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lunedì 18 giugno 2018

HOSTILES - OSTILI

164_HOSTILES - OSTILI (Hostiles). Stati Uniti, 2017;  Regia di Scott Cooper.

Prima del finale di Hostiles- Ostili, con la scena della stazione del treno e i tre personaggi sopravvissuti (il capitano Blocker/Christian Bale, la signora Quaid/Rosamund Pike e il piccolo Little Bear/Xavier Horsechief), che prova un timidissimo happy ending, c’è la magistrale sequenza che sancisce l’importanza del lungometraggio di Scott Cooper. L’eterogeneo gruppo (composto da soldati e indiani cheyenne, da uomini e donne e anche un bambino) ha appena seppellito il vecchio Falco Giallo (il mitico Wes Studi) nei suoi antichi territori quando sopraggiungono con piglio bellicoso gli attuali proprietari terrieri, ovviamente bianchi. Fino a questo momento il film si poteva iscrivere tranquillamente nel solco di quei western che, al netto della violenza da una parte e dall’altra, vedeva sempre nel finale una sorta di riconciliazione con i nativi con annessa ammissione di una ragione di fondo degli indiani. Se i pellerossa erano stati piegati con l’uso smodato della forza e senza alcuna pietà, il fatto di riconoscere in questo un errore veicolava in modo intrinseco i valori pacifisti, di rispetto dell’altro, di comprensione reciproca, di integrazione. Discorsi certamente condivisibili ma, di questi tempi viene spontaneo il dubbio, forse inerenti a periodi e ambienti prosperi, floridi e inclini alla pacifica convivenza ben più del selvaggio west, dove, al contrario, l’assenza della Legge portava alla luce il lato oscuro di troppi suoi abitanti. Il west era un ambiente ostile, come esattamente lascia intendere anche il titolo del film di Cooper; un po’ come i giorni nostri, se vogliamo. O, meglio, per come li percepiamo, almeno stando a quanto si sente in giro. 

Comunque, il capitano Blocker, un vero ammazzaindiani, è fortemente ostile ai nativi, i comanche lo sono ai coloni, i cheyenne ai comanche, i coloni del Montana a chiunque entri nel loro territorio, insomma: tutti contro tutti. New Mexico, 1892: il capitano della nostra storia è incaricato dal suo comandante (per via di un ordine scritto addirittura dal Presidente degli Stati Uniti) di scortare Falco Giallo, ormai vecchio e gravemente malato, a morire nei suoi antichi territori, nel Montana. Lungo la strada i viaggiatori si imbattono nella signora Quaid, a cui i comanche hanno sterminato la famiglia; da li in poi, una serie di vicissitudini porterà Blocker a rivedere la sua idea su Falco Giallo valutandolo, al netto dei pregiudizi, come un vecchio combattente, forse anche prossimo alla morte, ma assolutamente meritevole di onore e rispetto. E fin qui, si diceva, niente di nuovo; la violenza non è la risposta, e neppure l’odio, questo lo abbiamo capito già da un pezzo, e proprio guardando tanti altri western, che di questi temi sono sempre stati intrisi.
Ma poi arriva la penultima scena di Hostiles, con i coloni del Montana decisi, a suon di fucilate, a scacciare gli intrusi, chiunque essi siano.


Questi uomini portano avanti le loro ragioni convinti di farlo in punta di diritto: la terra è loro, questa è l’unica cosa che conta. Non che di fronte abbiano un capitano dell’esercito degli Stati Uniti; non che in fondo quegli intrusi abbiano semplicemente seppellito un uomo in una valle sconfinata; non che quell’uomo una volta girasse libero sui quei territori ed è stato scacciato con la forza; non che gli si venga sottoposto da esaminare un ordine scritto del Presidente degli Stati Uniti d’America. Niente di tutto questo li interessa minimamente, quella gente se ne deve andare e, soprattutto, deve portarsi via il cadavere. Diversamente, anche gli altri finiranno per fargli compagnia, perché per scacciare quegli intrusi, i coloni sono disposti anche a sparare, e sparare per uccidere. Una determinazione fondata sulla convinzione di essere nel giusto, e pertanto ferrea; ma che non è solo loro, però. In ogni caso, non c’è nessuna possibilità di ragionevolezza contro chi è (vien da dire opportunisticamente) convinto di essere nel giusto; sarebbe meglio avere a che fare con risaputi criminali. (E questo è il vero messaggio, ma anche l’aspetto più contemporaneo e attuale del film di Cooper: non si ragiona con chi si è auto-convinto di essere nel giusto). 


E quando, alla fine dell’inevitabile scontro a fuoco, vediamo Blocker dirigersi, armato di coltello, a prendere l’ultimo avversario sopravvissuto, non pensiamo, no, (forse l’avremmo fatto fino a ieri) che alla fine la barbarie ha trionfato, che l’eroe non è riuscito a liberarsi dal demone della violenza, che è diventato (o che è rimasto, visto che il nostro capitano nella sua carriera pare ne abbia combinate di ogni) esattamente come quei proprietari terrieri.
No: pensiamo che a trionfare sia stata la Giustizia.
E il sangue di quella gente che accampa con brutalità e violenza diritti non legittimi, non valga il rispetto di questo principio.    




sabato 16 giugno 2018

ISPETTORE CALLAGHAN: IL CASO SCORPIO E' TUO!

163_ISPETTORE CALLAGHAN: IL CASO SCORPIO E' TUO! (Dirty Harry). Stati Uniti1971;  Regia di Don Siegel.

Dirty Harry, questo il titolo originale della pellicola in questione, è giustamente considerato un film epocale, uno di quelli che hanno fatto scuola, assoluto punto di riferimento nei decenni a venire, citato quando non imitato da decine di lungometraggi. La riuscita dell’opera non fu certo frutto del caso, tutt’altro: possiamo ben dire che il primo film con protagonista l’ispettore Callaghan sia la logica conseguenza di alcuni presupposti che lo hanno portato a divenire quel caposaldo del cinema in assoluto, più che del poliziesco, universalmente riconosciuto. Le premesse infatti c’erano già tutte: il regista Don Siegel, un autore di eccezionale livello, stava da tempo lavorando sul genere e opere come Contratto per uccidereSquadra omicidi, sparate a vista!L’uomo dalla cravatta di cuoio, lasciavano intendere, oltre che al talento, anche la potenzialità che il cineasta nato a Chicago andasse a sancire, con una sua opera, una sorta di nuovo spartiacque cinematografico. Da parte sua, l’attore chiamato per il ruolo principale, Clint Eastwood, era ormai assurto a icona hollywoodiana di statura eccezionale e, proprio con il ruolo di Callaghan, si accingeva ad essere per il cinema dei seventies quello che un mito come John Wayne era stato per la golden age del grande schermo. Se il genere di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! è dichiaratamente il poliziesco, l’aspetto giallo della trama e le fasi di investigazione sono saltate a piè pari, ma anche il tema della caccia all’uomo non è particolarmente approfondito. L’argomento centrale del racconto è reso in modo chiaro dal titolo, almeno quello originale: Dirty Harry; ovvero il nome (preceduto dal soprannome) del protagonista, ad indicare che l’obiettivo focale della storia è puntata sul nuovo (anti)eroe americano.

In questo senso è emblematico il soprannome, Dirty, che nella traduzione italiana diventa la carogna, e che designa subito Callaghan certamente in modo ben differente dall’eroe buono del cinema classico. In realtà l’ispettore è chiamato Dirty più che altro perché fa il lavoro sporco, che non è tanto picchiare i delinquenti quanto occuparsi dei casi scomodi. Comunque sia c’è, sin da subito, una presa di distanza dal classico eroe che ha ragione a prescindere e che segue la retta via della giustizia e della legge senza deviazioni. Il punto è, sembra volerci dire Siegel, che quel tipo di eroe, (inteso anche solo come funzionario della Giustizia) non è più adeguato ad una società dove le tutele e le garanzie, sacrosante nelle intenzioni, sono ad un livello che permettono interpretazioni opportunistiche a favore anche di chi infrange la legge intenzionalmente. Nel film ci sono due scene molto simili, cruciali e simboliche, in cui una particolare situazione si ripete ma con uno sviluppo finale opposto: all’inizio del lungometraggio Callaghan sventa una rapina, e si presenta a tu per tu con il criminale sopravvissuto, dopo lo scontro a fuoco, con la Magnum, la sua pistola, che forse ha finito i colpi ma col dubbio che forse ne abbia ancora uno.


Il bandito, un uomo di colore, è a terra, ma potrebbe raggiungere il fucile li accanto; Harry lo avverte, forse ha ancora un colpo nel tamburo, vale la pena di rischiare? Il finale di questa scena, che passerà agli annali come una delle migliori sequenze dell’intera Storia del Cinema (‘Do I feel lucky?’), dimostrerà che l’ispettore sapeva di non avere colpi e aveva astutamente bluffato ma, soprattutto, non aveva la minima intenzione di uccidere un rapinatore a sangue freddo. Se Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! è una felice commistione tra il punto di vista più progressista del regista e quello più conservatore di Eastwood, in questo frangente è l’animo democratico di Siegel a prevalere: non si uccidono i rapinatori che oltretutto, essendo di colore, lasciano simbolicamente intendere una provenienza da una classe sociale più disagiata.

Nel finale, quando la scena si ripete, Harry non avrà remore a freddare invece Scorpio, lo psicopatico assassino che non ha alcuna giustificazione sociale, ma è piuttosto uno che approfitta delle tutele e garanzie che la nuova società concede all’individuo, per infrangere la legge a piacimento. In questo differente comportamento dell’ispettore nei confronti dei due criminali in situazioni del tutto simili, c’è il significato del film. Una società che tutela tutto e tutti a prescindere, sembra fatta apposta per chi agisce in malafede senza nessuna scusante o motivazione, personale o sociale che sia. Occorre quindi essere in grado di separare il grano dal loglio, e non aver paura di sporcarsi le mani durante questa cernita.
E che il film sia un capolavoro, non solo da un punto di vista strettamente tecnico ma anche e soprattutto per questo suo intrinseco e fondamentale messaggio, lo dimostra il fatto che, a distanza di decenni, questo è un proposito ancora sacrosanto.


giovedì 14 giugno 2018

ROMA CITTA' APERTA

162_ROMA CITTA' APERTA Italia1945;  Regia di Roberto Rossellini.

Se, al momento della sua uscita, Roma città aperta di Roberto Rossellini non ebbe un grande successo di pubblico, in tempi ragionevolmente brevi, una volta ottenuti alcuni importanti riconoscimenti (tra gli altri, l’Oscar alla sceneggiatura, la Palma d’oro e il Nastro d’argento), l’opera assurse a punto di riferimento capitale del cinema italiano. Va da sé che l’importanza di Roma città aperta è universale e assoluta, e solo in seconda istanza se ne può parlare in senso nazionale o all’interno della corrente neorealista. Ma c’è un aspetto che prevarica, forse (il condizionale, visto l’importanza del tema trattato, è d’obbligo) la stessa rilevanza che il film di Rossellini ebbe in senso cinematografico mondiale, globale. Ed è, in un certo senso, la valenza epica dell’opera, il suo avere un significato sociale fondamentale, basilare, per il nostro paese. Come noto il film si iscrive perfettamente nella corrente del neorealismo cinematografico (di cui è una delle vette artisticamente più alte), laddove il nuovo movimento fece di necessità virtù e, al vuoto cinematografico (che rifletteva quello politico, sociale ed economico) lasciato dalla caduta del fascismo, si improvvisò nuovo stile, povero e sobrio, crudamente realistico, che a sua volta rifletteva le condizioni di un paese sul lastrico. Roma città aperta presenta però alcuni aspetti peculiari, che sono alla base della sua importanza: ad esempio, la trama è solo apparentemente priva di sviluppi narrativi e, se spesso si parla delle vicende narrate come di scene di vita quotidiana, si trascurano forse un po’ troppo tutti quegli intrecci che, soprattutto nella prima metà del lungometraggio, incuriosiscono lo spettatore con spunti puramente narrativi. 

Del tipo: perché l’ingegner Manfredi conosce Lauretta, la sorella della sora Pina? E perché si rifiuta a Marina? Che rapporto ha Ingrid con Marina? Cosa combina Marcello? L’intreccio è ben costruito, lasciando sempre qualche spunto di curiosità non soddisfatta allo spettatore (che contribuisce a generare la famosa attesa rosselliniana). Questo affresco corale ben congegnato è però solo il contorno di quello che, almeno a livello programmatico, era il punto cardine del film, ovvero l’evento storico dell’uccisione del presbitero Giuseppe Morosini. In realtà poi, nel film, la figura del don Pietro interpretato da Aldo Fabrizi, riassume sia quella del Morosini che quella di don Pietro Pappagallo, che venne invece ucciso alle fosse ardeatine; la valenza storica, vista la gravità e la veridicità (almeno nella sostanza) di quanto mostrato, uscì da questa operazione di simbolica unione dei martiri, ulteriormente rafforzata. Ma fu un altro fatto, anche questo con un fondamento storico, a segnare per sempre Roma città aperta e tutto il cinema, italiano e non. Ispirata alla morte di Teresa Gullace, l’uccisione della sora Pina per mano dei tedeschi, con la Magnani che cade in mezzo alla strada sotto la raffica di mitra, arriva totalmente inaspettata e scioccante. 

Anche in questo caso, la brutalità della scena è funzionale alla sua credibilità: semplice ed efficace, per niente enfatizzata dalla narrazione o da qualche stratagemma visivo, la morte della povera vedova trova proprio nel suo realismo il maggior impatto emotivo possibile.
Tutti questi elementi, il quadro generale, il prete giustiziato, la vedova uccisa in mezzo alla strada, concordano a rendere la durezza dell’occupazione nazista della capitale. E di fatto concretizzano sullo schermo l’alibi morale necessario al popolo italiano per voltar pagina, e dimenticare il più in fretta possibile il ventennio e le sue scorie. 

Ma viene onestamente da chiedersi: possibile che in un film corale come Roma città aperta, un film classificato come neorealista proprio per la sua credibilità, non vi siano fascisti? L’unico fascista nel film è il questore, mostrato come un viscido servo dei tedeschi; è vero che Marina tradisce l’ingegner Manfredi, ma lo fa per la delusione amorosa e non per l’ideologia politica. Insomma, in Italia, nel 1945, anno di uscita dal film, nessuno voleva sentirsi più fascista, e siccome di fascisti ce n’erano stati eccome, era meglio una sanatoria generale, con gli italiani tutti antifascisti e i tedeschi come unici colpevoli a cui addossare tutte le colpe dello sfacelo lasciato dalla guerra. Ecco, se a livello morale l’operazione di Rossellini in questo senso può essere discutibile (e contribuì, a suo modo, all’atavica incapacità italiana ad assumersi le proprie responsabilità), dal punto di vista cinematografico Roma città aperta è un capolavoro di portata epica, che restituisce nobiltà (morale) al popolo italiano e quindi all’Italia, nello stesso modo in cui l’Eneide dimostrava l’origine ellenica della città eterna o, per restare in campo cinematografico, il genere western glorificava la conquista del selvaggio ovest. 
Nell’Italia martoriata dell’immediato dopoguerra Roma città aperta fu quindi certamente un testo fondamentale per andare avanti e lasciarci alle spalle le laceranti divisioni; forse un po’ meno per crescere.






martedì 12 giugno 2018

ALLARME A SCOTLAND YARD: SEI OMICIDI SENZA ASSASSINO

161_ALLARME A SCOTLAND YARD: SEI OMICIDI SENZA ASSASSINO (Der todesrascher von Soho). Germania Ovest, Spagna1971;  Regia di Jesùs Franco.

Jess Franco è un regista noto per i suoi horror, molto particolari, si potrebbero definire amatoriali, certamente per l’originalità ma anche per l’aria di costante improvvisazione che regnava durante lo scorrimento delle sue pellicole. Di certo, uguale distanza lo separava sia dal cinema mainstream che da quello autoriale. Però, vuoi per l’importanza nella corrente exploitation o anche per il suo essere di nicchia, è di fatto un autore di culto, forse anche al di là dei suoi reali meriti. Che dal punto di vista tecnico spesso lasciavano in effetti un po’ a desiderare, ma la passione del regista spagnolo, unita alla follia naif del suo cinema, gli concedevano sempre un minimo di credito. Per Allarme a Scotland Yard; 6 omicidi senza assassino! Franco lascia un attimo perdere i suoi eccessi e si dedica ad un soggetto di matrice gialla  di Bryan Edgar Wallace (figlio del famoso e ben più quotato giallista Edgar Wallace). La storia è elaborata e non troppo cinematografica, nonostante Franco cerchi di seguirne la trama con discreto rigore; tutto sommato l’intreccio, seppur un po’ pesante, lascia intendere una certa plausibilità e, nell’ambito della narrativa d’investigazione, questo può anche essere abbastanza. Risulta assai meno credibile l’ambientazione che, se negli interni può sperare di cavarsela grazie all’anonimato scenografico, in qualche scena esterna non può proprio essere spacciata per inglese (come vorrebbe il racconto, in modo palesemente dichiarato addirittura fin dal titolo scelto dalla produzione tedesca oltre che dalla distribuzione italiana). Questa noncuranza di alcuni dettagli, come in questo caso appunto l’ambientazione, è però tipica dei film del regista nato a Madrid, e non si capisce se sia una sciatteria inconsapevole o una sua, se così si può definire, cifra stilistica.
La recitazione è un po’ sopra le righe, come si conviene a questo genere di opere, e va almeno ricordato, tra gli interpreti, quell’Horst Tappert che in seguito diventerà famoso anche in Italia nei panni dell’ispettore Derrick. Sul fronte erotico, sempre gradito al regista (ed evidentemente al suo pubblico) le tre ragazze presenti nel cast (Elisa Montes, Barbara Rutting e Mara Laso) sono carine ma, certamente un po’ a sorpresa, non ostentano le proprie grazie come si poteva prevedere. Pur in una cornice così moderata, Franco inserisce comunque una pennellata lesbo-sado, nella scena dell’interrogatorio subito dalla povera Helen Bennett (la Montes).
C’è da comprenderlo: va bene contenersi ma, suvvia, se no che film di Franco sarebbe? 


            
Mara Laso


Barbara Rutting


Elisa Montes



domenica 10 giugno 2018

SOLO: A STAR WARS STORY

160_SOLO: A STAR WARS STORY  Stati Uniti 2018;  Regia di Ron Howard.

Cercare di capire quali siano stati i motivi dell’allontanamento di Phil Lord e Chris Miller dalla regia di Solo: A Star Wars Story può anche essere inutile; in fondo, al di là delle dichiarazioni anonime di un attore o di qualche voce di corridoio, rimane poco e, in ogni caso, non si potrà mai sapere se il nuovo spin off della saga stellare avrebbe potuto essere qualcosa di concretamente diverso. E soprattutto di realmente coinvolgente, appassionante e magari anche un pizzico sorprendente. Perché, spiace naturalmente dirlo, il nuovo film di Guerre Stellari, poi diretto da Ron Howard, scivola via ponderatamente spettacolare certo, magari non proprio rutilante come un banale blockbuster hollywoodiano di recente produzione, ma insomma. Niente di grave, per carità; si tratta di un film divertente e godibile, ma niente, o poco più, di questo. Quando invece, sotto sotto, da quanto ha preso le redini di Star Wars, la produzione Disney ci stava già abituando meglio: soprattutto il precedente ASWS (acronimo per A Star War Story, ovvero i film slegati dalla continuity e che approfondiscono temi o personaggi della saga), Rogue One, aveva davvero destato un’ottima impressione. Ron Howard è un bravo regista, abituato anche alle grandi produzioni, ma spesso il suo approccio può risultare eccessivamente omologato, troppo conforme alla buona norma mainstream. Se, in qualche circostanza, questo aspetto può anche essere apprezzabile (in fondo è una forma di umiltà), in questo specifico caso, questo suo evitare personali e autoriali sovraesposizioni, è decisamente un rischio. 
Perché Guerre Stellari e, nel dettaglio, Han Solo, sono elementi troppo ingombranti e, se non si possiede l’autorevolezza per saperli e volerli gestire con manico, finiscono per occupare la scena con il peso del loro passato, schiacciando però il possibile presente. Che è quello che accade a questo Solo: A Star Wars Story, in cui troviamo più o meno quello che ci si poteva aspettare, nel senso di fatti e avvenimenti che trovassero poi giustificazione nei film della saga successivi (riferendosi alla cronologia interna di Guerre Stellari, visto che questo è sostanzialmente un prequel della vecchia trilogia). 

Se da un lato può anche essere divertente (a patto di essere appassionati di Star Wars; ma si può non esserlo?) trovare le citazioni e i rimandi, bisogna prepararsi al prevedibile esame dei fan più talebani, che certamente troveranno possibili (o anche impossibili) incongruenze, per una volta legittimati a farlo dalla stessa regia (e produzione) che si è sostanzialmente messa su questo stesso piano nella realizzazione dell’opera. Ecco, il vero peccato di questo film non è l’occasione persa per osare un po’ di più; sicuro che la Disney ci riproverà ancora, almeno finché il pubblico le darà corda. 

Il vero rammarico è che, forse il primo vero film dal braccino corto della saga, il primo episodio che tradisca cioè per troppa prudenza, ma forse addirittura per un eccesso di timore riverenziale, quasi sacrale, alla figura del protagonista, sia quello interamente dedicato proprio ad Han Solo, personaggio che della sfrontatezza faceva una delle prerogative fondamentali del suo carisma. Ma è anche vero che, proprio a questo proposito, forse il finale prova addirittura a rimettere un po’ le cose in carreggiata su un piano più vasto.

La parabola discendente di Solo, in effetti, era cominciata dal restyling di George Lucas ai suoi vecchi film, con la celebre e discutibile svolta politically correct: la scena originale (del 1977) nel bar di Mos Eisley era semplice ed efficace, e le giustificazioni del creatore in merito al ritocco del ventennale (apportato nel 1997), non sono mai state troppo convincenti. Han Solo sparava e non per primo, come recita invece lo slogan dei nostalgici Han shot first: sparava infatti solo lui e non il cacciatore di taglie Greedo, che veniva freddato dal nostro eroe svelto di mano. Han Solo uccideva quindi a sangue freddo si, ma per salvarsi la pelle. Che poi è quello che fa il giovane Han nel finale di Solo: A Star Wars Story, e quindi, oltre alla citazione (sebbene la scena ricordi forse di più quella famosissima di Indiana Jones che spara all’uomo armato di spada, del resto Indy era interpretato sempre da Harrison Ford, lo storico Han Solo) ci si può quindi leggere una sorta di ironica ripicca da parte della produzione Disney ai danni di Lucas e delle sue convinzioni riguardo al carattere del suo eroe. 
A pensarci bene, era dura ipotizzare che proprio la Disney invertisse questa rotta; e invece…


Emilia Clarke







venerdì 8 giugno 2018

LA ROSA BIANCA - SOPHIE SCHOLL

159_LA ROSA BIANCA -SOPHIE SCHOLL (Sophie Scholl -  Die letzten Tage). Germania, 2005;  Regia di Marc Rothemund.

Il cinema tedesco probabilmente risente ancora dell’influenza della Neue Deutsche Film, la corrente che rilanciò la produzione cinematografica in Germania nel tardo dopoguerra, adottando uno stile contemporaneo e minore, sulla falsariga del neorealismo italiano o della nouvelle vague francese. E ne La Rosa Bianca - Rosie Scholl il regista Marc Rothemund se ne fa carico, mettendo in scena una pellicola sobria, semplice, riportandoci, con molta discrezione, in Germania, a Monaco di Baviera, ai tempi del Nazismo. Se del periodo della II Guerra Mondiale abbiamo un’idea brutale, non la ritroviamo in questo lungometraggio: ci sono degli studenti che protestano in modo clandestino, certo. Poi decidono anche di mettere in atto un gesto sovversivo, distribuire volantini di contropropaganda nell’università, e qui il regista è molto bravo nel creare una sequenza pregna di suspense. Ma sembra, e lo è, la bravura tecnica di Rothermund a farci trepidare nel timore che i fratelli Scholl possano venire scoperti; non si pensa tanto alla paura intrinseca al nazismo, che il regista, opportunamente, lascia solo sullo sfondo. Anche gli interrogatori della Gestapo, per quanto severi, inizialmente non ci appaiono poi tanto terrificanti; bravissimo l’attore Alexander Held nel ruolo dell’investigatore Mohr, sempre ambiguo, e mai pienamente convinto dalle bugie ben orchestrate da Rosie Scholl (Julia Jentsch). La ragazza è costretta, man mano che i suoi bluff vengono smentiti, a confessare le proprie responsabilità, ma appare abbastanza tranquilla, nonostante sia conscia di quello che rischia, la condanna a morte.

Ma la situazione si fa comunque via via sempre più cupa, e si arriva al processo che, sbrigativamente, condanna i tre ragazzi incriminati alla pena capitale. La cosa stranamente non abbatte completamente Rosie: forse confida che nei 99 giorni di prigionia concessi ai condannati a morte prima della sentenza, qualcosa possa cambiare. La fine della Germania, dopo la sconfitta Stalingrado è segnata; chissà che gli alleati arrivino in tempo.
Ma contrariamente alle consuetudini, la sentenza viene eseguita subito.
Dopo un film nel complesso così sobrio, la vista della ghigliottina, strumento che anacronisticamente veniva ancora usato nel Terzo Reich, lascia lo spettatore atterrito quasi quanto i poveri ragazzi. Un colpo basso del regista, certo, ma salutare se ci costringe a ricordare quanto terribile e spietato fu il nazismo, non solo sul fronte o nei lager. 



Julia Jentsch





mercoledì 6 giugno 2018

IL LABIRINTO

158_IL LABIRINTO (The Maze). Stati Uniti1953;  Regia di William Cameron Menzies.

Il labirinto è un prodotto che viene spesso sbrigativamente archiviato come un mediocre esempio di quei B-Movie che, negli anni ’50, affollavano gli schermi americani, in genere realizzati per meri scopi commerciali. E probabilmente l’analisi potrebbe anche essere vicina al vero; ma è anche innegabile che, ai nostri occhi, questi film possiedono comunque un certo fascino, un po’ naif, d’accordo ma, vista la genuina ingenuità, viene spontaneo guardarli con simpatia. E poi anche questo Il labirinto, come già altri suoi coevi film di genere fantastico, qualche freccia al suo arco c’è l’ha. Innanzitutto è opportuno definirlo come appartenente al genere fantastico perché rimane in bilico tra le due maggiori correnti cinematografiche, diciamo così, meno realistiche: l’horror e la fantascienza. La storia ha uno spunto fantascientifico (l’origine del mostro) ma poi l’ambientazione è tipicamente quella di un film dell’orrore. Che è anche quella che, a dir la verità, funziona meglio: l’incipit del lungometraggio, sebbene stereotipato sui canoni del genere, è inquietante e la tensione regge molto bene. Si potrebbe pensare ad una storia di vampiri (i pipistrelli) o di fantasmi (il castello dalla fama sinistra); invece l’origine dell’inquietudine è il mostro, anche se, volendo ben vedere, fin qui saremmo ancora pienamente nel campo horrorifico. In realtà la spiegazione scientifica per l’origine della bizzarra creatura protagonista della storia rivela la matrice illuminista dell’opera di Menzies che, oltre a dare una motivazione più o meno plausibile (se non proprio credibile) ne smorza, volutamente, il lato inquietante. 
Nel finale viene infatti sostanzialmente detto che non c’è nulla di terrorizzante nel mostro, che altri non è che un povero disgraziato, un diverso: in questo senso Il labirinto si può considerare uno dei precursori di quei film di fantascienza del dopoguerra che concretizzavano sullo schermo, in modo più consapevole, la paura del diverso (spesso con riferimento oltrecortina, ovvero ai russi nella Guerra Fredda). Quello di James Cameron Menzies, in quest’ottica, diventa così un film interessante, dettato da un buon intuito, e del resto il regista aveva già realizzato pellicole come La vita futura e Gli invasori spaziali, non capolavori, certo, ma comunque opere degne di nota. Vero è che nella seconda parte il film perda parte della sua efficacia, ma nel complesso si tratta di una pellicola simpaticamente apprezzabile. 





Veronica Hurst