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mercoledì 18 agosto 2021

PAISA'

874_PAISA' Italia, 1946; Regia di Roberto Rossellini.

Se il precedente Roma città aperta poteva in qualche modo essere inteso come un testo costruttivo, nell’ottica di mostrare l’Italia come un paese che cercava di superare il tragico momento storico disconoscendo il suo essere (stata) fascista, con Paisà Roberto Rossellini ci riporta coi piedi per terra. Il film è strutturato in sei episodi, e già questa è una scelta significativa e dimostra come per rendere un quadro un minimo attendibile del paese non si possa utilizzare un unico racconto, ma ne servano svariati e differenti. Un film frammentato per un paese frammentato; paese e non nazione: non a caso, i sottotitoli vengono usati non solo per i soldati alleati o tedeschi, ma anche per gli stessi italiani che, non essendo nazione, non parlano tutti la stessa lingua. Ma quello della lingua, in fondo, è solo un dettaglio: l’Italia nel suo profondo è un paese disperato e senza futuro. Che speranza possono avere gli abitanti siciliani del primo episodio, quando la sola ragazza che si presta ad aiutare gli alleati pagherà con la vita ma verrà ricordata come una traditrice sia dai suoi concittadini che dai soldati americani? E quale il bambino napoletano, che vede il militare di colore rinunciare addirittura alla funzione educativa (i rimproveri per il furto della scarpe) di cui si era volontariamente fatto carico, una volta visto che i quartieri partenopei sono ben peggiori della miseria della baracche dove viveva in America? E quale speranza può coltivare Francesca, la giovane romana, che in fin dei conti prova ad ingannare Fred, il soldato americano, cercando di non farsi riconoscere tra le ragazze di vita e di recuperare (in modo posticcio) la propria verginità? 

Fred non la riconosce a livello individuale ma la riconosce per quello che è (e che rappresenta: l’Italia). Una ragazza che ha svenduto la propria innocenza e che, all’occorrenza, prova a ingannare il prossimo pur di recuperare una parvenza di onestà. Senza riuscirci. E che speranza può esserci se il paese dell’arte si è messo a far la guerra, proprio come il Lupo, il pittore di Firenze? O per il paese custode della Chiesa, i cui però più devoti rappresentanti non riescono ad accettare tra loro la presenza di sacerdoti di altre dottrine?
Nessuna, naturalmente. 
Vedendo, nell’apertura del sesto capitolo, il cadavere che scorre nel Po, il grande fiume del paese, verrebbe da pensare che non sia solo quello di un partigiano, ma anche quello della stessa Italia. Ma l’episodio è solo all’inizio, e poi verrebbe a mancare il famoso tema dell’attesa, tanto caro a Rossellini.

Quell’attesa sempre delusa per i protagonisti di Paisà: il finale di ogni episodio ha sempre un sapore amaro, compreso quello dei frati, incapaci di accettare intimamente l’altro. Ma l’ultimo paragrafo del film è quello forse con l’ambientazione più congeniale alle tematiche dell’autore romano, con il grande fiume che scorre lento accompagnando, insieme alla lugubre musica, i protagonisti, un gruppo di soldati americani fiancheggiati dai partigiani, che cercano scampo verso il mare. Ma prima che possano giungervi, arrivano i tedeschi: e allora gli americani imprigionati in casa, con l’ufficiale tedesco ad offrir loro da bere e a parlare e a capirsi nella stessa lingua, pur essendo di nazioni diverse; cosa che, nel film, quando ci sono di mezzo gli italiani, è sempre mostrata come più difficoltosa. Parlare discutendo di cose comuni, come delle grandi stufe che scaldano le case in legno in Germania, ma finendo, inevitabilmente, per esaltare l’orgoglio nazionale teutonico. Gli italiani, sorvegliati dai mitra, fuori, al freddo, come bestie.
Il giorno dopo, il mare: per i partigiani, nessuna possibilità, gettati nell’acqua fonda con le mani legate dietro la schiena.
L’attesa è davvero finita; e con lei le speranze dell’Italia.




Maria Michi


venerdì 16 aprile 2021

LADRI DI BICICLETTE

798_LADRI DI BICICLETTE . Italia1948. Regia di Vittorio De Sica.  

Ladri di biciclette è oggi considerato giustamente un capolavoro. Al tempo della sua uscita, nella stagione 1948/49, al botteghino fu un mezzo fiasco; a Roma, alla prima visione, gli spettatori all’uscita del cinema volevano addirittura i soldi indietro. Andò meglio all’estero ma, in Italia, evidentemente, la gente non aveva tanta voglia di sopportare una storia tanto disperata come quella del povero Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), il protagonista del film di De Sica. Antonio è un disoccupato che abita nella periferia di Roma; finalmente gli assegnano un lavoro, l’attacchino comunale. A patto che abbia una bicicletta. Calma, non si salti alle conclusioni affrettate ricordando il titolo del film: Antonio la bici ce l’ha, è solo impegnata al monte dei pegni; e comunque non è un ladro. In ogni caso lascia un corredo di lenzuola in cambio, ritira la bici e si presenta al lavoro. Vedendolo andare al lavoro con la bicicletta che gli è costata il sacrificio della basilare biancheria del letto, è narrativamente quasi scontato ricordare, adesso si, il titolo dell’opera di De Sica. I Ladri di biciclette entrano in azione subito, al primo manifesto che Antonio deve attaccare: la successiva ricerca dell’indispensabile mezzo di locomozione rubato occuperà l’intero lungometraggio. In questo continuo peregrinare di Antonio per la città, accompagnato dal figlioletto Bruno (Enzo Staiola), da Baiocco (Gino Saltamerenda) e dai suoi colleghi netturbini, è riconoscibile la poetica di Cesare Zavattini: nel seguire passo passo i protagonisti nella loro estenuante ricerca trova forma la teoria del pedinamento

Non solo la macchina da presa segue, di fatto, Antonio e gli altri per le strade di Roma ma, soprattutto, li accompagna per una durata quasi reale del percorso, evitando cioè, l’utilizzo del linguaggio cinematografico per sintetizzare le fasi della improvvisata indagine. C’è l’intenzione di Zavattini e De Sica di rendere più realisticamente quello che il furto di una bicicletta significa in Italia, nel 1948. Al cinema, al cinema americano, forse sarebbe stata una cosa da niente, un particolare di una storia da mostrare in dieci minuti, con un montaggio efficace: ma l’Italia del dopoguerra non era l’America e un furto di una bicicletta era quasi una questione di sopravvivenza. E’ forse questo aspetto che affascinò tanto all’estero, ad esempio in Gran Bretagna, dove l’autorevole rivista cinematografica Sight & Sound , nel 1952, nel suo primo sondaggio tra illustri critici, mise Ladri di biciclette al primo posto assoluto. 

La capacità del cinema neorealista di De Sica e Zavattini era quella di adeguare il suo linguaggio a quello della gente più umile. Il cinema, come mezzo di comunicazione, si era forse più evoluto in senso opposto, era in grado cioè di portare sullo schermo azioni eclatanti, imprese eroiche, storie avventurose, passioni romantiche, che potevano ora essere vissute anche dallo spettatore comune. Il cinema era quello strumento che portava l’eccezionale alla portata di tutti. Ma questo, in un certo senso, rischiava di far smarrire il senso delle cose. Un furto di una bicicletta poteva diventare una cosa da nulla, se al cinema era abitudine vedere assalti alla banca o al treno. Ma, in Italia, il furto di una bicicletta, nella realtà quotidiana, era una tragedia, e Zavattini e De Sica stavano lì a ricordarlo. E se nel nostro paese il film fu accolto tiepidamente, fu forse solo perché, probabilmente, nel 1948, la gente questo aspetto drammatico della realtà se lo ricordava già anche troppo. Forse l’approccio (neo)realista fu maggiormente apprezzato proprio in quei paesi in cui la situazione era economicamente meno disperata, e fu visto come un richiamo a quella che era comunque la realtà quotidiana anche da quelle parti. Antonio, naturalmente, essendoci di mezzo Zavattini, la bicicletta non la ritrova. Nella vita di tutti i giorni, a cui fa riferimento il film, ritrovare una bici rubata è, in effetti, una cosa utopistica, specie in una grande città. Il tessuto sociale italiano dell’immediato dopoguerra è mostrato senza sconti: le forze dell’ordine sono sostanzialmente indifferenti a questi piccoli problemi che, come detto, dal punto di vista del derubato tanto piccoli non sono.

 

Se la celere se ne lava sbrigativamente le mani, nemmeno il carabiniere che pur interviene nella disputa tra Antonio e il ladro, per la verità, sembra essere di grande aiuto. Abbiamo infatti seguito Antonio ad un comizio delle cellule dei lavoratori e poi ad una funzione di un’organizzazione religiosa di solidarietà e alla fine una traccia era saltata fuori: così uno dei mariuoli è stato rintracciato. Una volta messo spalle al muro il ladro, tutto il vicinato del malandrino si erge a tutore delle procedure legali: ci vogliono prove documentate per accusare la gente. Il che è indubbiamente vero: curioso però che meno l’ambiente è abitualmente ligio al rispetto dei regolamenti disciplinari, più ne invoca il rispetto quando uno dei suoi è messo sotto accusa. Perfetto lo spaccato mostrato da De Sica e Zavattini di questa particolare e ricorrente caratteristica di molti quartieri popolari del tempo e oggi diffusa in modo orizzontale tra la popolazione dello stivale
A fronte di queste richieste da parte della folla, la guardia, il povero carabiniere citato, non può che applicare le norme della legge, lasciando Antonio solo con le sue accuse senza prove e, di conseguenza, sotto il fuoco delle invettive collettive. Si prosegue così in un peregrinare tra varie peripezie, tra uno screzio tra padre e figlio e il timore che quest’ultimo sia finito nel Tevere, una visita ad una santona locale che prevede banalità in cambio di denaro sonante, una bella mozzarella in carrozza in trattoria, forse non apprezzata appieno per via dello snobismo di una famiglia facoltosa che mangia in punta di forchetta, sottolineando la differenza di ceto nei confronti dei nostri due protagonisti. Alla fine torniamo al punto di partenza: il film si intitola Ladri di biciclette e, al nostro Antonio, ne serve disperatamente una. 

Non è un ladro, Antonio. Ma, disperato, alla fine ci prova. E viene subito colto in fragrante, fermato da quella folla che, c’era da scommetterci, adesso reclama indignata giustizia ai suoi danni. Ora non soltanto si trova solo in un paese ostile, l’Italia (un paese che sa essere terribilmente ostile verso i suoi stessi cittadini) ma, cosa assai peggiore, potrebbe aver perso anche il rispetto di Bruno, suo figlio. Ma poi, provare a rubare una bicicletta o anche rubarne una, non trasforma automaticamente un uomo in un ladro; anche se è un reato ed è assolutamente da condannare, come gesto in sé. Sbagliare, indotti nell’errore dalle circostanze, o approfittare di queste per delinquere deliberatamente, non è la stessa cosa. Intanto Bruno e Antonio si incamminano tra la folla. Il primo piano è sul volto affranto di Bruno; poi la macchina da presa inquadra le persone che camminano davanti a loro, dall’altezza del bambino. Le immagini sembrano quasi sfocate, come se fossero viste tra le lacrime degli occhi. Chissà, forse Bruno si è commosso, cercando di capire quella differenza di cui si diceva; e, nel caso l’avesse colta, tra quella folla sarebbe uno dei pochi.  


giovedì 23 maggio 2019

ROMA ORE 11

353_ROMA ORE 11 . Italia, Francia, 1952Regia di Giuseppe De Santis.

Nel 1951, uno spunto tragico della cronaca cittadina della capitale, presta il fianco agli autori (tra i quali, oltre al regista Giuseppe De Santis spicca l’immancabile Cesare Zavattini) per un nuovo esempio di cinema neorealista: Roma ore 11. Il regista è, come detto, Giuseppe De Santis e in questa sua nuova opera si riscontrano alcune analogie con il suo precedente capolavoro Riso amaro: oltre alla denuncia per una generale situazione economico sociale drammatica, c’è un’attenzione alle difficoltà della condizione femminile nel mondo del lavoro. All’interno della quale, è impossibile negarlo, l’autore non rinuncia però ad approfittare di un certo compiacimento nel mostrare la figura, o meglio il corpo, del gentil sesso. Come già nel film ambientato nelle risaie da cui Silvana Mangano è diventata un’icona immediatamente riconoscibile, anche in Roma ore 11 De Santis insiste sulle gambe delle ragazze in coda per il posto da dattilografa, oppure sui maglioncini attillati che ne evidenziano le forme. Del resto le attrici ingaggiate per il suo film non sono certo scelte tra ragazze ordinarie: c’è addirittura Lucia Bosé, miss Italia 1947, e poi Delia Scala, Maria Grazia Francia, Carla Del Poggio e altre ancora, insomma sembra di stare ad una selezione per un concorso di bellezza. Questa caratteristica di De Santis, che potrebbe sembrare una sua debolezza (comprensibile, va detto) ha però anche un significato prettamente cinematografico: all’interno di una corrente così attenta alla rappresentazione credibile e onesta della realtà italiana del dopoguerra qual’era il neorealismo, l’autore non rinuncia alle armi più proprie del cinema, che della rappresentazione sullo schermo di qualcosa di significativo, faceva comunque il suo punto di forza.
In fondo, la Bosé che cammina per la strada, con il suo metro e settantatre di pura eleganza, o la figura armonica di Delia Scala, non distraevano l’attenzione dall’amara riflessione di vedere oltre duecento ragazze in coda per un misero singolo posto di dattilografa. Tuttavia questo aspetto non può rimanere taciuto, visto che se n'erano accorti anche oltreoceano, tanto che il manifesto americano del film recitava in modo assai esplicito: An estraordinary amount of sex appeal, ribadendo che sullo schermo la figura femminile era esaltata anche sul piano prettamente fisico dalla regia di De Santis. Tornando alle condizioni economiche in cui versava il paese nel dopoguerra, queste erano davvero drammatiche ma, nel 1951, era ormai risaputo. In effetti, gli autori sfruttarono un episodio di cronaca avvenuto a Roma, il crollo di una scala interna di un caseggiato per l’eccessivo assembrarsi delle ragazze in fila per un colloquio per un posto di lavoro, per tratteggiare un quadro corale sull’umanità dello stivale. Tra i vari soggettisti, il citato Zavattini aveva la capacità di descrivere con un realismo misurato anche le vicende più strazianti; De Santis aveva già mostrato invece una vena narrativa più intensa sul piano emotivo. In Roma ore 11, la poetica del primo influenza quella del secondo, e quella che vediamo può essere intesa come la versione capitolina, e quindi ancora più italiana, più conforme alle consuetudini del neorealismo, rispetto a Riso amaro, simile nelle tematiche ma forse più vicina alla sensibilità del regista. In entrambi i film l’attenzione principale è posta sulla condizione femminile nel mondo del lavoro, si è detto, che rappresenta una difficoltà nella difficoltà: se è arduo trovare un posto di lavoro nel dopoguerra italiano, figuriamo farlo nei panni di una donna.

Ma se Riso amaro raccontava anche altro, ad esempio dell’influenza del modello americano sulla nostra società, Roma ore 11 sembra piuttosto sfruttare l’occasione di vedere riunite tante ragazze nello stesso posto per fare una panoramica generale sul paese. Ci sono le ragazze povere, quelle ricche ma ribelli, quelle che fanno la vita oppure la serva; c’è chi aveva già un lavoro ma l'ha lasciato dopo essere stata messa in cinta dal capoufficio, e chi ha il padre che faceva il generale, ma adesso è in pensione e non conta più niente. Carrellata folcloristica comunque interessante, certamente, ma il punto nevralgico è ovviamente un aspetto morale: Luciana (Carla Del Poggio) scavalca con uno stratagemma tutta quanta la fila, e quando le ragazze si accorgono del trucco si scatena un parapiglia, la ringhiera cede e con lei la scala stracolma delle fanciulle.
Le scene del crollo, tra le macerie e i voluttuosi corpi doloranti delle sventurate, riportano alla mente gli effetti dei bombardamenti durante la recente guerra mondiale, ma anche i frequenti terremoti che agitano il belpaese. Nemmeno passato lo sgomento, che è subito caccia al colpevole, anche perché una delle ragazze è grave (e morirà di li a poco): l’architetto, il costruttore, il proprietario dell’immobile, il titolare dell’azienda che ha indetto il colloquio di lavoro, la portinaia che ha aperto il cancello… o la ragazza che ha scatenato la reazione rabbiosa delle sue compagne di speranza? Moralmente, perlomeno nella finzione filmica, non ci sono dubbi, è quest’ultima a dover pagare. Perché è troppo difficile, senza cognizioni specifiche di edilizia e di giurisprudenza, stabilire, ad esempio, se la scala doveva reggere tutte quelle ragazza ammassate; è un evento eccezionale, prettamente tecnico e poco significativo in un’opera di massa come è un film.

E’ più semplice, più utile, e soprattutto alla portata di tutti, capire che scavalcare la coda è sbagliato, e inoltre la metafora educativa si presta bene alla vicenda. E’ un vezzo tipicamente italiano, quello di fare i furbi, e quello a cui assistiamo dimostra anche i motivi che ostacolano la crescita sociale e collettiva del paese: per un vantaggio individuale (evitare la coda), si danneggia l’intera comunità (tutte le ragazze cadute nel crollo), finendo per danneggiare lo stesso individuo (la responsabilità morale e il derivante senso di colpa lacerante). Luciana, infatti, rea della furbata è disperata, stretta dai sensi di colpa, visto che, oltretutto, la ragazza che sta morendo era quella con cui aveva fraternizzato.
De Santis sembra scorgerci ancora delle assonanze con Riso amaro, e spedisce Luciana in cima ad una scala improvvisata in luogo di quella caduta, che già era una metafora del tentativo di scalata sociale, ma che ora ricorda anche quella salita dalla Mangano nel tragico finale del film sulle mondine. Arrivata in cima, Luciana si affaccia al vuoto sottostante, tentata di trovare una espiazione per la colpa commessa; che sarebbe un passaggio narrativo forte, esagerato in un contesto realistico (la colpa della ragazza non è certo grave da giustificare un suicidio). Ma darebbe tutto un altro nerbo al finale; invece si predilige una chiusura, per così dire, tipicamente zavattiniana, in cui si mantiene fede al realismo (l’inchiesta è archiviata con un nulla di fatto, e questo, in Italia, è certamente assai realistico), visto che nella cronaca non si parlò di alcun suicidio. Purtroppo, quello che rimane, e questo era un limite fortissimo che affiorava sempre più nella corrente neorealista, è l’impressione che in Italia siamo sempre tutti quanti vittime e nessuno è davvero mai colpevole.    



Lucia Bosè





             
Lea Padovani


Maria Grazia Franzia


Carla Del Poggio


Delia Scala




lunedì 4 febbraio 2019

UOMINI E LUPI

297_UOMINI E LUPI . Italia 1957. Regia di Giuseppe De Santis.

La preziosa attitudine di Giuseppe De Santis alla rappresentazione quasi documentaristica dei contesti storici in cui ambienta le sue vicende, riesce ancora a sorprenderci con il bellissimo Uomini e lupi, film del 1957 girato interamente in Abruzzo. Al centro della storia c’è la figura del luparo, ovvero di colui che si accollava il compito di uccidere i pericolosi lupi che infestavano i paesini di montagna della selvaggia regione italiana. Tra l’altro sorprende che un simile contesto decisamente affascinante sia tutto sommato passato inosservato al cinema, quando avrebbe potuto essere un’ambientazione ideale per moltissimi film che fossero anche solo di avventura. De Santis, com’è intuibile, mira più in alto, e ci fornisce una pellicola che, pur con solide basi d’intrattenimento melodrammatico/avventurose, si distingue soprattutto come uno degli ultimi spunti del neorealismo. Dal punto di vista formale l’opera è rimarchevole: bellissimi i paesaggi, tra l’altro ripresi durante la copiosa nevicata del ’56, illustrati da una fotografia dai tenui colori pastello da sembrare pittorici. Anche le scene con gli animali, sia domestici ma soprattutto coi lupi, sono di notevole effetto.
Nel paesino di Vischio, in cui un branco di lupi sta facendo strage di animali domestici, arrivano contemporaneamente due lupari: uno è il tradizionalissimo Giovanni (Pedro Armendàriz), l’altro, Ricuccio (Yves Montand), sembra piuttosto un dongiovanni vagabondo. Il primo è accompagnato dalla moglie Teresa (Silvana Mangano, nientemeno) e dal figlietto Pasqualino, il secondo cerca subito di conquistare le grazie di Bianca (Irene Cefaro) figlia di don Pietro (Guido Celano), il classico padrone di mezzo paese. 

Se Giovanni è un vero luparo, indipendente, solitario, scontroso, non disposto a lavorare al soldo di nessuno ma deciso a fare tutto da sé, Ricuccio è un millantatore, non essendo affatto del mestiere. De Santis è un abile narratore e la storia procede prima soprattutto sul piano avventuroso e sfocia lentamente su quello sentimentale, con una serie di triangoli melodrammatici che, a quel punto, incendiano le innevate scene abruzzesi. Ricuccio, snobbato da Bianca perché povero, sembra insediare Teresa; Giovanni è lesto ad accorgersene e la rivalità amorosa si sovrappone a quella ‘sportiva’ (gli animalisti mi passino il termine improprio) in qualità di lupari. Poi Giovanni soccombe in un tentativo di catturare da solo un lupo vivo, e la tensione sentimentale si sposta sul triangolo Teresa-Ricuccio-Bianca, una volta che quest’ultima, visto che l’uomo si stava defilando, decide di riprendersi la scena. Intanto i lupi scorazzano e Ricuccio, con un occhio sempre rivolto comunque a Teresa, nella contesa con le belve cerca di riguadagnare un po’ di prestigio agli occhi del paese, in precedenza perso dopo un tentativo di truffa.


La Mangano è brava nella parte un po’ trattenuta, anche dalla condizione di lutto, della donna che vorrebbe ma non può, Montand gigioneggia, cercando di capire quale partito scegliere, sebbene la ricchezza di Bianca è una tentazione troppo forte. La ragazza è ora ben disposta verso l’uomo, sebbene gli neghi comunque ogni speranza di accedere, anche tramite matrimonio, alla condizione agiata; la differenza di classe è un fatto insormontabile. Lo stallo sentimentale è rotto da un’irruzione di ritorno nella trama della traccia avventurosa: il branco di lupi irrompe selvaggiamente in paese e attacca a spron battuto mietendo numerose vittime tra gli animali domestici. Le scene sono appassionanti e girate con maestria.

Ricuccio si distingue prima nella difesa con la doppietta, poi si erge ad eroe catturando un lupo vivo, proprio là dove aveva fallito Giovanni. Sia Teresa che Bianca ora gli si concedono apertamente e l’uomo sceglie la seconda, non per amore ma per la mai sopita speranza di migliorare la propria condizione economica tramite gli averi della giovane. Ma don Pietro non è affatto d’accordo e intende salvare casta di famiglia e onore della figlia; al che interviene proprio Teresa a benedire l’unione tra Ricuccio e Bianca, convincendo anche il recalcitrante padre. Il finale, lunghissimo e struggente, vede Ricuccio rimuginante scortato da padre e fratello di Bianca che lo riportano al paese, per legalizzare l’unione con la ragazza. Teresa e Pasqualino (anch’egli affezionatisi a Ricuccio) lasciano invece Vischio lacrime agli occhi.
Poi, finalmente Ricuccio si divincola dai due uomini e corre da Teresa, schivando le pallottole di un furibondo don Pietro. Il lieto fine premia con la Mangano, una vera diva dell’epoca, Ricuccio, un personaggio moderno, mentre quelli più tradizionali, da Giovanni a don Pietro, ma anche Bianca, così attaccata alla roba manco fosse la protagonista di un racconto di Giovanni Verga, sono destinati all’oblio.
Il neorealismo stava davvero finendo.


Silvana Mangano






martedì 4 dicembre 2018

CIELO SULLA PALUDE

252_CIELO SULLA PALUDE  Italia, 1949;  Regia di Augusto Genina.

A vederlo oggi, Cielo sulla palude di Augusto Genina, sorprende di come sia un film abitualmente poco considerato. D’accordo, forse Genina si accoda agli stilemi cinematografici del neorealismo con mestiere, allo stesso modo in cui dirigeva in precedenza film di propaganda fascista. E chissà, forse anche l’argomento trattato, vita e, ahimè, morte assai prematura e traumatica di Maria Goretti, non avrà attirato, nel corso del tempo, le simpatie della critica cinematografica nostrana, da sempre non troppo benevola verso i prodotti di cui si presume una forte ispirazione cattolica. Ma in fondo qui la religione c’entra relativamente: certo, la Goretti l’hanno fatta santa e sicuramente la sua devozione era profonda e sincera. Però il film non si concentra solo sull’aspetto religioso della vita di Maria, almeno non più di tutto il resto. E proprio quel resto, ovvero l’ambiente delle paludi pontine, che Genina illustra in modo esemplare, aiutato dalla straordinaria fotografia in bianco e nero di Aldo Aldò Graziati, sembra oggi di grandissimo valore cinematografico. La vita della povera gente, le asprezze di alcuni di loro, come ad esempio Giovanni Serenelli (Francesco Tomalillo) padre di quell’Alessandro (Mauro Matteucci), che fu l’assassino della povera Maria (Ines Orsini). Ma anche la solidarietà di altri, come i vicini di casa dei Goretti, o il buon cuore, certamente di maniera, quello sì, della contessa, da contrapporre all’indifferenza istintiva e preventiva verso gli altri del marito conte. 
Insomma, se i personaggi sono illustrati con poche ma incisive pennellate che ne scolpiscono con efficacia le caratteristiche, sull’ambientazione paludosa della zona intorno a Nettuno, una palude ancora intrisa di malaria che i contadini cercano disperatamente di coltivare, Genina si supera, e riesce a fornire un quadro certamente convincente. In questo ambito si svolge la vicenda dei Goretti, famiglia di Maria, una ragazzina undicenne che, giustamente, Genina evita di santificare in maniera eccessiva e preventiva: la giovinetta è poco più di una bambina e la sua ingenuità, certamente dovuta all’indole spontanea e sincera unita forse anche alla mancanza di ogni possibile tentazione, è probabilmente quella di molte altre fanciulle nelle medesime condizioni. 

La purezza di Maria è quindi quasi naturale, non assolutamente forzata; l’assenza di malizia alla base e la contemporanea mancanza di elementi corruttivi avevano preservato la ragazza nella completa e sincera innocenza. C’è forse una forma di moralismo (ma con innegabile fondo di verità) da parte del regista, nel mostrare come sia dall’ozio in cui giace perlopiù Alessandro, che nascono i pensieri maliziosi prima e via via più ossessionati, che porteranno all’aberrante crimine ai danni della ragazzina. Un ambiente malsano non può che produrre atti malsani, si potrebbe dire. E qui, probabilmente, più che sulle parole in punto di morte della povera Maria che nel film perdona Alessandro prima di spirare, che si innesta la volontà popolare di rifiutare una simile conclusione. 
La folla che accorre al capezzale della ragazza non ha una motivazione narrativa ma risponde alla necessità di elevare il sacrificio di Maria in risposta al male scaturito nell’orribile delitto. La collettività si aggrappa alla giovane ragazza per ribellarsi dalla propria condizione di miseria morale oltre che economica: in questo senso è quasi normale notare come, oltre alla chiesa cattolica che l’ha santificata, la figura di Maria Goretti sia stata presa a modello prima dai fascisti e in seguito anche dai comunisti.
Ma questo non deve suonare come accusatorio per la strumentalizzazione che si potrebbe pensare sia stata fatta di volta in volta: non è questo il caso. La purezza di Maria Goretti, qualunque sia la causa che l’ha preservata, è un valore universale, e quindi è logico che tutti vi riconoscano l’importanza assoluta.
E il film di Genina assolve benissimo questo compito in ambito cinematografico.  


Ines Orsini