Translate

martedì 11 marzo 2025

L'HOMME SANS VISAGE

1635_L'HOMME SANS VISAGE . Francia, Italia, Jugoslavia, Germania, 1975. Regia di Georges Franju

L’anno successivo all’uscita nelle sale di Notti Rosse, sulla rete Télévision Française 1 viene trasmesso L’homme sans visage serie televisiva in otto capitoli che ne estende la trama. In realtà, Notti Rosse, pur essendo evidente che non fosse un capolavoro, non aveva dato l’impressione di essere un riassunto; e dire che il riferimento erano i lunghissimi serial cinematografici di inizio secolo di Louis Feuillade che Franju aveva già adattato al cinema in modo efficace ne L’Uomo in Nero nel 1963. Anche stavolta l’apporto di Jacques Champreux è notevole: non solo interpreta il villain protagonista, l’uomo senza volto del titolo ma, come già in Notti Rosse, cura anche la sceneggiatura. Per la verità, scorrendo i dati tecnici, scopriamo che Champreux si occupa anche dell’adattamento e dei dialoghi, del resto il polivalente artista doveva essere un vero appassionato nei feuilleton cinematografici con gli eroi mascherati avendo curato la sceneggiatura anche per il citato L’Uomo in Nero dove si raccontavano le gesta di Judex. Tuttavia la gestazione de L’Homme sans visage è particolarmente tribolata e il risultato non deporrà proprio a favore né della sua carriera e nemmeno in quella di Franju, se vogliamo essere onesti. Il primo episodio si intitola La nuit du voleur de cerveaux [La notte del ladro di cervelli] e vede subito all’opera proprio Champreux nei panni non solo del cattivone della serie ma anche in quelli di Mademoiselle Ermance, l’insospettabile copertura sotto cui l’Uomo senza Volto si nasconde. Rispetto a Notti Rosse apprendiamo il modo in cui viene arruolato nella banda criminale il dottor Dutreuil (Clément Harari) che in questo episodio è in sostanza il ladro di cervelli del titolo. Il folle dottore, con una serie di operazioni chirurgiche su persone rapite, sta cercando la formula per trasformare gli uomini in obbedienti robot. L’idea garba anche all’Uomo senza Volto che, con il prezioso aiuto della sua splendida e anonima compagna (Gayle Hunnicutt) riesce a scoprirlo ed assoldarlo. Il secondo episodio Le masque de plomb [La maschera di piombo] intreccia troppe piste avanzando un po’ a fatica, almeno finché non si arriva al nuovo laboratorio del dottor Dutreuil dove gli esperimenti di disumanizzazione stanno avendo successo. Il ritmo narrativo si riprende nel successivo Les tueurs sans âmes [Assassini senz’anima]: l’Uomo senza Volto ha messo gli occhi sul fantomatico tesoro dei Templari e questi ultimi, lungi dall’essere una leggendaria setta del passato ormai scomparsa, si preparano alla lotta. Intanto la polizia, capeggiata dal commissario Sorbier (Gert Frobe) e dall’ispettore Péclet (Enzo Fisichella), tra una beffa e una cantonata cerca vanamente di stare al passo. 

Proprio durante una gaffe clamorosa del commissario, che si fa buggerare da un efficace travestimento dell’Uomo senza Volto, irrompe sulla scena Paul de Borrego (Ugo Pagliai) nipote del facoltoso uomo ucciso dal cattivo della storia nel tentativo strappargli il segreto del tesoro dei Templari, che pare esista davvero. Ad allentare un po’ la tensione, fanno la comparsa anche Martine (Josephine Chaplin), fidanzata di Paul, che chiama in soccorso un investigatore privato suo spasimante e un po’ imbranato, Séraphin (Patrick Préjan). Il quarto capitolo è un concentrato d’azione, pur nel ritmo narrativo compassato del tipico racconto televisivo del tempo. In ogni caso la prima parte di La mort qui rampait sur les toits [La morte striscia sui tetti] vede all’opera il personaggio senza nome interpretato da Gayle Hunnicut che si incarica di dar corpo al titolo dell’episodio. In un’attillata tutina nera, Gayle si muove sinuosa e tiene a lungo in scacco il commissario Sorbier e i suoi poliziotti; a catturarla ci pensa, un po’ clamorosamente, il più goffo, Séraphin, peraltro aggredendola alle spalle. Il detective privato sale comunque sugli scudi e si rende protagonista del proseguo del racconto, quando combina un vero pasticcio catturando il povero professor Pétri (Henri Soskin). Questi è un amico dello zio di Paul ucciso in precedenza dall’Uomo senza Volto ed è un vero professore, esperto di Templari e altre facezie storiche. Séraphine, memore che l’avversario è in grado di camuffarsi e spacciarsi per chiunque, lo blocca e lo sistema in una cassapanca insospettito dal parrucchino che l’uomo indossa. Finito il diversivo leggero si ritorna in clima nel laboratorio del professor Dutreuil per un aggiornamento sui suoi terribili esperimenti ormai in grado di creare un esercito di uomini robot. La marche des spectres [La marcia degli spettri], il quinto episodio, presenta un paio di spunti che rispolverano la tipica vena surreale di Franju. Si comincia con una fallimentare trappola tesa all’Uomo senza Volto che per poco non si rivela al contrario fatale a Paul, che si trova a fronteggiare un gruppo di uomini robot dall’aspetto di manichini. Séraphin, che alterna trovate geniali a gaffe clamorose, stavolta riesce nell’impresa di salvare la pelle all’amico. L’altra pennellata surrealista è un pilastro di cemento da cui sbuca una mano umana: è infatti così che avviene il ritrovamento solo ora di uno dei primi cadaveri seminati dall’Uomo senza Volto. La vittima era stata colata in uno dei pilastri della Città della Felicità, complesso residenziale in costruzione dall’impresa di Monsieur Baklava, che altri non è che l’Homme sans visage in uno dei suoi travestimenti. La ferita al polso, rimediata in uno scontro con Paul, tradisce però il nostro cattivo e l’ispettore Peclét si convince che Baklava e l’Uomo senza Volto siano la stessa persona. Il racconto procede a blocchi narrativi, senza disperdersi troppo; ad esempio in questa puntata non appaiono né Martine e nemmeno il dottor Dutreuil: la fruizione ne giova con l’attenzione dello spettatore che si può concentrare su un passaggio per volta. Arrivati al sesto capitolo, Le sang accusateur [il sangue accusatore], Franju e Champreux gettano la maschera, per così dire, e rivelano la natura da romanzo d’appendice dell’opera. Fino a questo momento, tutto sommato, il racconto era stato abbastanza credibile, almeno nell’ottica di una storia improbabile di uomini mascherati e scienziati in grado di trasformare gli uomini in robot. Ma gli incastri narrativi del racconto rispettavano discretamente la coerenza interna o almeno erano in questo senso convincenti. Questo nuovo capitolo lascia invece due sensazioni contrastanti: il ritmo è sempre serrato e trascinante ma troppi passaggi narrativi dell’intrigo sono poco credibili. Per esempio, come possa Paul arrivare a salvare Séraphin – messo in trappola da Baklava, alias l’Uomo senza Volto – non è dato sapere. 

Nel feuilleton le spiegazioni delle soluzioni narrative sorprendenti sono di norma sostituite da nuove svolte del racconto, così che il lettore venga distratto e non si curi più del passaggio precedente. Negli anni Settanta è una pratica giustamente desueta perché gli spettatori non sono ingenui come i lettori di inizio secolo e l’idea di ricorrervi in modo così palese è, da parte degli autori, piuttosto rischiosa. Anche perché il settimo episodio, Le rapt [Il rapimento] rincara la dose: le modalità del rapimento di Paul, la sua liberazione grazie all’arrivo sulla scena di Molue à Singe (Laurent Oget) – un ragazzino abbandonato – e le clamorose coincidenze del finale sono effettivamente eccessive. A Parigi, la città più grande di Francia e forse d’Europa, Paul e Séraphine si nascondono in una squallida bettola sullo stesso pianerottolo dove alloggia le Sacristain (Jean Saudray) un ex bandito al soldo dell’Uomo senza Volto. Non bastasse questa combinazione, Molue à Singe, incaricato da Paul e Séraphine, va alla ricerca di Martine che, tra i continui colpi di scena –  il fidanzato è prima accusato dalla polizia quindi rapito dai banditi – non sa più a chi rivolgersi o dove nascondersi. Fortuna narrativa vuole che il ragazzino la incontri per caso passeggiando in un parco; nella periferia di Parigi, giusto per ricordarlo. Perplessi da questi passaggi, seguiamo quindi l’Homme sans Visage sulle tracce del tesoro dei Templari quando alla trama si aggiungono nuovi rivolti, giusto per non dare troppo tempo per riflettere agli spettatori. L’ultima puntata Le secret des Templiers [Il segreto dei Templari] certifica che ormai la serie è completamente deragliata: lo scontro finale vede il prepotente ritorno sulla scena dei Templari, l’arrivo tardivo della polizia, la sconfitta dell’Uomo senza Volto e il salvataggio di Paul, Sérafine e Martine, che erano finiti sotto le grinfie del dottor Dutreuil. C’è tempo, prima della chiusura, affinché il Gran Maestro dei Templari riveli ai nostri eroi il segreto dei cavalieri, una sorta di crogiolo alchemico in cui sarebbe possibile produrre oro ma che emana costantemente radioattività. Ed è l’impossibilità a bloccarne la reazione che ha indotto i Templari stessi a rimanere nei secoli alla sua custodia perenne: soluzione narrativa degna, almeno negli anni Settanta, per una storia del fumetto Topolino della Disney, ma vabbè. Bello invece il finale con l’Homme sans Visage che, mascherato da Mademoiselle Ermance, si defila alla chetichella in compagnia della sua fedele alleata. Del resto era il finale con cui si era chiuso anche Notti Rosse e a questo proposito la visione complessiva della serie L’Homme sans Visage chiarisce un’altra cosa. Vedendo Notti Rosse, che altro non è che una visione condensata della serie televisiva, si rimaneva un po’ stupiti del fatto che, nonostante lo scarso mordente, non si avvertisse l’impressione di trovarsi di fronte ad un riassunto. In effetti le ramificazioni imbastite da Champreux nella sceneggiatura della serie televisiva sono talmente fini a sé stesse che il loro taglio non provoca particolari contraccolpi. Insomma, non si può considerare L’Homme sans Visage molto positivamente. E’ certamente un peccato, perché si tratta di una delle ultime fatiche di Franju alla regia e, almeno fino a metà della serie, lasciava qualche speranza. Ma per ricordare Georges Franju al suo meglio è più consono rivolgersi altrove. 




Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU 



domenica 9 marzo 2025

FACCIA DI SPIA

1634_FACCIA DI SPIA . Italia1975. Regia di Giuseppe Ferrara


La scena finale, con le Torri Gemelle newyorkesi, le Towers 1 e 2 del World Trade Center, grondanti di sangue, è forse il passaggio più incisivo di Faccia di spia di Giuseppe Ferrara. Intendiamoci: si tratta di un breve frammento che, simbolicamente, riassume in modo efficace il senso degli oltre cento minuti che l’hanno preceduto, tra cui ce ne sono alcuni assai più pesanti, duri e violenti. Ma in quei passaggi, in quelle ricostruzioni, che Ferrara, anche mirabilmente, opera, ci sono molti punti in cui si può obiettare, dubitare, contestare, la tesi portata avanti dal regista toscano. Questo non è certamente un problema, in sé stesso, dal momento che ancora vigeva una certa libertà di espressione; però, proprio per sua natura, l’essere schierato apertamente e spudoratamente, per un testo, ne riduce di riflesso l’impatto. Viene cioè naturale dubitare di una tesi, quando questa è presentata in modo univoco; certo non si può criticare qualcuno per la convinzione delle proprie idee, tuttavia, esprimerle in modo meno fazioso sarebbe un vantaggio, in termini di credibilità, anche per chi propugna una certa opinione, perfino nel caso stesso dell’integrale fondatezza di questa. È un paradosso, certo, ma in una forma di comunicazione come il cinema, che è un’arte di massa, si deve giocoforza condensare e, a quel punto, lo spettatore è costretto a compiere veri e propri «atti di fede» nei confronti del regista, non potendo questi dare tutte le rassicurazioni e verifiche del caso. Ferrara poi aveva le sue convinzioni, forti e decise, che aveva già avuto modo di esprimere attraverso l’arbitrario uso di una violenta ibridazione tra documentario e fiction con il suo esordio, Il sasso in bocca. L’argomento era la Mafia, e le sue collusioni con il Potere; neanche stavolta, il regista, si pose troppi dubbi o scrupoli, e raccontò la «sua» verità sull’attività della CIA, il Central Intelligence Agency, il servizio segreto statunitense, nel mondo negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Nel complesso, quella di Faccia di spia, potrebbe anche essere una ricostruzione abbastanza attendibile, tant’è che il finale, con le Twin Towers insanguinate, è un simbolo efficace dell’imperialismo yankee. Quelle su cui, come accennato, si possono avanzare perplessità, sono le varie ricostruzioni che, necessariamente, devono basarsi su informazioni che, l’impressione è quella, sono prese solo tra quante concordanti con la tesi di fondo di Ferrara. L’accusa di faziosità è quindi anche legittima, nei confronti di Faccia di spia, e chissà, forse anche certe scelte registiche del cineasta toscano possono essere state tentativi di prevenire eventuali critiche in tal senso o, magati, tese a crearsi una sorta di «giustificazione tecnica». In genere, Faccia di spia è di difficile catalogazione, non essendo al tempo, nel 1975, già così diffusa l’idea di docufiction tanto in voga oggi. Qualcuno lo definisce documentario, altri film drammatico, mentre, come già ribadito, Antonio Bruschini e Antonio Tentori, nel loro Nudi e Crudeli  lo citano in una branca deviata –definita «realtà violenta»– dei Mondo movie. È una bella intuizione e, probabilmente, lo stesso Ferrara dovette aver in mente il fenomeno generato da Gualtiero Jacopetti e compagni, nell’assemblare il suo bizzarro mix tra ricostruzioni con attori e filmati di repertorio di varia natura. In ogni caso, fosse stato anche un passaggio inconscio, fu proprio la sfacciataggine degli autori di Mondo cane, Africa addio e Addio zio Tom, a sdoganare la «ricostruzione del vero» come metodologia per il documentario –o presunto tale, almeno nel loro caso. L’impressione, per la verità, è che fosse una pratica già diffusa, ovvero che i documentaristi in molti casi «orchestrassero» le loro riprese in modo da mettere sullo schermo quanto desiderato, finanche rispettoso di quella realtà che avevano intenzione di documentare. Jacopetti portò questa pratica all’estremo e, in seguito, con Addio zio Tom, imbastendo direttamente una storia di finzione, ambientata nel passato, per ricostruire in modo fedele, almeno a suo dire, la Storia. Che questo fosse vero, in questo momento interessa poco: quello che si può osservare è come gli autori si presero, coscientemente e scopertamente, delle libertà enormi, nel riguardo al trattamento della realtà che mostrarono. Questo aspetto non fu del tutto esplicito, almeno in principio, nei Mondo movie, sebbene la tendenza a enfatizzare alcune bufale, sembra una mezza ammissione di scarsa affidabilità o, quantomeno, un invito a verificare l’attendibilità di quanto visto sullo schermo. Lo scopo di Jacopetti, la necessità di alterare la realtà a piacimento, era di poter scioccare lo spettatore, per cui serviva calcare la mano su quegli aspetti che si mostravano già inconsueti nella realtà ma che, sullo schermo, avrebbero funzionato in modo più eclatante se enfatizzati. Che è un po’ il sistema della propaganda di regime, sebbene questa abbia una tesi più nitida, più coerente, mentre i Mondo movie erano guidati, da un punto di vista ideologico, da un certo qualunquismo. Andava bene qualunque cosa, basta destasse sensazione. Ferrara si appropria degli stilemi dei Mondo movie, e del cinema «di genere» italiano –si veda la bottiglia di J&B maneggiata da Mariangela Melato– e li assoggetta ad una tesi ben precisa, chiudendo quindi il cerchio e tornando, di fatto, al cinema di propaganda. In questo modo, se si può legittimamente non condividere alcune ricostruzioni del film, il regista può altrettanto legittimamente difenderle in qualità di passaggi di «finzione».

Uno stratagemma che lascia le mani libere a Ferrara che può quindi sparare «ad alzo zero» sulla politica imperialista americana di cui la CIA fu il braccio armato. Inoltre, i passaggi cruenti, le interminabili scene di torture, le mutilazioni e tutto il campionario di violenza gratuita che il film sciorina manco fosse il peggiore degli shockumentary, se da un lato conferma l’iscrizione di Faccia di spia al «genere», dall’altro affianca i destinatari della critica di Ferrara –la CIA ma anche i suoi alleati cileni, italiani, greci e compagnia varia– a queste pratiche aberranti. Il montaggio schizofrenico che associa immagini di natura completamente diversa –le frenetiche operazioni della borsa valori di Wall Street seguono le cataste di cadaveri delle vittime del golpe cileno– diventa l’arma per veicolare le idee del regista, in modo chiaro e ficcante. La summa, di questo tutto lavoro, che lo condensa e ne smussa i dettagli più faziosi e a cui potrebbero essere mosse obiezioni, è la citata scena delle Torri Gemelle che, nel complesso è certamente significativa della Storia del pianeta dal dopoguerra fino ad allora, e, purtroppo, anche oltre. Si potrebbe chiudere qui, ma sarebbe un peccato non citare il bravissimo Adalberto Maria Merli, nei panni del capitano Felix Ramos, cubano al soldo della CIA, Claudio Camasio nel difficile ruolo di Ernesto Che Guevara mentre Salvatore Cucciolla è un credibilissimo Giuseppe Pinelli, l’anarchico accusato della Strage di Piazza Fontana. Ferrara opera un casting di stampo metalinguistico, utilizzando cioè gli attori per il peso del curriculum che si portano appresso. Questo era rimarcato, almeno nell’originale edizione nel film, anche nella scelta di Pietro Valpreda che interpretava sé stesso, certificando la natura ibrida, metà documentario, metà ricostruzione, di Faccia di spia; nella versione circolante ora questo passaggio è spesso assente. Cucciolla, che, tra le moltissime intense parti, aveva interpretato un altro anarchico, ovvero Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti [1971 regia di Giuliano Montaldo], con la sola presenza assimila lo Stato italiano del dopoguerra a quello statunitense degli anni Venti del XX secolo, capace di condannare alla sedia elettrica due innocenti senza porsi troppi scrupoli. Tra i principali interpreti non rimane che Mariangela Melato, nei panni di Tania, una rivoluzionaria seguace del Che. La Melato era una grande attrice con un fascino magnetico, dovuto alla bellezza non certo banale, e, se ebbe comunque una carriera notevole, non ebbe il successo popolare che avrebbe forse meritato. In Faccia di spia, per la verità, nei panni della rivoluzionaria, non è proprio convincentissima ma Ferrara, probabilmente, la utilizza come testimonial del cinema di finzione italiano dell’epoca e, sotto questo aspetto, difficilmente avrebbe potuto trovar di meglio. Un’attrice che poteva passare, con immutata classe, sugli schermi dei film drammatici, grotteschi, poliziotteschi, comici, di fantascienza, e via di questo passo. Perfino dei Mondo movie.  

Mariangela Melato

Galleria 




Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE




IN VENDITA QUI


venerdì 7 marzo 2025

ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO

1633_ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO (Comes a Horseman). Stati Uniti 1978. Regia di Alan J. Pakula

Dopo i successi della cosiddetta trilogia della paranoia (Una squillo per l’ispettore Klute, Perché, un assassino e Tutti gli uomini del presidente) Alan J. Pakula si cimenta con il genere classico per eccellenza, il western. L’approccio è decisamente personale, sebbene in tema con i tempi che sembrano ormai irrimediabilmente passati per il western classico: l’ambientazione è posteriore ai tempi della conquista del west, siamo già intorno dopo il 1940 e la protagonista scorazza per la campagna con una vecchia automobile, oltre che a cavallo. La protagonista è Ella –una Jane Fonda un po’ trasandata e sciupata, nel vano tentativo di imbruttirla– una ranchera che si oppone alle prepotenze Jacob Ewing (il sempre utile Jason Robards), il classico allevatore espansionista. Ad aiutare la donna, in principio, c’è solo il vecchio Dodger, (Richard Farnsworth) di cui sarà memorabile soprattutto l’uscita di scena, e per fortuna che a dar manforte all’improbabile duo di allevatori (una donna e un vecchio) arriverà Frank, il cavaliere del titolo, interpretato da un nerboruto James Caan. Il film non offre particolari espedienti narrativi né interpretazioni della cultura western che siano originali: Ewing conosce solo la legge della prepotenza e la impone, a chiunque gli si pari davanti, anche ai banchieri interessati al petrolio di cui pare sia ricca la zona. Anche Ella, in gioventù aveva ceduto, più che subito, alla violenza dell’uomo ma, da allora, le cose sono cambiate e la donna è divenuta l’ultimo baluardo irriducibile all’espansione di Ewing. Non sono queste cose, però, a rendere memorabile il film, in quanto non sono particolarmente originali: non basta che l’eroe che si oppone alle ingiustizie sia una donna, nemmeno una donna come Jane Fonda, per rendere la cosa particolarmente significativa. 

In realtà non c’è niente di particolarmente significativo, in questo film, se non la resa del Sogno Americano. E Pakula, per rendere esplicito il fallimento di questo importante manifesto della cultura occidentale, e non solo a stelle e strisce, sceglie il genere che per antonomasia lo ha celebrato, il western, ma lo svuota completamente. Abbiamo visto come nel film ci siano infatti tutti gli stereotipi dei classici film sulla conquista del west ma non funzionano. La vera lotta, lo si capisce nella seconda parte della storia, non è tra l’allevatore piccolo e quello più grande ed espansionista, ma tra due sistemi economici, uno più arretrato e l’altro più speculativo e legato allo sfruttamento selvaggio delle risorse. Non di meno, se è vero che nella vicenda alla fine si unisce una coppia, non si vedono all’orizzonte figli o discendenti; mentre viene celebrata in modo discreto ma significativo la morte del vecchio mandriano, simbolo del tempo che fu. Anche la fotografia del celebrato Gordon Willis è tutt’altro che affascinante; forse tecnicamente ineccepibile, ma i paesaggi che mostra, pur se di grande fascino, mettono tristezza per via dei colori spenti e tipicamente televisivi. Pakula mostra la rabbia di una generazione: la stizza di Ella, la furiosa reazione di Frank che malmena brutalmente i due sgherri di Ewing. Rabbia per le ingiustizie, per le avversità e, nel contempo, questa generazione vede anche andare in fumo i propri sforzi, insieme al loro ranch che brucia e si consuma in un attimo: con la stessa assenza di enfasi con cui viene sbrigata la formalità dello scontro finale. Nel finale, i due si aggirano per i resti dell’incendio cercando di risistemare qualche trave: un’immagine triste, tra il commovente e il patetico. Se ci sarà una ricostruzione non sarà in questo cinema.   





 Jane Fonda 

mercoledì 5 marzo 2025

I MALAMONDO

1632_I MALAMONDO  . Italia 1964. Regia di Paolo Cavara

Paolo Cavara, dopo i primi lavori con Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, decise di intraprendere la carriera di regista in forma individuale. Per la verità, la sua prima opera, I Malamondo, non si discosta dal solco tracciato da Mondo cane, raccogliendo inevitabilmente un’accoglienza non troppo diversa dalla critica.  Tra le tante trancianti stroncature, si possono citare: “Un’altra occasione sprecata”, A.S. Corriere d’informazione, “Insomma, il solito ipocrita e indisponente moralismo”, Vice, La Notte, “Aiuto di Jacopetti in Mondo cane e La donna nel mondo, Paolo Cavara ne riprende il cinismo, la sardonicità, la disperazione, ma con minor passione, con minor disincanto”, L.P. La Stampa [Jacopetti Files, da pagina 67 a 72]. Giudizi un po’ superficiali, per la verità, perché, contemporaneamente, c’era già chi osservava: “È invalso l’uso di incrudelire contro film di corrotta e deformata documentazione che vanno sotto l’etichetta comune di pellicole «sexy». Si tratta di un giudizio frettoloso, perché da prodotto a prodotto le differenze sono notevoli. Prendete questo I Malamondo: sotto il titolo bizzarro non c’è che una collezione di aneddoti, ora gustosi e ora piuttosto anodini, sulle stranezze del mondo attuale. Non è sadismo, né gusto dell’orrido” [Vice, Il Giorno, Jacopetti Files, pagina 70]. Ancora più rinfrancante quest’altro commento: “Si tratta generalmente di episodi ricostruiti, sì, ma con fedeltà e piglio realistico” [Guglielmo Biraghi, Il Messaggero. Jacopetti Files, pagina 75]. Sull’autenticità di quanto mostrato da Cavara, sembra quindi ci sia unanime accordo sul dire che si tratti piuttosto di ricostruzioni, del resto la natura dei segmenti narrativi lo conferma. Come si potrebbero cogliere al volo le riprese della forsennata corsa in motocicletta dei «teddy boys» di Leicester, o partecipare, in modo discreto, alla festa della porchetta in Versilia? E che dire del passaggio tributato a Adriano Celentano, che sembra uno scarto raccattato da uno dei Musicarelli del tempo? Il «Molleggiato», qui degno rappresentante di quelli che al tempo erano definiti «urlatori», e contrapposti ai «melodici» dell’italica tradizione della canzone italiana, interpreta Sabato triste che, duole dirlo, è il passaggio musicalmente forse più debole del film. Perché, il commento sonoro de I Malamondo, opera di Ennio Morricone, è invece uno dei punti di forza del lungometraggio e, in definitiva, la sua vera ancora di salvataggio. A questa, infatti, sembra appellarsi anche Cavara con l’armonia di certe sue riprese, quella evocativa del lancio del paracadute ma anche forse il passaggio migliore del film, che nasconde un piccolo colpo di scena, con la coppia norvegese in procinto di separarsi sul molo. In questi frangenti il regista rallenta il ritmo, che nei Mondo movie è spesso sincopato per sua natura, e la splendida melodia tema del film, Questi vent’anni miei, si prende la ribalta, concedendo allo spettatore attimi di pura estasi. Tuttavia, nel complesso, I Malamondo non può certo definirsi un film convincente. Cavara sembra non voler rinnegare totalmente la prospettiva di Mondo cane, e propone una lettura unilaterale e forzata di quello era sicuramente il problema principale del tempo, ovvero quello generazionale. Che, per assurdo, visto la contingente situazione, è una soluzione anche legittima, in un certo senso: a pochi anni dall’esplosione della contestazione giovanile, generalizzare sulle insofferenze delle nuove generazioni, poteva essere anche un lecito strumento per rendere l’idea. Però è vero che Cavara non ha la verve corrosiva di Jacopetti, e la sua bravura emerge in altri momenti di cinema, come accennato quelli citati in cui, insieme alla musica di Morricone, si prende delle pause evocative o comunque meno aspre. Nelle intenzioni, positivo anche il segmento ambientato a Dachau, sede del famoso Campo di Concentramento nazista, con il quale l’autore cerca forse di allontanare da sé le etichette che le precedenti esperienze gli avevano in qualche modo affibbiato. Ma, in definitiva, l’autore non ha la capacità lirica per sostenere le sue ambizioni e anche nel chiudere il suo film, per quanto gli ingredienti gli avesse preparati a dovere, manca un adeguato supporto emotivo. Sulla la lieve musica di Morricone, vediamo una bella ragazza, vagamente triste, che apprendiamo essere in preda a tendenze suicide, un problema serio che affliggeva la gioventù svedese. A questo punto Cavara chiude il suo film in una chiesa: quasi che questa possa essere la soluzione per i disagi generazionali. La Storia dirà che la rivoluzione sessantottina metterà al primo posto, tra gli obiettivi da contestare, proprio la religione costituita, scendendo nelle piazze al motto di Né Dio, né Stato, né Famiglia. E questo è simbolico di come il regista, pur nei lodevoli intenti, non riesca, con I Malamondo, a cogliere nel segno che si era probabilmente preposto.




Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI

lunedì 3 marzo 2025

WILLIAM KELLY'S WAR

1631_WILLIAM KELLY'S WAR  . Australia 2014. Regia di Geoff Davis

Già l’utilizzo del genitivo sassone nel titolo del film di Geoff Davis, poteva essere un dettaglio significativo. Certo, William Kelly’s war (letteralmente la guerra di William Kelly) poteva anche semplicemente indicare che la storia avrebbe seguito le imprese belliche di questo William Kelly (nel film, Josh Davis). Tuttavia l’insieme del narrato del film di Davis dimostra che la guerra ufficialmente nota come tale, e di cui il soldato Kelly è partecipe, la Grande Guerra, è solo una parte, anche se la più consistente, del combattere del nostro. Non è una questione da poco, perché a questo punto non si tratta più, come potrebbe sembrare leggendo la sinossi dell’opera, di assistere alla partecipazione di Kelly al conflitto mondiale (che avrebbe meritato magari il titolo di William Kelly goes to war). Ma, piuttosto, di vedere Kelly, il fratello e il cugino (in rappresentanza di tutti gli aussie?), vivere costantemente armi in pungo e trovarsi, quasi naturalmente, a proprio agio anche sotto le armi e anche in quella guerra altre volte vissuta nei racconti o nei film come un vero e proprio inferno. Il fratello e il cugino citati sono, rispettivamente, Jack (Mathew Davis) e Paddy (Lechlan Hume), quest’ultimo importante soprattutto perché, morendo durante l’ultima offensiva contro i tedeschi, in Francia, certifica che i protagonisti non sono immortali. Questo dubbio, fino ad allora, era del tutto lecito visto che i tre sembrano avere superpoteri o, alla peggio, essere autentici rambo in incognito. Le mirabolanti imprese belliche del terzetto non bastano agli alleati dell’Intesa per evitare di prendersi la sonora scoppola di Gallipoli, qui trattata come una veloce tappa intermedia non essendo, probabilmente, la citata penisola un terreno adatto al racconto in questione. C’è da credere, infatti, che se Davis e i suoi collaboratori avessero deciso con questo film di raccontare della Campagna dei Dardanelli avremmo visto per la prima volta nella Storia gli alleati vincere quella battaglia. Brevemente, la vicenda del film si può riassumere in questi semplici passaggi: in Australia i nostri baldi giovani danno la caccia ai canguri (guerra ai canguri). La chiamata alle armi per la Grande Guerra li vede rispondere presente con entusiasmo: è la guerra ai turchi e ai tedeschi. Prima dell’azione, sotto le armi, i tre si distinguono per il gioco d’azzardo e l’imbroglio ai danni dei commilitoni: nessun tipo di remora morale sfiora il cervello dei nostri ragazzi. Del resto, la nonchalance con cui Billy, come è soprannominato William Kelly, fredda qualunque nemico gli capiti a tiro del fucile, lascia esterrefatti. 

D’accordo (per modo di dire, eh!) fare il cecchino, ma sparare ai feriti o ai barellieri si è visto raramente al cinema e, in quei pochi casi, la cosa è stata stigmatizzata. Non in William Kelly’s war, dove tutto quello che fanno i tre protagonisti è lecito o, più propriamente, dove non ci sono regole se non quelle primordiali tipiche dello stato bestiale (mors tua, vita mea, grosso modo). Non si tratta neanche di convinzione di stampo militare: al disertore che incautamente è tornato sui suoi passi, e che finisce davanti al plotone d’esecuzione, Billy non rimprovera il tradimento quanto il fatto di essersi pentito. Piccola nota: questo passaggio, con l’esecuzione nel cortile dell’improvvisato ospedale militare, è tra quelli che, insieme ad una evidente carenza di budget intuibile dalle improbabili ambientazioni sceniche, minano fortemente la credibilità del racconto. Intanto, in Australia, i bushranger, degni eredi dei condannati inglesi spediti nell’isola al tempo della colonizzazione, sono liberi di scorrazzare rubando il bestiame e uccidendo i coloni che si oppongono. Al ritorno dal fronte europeo, Billy, già operativo, intraprende la personale battaglia contro questi banditi per vendicare la morte del padre e liberare la sorella Jess (Ella McIlvena), mentre Jack, ancora non pienamente ristabilito, si occupa di sistemare (leggi, uccidere a mani nude) il contabile che aveva spalleggiato i criminali nei loro traffici. Nonostante le scene finali del conflitto bellico, con il cruento scontro all’arma bianca coi tedeschi, sia iperrealista, la guerra ai bushranger non è assolutamente da meno, sottolineando, se diamo una qualche attendibilità al film, come il panorama australiano possa aver contribuito a rendere gli aussie quelle formidabili macchine da combattimento che effettivamente furono. Per quanto possa essere una considerazione suggestiva, va onestamente detto che William Kelly’s war ha la credibilità di un videogame. Comunque, risolta a suon di morti anche questa vicenda mentre Jack si sposa, il nostro Billy, vero protagonista del film, come del resto si evince dal titolo, riprende la sua personale guerra ai canguri. E, per non rischiare che qualcuno possa pensare che la circolarità degli eventi sia casuale, ci viene anticipato che William Kelly sarà pronto per la successiva chiamata alle armi, per un altro giro di una vita avvolta nella spirale della guerra. Auguri. 



sabato 1 marzo 2025

GIOVANI AQUILE

1630_GIOVANI AQUILE (Flyboys) . Stati Uniti, Regno Unito, Francia 2006. Regia di Tony Bill

A suo modo Giovani Aquile di Tony Bill è un film avveniristico. Se consideriamo attendibile la teoria del re-imbarbarimento della società occidentale, Giovani Aquile è addirittura troppo avanti, facendo conto, cioè, che il pubblico sia ormai privo di ogni capacità critica. Il clamoroso flop al botteghino del film di Tony Bill attesta che la società odierna sarà in un momento non troppo felice, ma non ancora a livello da non distinguere paccottiglia così esageratamente trash. Se fate una visita alla pagina Goofs del sito IMDb, dove vengono elencati gli errori dei film, nella sezione relativa a Giovani Aquile  troverete una notevole sfilza di corpose voci. Alcune di queste imprecisioni sono marchiane, come vedere stormi di rossi triplani Fokker DR-1 quando quella configurazione era esclusiva del pilota Manfred von Richtofen, il celeberrimo Barone Rosso. Quello di Tony Bill è un evidente game-movie, un film che si ispira ai videogame e, in questo senso, avrebbe potuto anche funzionare. Anzi, l’idea di ripescare temi e personaggi della Grande Guerra, ossia di un evento storico e reale, per impostare una sorta di giocattolone, non è del tutto da scartare. Potrebbe essere un modo per porre questi argomenti sotto l’attenzione di generazioni abituate a pensare alla Storia come qualcosa di noioso: se ricordiamo il successo che ebbero i western, ma nel loro piccolo anche i peplum, per esempio, si può ritenere la cosa fattibile. Ma non è accettabile non tener conto della maggior diffusione di notizie e informazioni che, di un prodotto dozzinale come Giovani Aquile, finiscono per minare sin da subito la credibilità (e pure la proverbiale sospensione della stessa che è richiesta spesso al cinema). Al limite, per supplire a questo aspetto si poteva, forse, propendere per un tono divertito e leggero del racconto e non, come invece accade nel film di Tony Bill, nel eroismo fanatico (l’atterraggio con l’aereo in pieno fronte), nel sentimentalismo all’acqua di rose (la storiella d’amore) o nel politicamente corretto (il rapporto tra il rampollo viziato e il pugile di colore). Ma in fondo, tutto questo è relativo. Il fiasco al box office ha colpito la dove gli autori avevano puntato: abbattuti come novellini alla prima uscita.   





giovedì 27 febbraio 2025

ZABUTI - THE FORGOTTEN

1629_ZABUTI - THE FORGOTTEN (Zabuti) . Ucraina, Svizzera 2019. Regia di Daria Onishchenko

C’è una sequenza, all’inizio di Zabuti, lungometraggio di Daria Onishchenko noto anche come The Forgotten, che, apparentemente, non c’entra con il resto del racconto filmico. Vi si vedono sei statue di donna a grandezza naturale, fatte di sapone, che una ragazza, la stessa artista che le ha create, Maria Kulikovska, usa come bersagli per allenarsi a sparare con un fucile da guerra. I colpi, precisi nei punti vitali, al petto o alla testa, provocano degli squarci nel sapone, e le sei figure, dopo questo pesante «trattamento», finiranno esposte alla 22sima edizione della NordArt, una mostra di arte contemporanea che si svolge a Büdelsdorf, in Germania. Questo particolare non c’è, però, in Zabuti di Daria Onishchenko; l’unico contatto con il resto del lungometraggio è che la Kulikovska vi interpreta il ruolo di una giornalista separatista. Questo curioso e pittoresco personaggio, nel film si occupa di creare false notizie di stragi e bombardamenti nel Donbas, ad opera del governo di Kyiv. Sembra un poco assurdo? Beh, in linea con l’ambientazione del film, che la protagonista, Nina (Maryna Koshkina, bravissima) una maestra elementare, definisce efficacemente “una repubblica immaginaria”. Descrizione puntuale nel senso ma poco opportuna nella tempistica, ovvero durante il concorso per ottenere la cattedra in una scuola di Lugansk sotto occupazione russa, e che gli costa, di conseguenza, la possibilità di ottenere l’agognato posto di lavoro. Siamo, infatti, grosso modo ai tempi dell’uscita del film, nel 2019, e Lugansk e i vicini territori ucraini occupati –attenendoci alla didascalia iniziale– si sono autoproclamati Repubblica Popolare di Lugansk. Nina, con le sue parole, intende probabilmente dire che le repubbliche separatiste del Donbas non hanno i requisiti costituzionali per autoproclamarsi, almeno non così rapidamente come invece fecero nel 2014. Questione di opinioni, naturalmente, che al massimo possono competere ad esperti in materia; lo spettatore cinematografico può invece condividere il senso dell’aggettivo «immaginario» usato da Nina quando vede che, nella citata repubblica, fuori dalle scuole elementari ci sono militari armati fino ai denti, i bambini fanno una recita in cui il lieto fine è costituito dallo zar che riesce ad entrare in guerra e Babbo Natale porta in dono bombe a mano che esplodono. Ma c’è anche di peggio, ovvero il passaggio che segna la svolta nel racconto filmico: mentre Nina è al concorso e i bambini fanno la recita dello zar guerrafondaio, nella scuola si è introdotto Andrii (Danylo Kamenskyi) che, una volta salito sul tetto dell’edificio, srotola sulla facciata dello stesso un’enorme bandiera ucraina. Non l’avesse mai fatto, i militari, quelli armati fino ai denti che presidiano l’ingresso, lo catturano e lo sbattono in cella per tradimento, nonostante abbia solo diciassette anni. 

Nina, che è un’insegnante, si sente in dovere di prendere le difese di quello che, in fondo, è solo un ragazzino, o comunque un minorenne. Si reca quindi alla prigione dove Andrii viene detenuto, offrendosi di pagare la cauzione, o quel che potrebbe essere: come già intuito, la donna non è particolarmente, diciamo così, avveduta, e la sua missione è un po’ come l’agnello che va in visita al macello. I due uomini in divisa che la accolgono, pretendono, e ottengono, un pagamento «in natura», come si diceva un tempo; in ogni caso, pur se molto turbata, Nina riesce ad andarsene con Andrii. Galeotto il coprifuoco, che nel frattempo è sopraggiunto, e i due sono obbligati a passare la notte insieme. Non succede niente di piccante, sia chiaro, che Nina, in quel senso, ha già dato ed è particolarmente scossa. Suo marito, Yura (Vasily Kukharskiy) l’aspetta a casa preoccupato, tuttavia i due, almeno in passato, avevano avuto un buon rapporto di coppia, seppur appassito anche per via delle divergenze geopolitiche; in ogni caso, la notte passata fuori, in sé, non crea particolari problemi ai coniugi. Almeno tra di loro, perché i guai stanno comunque arrivando: Andrii si innamora della donna, e questo sarebbe il meno, una semplice bega sentimentale, mentre ben più grave è che le autorità della LNP, acronimo per Repubblica Popolare di Lugansk, mettono ora gli occhi su Nina e Yuri. L’uomo è impegnato in commerci poco leciti, ma questo conta poco, mentre la moglie è una sostenitrice dell’uso della lingua ucraina, e, ora, e qui c’è il vero problema, ha avuto a che fare con Andrii, che si scopre collabori con i Servizi Segreti di Kyiv. Un pesante pestaggio subito da Yuri funge da «foglio di via» per la coppia, con l’uomo costretto ad accontentare la moglie Nina che voleva da tempo lasciare la LNP. Qui c’è un passaggio narrativo piuttosto interlocutorio: Yuri, malconcio per le botte ricevute, possiede con forza la moglie, quasi volesse sfogare la sua rabbia in un rapporto sessuale dai toni più accesi del solito. Nina ne esce ancora una volta turbata, e, pensando di dover abbandonare Lugansk, si reca a salutare Andrii: una «saluto» particolarmente affettuoso, diciamo così, con la quale la donna vuol forse riappacificarsi con il sesso dopo quello ai limiti della violenza subìto dal marito. Il quale l’ha seguita e osserva ora la scena furibondo ed esterrefatto, con una pistola in mano, pronto a farsi giustizia del rivale in amore; per fortuna sopraggiunge qualcuno e non ci sono conseguenze immediate. È il giorno della partenza da Lugansk, Yuri lascia intendere a Nina di sapere del suo tradimento e, nonostante tutto, la pone di fronte ad una scelta: se vuole, rimanga pure con il suo giovane amante. La donna se ne va con il marito, in virtù, probabilmente, dell’antico amore, forse mai sopito del tutto. Ritroviamo quindi Nina e Yuri a Kyiv, alle prese con una società non certo idilliaca, con alcune delle storture e i limiti delle moderne democrazie occidentali. È una descrizione un poco forzata, con il tema del razzismo nei confronti degli abitanti del Donbas che ritorna più volte, ma serve a non idealizzare eccessivamente il cosiddetto «mondo libero», che di magagne ne ha certamente molte. La regista prova quindi a mostrare come, sebbene non sia un modello perfetto, quello occidentale sia comunque preferibile, pur con i suoi difetti, a quello proposto dal Cremlino e dai suoi simpatizzanti. Un paragone che, in ambito cinematografico, richiama alla mente la saggezza del grande Fritz Lang, che raccontava come nei suoi noir americani non ci fossero realmente i «buoni» e i «cattivi» quanto, piuttosto, i «cattivi» e i «molto cattivi» e i primi dei quali erano, per convenzione narrativa, i «buoni» e i secondi i «cattivi». La ritrovata armonia sessuale, con il giocoso rapporto nel finale, suggella una sorta di lieto fine molto interessante, perché dimostra come anche un macho del calibro di Yuri possa perdonare il tradimento della sua donna, se l’obiettivo è la felicità reciproca. 

La morte di Andrii, annunciata alla televisione dalla nota giornalista separatista, sempre un po’ sopra le righe, serve per chiudere ogni possibile rimpianto sentimentale e, forse, a stemperare la leggerezza del finale, in fondo l’Ucraina rimane un paese in guerra. Ma soprattutto, la comparsa sullo schermo di Maria Kulikovska ci ricorda le sue creazioni artistiche, le donne di sapone prese a colpi di fucile. Come per alcuni particolari della vicenda di Nina e Andrii [la vicenda dei protagonisti è ispirata da fatti reali, dal sito Vogue Ukraine, pagina web https://vogue.ua/article/culture/kino/mariya-kulikovskaya-i-darya-onishchenko-o-semkah-filma-zabuti-41925.html, visitato l’ultima volta il 15 dicembre 2024], 
anche la faccenda delle statue in sapone ha un rapporto stretto con la realtà. Nel 2012 la Kulikovska, insieme alla curatrice Olena Chervonik, avevano dato il via al progetto artistico Homo Bulla, un’espressione metaforica già usata in passato da Erasmo da Rotterdam per indicare la delicatezza della vita umana, breve e luminosa come una bolla di sapone. [dal sito della Fondazione Isolyatsia, pagina web https://izolyatsia.ui.org.ua/en/homo-bulla/#culture, visitata l’ultima volta il 15 dicembre 2024]. Con lo scoppio della guerra e la secessione delle repubbliche del Donbas, la Fondazione Isolyatsia, dove si trovavano le sculture, venne sequestrata e trasformata in poligono di tiro dai filorussi che utilizzarono, con la loro tipica delicatezza, le opere artistiche della Kulikovska come bersagli. [Ibidem]. Nel film, Maria, prende a fucilate lei stessa le sue sculture, che sono, tra l’altro, copie della sua stessa immagine, ma certo non avrà gradito il trattamento riservato dagli occupanti alle sue creazioni. Tuttavia l’artista non sembra perdere la vena ironica e la sua interpretazione della giornalista separatista, quella che inventa panzane clamorose pur di ingraziarsi le autorità secessioniste, ha una chiave recitativa grottesca che rasenta il sublime. Tre donne, impegnate in questo film, che si dimostrano tutte e tre molto brave: artiste del calibro di Daria Onishchenko, Maryna Koshkina e Maria Kulikovska, con il clima di propaganda che c’è da quelle parti e non solo, sono una speranza per la verità.