuolo di persone la cui collaborazione, abilmente orchestrata da Carpenter, ha permesso all’opera di girare come il meccanismo di un orologio. 

E i nomi sarebbero tanti e, si possono ricordare ancora almeno Nick Castle, all’opera insieme a Carpenter a soggetto e sceneggiatura, e Larry J. Franco in produzione e regista della seconda unità. Un discorso a parte merita la musica, scritta dallo stesso Carpenter e di cui il regista conosceva l’estrema importanza per il successo di un film; ad assisterlo, chiama Alan Howarth per un risultato semplice, quasi ossessivo e quanto mai efficace. Anche il cast è composto da attori in molti casi già diretti dall’autore americano, tra questi: Kurt Russell è Jena Plissken (Snake, nell’originale americano), Donald Pleasence è il Presidente degli Stati Uniti, Adrienne Barbeau è Maggie, Frank Doubleday è Romero, Tom Atkins è Rehme. Lee Van Cleef (è Hauk), Ernest Borgnine (è il Tassista) e Harry Dean Stanton (è Mente) sono invece palesi legami con il cinema a cui Carpenter fa riferimento in 1997 Fuga da New York. Sia Van Cleef che Borgnine erano stati in grado di interpretare sontuosamente sia i western classici che le derive successive più decadenti pur non limitandosi certo solo a quel genere.  

Stanton era anch’egli un caratterista eccezionale e guardando la sua filmografia si rimane esterrefatti sebbene raramente gli sia stato riconosciuto il giusto merito. Preparato gli eccezionali ingredienti, Carpenter non si avventura in qualcosa di troppo originale, semplicemente cristallizza in un’opera una serie di spunti che già aleggiano nell’aria. Ad esempio, il debito di 1997 Fuga da New York verso I guerrieri della notte (1979) è evidente ma Carpenter enfatizza la situazione di degrado descritta da Walter Hill ambientando il suo film in un futuro prossimo in modo da avere mano libera. Un po’ come aveva fatto George Miller per Mad Max – Interceptor (1979), tanto per capirci. Da parte sua il regista ribalta il concetto a cui era particolarmente legato del Male che assedia dall’esterno per raccontare di una società nella quale il Male è talmente ben radicato da poter essere efficacemente rappresentato dalla Manhattan trasformata in carcere di sicurezza che vediamo nel film. L’idea del tempo che incalza ma può anche essere dilatato dalla regia, nella scena della resa dei conti finale, è uno stratagemma narrativo che non da alcuno scampo allo spettatore, costretto come Plissken a non mollare mai la presa. Il carisma di Russel e le celeberrime battute del suo personaggio finiscono l’opera: 1997: Fuga da New York è un vero e assoluto capolavoro, un film al tempo stesso semplice ed epocale, e non poteva essere altrimenti. Ad essere del tutto onesti, oggi, oltre trent’anni dopo, guardandolo, si può forse scorgere qualcosa appena dopo il limite che il film raggiunge e sancisce, il limite del sublime. Quel limite oltre il quale si sfiora il ridicolo. Ma perché mai dovremmo farlo?   


Adrienne Barbeau 





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