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venerdì 24 dicembre 2021

CENERENTOLA

946_CENERENTOLA (Cinderella); Stati Uniti, 1950; Regia di W. Jackson, H. Luske e C, Geronimi.

Nel 1950 il periodo bellico e i suoi strascichi potevano considerarsi alle spalle e Walt Disney, dopo sei lungometraggi in tono minore, decise di tornare a produrre un film che rinverdisse i fasti di Biancaneve e i Sette Nani. Si trattò di un azzardo; il boom degli anni cinquanta non si era ancora consolidato e la Disney non era riuscita a sistemare i propri conti in modo definitivo, non almeno nei termini che servivano a produrre un’opera impegnativa come Cenerentola. La decisione di Walt fu naturalmente lungimirante: è solo andando in anticipo, meglio se lieve come in questo caso, che si può fare davvero il botto, come di fatto avvenne. Quando si ha l’intuito geniale, e Disney ce l’aveva di sicuro, prendendosi il rischio di giocare sul tempo c’era la possibilità di cristallizzare qualcosa che era già prossimo a succedere (e sarebbe successo comunque) ma interpretandolo tempestivamente, si legava a filo doppio la propria opera con il contesto storico sociale. E, soprattutto, si andava incontro alle necessità del pubblico, proprio quando queste andavano maturando; a quel punto, oltre all’incasso, ci si prendevano anche i meriti autoriali. Che è quello che accade appunto con Cenerentola che, prima di ogni altra considerazione, va considerato come il classico per antonomasia di casa Disney; se Biancaneve e i Sette Nani è l’archetipo assoluto dei classici, se La Bella Addormentata nel bosco ne è l’apice tecnico artistico, Cenerentola è il classico perfetto. Dopo le limitazioni legate al periodo di guerra, occorreva una sterzata decisa che riportasse i film d’animazione della casa di Burbank al primo periodo aureo (dal citato Biancaneve a Bambi) e la soluzione scelta fu semplice e funzionale. 

Si mise in campo una sorta di remake di Biancaneve, in fondo si trattava di ricominciare a fare grandi film d’animazione; lo schema narrativo di Cenerentola ricalca infatti quello del precursore, la giovane e innocente protagonista vessata dalla matrigna, le difficoltà, il lieto fine col principe. Ma con alcuni distinguo cruciali e che fanno di Cenerentola un caposaldo non solo tra i classici disneyani e non solo del cinema, ma dell’intera società americana (se non occidentale). Innanzitutto è rimarcata l’origine aristocratica europea dell’opera, con l’incipit che è una fiaba disegnata, presa di peso da un libro illustrato; questo aspetto, ivi compreso la nobiltà della protagonista (è la figlia di un aristocratico vedovo, che successivamente si risposa), non è da sottovalutare. Qui il concetto borghese americano, che è alla base di tutto il cinema hollywoodiano e sostanzialmente di tutta la cultura degli States, sembra vacillare. 

E non è cosa da poco, perché Cenerentola, con la sua inarrivabile classicità, rappresenta quanto di più classico abbiano mai potuto ambire ad immaginare negli Stati Uniti: il Sogno Americano. Ma andiamo con ordine, perché, letteralmente, le cose non sembrano stare proprio così: se la protagonista della nostra avventura è una nobile, allora dovremmo essere di fronte ad una storia tipica della Vecchia Europa, e non della democratica America. Però, se vogliamo, l’incipit non è effettivamente animato ed è narrato dalla voce fuori campo; insomma, si riferisce a qualcosa di precedente alla avventura filmica vera e propria che andremo ad assistere. 

Un po’ come se fosse da intendere come la Storia europea che i coloni americani si portavano in dote ma che nel Nuovo Mondo non conterà di fatto più nulla. Infatti, l’essere di nobile stirpe non comporta nessun vantaggio a Cenerentola, nel film e, piuttosto, il principe quando la incontra al ballo se ne innamora pur senza avere nessuna notizia a riguardo. Per cui la natura democratica, popolare, dell’eroe, o meglio dell’eroina, tipicamente americana è semmai rivalorizzata dal film. Non è più un eroe popolare, ma un’eroina aristocratica trattata come una popolare, visto che la stirpe nobile non ha comunque alcun valore ai fini della nostra storia. Cioè viene tolta la possibile interpretazione che il Sogno Americano premiasse un uomo del popolo non per scelta, ma per mancanza, in America, di una vera e propria aristocrazia titolata. Un altro aspetto interessante, in Cenerentola, è il rapporto familiare della protagonista: in questo caso si ripete lo schema di Biancaneve, e il nuovo classico non modifica l’impostazione dell’archetipo. Sembra cioè importante, per Disney, rimarcare le difficoltà di relazionarsi con la famiglia tradizionale: padre assente e matrigna cattiva al posto della madre, per entrambi i classici. Sono due film che mettono al centro della scena una ragazza, cosa poi non così scontata, per l’epoca; in entrambi i casi, le giovani si accasano, e lo fanno con un ottimo partito. Disney era americano, quindi una persona pratica, concreta: se ci si deve sposare, meglio farlo con un uomo ricco. In tutte e due i casi, con un principe, la cui descrizione però è sempre solo abbozzata, bidimensionale. 


Come dire che la figura maschile, nella famiglia, serva a dare solidità, a dare corpo al sogno (americano), ma abbia poi poco peso nel complesso. Forse la nobiltà raggiunta dall’eroine può essere intesa come garanzia di sicurezza finanziaria anche se rimane un po’ l’idea di un certo conservatorismo, una volontà a restare ancorati alla solida tradizione europea, a cui, in fondo, la Disney, già a partire dal castello fiabesco che ne è l’emblema, non ha mai ufficialmente rinunciato. Il che sembra un contrasto, all’interno di opere che, nella prima metà del XX secolo, mettevano totalmente al centro della scena giovani donne, relegando ai margini i maschi della storia. In questo senso, pare non un caso che il principe, in Cenerentola, abbia un ruolo minore rispetto al collega all’opera in Biancaneve e si veda per giunta privato anche dell’aggettivo Azzurro, che era una sorta di titolo di merito a prescindere, visto che qui è solo un generico Principe

Se le figure maschili sono così poco rilevanti, padri assenti e promessi sposi niente che più che simboli, la vera partita si gioca tra donne. Del resto, in America, era stato proprio il periodo bellico, con gli uomini impegnati al fronte, a veder emergere l’importanza della donna nella società: in fabbrica le ragazze si erano fatte valere, dimostrando le loro capacità (si veda la propaganda pubblicitaria dell’epoca) e adesso, a guerra finita, non si poteva far finta di niente e rispedirle a casa con l’ordine di tornare alle faccende domestiche e basta. Anzi, l’emancipazione femminile permetteva di allargare il mercato dove far sfociare lo sviluppo tecnologico, al solito balzato in avanti durante il periodo bellico, e elettrodomestici e accessori casalinghi vari necessitavano di donne che avessero voce in capitolo anche in sede decisionale famigliare. 

Questo furono gli anni cinquanta americani (e non solo) e Cenerentola li aprì degnamente, mettendo in scena un conflitto tutto femminile che, stavolta, rispetto a Biancaneve, si allarga. C’è, nel film, una sorta di schema a raddoppio imperfetto, quasi a voler sporcare la specularità che una storia impostata su una divisione ferrea tra bene e male potesse lasciar intendere. Perché se Cenerentola è di animo buono, la matrigna, Lady Tremaine, è assolutamente cattiva e, essendo completamente umana, e non una strega come la Grimilde di Biancaneve, non ha nemmeno alcuna giustificazione narrativa per questo. Si può quindi dire che, in fondo, la cattiveria della regina in Biancaneve è legata al suo ruolo, è una strega, mentre Lady Tremaine non ha attenuanti. Ma, curiosamente, la dicotomia della contrapposizione madre (o meglio matrigna) vs figlia è raddoppiata dalla presenza delle sorellastre (Anastasia e Genoveffa) che biforcano ulteriormente il rapporto visto che sono due. La ragazza protagonista è quindi di fronte a due tipi di avversari diversi e tre soggetti differenti, a testimonianza che la battaglia è quasi sociale più che famigliare. In questo senso il film banalizza il messaggio: la bellezza è certamente un valore, e Cenerentola è bella e quindi buona; essere di aspetto sgradevole è invece un elemento negativo e quindi le sue tre rivali sono brutte e cattive. In questa semplicità di impostazione c’è, più che un tentativo di plagiare il gusto del pubblico o altre critiche che si sono sentite spesso rivolte alla Disney, l’intenzione di andare incontro alla mentalità infantile per la quale la propria mamma è sempre la più bella oltre che la più buona. E’ chiaro che rinfrancare il parallelo che ogni bambino dà quasi per scontato, ovvero bellezza uguale a bontà, è rischioso, ma Cenerentola, come tutti i classici Disney, è visto, impostato, sull’ottica infantile per cui non c’è una riflessione su questo aspetto, che è invece semplicemente un presupposto. Infantile, certo e, da un punto di vista adulto, confutabile; ma Cenerentola è e rimane principalmente un film per bambini. 

Quello che incoraggia il film è, naturalmente, a darsi da fare, a non mollare ma avere fede nei propri sogni, tanto che, nel caso possano sembrare irrealizzabili, può sempre succedere un miracolo, in questo caso l’incantesimo della Fata Smemorina, che dia una mano. Ma si tratta di un aiuto temporaneo perché poi, senza il concreto e faticosissimo lavoro degli animali amici della protagonista, topi Giac e Gas in testa, tutto sarebbe comunque vano. Gli animali stanno anch’essi su un doppio schieramento, buoni o cattivi, con il gatto Lucifero, perfido e dispettoso che, da solo, regge e bilancia la moltitudine di avversari. Cenerentola appare infatti ben integrata con l’ambiente naturale costituito dagli animali della residenza che, per numero e indole, si dimostrano migliori dei personaggi umani della storia. 

La natura, in Disney, è sempre un elemento positivo con cui bilanciare gli effetti spesso negativi introdotti dall’umanità ma, in Cenerentola, che è un classico allo stato puro, questi elementi sono veloci pennellate che servono per inquadrare tutta quanta la vicenda. Volendo, c’è anche una sponda rivoluzionaria, quando gli animali si ribellano alla cattiveria umana e di Lucifero, ma anche questa è, più che altro, una soluzione narrativa. Il vero fulcro non è comunque la lotta tra bene e male ma è che il personaggio protagonista sia una ragazza; e il fatto che sia meno fanciulla e, diciamo così, più svezzata di Biancaneve pone l’accento in modo inequivocabile sul suo genere di appartenenza. Disney, saggiamente, non ostenta in modo evidente lo sviluppo fisico di Cenerentola, che ha una bella linea ma è contenuta all’interno di una siluette abbastanza sobria (niente curve provocanti, insomma), ma sottolinea la cosa in una serie di riferimenti che risultano perfino più audaci. 

Intanto all’inizio della storia, assistiamo alla sua doccia e, per un istante, può venire il dubbio che poi si possa intravvedere qualcosa; in realtà mancano opportunamente i fotogrammi osé, ma la cosa risulta evidente lo stesso. Poi la ragazza canta I sogni son desideri, a sottolineare l’importanza del desiderio, elemento su cui le donne degli anni cinquanta cominciavano ad accampare diritti anche in un ambito che, fino a quel tempo, era stato a loro, almeno apertamente, precluso. Nella scena, tecnicamente sopraffina, in cui lava il pavimento del salone, la sua figura si raddoppia nelle bolle di sapone; anche qui, il proliferare delle bolle e dei loro riflessi, annacqua il tema duplice. 

La scena della scarpetta è poi un evidente rimando feticista, presente già nella fiaba ma ostentato anziché sminuito dalla versione animata disneyana. Questo passaggio, che è il più importante del racconto, esalta l’impostazione a raddoppio sporcato: la scena clou è anticipata quando Lucifero è in agguato sulla scala e Cenerentola, avendo perso una scarpetta, si gira su sé stessa per rinfilarla, mandando a vuoto l’attacco del gattaccio. Ma una volta che la cosa si è ripetuta, in modo assai più cruciale la sera del ballo, la specularità perfetta dello schema è viziata dal finale, quando la ragazza riperde di nuovo la scarpina. E perfino lo stratagemma di inquadrare le scene tramite il monocolo di Monocolao, utile per stemperare ironicamente la grandeur del ballo tra il principe e Cenerentola, ha anche una funzione piccante quando si focalizza sulle gambe della ragazza prima della prova della scarpa di cristallo. 

Certo, è un’inquadratura casta, le si vedono le gambe solo sotto il ginocchio ma, in questo ambito, vista la reazione dell’arciduca quasi degna del lupo di Tex Avery, ci si muove su un terreno scivoloso. L’abilità della Disney è di far passare tutto quanto in modo non sospetto, come anche che fosse quasi naturale che un re possa baciare appassionatamente la scarpa di una bella ragazza. Questo versante sessuale è tenuto ben nascosto, dal tenore generale dell’opera, ma è anche insistito; non è quello il tema, non può esserlo in un classico Disney, ma è importante che l’impressione non sia più quella della situazione infantile, e asessuata, che impregnava Biancaneve, perché i tempi sono cambiati e, con gli anni cinquanta, le donne possono rivendicare le peculiarità specifiche del loro genere (di cui I sogni son desideri potrebbe essere l’inno). 

Tecnicamente, sebbene ci sia stato un ritorno alla qualità dei primi classici, Cenerentola non comporta innovazioni di grande rilievo; da segnalare il pregevole utilizzo della cosiddetta polvere Disney, il luccichio che accompagna l’incantesimo della fata Smemorina e, in particolare, lo spettacolare vestito da sera della protagonista. In sostanza, per quello che fu il classico che rilanciò definitivamente lo studio, vennero messe a frutto le conoscenze accumulate nei lungometraggi precedenti. L’equilibrio tra forma è contenuto è qui, forse per qualcuno insospettabilmente, spostato sul secondo elemento; la confezione formale è notevole ma non eccessiva, semmai adeguata a mettere bene in evidenza le coordinate che il classico dei classici andava a definire. Dagli anni cinquanta, il sogno americano era non solo fruibile anche per la donna ma, a guardare in quest’ottica Cenerentola, sembrava addirittura quasi a suo appannaggio esclusivo. Tuttavia, nel corso del tempo, l’effetto incantesimo di quei favolosi anni passò. E se anche il film mostrasse che c’era comunque da lavorare concretamente per coronare nella realtà i propri sogni (o desideri), sarebbero entrati in scena altri elementi che nemmeno Disney poteva prevedere. E l’ideale di un mondo in cui l’armonia riesca a vincere tra le contraddizioni (il conservatorismo dello studio e le sue aperture ecologiche), tra tradizioni secolari (fiabe, castelli, balli di gala) e nuove rivendicazioni (la sguattera che fa carriera), tra egemonia maschile (il re, il principe) e l’esuberante emancipazione femminile (Cenerentola, chi altri?), trovando la giusta alchimia per una società in cui vivere felici e contenti, sembra esso stesso un incantesimo ormai svanito da tempo. 


 Cenerentola






mercoledì 22 dicembre 2021

GALLIPOLI (2005)

945_GALLIPOLI; Turchia, 2005; Regia di Tolga Örnek.

Nel 2005, novant’anni dopo gli eventi, la campagna dei Dardanelli durante la Prima Guerra Mondiale era stata fin lì rappresentata al cinema da differenti punti di vista. I turchi, nel 1964, avevano prodotto Canakkale Arslanlari (di Nurset Eraslan e Turgut Demirag), gli inglesi avevano detto la loro prima nel 1932 con Tell England (di Anthony Asquith e Geoffrey Barkas) e poi, nel 1999, con All the King’s men (di Julian Jarrold), ma erano più interessanti le voci provenienti dall’alta parte del globo. Andando a ritroso nel tempo, si partiva dal neozelandese Chunuk Bair (1992, di Dale G. Bradley) per passare alle serie televisive australiane Anzacs (1985, di John Dixon, George T. Miller e Pino Amenta) e 1915 (1982, di Scott McGregor, Scott Burgess e Sigrid Thorton) anche se il capolavoro assoluto dedicato ai tragici fatti restava naturalmente Gli anni spezzati (1981, di Peter Weir), anch’esso proveniente dalla terra dei canguri. E’ curioso come nei paesi australi coinvolti la campagna di Gallipoli abbia avuto un tale impatto, sebbene a livello cinematografico abbia dovuto passare del tempo prima che il tema venisse affrontato. Tuttavia se consideriamo il coinvolgimento emozionale di australiani e neozelandesi, le difficoltà inglesi a gestire la sconfitta (ancora palesi nel 1999 nel film BBC di Jarrold citato), forse erano proprio i turchi ad avere lo stato d’animo migliore per provare a stilare una sorta di bilancio cinematografico (come lo è un film di genere documentario) sugli eventi. In fondo il vecchio Canakkale Arslanlari, conosciuto anche come The Lions of Gallipoli, aveva delle pecche (leggi, visioni parziali o faziose) ma anche generose e assolutamente inaspettate concessioni al nemico (il soldato turco curato dagli inglesi, la storia d’amore tra lo stesso militare e un’infermiera della controparte). 

Naturalmente non vi fu nessuna selezione per aggiudicarsi il diritto di girare Gallipoli ma, rimanendo in tema di curiosità, sorprende che un documentario cinematografico non solo del valore e dello spessore ma soprattutto dell’equilibrio e della ponderata equidistanza tra le parti in causa, come lo è il film di Tolga Örnek, sia stato prodotto nel paese che, in quella storica campagna, subì la violenta aggressione militare. C’era qualche perplessità preventiva, in verità, in quanto il regista aveva nel curriculum qualche film non proprio imparziale, in questo senso; invece Gallipoli, al di là di una anche prevedibile (ma non giustificale) sostanziale omissione sulla questione armena, affronta con apprezzabile serenità di giudizio i tragici avvenimenti. 

Senza dimenticarsi di sostenere il racconto con buon ritmo e azzardare qualche scelta autoriale, pur mantenendo una serietà complessiva ragguardevole. E la chiamata in causa, tra gli altri come narratori, di Jeremy Irons (britannico) e Sam Neil (neozelandese), sembra proprio il voler dar voce anche alla controparte. Tra l’altro, Gallipoli, basandosi sulle lettere dei soldati, si fonda maggiormente su missive degli alleati; probabilmente, almeno stando alla spiegazione che dà lo stesso Örnek nel film, per via dello scarso grado di alfabetizzazione dei militari turchi impegnati nella battaglia e la scarsa disponibilità di materiale conseguente. Questo aspetto alimenta l’impressione generale che gli eventi siano visti in luce obiettiva: e i turchi che familiarizzano, in un certo senso, con i nemici dell’Anzac (Australian and New Zealand Army Corps), sembrano seppellire definitivamente, in senso reciproco, i rancori e le ruggini inevitabili vista la violenza degli scontri. A fronte di questo atteggiamento maturo, se i francesi sono sostanzialmente ignorati per via del ruolo marginale, desta più sensazione il fatto che degli inglesi il documentario cinematografico si soffermi sostanzialmente solo a sottolineare la scarsa e fallimentare organizzazione delle operazioni militari. La cosa è peraltro risaputa, come anche una certa ritrosia diffusa al di là della Manica ad affrontare le situazioni scomode. Ma ce ne siamo fatta una ragione ormai da decenni. Piuttosto, non resta che apprezzare e applaudire la sportività di turchi, neozelandesi e australiani per il rispetto che hanno imparato a dimostrarsi a vicenda, superando gli antichi dissapori.

lunedì 20 dicembre 2021

DEADLINE GALLIPOLI

944_DEADLINE GALLIPOLI; Australia, 2015; Regia di Michael Rymer.

La famigerata campagna di Gallipoli della Prima Guerra Mondiale con il centenario era tornata in qualche modo al centro dell’attenzione, almeno nei paesi coinvolti, e anche la televisione australiana si cimentò in un paio di produzioni inerenti. Dopo il disastroso esito degli asciolti per la miniserie Gallipoli ad inizio 2015 (“la più grande delusione” stando al produttore David Gyngell) Foxtel, una televisione australiana, trasmise sui suoi canali Deadline Gallipoli, ennesimo racconto filmico sull’argomento. Il fatto che la piattaforma televisiva digitale sia nell’orbita della galassia riconducibile a Rupert Murdoch, tycoon delle comunicazioni di massa, può forse spiegare il particolare orientamento del racconto filmico di Michael Rymer. Spesso, per i film sulla Prima Guerra Mondiale, registi e sceneggiatori hanno fatto ricorso alle missive che i soldati si scambiavano con le loro famiglie; in questo caso ci si affida invece ad un approccio più professionale, seguendo cioè le imprese di tre (almeno inizialmente) pionieristici reporter di guerra. E se il legame tra giornalisti e Murdoch, massimo editore del pianeta, vi sembra campato per aria, a circa metà racconto entra in scena un quarto reporter: Keith Murdoch (Ewen Leslie), ovvero il padre di Rupert. Questi aspetti, che possono scivolare via unicamente come semplici curiosità, sono invece la spia che conferma che l’intenzione della produzione è quella di ribadire l’importanza dei media, visto che quando questi vengono snobbati e censurati, come appunto a Gallipoli, politici (e militari) possono combinare le peggiori nefandezze. 

Di cui, nello specifico, vengono accusati i vertici inglesi, davvero sciagurati nella circostanza della campagna militare in questione. Murdoch sarà anche un conservatore, in chiave politica, ma, almeno in questo caso, la sua televisione non fa alcuno sconto ai potenti di turno e, per una volta, ci sono praticamente tutti i caporioni britannici responsabili di quella sciagura e di tutte quelle vittime. Tra quelli da ricordare, c’è naturalmente il generale Hamilton (Charles Dance), al comando delle operazioni che nel racconto, considerata una evidente incapacità e incompetenza, sembra tra i meno colpevoli. Ben più ottuso, stando a Deadline Gallipoli, Lord Kitchener a cui John Bell regala un’interpretazione caricaturale. Più sfuggente e sorniona, ma soprattutto più viscida, la resa scenica che Simon Maiden fornisce per Winston Churchill. 

Ma, come detto, queste losche figure rimangono sullo sfondo (del resto a morire ammazzati in missioni suicide avevano mandato altri) mentre il focus del racconto è sugli inviati della stampa. I quali, al contrario dei citati, fanno di tutto per andare in prima linea ma, semmai ci fosse un’occasione propizia per avere uno scribacchino tra i piedi, secondo la logica militare Gallipoli era l’ultima per distacco. In ogni caso, Philipp Schuller (Sam Worthington), Charles Bean (Joel Jackson), rispettivamente fotografo e giornalista australiani, e Ellis Ashmead Bartlett (Hugh Dancy), istrionico reporter inglese, si daranno un gran d’affare. Murdoch senior entrerà in scena solo successivamente, sostenendo Bartlett ormai in rotta con la politica militare inglese nella campagna. Schuller, un bellimbusto che si occupava solo di fare foto di scena e tampinare le infermiere (in realtà, nel film, unicamente Vera, interpretata dalla bella Jessica De Gouw), rimarrà talmente scosso dalla situazione che cercherà di fare la sua parte, arruolandosi come sanitario. 

Bean, un tipo assai coscienzioso che si era attirato le antipatie della truppa australiana descrivendone il barbaro comportamento durante il periodo di addestramento in Egitto, saprà riscattarsi. Il suo approccio con gli eventi è infatti equilibrato e, almeno per un po’, cerca anche di non interferire o sindacare con le scelte del comando militare; tuttavia, la situazione lo metterà comunque in una situazione critica, essendo inopportuna la presenza di chiunque fosse in grado di vedere lo scempio compiuto, figuriamoci quella di un reporter. Bartlett, che flirtava addirittura con Gwendoline Churchill (Anna Torv) ed era quindi parte di quell’élite che era responsabile degli eventi, si scoprirà man mano il più accanito contestatore della politica militare britannica, entrando praticamente in conflitto aperto con Hamilton, ma finendo per essere detestato (già più di quanto non potesse essere vista la professione) apertamente da Kitchener e Churchill. Insomma, questo Deadline Gallipoli se non aggiunge molto di nuovo, cinematograficamente parlando, sull’andamento militare della campagna, ci regala alcuni risvolti che spesso sono stati lasciati opportunisticamente fuori dalle opere precedenti. E poter vedere personaggi, per anni incensati come statisti di massimo lignaggio, nella loro reale statura politica, vale davvero la visione dell’ennesimo film su Gallipoli.  




 Anna Torv


Jessica De Gouw


sabato 18 dicembre 2021

GALLIPOLI (2015)

943_GALLIPOLI; Australia, 2015; Regia di Glendin Ivin.

Con il centenario della campagna dei Dardanelli, avvenuta durante la Prima Guerra Mondiale, era prevedibile un rifiorire di interesse sull’argomento; parlando di cinema, peraltro, nel corso dei cent’anni trascorsi, la vicenda era stata racconta attraverso filmati, per grande o piccolo schermo che fossero, già molte volte. E, grosso modo, grazie ai suoi tanti aspetti interessanti, epici o tragici a seconda della vena da voler valorizzare, non aveva quasi mai tradito le speranze dei produttori di turno. Gallipoli era la pagina epica dell’Australia, un po’ come il cinema western per gli americani; forse solo meno emotivamente coinvolti i neozelandesi, almeno stando al livello di risposta cinematografica. Ma anche i turchi, che sui Dardanelli avevano potuto conoscere il loro futuro leader Atatürk, soprattutto negli ultimi anni si erano dati un gran daffare con le commemorazioni sul grande schermo. Insomma, Gallipoli è un tema che difficilmente tradisce. Eppure Gallipoli serie televisiva di Glendyn Ivin, è stato un clamoroso fiasco: dopo il primo episodio con oltre un milione di spettatori, la seconda puntata ha visto il pubblico dimezzarsi. Per altro, nel complesso, la serie non è affatto male, anzi. Certo, forse aggiunge poco di nuovo, essendo la questione, come detto, già vista molte volte sullo schermo in passato. In questo senso è condivisibile l’idea di una serie TV, che può facilmente coinvolgere le nuove generazione che, magari, i vecchi film non li hanno visti. In ogni caso la ragione del sostanziale fallimento dell’operazione risiede nel primo episodio, visto l’ottimo share realizzato (merito della pomposa propaganda) ma non rinnovato successivamente. Il problema principale di The first day è il ritmo; anche la musica, evocativa fin che si vuole, senza una narrazione che ne giustifichi il lirismo, finisce per essere un’arma a doppio taglio. Già My friend, the enemy, risolleva un po’ il morale dello spettatore (peccato che, a suo tempo, il pubblico australiano avesse già mollato il colpo). Nel dettaglio, in questo episodio migliorano i dialoghi, con alcuni scambi divertenti: ad esempio il soldato Cliff (Tom Budge) non riconoscendo il generale Birdwood (Anthony Phelan), in camicia e senza giacca dell’uniforme, gli risponde sbrigativamente, oltretutto appellandolo con un cameratesco “cobber”, termine che nello slang australiano significa qualcosa tipo amico. Simpatici anche alcuni scambi di vedute tra gli aussie e i turchi durante la tregua stabilita per rimuovere i troppi cadaveri che giacevano tra le trincee. 


Un militare turco, riflettendo sulle rispettive urla di battaglia, considerando che gli ottomani attaccavano al grido di Allah! Allah!, domanda a Bevan (Harry Greenwood), uno dei fratelli Johnson, se il dio degli australiani si chiami bastard. Insomma, i dialoghi sono uno dei cardini della narrativa e la serie comincia a segnare qualche progresso. Nel terzo episodio si delineano meglio le caratteristiche del gruppo di protagonisti, a partire dai fratelli Johnson: il citato Bevan è il maggiore mentre il diciassettenne Tol (Kodi Smit-McPhee), dagli occhi grandi e spauriti e l’aria di chi è perennemente a disagio o fuori luogo, è il vero protagonista del racconto. A sorpresa ma con pieno merito, visto l’eroismo dimostrato in un intervento a cavar d’impaccio il fratello, volontario in un’azione offensiva, Tol è promosso caporale sul campo; fa ancora più sorpresa vederlo ferito gravemente alla fine dell’episodio, sdraiato sulla spiaggia in attesa di un imbarco sulle navi ospedale. Tra la truppa, sono da menzionare Cliff, che dopo la gaffe col generale Birdwood continua a stare sopra le righe, e Dave (Sam Parsonson), l’intellettuale della comitiva. Si inasprisce, nel frattempo, il rapporto tra la stampa, Ellis Ashmead-Bartlett (James Callis) in testa, e il comando militare, con il generale Hamilton (John Bach) e soprattutto il generale Braithwaite (Nicholas Hope) preoccupati di risolvere maggiormente la questione coi giornalisti piuttosto che quella coi turchi. Intanto, la quarta puntata, The deeper scar, ci restituisce miracolosamente vivo Tol: il proiettile ha sfiorato il cuore e si è fermato in una posizione in cui è possibile rimuoverlo. 


In poche settimane il giovane viene rispedito a terra: la sua cicatrice è piccola ma profonda. Non è più il ragazzo innocente di prima, ora si offre volontario per fare il cecchino, il mestiere peggiore del mondo. D’accordo, ha visto l’amico Cliff freddato da un tiratore scelto, proprio sotto i suoi occhi; ma, della gravità della sua scelta avrà presto il tempo di rendersi conto. Tra le sue vittime, abbattute senza battere un ciglio dei suoi occhioni, scopre il turco con cui aveva familiarizzato durante la tregua; quella tregua in cui anche un buzzurro nazionalista come suo fratello Bevan aveva scambiato amichevoli parole con un nemico. E che, come detto, si era resa necessaria per liberare lo spazio tra le due trincee dai cadaveri. Una situazione che si stava ripresentando di nuovo: ma che stavolta il generale Hamilton, informato della ritrosia dei soldati turchi ad attaccare calpestando i cadaveri, non intendeva concedere. 

Se i morti ammazzati erano più efficaci del filo spinato, il glorioso impero britannico li avrebbe usati senza indugio: tutto, pur di piegare la resistenza ottomana. E, in questa fase, un po’ a sorpresa, per la verità, Gallipoli di Glendyn Ivin decolla. E’ anche il momento decisivo, della campagna: nel capitolo cinque, The Breakout, gli alleati dell’Intesa scatenano una grande offensiva. Una serie di attacchi e di finte offensive che all’occorrenza devono trasformarsi in azioni concrete; gli australiani conquistano Lone Pine, che però non ha molto senso se non si prende l’altura sovrastante. I neozelandesi sgombrano gli ottomani da Chunuk Bair dopo una lotta senza quartiere; sulla cresta del Nek, invece, l’artiglieria navale interrompe il bombardamento di copertura preventiva con sette minuti di anticipo. Risultato: i turchi hanno tutto il tempo di riposizionarsi in trincea e stroncare le quattro ondate degli Anzac mandati a quel punto direttamente al suicidio dall’ottuso comando britannico. Ma, nel complesso, le azioni diversive stanno funzionando (tralasciando qualsiasi rapporto costi / benefici, parlando di costi in termini di vite umane): le due divisioni britanniche purosangue, al comando del generale Stopford (Shane Briant), possono così dare il via all’attacco di Suvla Bay. Sopford, dipinto dal racconto filmico come un completo inetto, si indispone quando urta leggermente un ginocchio sulle scale della nave e poi, verificata la tendenza del nemico a diventare aggressivo una volta attaccato, preferisce temporeggiare. 


Il film potrebbe, in questi dettagli, essere eccessivamente denigratorio nei confronti di alcuni ufficiali del comando: nel caso lo fosse, si tratta di un trattamento che, anche a cento anni di distanza, è tuttora pienamente meritato. Da un punto di vista adrenalinico, il quinto episodio segna il picco della serie; il successivo si apre con una sconsolata considerazione del generale Hamilton. I neozelandesi avevano preso Chunuk Bair alla fine di una battaglia durissima; sono stati rimpiazzati da due reparti britannici, il North Lancs e il 5th Wiltshire, che hanno rapidamente vanificato il duro lavoro dei kiwi. Con questo preambolo, le ultime due puntate raccontano mestamente della ritirata dell’Intesa dalla penisola, risparmiandoci la pretesa di far passare una fuga di nascosto dal fronte di battaglia per un’impresa militare. 

C’è la destituzione di Hamilton, c’è la visita di Lord Kitchener (Lachy Hulme), c’è l’arrivo sulla scena di Keith Murdoch (Damon Gameau), padre del Rupert odierno magnate dell’editoria mondiale, ma adesso gli aspetti storici rimangono sullo sfondo. A questo punto, quell’aspetto intimo della storia che aveva affossato il primo episodio, con gli spettatori probabilmente non preparati a dovere, stavolta funziona egregiamente. E l’accompagnamento musicale adesso sì che è davvero evocativo e commovente. Gallipoli diventa quindi la storia di due fratelli, anzi, del rapporto tra i due. Bev, il maggiore, che sarà un po’ rozzo nelle sue convinzioni ma in fondo è una persona semplice (un brav’uomo, per usare le parole di Dave) e che vuol bene a Tol senza particolari retropensieri. Tol, diversamente, ha un sentimento duplice verso il fratello, da una parte lo ammira ma dall’altra lo invidia. 

Si spiega così il suo atto eroico che, salvando il fratello che si era lanciato in una missione volontaria, lo spodestava dal centro della ribalta. I sensi di colpa, per aver spacciato per affetto fraterno una manovra dettata dall’invidia, lo rendevano riluttante al momento di ricevere la promozione a caporale, situazione che l’avrebbe visto finalmente superiore, almeno in grado, a Bev. Ma, a tormentare Tol, era in realtà un’altra questione che si intrecciava sporadicamente dall’inizio del racconto agli eventi ma che era sembrata fin lì una mera costruzione narrativa di comodo. Bev, più maturo, aveva una fidanzata, Celia (Ashleigh Cummings) di cui Tol si era a sua volta subito invaghito. Per tutto il film assistiamo ai delicati ricordi del giovane dei fratelli sulla ragazza, dei loro scambi di sguardi fugaci, quasi che tra i due ci fosse una tresca all’oscuro di Bev. Ricordi o fantasie? 

Quale che fosse, il loro lavoro instancabile nell’animo di Tol si concretizzava quando, ormai certi del rimpatrio, il neo caporale si sporgeva avventatamente dalla trincea e solo il pronto intervento di Bev gli scampava un proiettile in testa. Questa impresa del fratello maggiore era un secchio d’acqua gelata sul volto di Tol: forse la promozione a caporale lo aveva convinto di essere migliore del fratello, e lo aveva convinto di averlo superato anche nel cuore di Celia. Ora Bev lo aveva rimesso al suo posto: la reazione iraconda con cui Tol si scagliava sul fratello che gli aveva appena salvato la vita, trovava forse qui la sua spiegazione. Un colpo dei nuovi obici tedeschi appena giunti nelle prime linee turche, metteva tragicamente fine alla questione: Bev sarebbe rimasto per sempre a Gallipoli. Ora Tol ricordava con più chiarezza e del suo flirt con la ragazza del fratello non rimaneva che una flebile illusione. Come quella della vittoria britannica a Gallipoli. 


Ashleigh Cummings

giovedì 16 dicembre 2021

ALL THE KING'S MEN (1999)

942_ALL THE KING'S MEN; Regno Unito, 1999; Regia di Julian Jarrold. 

Rimanendo alla Prima Guerra Mondiale, nel 1914, giusto agli inizi del conflitto, si era diffusa una leggenda secondo la quale i soldati del Corpo di Spedizione Britannico erano stati soccorsi e salvati da un intervento sovrannaturale, quello degli Angeli di Mons. Questo presunto evento permetteva di mettere in ombra la figuraccia inglese nell’esordio nella Grande Guerra: nella levata di scudi generale per sostenere questa bizzarra teoria avuta nella patria d’Albione, che coinvolse dal governo fino alla Chiesa Anglicana passando per lo scrittore Arthur Machen, possiamo ammirare la migliore qualità britannica, quella propagandistica. Viste le difficoltà incontrate in Europa, l’anno successivo gli inglesi provarono un approdo alternativo al terreno di scontro e fu scelta la Turchia e più specificatamente lo stretto dei Dardanelli. L’esito di questo nuovo tentativo di farsi valere fu persino peggiore del precedente, con una rovinosa sconfitta e inevitabile ritirata con la coda tra le gambe, al punto che gli inglesi si ritrovarono in una situazione ben peggiore di quella successiva alla Battaglia di Mons, dove qualche giustificazione potevano almeno accamparla (l’inferiorità numerica o la presunta vittoria tattica dovuta alla ritirata). La Battaglia di Gallipoli non concedeva attenuanti: era stata una vera tragedia militare per l’Inghilterra. Eppure, nel corso degli anni, si concretizzò una nuova fantasia per mascherare anche in questo caso l’onta della clamorosa débacle: una nuvola sarebbe scesa dal cielo ed avrebbe rapito il 5° Battaglione di Norfolk, spesso chiamato Battaglione Sandringham, che divenne infatti in seguito noto come il battaglione scomparso

Fa un po’ specie leggere che queste bizzarre dicerie possano aver preso credito nel 1965, al tempo delle celebrazioni (!??) per il cinquantennale della Battaglia di Gallipoli, quando tre veterani neozelandesi affermarono di aver visto il battaglione in questione scomparire nella nebbia. E se stupisce costatare che, nel 1965, i britannici non avessero ancora metabolizzato la scoppola e fossero ancora in cerca di qualche scusante superstiziosa, cosa dire, allora, di All the King’s Men film televisivo della BBC che è addirittura del 1999? Tra l’altro, quello di Julian Jarrold è un lungometraggio straordinariamente buono, dal punto di vista tecnico, soprattutto tenendo in considerazione che si tratta di un prodotto per il piccolo schermo. Ma ci sono casi in cui il senso di un’operazione cinematografica prevarica gli aspetti artistici. 

Davvero i britannici hanno ancora bisogno di sentirsi raccontare di quanto cruenti furono i turchi, che non fecero prigionieri sterminando con un colpo alla testa i tanti tra coloro fossero scampati alla ferocia degli scontri? Davvero serve evidenziare questa scorrettezza turca, sottolineandone la differenza coi tedeschi, tant’è che, secondo il racconto filmico, l’unico sopravvissuto del Battaglione Sandringham lo deve al fatto di essere raccolto da un ufficiale teutonico? Naturalmente non c’è da stupirsi se, a corredo di una battaglia tanto cruenta, ben più di qualche prigioniero sia stato passato per le armi senza troppi convenevoli; poi, certo, gli ottomani erano gente dura, temprata dalle feroci guerre balcaniche ma, volendo, si potrebbe ricordare che, in questo specifico caso, erano il paese aggredito e non aggressore. In ogni modo, al netto di considerazioni più specifiche, senza elementi precisi che confermino che i prigionieri furono giustiziati come agnelli al macello, la lettura degli eventi che dà All the King’s Men suona fastidiosamente faziosa. Ma quello che è più insopportabile è la sottigliezza degli autori. 

Non potendo più ricorrere a favole come quella della nuvola (nata come detto per digerire l’onta di una tale sconfitta) è come se regista e sceneggiatori cerchino di giustificare il fatto che, ai tempi, si sia dovuti ricorrere ad un simile puerile espediente invece di accettare la realtà e apprendere dai propri errori. Il tecnicamente pregevole incastro narrativo che vede il reverendo Pierrepoint (Ian McDiarmid) omettere di rivelare l’atroce (presunta) verità è la prova della malafede del racconto: da quel che si evince, non è stata fatta chiarezza sulla fine dei superstiti (leggi, freddati con un colpo alla nuca) per non urtare la sensibilità del sopravvissuto, dei parenti delle vittime e dei reali. Evidentemente questa indeterminatezza ha poi permesso l’origine della leggenda della nuvola. Peccato che tra i produttori di All the King’s Men troviamo anche Nigel McCrery, autore del romanzo The Vanished Battalion all’origine del film e nel quale le cose venivano raccontate diversamente. Chissà, forse la famosa nebbia che aleggia spesso sulla Manica è un’altra nuvola magica che ha mantenuto molti sudditi di sua maestà fermi ancora al 1915. 


Maggie Smith




Sonya Walger