Translate

Visualizzazione post con etichetta Mondo Movie. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mondo Movie. Mostra tutti i post

martedì 5 agosto 2025

AFRICA AMA

1709_AFRICA AMA  , Italia 1971. Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni 

Africa segreta, pur con qualche problema nella prima fase, dalle difficoltà di Guerrasi nel dare una forma accettabile al girato dei suoi colleghi esploratori, all’iniziale scetticismo dei produttori, era stato poi gratificato dal grande successo di pubblico. E la critica, tutto sommato, cogliendo una certa differenza dai Mondo movie alla Jacopetti, non si era nemmeno accanita eccessivamente nonostante le immagini cruente. Considerata la vastità del Continente Nero, la sua profondità, intesa come peculiarità di ogni villaggio, di ogni etnia, era scontato che i quattro cineasti, i gemelli Castiglioni, Pellini e Guerrasio, facessero il bis. Per approfondire meglio la loro analisi all’Africa, i nostri autori si concentrarono su un elemento che, probabilmente, è anche quello che ha generato la differenza tra i paesi che hanno avuto uno sviluppo tecnologico e quelli presi appunto in esame, definiti primitivi. Con le loro escursioni, i Castiglioni e Pellini, sostenevano di portare lo spettatore in un autentico viaggio nel tempo, tornando ai tempi dell’età della pietra o giù di lì. In effetti, la fascinazione dell’uomo moderno, di fronte ai riti arcaici che venivano mostrati, potrebbe essere quella di chi sta vedendo qualcosa che, nel profondo della memoria ancestrale, in qualche modo gli appartiene. Secondo qualche teoria, il punto che, probabilmente, fece «svoltare» alcune popolazioni, è stato il modo di intendere il sesso: in soldoni, una sfrenata libido potrebbe aver indotto una febbre innaturale che ha innescato lo sviluppo tecnologico. Del resto, era più o meno questa l’interpretazione che ne dava perfino la Bibbia con la questione di Adamo, Eva, il serpente e l’albero della conoscenza.
Per comprendere, quindi, per quale motivo alcune popolazioni siano invece rimaste in una condizione di Natura, in equilibrio con essa, ovvero primitiva, è quindi logico concentrare il proprio discorso su come queste genti intendano il sesso. Da qui il tema portante di Africa ama, il cui titolo cerca forse di rendere chiaro il discorso senza scadere nel volgare. In realtà, le immagini del film non hanno un’attinenza con il concetto abituale che attribuiamo al verbo «amare»; quel che è certo è che sulla autenticità delle riprese dei Castiglioni nessuno, in genere, ha mai proferito dubbi.
Africa ama è indiscutibilmente un film duro, da reggere, con passaggi difficili: perfino la «banale» avulsione dei denti, porta lo spettatore a distogliere lo sguardo, figuriamoci la circoncisione o la terribile infibulazione inflitta ad una sventurata ragazzina. Non mancano le uccisioni di animali, in genere sempre associati a questo o quel rito, ma comunque particolarmente truculenti essendo il sangue l’elemento che interessa in questo genere di celebrazioni. C’è del sadico compiacimento, da parte degli autori? Non sembrerebbe in maniera poi così maggiore rispetto al precedente Africa segreta, se non che l’argomento, in questo caso, portò gli autori ad insistere su passaggi ritenuti particolarmente scabrosi. Ma, del resto, le mestruazioni o il parto, sono tutte situazioni perfettamente naturali che presentano, se viste con l’occhio dell’uomo moderno, dei contenuti forti, perfino disturbanti, se chi guarda ha l’animo particolarmente sensibile. Tutto sommato, vedendo il film oggi, non ci si aspetterebbe un’accoglienza particolarmente diversa rispetto a quanto avvenuto per Africa segreta. Ma non andò affatto così. Cioè, il pubblico accorse ancora numeroso, e Africa ama si piazzò al 40° posto tra i film più visti in Italia nella stagione 1971/72.

Questo nonostante il film ebbe anche delle noie legali, sebbene la cosa potrebbe perfino avere giovato alla «fama» dell’opera, considerato il tipo di pubblico di queste pellicole. Per dire: se un film era vietato ai minori, la pubblicità lo sottolineava con un «rigorosamente», a voler ribadire i contenuti eccezionali, in un senso o nell’altro, della pellicola. In ogni caso, Africa ama venne sequestrato il 10 febbraio a Varese: “Il Sostituto Procuratore della Repubblica, dott. Francesco Pintus, ha oggi ordinato il sequestro del film Africa ama, in proiezione al cinema Politeama di Varese. Gli agenti della squadra mobile, alle 16, hanno notificato il provvedimento al gestore del cinema. La proiezione è stata interrotta, poi è stata ripresa per non rimborsare, agli spettatori presenti in sala, l’importo del biglietto. La sala è stata definitivamente chiusa verso le 17”. Merita uno spunto di riflessione l’operato della magistratura: si arrivò a sequestrare un’opera d’arte approvata precedentemente da un organo preposto come quello della censura, ma poi la si lasciò il tempo necessario nelle sale per non dover rimborsare i biglietti agli spettatori. Evidentemente il buon costume, l’offesa alla morale, o qualunque altro motivo abbia indotto il Sostituto Procuratore a sequestrare il film, non valeva il costo del biglietto del cinema. Intanto, in ottemperanza con quanto previsto dall’autorità varesina, la Questura di Udine aveva disposto a sua volta il sequestro della pellicola, in quel momento in visione al cinema Odeon del capoluogo friulano. Del resto il giorno 11 il Sostituto Procuratore ne aveva disposto il sequestro su tutto il territorio nazionale. Il 22 febbraio la Questura della Repubblica di Milano ordinò il dissequestro e la riconsegna delle pellicole agli aventi diritto.
La questione non si esaurì ovviamente lì. “Milano, 3 marzo 1972. È stata decisa, oggi, la confisca del film Africa ama, per «offese alla pubblica decenza» nella sequenza di un’orgia a base di hashish. Il provvedimento non diverrà esecutivo perché i difensori hanno già ricorso in Cassazione. Sono stati condannati a quattrocentomila lire di multa il regista Guido Guerrasio, ed i produttori, Angelo e Alfredo Castiglioni ed Oreste Pollini. Il film, prima del processo, era stato già sequestrato”. Insomma, un tira e molla estenuante tipico della Giustizia italiana, e si perdoni il commento qualunquista ma, del resto, adeguato alla situazione. A stupire per asprezza, furono però i commenti della critica specializzata. Tra questi, uno dei più sorprendenti fu la stroncatura di Bruno Damiani sulle pagine di Cineforum: “Il motivo conduttore generale del film Africa ama vorrebbe essere la tesi secondo cui il comportamento dei primitivi africani segue docilmente le leggi di natura, in netta contrapposizione con la civiltà che di essa è soltanto una deviazione. (…) Tra il dire il fare c’è di mezzo il mare, recita un vecchio adagio popolare. Tra Rousseau e Guerrasio c’è di mezzo il fascio. Anche il povero ginevrino, infatti, si era proposto di dimostrare una tesi più o meno simile, solo che (ecco perché «poveretto») non gli era mai venuto in testa di esaltare il suo «primitivo» descrivendocelo mentre è tutto intento ad assaporare un distillato di… sterco di mucca, né aveva creduto (altro grosso errore, a quanto pare) di poter comprendere i motivi che portavano il buon selvaggio a comportarsi in un determinato modo, se non facendo riferimento a tutto il contesto storico e sociale in cui era inserito. (…) Nel film di Guerrasio, invece, non solo non c’è neppure la regoletta cronachistica del «come» e «perché» (che in fin dei conti sarebbe stato pur sempre qualcosa) ma manca completamente l’analisi dei fatti che tenga conto del quadro generale (politico, sociale, culturale, geografico) in cui essi sono inseriti, nonché il minimo criterio di scelta dei fatti in base al «particolarmente significativo». In Africa ama, cioè, non solo le sequenze sono state studiate in funzione dello spettacolo truculento e ad effetto (e non del significativo), ma vana sarebbe ogni ricerca di legami tra la «realtà» mostrata, e la situazione sociale e politica in cui si sono venuti a trovare gli indigeni africani per colpa (passata e presente) della politica colonialista della civiltà dei bianchi. Anzi ai bianchi –e ai missionari in primis– sono dati solo attestati di merito. (…) Né sapremmo come altro giudicare immagini che, per sottolineare un «originario» vivere naturale ci mostrano scene tendenti a far sgomentare e inorridire, e per «criticare» la deviazione della nostra civiltà da una simile forma di vita, ci mostrano (o fanno riferimento) a città moderne e ad usi di gran lunga meno «crudeli». Africa ama, insomma, non fa altro che approfittare di una ambigua enunciazione antropologica e sociologica, per portare acqua al mulino del razzismo (solo le bestie come i negri possono continuare a vivere ai giorni nostri in siffatti modi!) e del colonialismo (da soli, che mai saprebbero fare?)”. Dopo una simile requisitoria, il Damiani arriva finalmente al punto che gli preme: “Il film, ad ogni modo, non è solo un avvallo del peggior razzismo e di una «cristiana» e «democratica» politica estera nazionale, ma è anche sotto sotto un ottimo antidoto per la contestazione della nostra civiltà. Come sarà possibile, infatti, ora che abbiamo visto quanta strada ci separi da quelle povere «bestie» con sembianze umane, ora che abbiamo visto che un ritorno alla natura significherebbe un ritorno alla barbarie, contestare ancora la bontà del nostro sistema sociale, e chiedere il ritorno a forme di vita più naturali”.
In effetti, lo spettatore odierno, forse ignaro della battaglia politica degli anni della rivoluzione sessantottina, potrebbe rimanere stupefatto dalle parole del critico, che è difatti non semplice associare al film in questione. In realtà, seppure non vi sia direttamente un intento politico negli autori di Africa ama, aveva le sue ragioni Damiani ad intravvedere un pericolo per le sue convinzioni. Il problema non è, però, nel film dei Castiglioni e compagni, ma è nella radice del pensiero rivoluzionario che aveva –e ha– intrinsecamente una profonda contraddizione. Se si utilizza la dottrina socialista o comunista, come strumento di critica al modello vigente, la cosa è funzionale. In effetti, la contestazione del Sessantotto, in quanto moto di rivendicazione e protesta, ebbe ampi meriti. Più complicato quando si cerca di proporre queste teorie come linee guida, e gli esempi pratici fallimentari si sprecano e non serve nemmeno nominarli. Purtroppo, per il Damiani, l’unica speranza che la contestazione sociale trovi soddisfazione è, almeno stando alle stesse teorie comuniste, nel superamento del Capitalismo. Non a caso Karl Marx e Friedrich Engels pubblicarono a Londra il Manifesto del Partito Comunista, in quel paese in cui, con la Rivoluzione Industriale, era nato il Capitalismo. E proprio lì era lecito pensare che, per via della più lunga evoluzione, si potesse già andare oltre. Del resto, i movimenti o i giornali di sinistra hanno abitualmente nomi come «Progressisti» o «Avanti!», ovvero termini che indicano l’idea di superare l’odierno sistema vigente. Il ritorno alla Natura non è contemplato nell’idea rivoluzionaria, perché il primo passo vorrebbe dire, almeno andando in ordine cronologico inverso, rinunciare alla democrazia in favore della monarchia. Concettualmente, non esattamente il massimo in ottica rivoluzionaria, sebbene madama Storia insegni che spesso succeda anche di peggio. Ecco, quindi, da dove probabilmente proviene il livore del critico di Cineforum. Africa ama mostra semplicemente come vivevano i popoli primitivi. Popoli sostanzialmente non raggiunti dalla colonizzazione, almeno non in modo significativo, e, quindi, per le eventuali loro barbarie –che sono tali ai nostri occhi ma, evidentemente, non ai loro– non si può accusare l’uomo bianco. Ma un simile concetto, una simile realtà, dimostra anche come l’opzione «ritorno alla Natura», non sia propriamente percorribile dalla nostra civiltà e, men che meno, potesse venir usata come vessillo dall’intellighenzia radical-chic.

A sua parziale attenuante, va detto che il critico di Cineforum non fu l’unico a stroncare pesantemente il film, finanche in genere il resto dei recensori severi si attenne a quanto mostrato sullo schermo senza eccessivi voli pindarici. Due anni fa, girando nei paesi centro-africani i documentari poi raccolti in Africa segreta, gli operatori Castiglioni e Pellini misero da parte idee e spunti per un nuovo film sugli usi tribali da conservare per tempi migliori. Si sapeva, dopo le prime esperienze di Jacopetti, che il pubblico era sensibile alla crudeltà dei rituali «selvaggi», trovandovi forse l'immagine speculare delle sue violenze represse. Africa ama porta adesso al limite consentito dalle consuetudini cinematografiche quella feroce documentazione, infilando la via comoda dei costumi sessuali che garantiscono di trasformare, se occorre, la violenza in sadismo. L'interesse etnologico, posto avanti a difesa degli autori (tra i quali il Guerrasio ha un passato di attento ed efficace documentarista), non dissipa i sospetti e i disagi connaturati a questo tipo di divulgazione. Non solo il sospetto di un implicito razzismo (le donne di colore sono sempre le prime a cedere sugli schermi la loro intimità), ma il disagio di un’operazione semplicemente speculativa. Le riprese si garantiscono autentiche, anche se i riti fotografati sono ufficialmente proibiti dalle autorità africane. Il Grand Guignol, rosseggiante, con violenze su uomini e animali, si sostituisce all’etnografia disinteressata”. “All’origine, dunque, del razzismo italiano c’è l’idea del «cattivo selvaggio», irrimediabilmente portato ad essere «primitivo». (…) Queste riflessioni ci sono venute in mente assistendo alla proiezione del documentario Africa ama.
“Per via del commento, il film pecca a parer nostro di superficialità e di ambiguità ideologica”. 
Africa ama è il prodotto di una tipica operazione mercantilistica”.
Ci furono, per altro, anche commenti meno sprezzanti: “Certo il materiale è pregevole, tutto rigorosamente autentico, non camuffato, né contrabbandato per ottenere effetti, che del resto ci sono già, in abbondanza. L’Africa vera è qui, da quella più orribile, dei riti di sangue e di morte, a quella che tra pochi anni non ci sarà più”.
Tuttavia, in un certo senso, le recensioni negative, indiscutibilmente la maggioranza, sono anche le più significative, le più indicative. Quali sono le criticità del film dei gemelli Castiglioni? Incominciamo dalla più scontata, ovvero dall’accusa di essere un’«operazione mercantilistica»: ricordando che, in effetti, i registi milanesi non sconfessarono questo aspetto del loro cinema, giova anche tenere a mente che perfino Bob Dylan non regala i suoi album musicali ma, giustamente, li vende.
Quindi non basta tacciare di essere commerciale, per screditare un’opera d’arte, ma occorre spingersi un po’ più nel merito. Inoltre, anche le osservazioni sulle intenzioni degli autori, il loro enfatizzare o meno alcuni aspetti –che si intenda truculenti o altro non importa– lascia ugualmente il tempo che prova. «La strada per l’inferno è lastricata dalle migliori intenzioni» recita un noto detto, ma, analogamente, potrebbe anche essere vero quasi l’esatto contrario. Ovvero, a volte, qualcosa di positivo può saltare fuori anche se all’origine gli intenti non fossero per forza così nobili. Perché, almeno in ambito artistico, quello che conta, non sono tanto gli intenti, ma il risultato che alla fine si ottiene. Restando in campo cinematografico: Hollywood ha sempre e solo guardato al botteghino ma, ugualmente, è stato il luogo dove sono stati prodotti innumerevoli capolavori nel senso artistico del termine. Uno degli elementi di cui il commento, scritto da Guido Guerrasio, sottolinea l’importanza è la differenza con cui le popolazioni primitive dell’Africa si rapportano al sesso, rispetto alla nostra società. In piena sintonia con la Natura, queste popolazioni intendono il sesso come lo strumento per procreare e non sembrano tributare all’erotismo l’importanza che gli diamo noi. Eppure, ci sono passaggi in cui si avverte, anche tra queste genti, un certo sentimentalismo, una forma arcaica, appena abbozzata, di romanticismo. Qualche sguardo timido, qualche imbarazzo, nelle scene delle giovani coppie, è possibile notarlo. Queste immagini non sottolineano la diversità con l’uomo bianco, al contrario, dimostrano la radice comune. É chiaro che il contesto durissimo, in pratica l’Età della Pietra, non consente a queste popolazioni di perdere tempo in troppe smancerie, ma, nonostante le condizioni proibitive, la matrice sentimentale dell’uomo, almeno nell’ambito del corteggiamento, trova comunque il modo di manifestarsi. Africa ama è certamente un film disturbante, eppure, nel descrivere le pratiche agli organi sessuali dei giovanissimi, mostra come, anche in altre culture, lontane secoli di evoluzione dalla nostra, ci sia uno sforzo per differenziare tra loro i sessi. La circoncisione e le mutilazioni inflitte agli organi genitali femminili sono, stando alla «voce over» di Riccardo Cucciolla, tentativi di eliminare riferimenti o similitudini al sesso opposto, cosa ricercata in entrambi i generi sessuali. Si vuole, cioè, che i maschi siano più maschi e le femmine più femmine; pur se con sistemi certamente diversi, la stessa cosa che fa la nostra cultura da secoli nell’educazione dei bambini. Quale che sia stato l’intento degli autori nel mostrarci le raccapriccianti immagini, il risultato è quello di farci riflettere sui nostri stessi concetti educativi. La struttura sociale della nostra società, come di quella dei primitivi vista nel film, sembra dipendere proprio da questa forzata enfatizzazione della differenza sessuale, quasi un dimorfismo sessuale aumentato artificialmente.
E la conferma, Africa ama ce la offre, ancora una volta, forse, prevaricando i reali intenti degli autori. Per quale motivo, verso il finale, nel film sono mostrati quella sorta di dandy, uomini imbellettati che si lasciano scegliere dalle compagne? Forse per giustificare l’appartenenza di Africa ama ai Mondo movie, rispettandone uno dei più classici cliché, quello del travestitismo. In effetti, nel frammento precedente, si erano visti anche alcuni omosessuali, giusto per introdurre l’argomento a dovere. La cosa che salta all’occhio, e che sorprende, è come, tanto i gay che i dandy di queste tribù indigene, si mostrino ammiccanti, sorridenti, disinibiti, esattamente come lo sono queste persone alle nostre latitudini. «Gay» in origine, in effetti, significava gaio, spensierato, e tali sembrano questi primitivi africani che, in un modo o nell’altro, sono rimasti immuni all’imprinting binario che anche le società primitive prevedevano. Quello che interessa non sono certo i gusti sessuali, quanto l’approccio sereno alla vita di questi individui, che non sembra affatto un atteggiamento artefatto o simulato. L’atteggiamento di chi non si è lasciato condizionare dall’educazione, dalla cultura, dalla tradizione, sia essa dei popoli primitivi che delle società più evolute.
Può bastare come spunto che ci arriva da un film definito «mercantilistico»?
Tuttavia bisogna riconoscere che c’è, effettivamente, una certa distanza tra l’idea del loro lavoro che i fratelli Castiglioni lasciano intendere, nelle loro interviste, e quanto poi è mostrato sullo schermo. I film sono interessanti, possono anche fungere da utile spunto di riflessione, ma, nonostante l’abilità in sala taglio di Guerrasio, rimangono dei collage piuttosto superficiali. Il che è nell’ordine delle cose, per la vastità degli argomenti affrontati, usi e costumi di società primitive e con peculiari tradizioni consolidate da anni, sparsi su un territorio che, girandolo palmo a palmo, è quasi sconfinato. Inoltre, il cinema, per sua stessa natura, è un media popolare di massa: può comunicare con una vastissima platea, ma divulga concetti giocoforza semplificati. L’ambizione dei Castiglioni è però espressa chiaramente dalle parole di Alfredo: “Quindi, anche attraverso questa esperienza, ci fu data la possibilità di portare sullo schermo immagini mai viste prima e questo era esattamente l’obiettivo che, come etnologi, ci eravamo prefissati fin dall’inizio delle nostre spedizioni. Inoltre rammento che molto del nostro materiale è stato utilizzato da istituti di ricerca etnologica e antropologica”. Forse anche per aumentare il prestigio d’impatto dei loro lavori, i gemelli Castiglioni coinvolsero Alberto Moravia nel loro successivo progetto. I due fratelli milanesi chiariscono, questa scelta, nella citata intervista. Angelo: “(…) abbiamo sempre tentato di trovare un significato a tutto ciò che filmavamo e, in questo, la professoressa Salvioni ci è sempre stata di grande aiuto”. Prosegue quindi Alfredo: “Tra gli altri, anche Alberto Moravia ha contribuito al nostro lavoro scrivendo il commento in Magia nuda”.


Galleria 






           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI





domenica 3 agosto 2025

ADDIO ZIO TOM

1708_ADDIO ZIO TOM , Italia 1971. Regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi 

Settembre 1971, sono passati cinque anni da Africa addio ma l’eco dell’indignazione generale a fronte del documentario shock sulla decolonizzazione, non si era per nulla placata. Jacopetti e Prosperi non si erano dati per vinti, nel frattempo, e, anzi, avevano alzato il tiro: Addio zio Tom è un film, ancora una volta, ancora una volta di più, assolutamente spiazzante. Il tentativo, in questo caso, è di schierarsi apertamente con il popolo africano, prendendo a soggetto gli sventurati che vennero deportati come schiavi in America.
Ma, come accennato, e come del resto prevedibile, Jacopetti e Prosperi non rinunciarono al loro, eufemisticamente parlando, linguaggio provocatorio, e scatenarono una ridda di proteste rispetto alle quali, Africa addio si poteva dire che fosse quasi passato inosservato. Addio zio Tom fece quindi la sua uscita nei cinema italiani e i problemi cominciarono presto: il 9 ottobre, a Bologna, le contestazioni raggiunsero l’apice. L’Unità del giorno successivo titolava così un trafiletto a riguardo: “Scontri a Bologna per un film razzista”. In data 14 ottobre 1971 il Ministro dell’Interno scrisse ufficialmente al suo collega del Turismo e dello Spettacolo: “Per notizia, si comunica che nei giorni scorsi a Bologna la proiezione del film in oggetto ha suscitato le proteste di studenti universitari aderenti ai movimenti «lotta continua» e «potere operaio» e di studenti negri, i quali rilevano nel film un carattere razzista. In occasione della proiezione serale del 7 c.m. un centinaio di studenti si sono raccolti nei pressi di due cinematografi tentando anche di impedire l’accesso agli spettatori. Sono previste altre manifestazioni avverso la proiezione del film”[i]. Il 15 ottobre, La Stampa rilanciava una notizia ANSA: “Il film-documentario Addio zio Tom è stato sequestrato oggi, a Rimini, per ordine del Procuratore della Repubblica Giuseppe Scarpa. Il decreto emesso dal magistrato è stato così motivato: «Si tratta di un film contrario al buon costume e al sentimento etico e sociale per le frequenti scene di volgare sessualità, per l’esasperata rappresentazione dell’odio razziale e per le tragiche e sanguinose stragi che la lotta razziale determina nella struttura dello spettacolo». Il provvedimento è valido su tutto il territorio nazionale”. Quello stesso giorno dalle pagine dell’Unità, un altro veloce trafiletto usciva vagamente dal coro unanime di condanna a Addio zio Tom, sebbene vada detto che anche il critico cinematografico di quel giornale, Ugo Casiraghi, in genere assai censorio nei confronti di Jacopetti e compagnia, un po’ a sorpresa non aveva del tutto bocciato il film nella sua recensione. Ma, se è possibile, il veloce richiamo a pagina 7 del 15 ottobre, è anche più interessante. “Il decreto di sequestro reca una motivazione sconcertante perché sembra rivolgersi soprattutto a censurare la materia di cui il film tratta piuttosto che lo spettacolo di per sé stesso. Tale motivazione infatti afferma che il film sarebbe «contrario al buoncostume e al sentimento etico e sociale per le frequenti scene di volgare sessualità, per l’esasperata rappresentazione dell’odio razziale e per le tragiche e sanguinose stragi che la lotta razziale determina nella struttura dello spettacolo» quasi che «l’oscenità» si dovesse attribuire alla storia reale e non alla sua rappresentazione”. Il giorno dopo, al ministro del Turismo e dello Spettacolo, arrivava comunicazione dalla Prefettura di Bari: “Addio Zio Tom sequestrato anche a Bari”. Il film supererà queste noie legali con la sentenza del Tribunale di Milano che assolse gli imputati da ogni accusa –“il fatto non costituisce reato”– e disporrà il dissequestro della pellicola. I guai, tuttavia, non erano ancora finiti: c’era, infatti, un’altra grana, e ben peggiore, rispetto alla tumultuosa accoglienza, ovvero un’accusa di plagio. Lo scrittore Joseph Chamberlain Furnas aveva pubblicato Goodbye to Uncle Tom, un testo in cui analizzava come il famoso La capanna dello zio Tom –il celebre romanzo di Harriet Beecher Stowe, in genere considerato benevolmente in qualità di racconto abolizionista– avesse avuto in qualche modo un ruolo determinante nei rapporti tra bianchi e neri americani. A fronte di questa situazione, la Eura International Film fu costretta a ritirare il film e a cambiarne il titolo. Allungato di quasi venti minuti, che lo porteranno a superare abbondantemente le due ore, ancora marchiato con l’inevitabile «Vietato ai Minori di anni 18», nel marzo dell’anno successivo il lungometraggio tornò quindi a circolare con il titolo mutato in Zio Tom. Ad un primo sguardo, la sostanziale differenza, rispetto al precedente Africa addio, è che stavolta la chiave morale c’è eccome: Jacopetti e Prosperi se ne servono per fare una colossale opera di ricostruzione della Storia della Schiavitù in America, andando a ricreare, come in un normale film di finzione, gli avvenimenti cruciali. Un’operazione curiosa, perché l’impostazione prevede i nostri baldi giornalisti visitare le varie ambientazioni, quasi potessero disporre di una sorta di macchina del tempo. A questa già bizzarra architettura di base, si era aggiunta quella indotta dai problemi con il romanzo di Furnas, che avevano portato gli autori ad un’integrazione del materiale girato con ulteriori spezzoni filmati di natura diversa. Il risultato finale è un’opera frammentata in più direzioni, che solo la superba capacità tecnica degli autori, i due registi ma anche i vari collaboratori, riuscì a rendere comprensibile e avvincente.

Anche stavolta, i meriti nella fruibilità di Addio zio Tom non sono attribuibili al solo Jacopetti, la cui peraltro riconosciuta abilità nel montaggio è comunque fondamentale anche qui, dove l’autore la utilizza a dovere per svincolarsi abilmente tra i tanti salti del racconto filmico. Salti che non sono solo cronologici, ma anche metalinguistici, per cui si passa da parti di finzione nel passato, a reportage –apparentemente autentici– provenienti dall’attualità, a nuove finzioni stavolta contemporanee. E in questi passaggi, ci sono naturalmente scene che appartengono alla realtà della finzione imbastita dal racconto, interrotte però da visioni che, all’interno di questa, sono solo proiezioni dell’immaginazione dei personaggi. Insomma, un caleidoscopio magniloquente strutturato con abilità sopraffina, guidato probabilmente dall’idea di Jacopetti comunque supportato, da pari a pari, da Prosperi in cabina di regia tecnica. A garantire l’adeguata resa scenica, Antonio Climati, Claudio Cirillo e Benito Frattari si occupano dell’impeccabile fotografia, la cui natura eterogenea, diversa nelle scene ricostruite da quelle dei reportage, aiuta ad orientarsi e conferisce un aspetto formale più vario ma anche più riuscito. Ad oliare perfettamente questo debordante meccanismo narrativo, sono le stupefacenti musiche di Riz Ortolani: il pezzo rockeggiante che accompagna le scene dei moderni tafferugli, in avvio di pellicola, è un esempio di alta scuola valido ancor oggi per un qualunque film d’azione. Ma Ortolani aveva, ovviamente, nelle sue corde prevalentemente la musica d’orchestra e poté, anche stavolta, darne ampio sfoggio, soprattutto nei tanti passaggi lirici che il film si ritaglia. La struggente e soave canzone “Oh, my love”, cantata da Katyna Ranieri, che introduce il lungometraggio, è uno di questi, nei quali il musicista dà l’ennesima, superba prova delle sue capacità di compositore. E fin qui, abbiamo tergiversato, rendendo comunque il doveroso merito alle eccezionali dimostrazioni di abilità tecnica che compongono ogni dettaglio di Addio zio Tom. In realtà, un primo indizio-chiave che permetta di comprendere se il lavoro di Jacopetti e Prosperi sia in qualche modo meritevole, è già stato dato.
Nel trafiletto citato tratto dall’Unità riferito al sequestro del film, l’anonimo giornalista si chiedeva perplesso il senso delle parole del magistrato Giuseppe Scarpa. In effetti, il Procuratore della Repubblica, si era rivelato acuto recensore cinematografico: forse non è tanto Addio zio Tom ad essere osceno, quanto piuttosto è stata la schiavitù ad esserlo. Perché se il “buoncostume e il sentimento etico e sociale” hanno taciuto, e continuano a tacere, sulla reale portata delle atrocità commesse in quel periodo storico, solo per non turbare l’opinione pubblica, forse sono osceni anch’essi. Una simile ipocrisia, perdurata per secoli e perdurante, aveva quindi lasciato aperta la porta ai cattivi maestri, ai profeti dell’immondo, della violenza, del sadismo, e di tutto il Male della Terra –Jacopetti e Prosperi, ça va sans dire– ma l’opera di questi non può certo essere considerata peggio di quanto da loro scovato. Nel finale del film, da una didascalia apprendiamo che “Questo film è un documentario. I fatti sono storicamente avvenuti ed i personaggi sono realmente esistiti”, sebbene, trattandosi di Jacopetti e Prosperi, qualche dubbio nel merito è più che giustificato. Anche perché, con la solita ficcante ironia, in un testo che dà l’idea di prestare rigore nella ricostruzione storica, viene rispettato il cliché della bufala dichiarata, esplicita, uno dei passaggi obbligati dei Mondo movie. Ad un certo punto, il personaggio storico di Samuel Cartwright –il medico, schiavista, inventore di assurde teorie come la drapetomania, ovvero una «malattia» che altro non era che il desiderio di libertà degli schiavi– risponde di essere ebreo. Cartwright non lo era, e questo in genere è segnalato come errore nella ricostruzione storica del film, ad esempio sul sito IMDb. Si tratta, in realtà, di un piccolo saggio dell’abilità dialettica di Jacopetti: l’errore c’è, ed è l’ironica firma del giornalista, ma non è del commento –e quindi propriamente del documentario– visto che, essendo messo in bocca al personaggio, narrativamente, potrebbe semplicemente trattarsi di una bugia di questi. Ovviamente, l’aggancio agli ebrei è un rimando all’Olocausto –una tragedia evocata più volte dalle immagini del film– ed è un ulteriore esempio di come Jacopetti riesca a creare intrecci e castelli narrativi anche con un semplice stacco del montaggio o con una battuta dei dialoghi. Ma il succo del discorso sembra comunque autentico, e quello che vediamo, per quanto abominevole, è la forma visiva, la ricostruzione filmica, dei resoconti storici o anche solo di certe teorie odiosamente razziste al tempo diffuse apertamente. Perfino un severo censore della coppia di registi, il critico Ugo Casiraghi, come accennato, ebbe un approccio meno tranciante del solito: “Tuttavia molto potrà essergli contestato, salvo l’estrema civetteria degli autori che, pur non avendo mai realizzato in passato un «vero» documentario, ma sempre dei reportage sensazionalistici, questa volta che fanno davvero sensazione con il loro pamphlet storico, osano più legittimamente –a uso e consumo del pubblico borghese– chiamarlo «documentario», perché basato su fatti avvenuti e su personaggi esistiti”. Non mancarono, peraltro, le pesanti stroncature, a partire dal medesimo quotidiano:

“In realtà c’era da fare poco affidamento sulla volontà dei registi di Africa addio di dare effettivo congedo al loro razzismo. Il quale continuerà a manifestarsi nel modo, lubrico e feroce, con cui essi rappresentano il popolo nero d’America. Certo, il film elenca dati, fornisce elementi sulla «storia» della questione razziale degli Stati Uniti, a partire dallo schiavismo ottocentesco. E i bianchi non ci fanno una bella figura. Ma lo scopo di questo pseudo-documentario, dove tutto è «ricostruito» grossolanamente e sfacciatamente, è soprattutto quello di sollecitare e soddisfare le tendenze sadiche latenti negli spettatori, fingendo di fustigarle. Non si poteva, è chiaro, pretendere da due personaggi come Jacopetti e Prosperi, un’analisi politica, sociale ed economica seria del passato e del presente di un dramma sanguinosamente aperto nel cuore del maggior paese capitalistico del mondo. Si poteva, forse, chiedere che, essendo stati tanto tempo oltre oceano, e avendo speso tanti soldi, ne riportassero almeno una qualche testimonianza giornalistica, e non un volgare fumettaccio su schermo grande a colori, che sembra la caricatura di Via col vento, o meglio, una sua versione bordellesca”. Addirittura più drastici altri giudizi: dal caustico “film fogna”, al “È inventato, per di più, da fantasie sguazzanti nel torbido e nell’orrido”. Meglio articolato, ma non per questo meno duro, il commento di Giovanni Grazzini sulle pagine del Corriere della Sera: “Nulla è vero, dunque, in questo Addio zio Tom, salvo l’inverecondia con cui Jacopetti e Prosperi mettono la loro abilità di fotografi al servizio di istinti esecrandi, del proprio sadismo e della piccola tesi che la schiavitù non è affatto abolita, essendo ancora schiavi, tutti noi del lavoro. (…) Abbiamo detto che il sapore di fondo di Addio zio Tom è sarcastico. Ora aggiungiamo che tutto il film vuol essere una parodia delle inchieste etnografiche e sociologiche (e, in certi passi, di Fellini). Questo però non basta a renderlo accettabile. L’umorismo di Jacopetti e Prosperi, di qualità spesso nefanda, infatti si arresta di fronte alla voluttà dello scandalo: la caricatura dei bianchi, affidata sovente a immagini goliardiche e a dialoghi penosi, non può perciò ripagare la sostanziale odiosità di un film che –mentre sembra volersi servire del ridicolo e dell’assurdo per condannare lo schiavismo– ricorre poi al realismo più crudo quando sono in scena i «poveri negri». Sicché non soltanto rifiuta il minimo cenno di commozione e di vergogna ma totalmente si infischia del problema razziale”.
Con gli anni, il giudizio della critica non è sostanzialmente mutato: “Se i registi (autori anche della sceneggiatura) pretendono che il testo letto fuori campo si basi su documenti rigorosamente storici, il montaggio effettistico, l’intento voyeurista e il gusto perverso per le immagini scioccanti fanno di questo finto documentario un esempio del peggior qualunquismo razzista”.
Insomma, stavolta Jacopetti e Prosperi avevano dichiarato esplicitamente le proprie convinzioni antirazziste, provato a portare un testo attendibile nella sostanza, per quanto con l’implicita ammissione che tutto quanto si potesse vedere fosse ricostruito ad arte; non mancava nemmeno la condanna morale al fenomeno del razzismo, eppure la critica non rimase comunque convinta. Il punto è, come visto, nel gusto compiaciuto delle scene più efferate, un gusto sadico, violento, maligno: una critica estensibile, volendo, a tutti i generi del cinema estremo. Gli autori, in effetti, non sembrano volerla smentire, anzi, forse con Addio zio Tom diviene unicamente più nitido il loro intento: il finale del film, con la scena vista dall’elicottero, sulle note di Oh, my love, riprende pedestremente l’inizio del lungometraggio. Come dire che tutto quel tourbillon di eventi e personaggi, sangue, morte, violenza, non è valso a nulla, si è ritornati punto e a capo. In effetti il concetto ripetuto più volte, nel commento recitato da Stefano Sibaldi, è che ora, siamo di fronte ad un razzismo alla rovescia, da parte dei neri americani nei confronti dei bianchi. Era un aspetto con il quale si era aperto, in effetti, anche Africa addio, nel segmento ambientato nell’Angola portoghese. Se per la legge portoghese, non esistevano, almeno formalmente, differenze di razze, gli angolani si erano premuniti di farle, ribadendo di essere gli unici padroni a casa loro.
Tornando al nuovo documentario, il corteo funebre di Martin Luther King –uno dei frammenti aggiunti dopo l’accusa di plagio– rappresentava simbolicamente l’uscita di scena del mansueto zio Tom, che lasciava il campo alle Pantere Nere e alle violente rivendicazioni dei militanti afroamericani. Il film si chiude simbolicamente sull’immagine del predicatore nero nel trancio narrativo finale –quello stile black-esploitation che, imprevedibilmente, cita Indovina chi viene a cena?– che sta leggendo Le confessioni di Nat Turner, romanzo storico di William Styron. Pare un uomo religioso –l’abito nero sembra proprio da prete cattolico– acculturato –sta leggendo un libro– e pacifico –sopporta l’impertinente passaggio dei giovani bianchi a bordo di una dune buggy che lo schizza d’acqua. Ecco, in realtà qui si lascia sfuggire un’imprecazione non proprio in linea con la sua veste. La sua natura, almeno in apparenza, calma e riflessiva, è sottolineata poi dal suo sedersi appoggiato ad una palma sulla spiaggia, continuando la lettura. E qui, il film, aprendo uno dei tanti piani narrativi di diversa natura, dà corpo alle sue fantasie, legate tanto alla lettura del testo di Styron, quanto alla sua immaginazione, istigata dai bianchi che vede sulla spiaggia a prendere il sole. Le vittime del massacro commesso da Nat Turner, il protagonista del libro, assumono quindi i volti e l’aspetto dei bagnanti bianchi mentre guardando una bella ragazza bionda, l’uomo seduto sotto la palma ironizza pensando al citato film di Stanley Kramer, del resto il personaggio ha la stessa voce, quella di Pino Locchi, che nell’edizione italiana ha doppiato Sidney Poitier. Il nostro lettore delle imprese di Nat Turner si presenta quindi come lo stimato dottor John Prentice, il protagonista del manifesto liberal dell’America, e non solo, di quegli anni: unicamente, guardando quei bianchi, ricchi e borghesi, sembra avere sentimenti assai meno nobili. E poi c’è anche l’attrazione per la ragazza bionda, bella, giovane, sexy: in fin dei conti, sono tutte attenuanti per i suoi istinti poco edificanti. E così, il passaggio più duro, dell’intero film, che supera in pessimismo anche le atrocità mostrate per tutta la fase della ricostruzione storica, non mostra nulla di poi così efferato. Mentre il nostro amico sta fantasticando di affogare la ragazza bianca, gli rotola vicino un palloncino, seguito appresso da un bambino che, vedendo l’uomo di colore, vestito completamente di scuro, si ferma intimorito. L’uomo afferra la sfera e chiama a sé il ragazzino bianco, come per tranquillizzarlo: ma intanto, strizza il palloncino con forza tra le mani. Il bambino è come paralizzato e gli spettatori con lui: davvero quel tizio, quello che ha la rassicurante voce di Sidney Poitier, vuole far scoppiare il palloncino? Davvero vuole fare un dispetto gratuito, una pura cattiveria, ad un ragazzino che, data la giovanissima età, non ha alcuna colpa nella questione razziale? Il palloncino, alla fine, esplode, e l’uomo sorride, compiaciuto. Questa scena, atroce nella sua pura cattiveria, nella sua mancanza di speranza, non ha suscitato particolari proteste, da parte dei recensori. Il che è un fatto curioso, quasi che il citato “buoncostume” tolleri la cattiveria più banale e senza motivo, e sia infastidito solo dall’esibizione della macelleria violenta o sessuale che sia. L’ultimo fotogramma del film, è, simbolicamente, lo sguardo beffardo dell’uomo dopo che ha fatto il suo dispetto, una volta che si è preso la sua piccola vendetta. Piccola, ma significativa perché ci dice che la spirale dell’odio non è affatto interrotta, anche quando le apparenze sembrano indicarlo. Inoltre, la scena, rivela che il sadismo, non è solo legato alle scene truculente che si trovano nei film alla Jacopetti, ma è presente piuttosto nella vita di tutti i giorni, in dettagli banali, ma forse più dolorosi, per chi ne subisce gli effetti, rispetto alla visione di una proiezione cinematografica. È innegabile che il cinema di Jacopetti e Prosperi, così come molti altri film, “solletichi il sadismo latente” per citare una delle recensioni riportate, o il gusto morboso per il torbido che, in un modo o nell’altro, è più diffuso di quanto si possa pensare. Il dubbio, che in fondo può anche rimanere, è se il vedere queste cose, il portarle alla luce, possa avere un benefico effetto catartico, oppure, come sostengono i vari recensori presi qui a campione, alimentare le proprie deviazioni.
Era forse a questo a cui si riferiva Friedrich Nietzsche con il suo famoso aforisma, «chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te»?
Ma può bastare girarsi dall’altra parte?



Galleria 




           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI


venerdì 1 agosto 2025

GERMANIA 7 DONNE A TESTA

1707_GERMANIA 7 DONNE TESTA , Italia, Germania Ovest 1970. Regia di Paolo Cavallina e Stanislao Nievo

Affiancato in regia da Paolo Cavallina –giornalista, scrittore e conduttore radiotelevisivo– Nievo confermò il suo discostarsi dalla poetica abrasiva di Jacopetti, attitudine che si era percepita già nella sua prima opera, il citato Mal d’Africa. Germania 7 donne a testa sposta ulteriormente la sua attenzione, concentrandosi nel cuore di quell’Europa che, negli anni Settanta, sperava di essersi messa definitivamente alle spalle la tragedia bellica. Il titolo Germania 7 donne a testa fa, infatti, riferimento alla condizione statistica nel paese teutonico immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale, con la popolazione maschile che era stata decimata sul fronte di guerra. In genere il film di Nievo e Cavallina non è inserito nelle liste dei Mondo movie, ma del resto è un’opera quasi completamente ignorata tout-court. L’interesse che ci può essere a riguardo è perché Nievo fu un elemento secondario, ma importante, nella nascita del «genere», e, quindi, annotare quello che fu il suo percorso, il suo contributo, può completare meglio il quadro generale di quei seminali anni. Secondo Il dizionario Bolaffi del Cinema Italiano, Germania 7 donne a testa è “un ampio documentario sulla Germania (…) non privo di efficaci analisi di costume”. In effetti, è interessante l’analisi sull’importanza delle donne nella società tedesca, anche quando, all’alba degli anni Settanta, il loro numero era rientrato in percentuali normali. Il ruolo femminile, grazie all’emancipazione, riferendosi alla Germania Federale, era infatti cresciuto in modo sostanziale. Qualche attinenza agli aspetti più pruriginosi dei Mondo movie, sembra però resistere nell’attenzione dedicata ai negozi che vendono materiali pornografici e, volendo, anche alla quotidianità della vita carceraria di un criminale nazista. Stanislao Nievo si congedò quindi dal cinema e con esso, anche dalla curiosa vicenda degli pseudo-documentari italiani.

           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI


domenica 13 luglio 2025

AMERICA COSì NUDA, COSì VIOLENTA

1697_AMERICA COSì NUDA, COSì VIOLENTA, Italia 1970. Regia di Sergio Martino 

la carriera registica di Sergio Martino si svilupperà negli anni all’interno di quel cinema ‘di genere’ in cui l’autore poteva costantemente infrangere, o quanto meno insidiare, i normali confini del buon gusto. In ambito erotico, con le sue commedie scollacciate, o in quello violento, con i suoi thriller, il cineasta romano ne fu uno dei migliori interpreti, capace di gestire al meglio l’ambiguità di queste produzioni. Quasi a fornire prima una sorta di credenziali sui suoi reali convincimenti, Martino cominciò la sua filmografia dirigendo documentari in cui si issò a severo censore morale. Se, nel suo esordio, Mille peccati, nessuna virtù, aveva preso di mira i paesi del nord Europa e la loro emancipazione di stampo progressista, con America così nuda, così violenta, mise sotto la lente dell’obiettivo della macchina da presa la culla della società borghese e del capitalismo. Un ulteriore dimostrazione della capacità «democristiana» del regista romano, che in seguito, gli sarà utile per interpretare sempre i gusti del pubblico anche quando il paese sembrò cambiare profondamente. 
Gli Stati Uniti, all’alba degli anni Settanta, offrirono a Martino una marea di spunti, più sul versante violento che su quello erotico, testimonianza dei tempi difficili che il paese stava attraversando. La critica non degnò di particolare interesse America così nuda, così violenta: “Droga, corruzione, alcolismo, nel film-inchiesta a colori che Sergio Martino ha girato in America con l’intenzione di mettere a nudo le pieghe degli States. Ci sono altresì i riti satanici, gli sbandamenti e le morbosità della gioventù dei due sessi, ora attratta dal misticismo, ora vittima della perversione. Non nuovo a impietose di radiografie di questo genere, il documentarista Martino ha cercato di puntualizzare problemi e fenomeni complessi e contradditori”. [Da oggi in prima, America così nuda, così violenta, Stampa Sera, anno 102, n. 178, giovedì 3-venerdì 4 settembre 1970, pagina 7]. Un commento che lascia intendere come il film abbia convinto pienamente l’anonimo recensore del giornale di Torino, il che lascia un po’ stupefatti, per la verità. Forse, non a caso, il giorno dopo, lo stesso quotidiano corresse il tiro: “Scene dal vero pur alternate ad altre realizzate visibilmente in studio, cercano di dare un quadro degli USA d’oggi. C’è una ricerca del sensazionale che confina con l’effettismo degli horror in certe sequenze, tra le quali non va raccomandato agli spettatori di stomaco debole (non stimolante per chiunque la veda prima di cena) quella dei ghiotti mangiatori di scarafaggi. L’America del benessere è, come d’uso, messa a confronto con quella «amara» e peggio che tale, ossia quella delle perversioni e dei riti satanici (non manca la sinistra villa di Bel Air). E, alla tragica strada di Dallas, si contrappongono gli astronauti percorrenti le vie celesti con meta la Luna. Il commento, che sottolinea a dovere il bene e il male dell’America «nuda» e «violenta» è detto dalla voce suadente di Giorgio Albertazzi”. [America così nuda, America così nuda, così violenta, Stampa Sera, anno 102, n. 179, venerdì 4-sabato 5 settembre 1970, pagina 7]. Il problema principale del film, è, manco a dirlo, la difficoltà di stabilire quali siano le parti ricostruite e quali, se ve ne sono, reali. Perché, se alcune mostrano palesemente la propria artificiosità, altre sembrano attendibili, ma nei Mondo movie è doveroso dubitare di ogni fotogramma. In ogni caso, la scena con il ritrovamento del cadavere di un suicida nei dintorni di Las Vegas, se ricostruita, è un capolavoro di credibilità, e mantiene intatta, in ogni caso, la sua efficacia drammatica. Interessante anche l’intervista a Marie Farr Walker, direttrice del Fayette Chronicle, quotidiano di Fayette, Mississippi, un paesino in cui era stato eletto sindaco Charles Ever, un uomo di colore. La signora in questione non si fa alcun problema a esternare frasi palesemente razziste che, provenendo da una donna e giornalista, in ottica «liberal» bilanciano in parte l’ottimismo che l’elezione di un afroamericano come Ever poteva far intendere.

Il film non convince del tutto, per essere onesti, ma alcuni passi del commento lasciano intendere il tipico umorismo che il cinema di Martino, almeno nella sua sponda «leggera», avrà poi in seguito. Per la precisione il testo letto da Giorgio Albertazzi porta la firma di Guido Gerosa e Gian Franco Venè ma, è presumibile che il regista, autore anche del soggetto, abbia sicuramento influito in qualche misura. In ogni caso, alcune battute sono, a loro modo, memorabili: descrivendo le abitudini alimentari che hanno dato come risultato le «bellezze da spiaggia» di Miami, la ‘voce over’ cita “statistiche alla mano, natiche al rallentatore”, mettendo d’accordo commento e immagini sullo schermo; sulle scene prese dall’Altamont Free Concert, lo spirito degli hippy accampati è sintetizzato con un laconico “pace all’americana, pace alla marjuana”. Qui c’è una classica imprecisione tipica dei Mondo movie, anche se potrebbe essere una svista genuina: il commento ci informa che, a fronte di tre nascite, durante questa sorta di Woodstock californiana, ci furono cinque morti. Il conteggio finale che, con un certo humor nero riduce il bilancio ad un “morte batte vita 5 a 3”, non è però attendibile in quanto pare che i bambini nati sui prati dell’Altamont Raceway Park furono quattro e i decessi altrettanti. Ma, certo, un pareggio, nell’ottica dei Mondo movie, è forse la cosa peggiore che ci sia da raccontare. Le scene di sesso libero degli hippy alimentano il versante erotico del film che, quando affronta uno dei cliché del genere, quello degli omosessuali, piazza un paio di battute che potrebbero essere intese anche come scivoloni, forse anche senza scomodare il vigente «politicamente corretto». Ascoltando Albertazzi scopriamo che gli spettatori omosessuali siano esigenti nella scelta degli spettacoli perché “ammettono il loro vizio ma non ammettono di essere truffati”. Quando poi il film torna a mostrare gli eterosessuali, la ‘voce over’ li presenta come “uomini uomini”, affermazione che lascia un po’ disorientati. Più simpatica la battuta con cui vengono suggellati gli spogliarelli integrali femminili: se inizialmente di parlava di «top-less», per alzare la temperatura degli spettacoli si era passati ai «bottom-less»: “abbiamo toccato il fondo”, chiosa Albertazzi.
Insomma, pur nella drammaticità di un quadro a tinte fosche –dal momento che, effettivamente, gli Stati Uniti, nei primi anni Settanta, erano un paese profondamente violento– Martino provò ad alleggerire il suo racconto con un po’ di spirito. Non tagliente come quello di Jacopetti, ma di grana un po’ più goliardica; il che non è necessariamente un limite.     






           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI



venerdì 11 luglio 2025

MILLE PECCATI... NESSUNA VIRTU'

1696_MILLE PECCATI... NESSUNA VIRTU' , Italia 1969. Regia di Sergio Martino

Accanto ai paesi esotici, quelli ritenuti abitualmente emancipati erano quindi ormai entrati definitivamente nelle mire dei Mondo-movie: lì, evidentemente, la rivoluzione sessuale di quegli anni si era concretizzata in modo sfacciato e i cineasti degli pseudo-documentari, perlopiù italiani, dovettero esserne particolarmente colpiti. O, forse, scaltramente, colsero negli effetti di quel fenomeno un modo per continuare a fare del sensazionalismo a buon mercato, ma con l’alibi della morale costituita da difendere. In effetti, che un autore come si dimostrerà in seguito Sergio Martino, si erga nel suo esordio cinematografico ad araldo della morale suona quantomeno curioso.
Il film in questione è Mille peccati… nessuna virtù, un classico shockumentary che pescava i casi degni di interesse, morboso, beninteso – tra Svezia, Germania, Olanda, Regno Unito, Danimarca, insomma, in quel nord Europa ritenuto, già al tempo, all’avanguardia come emancipazione civile. Nel film, un termine che ricorre in modo insistito è «morale», messa in discussione tanto dai comportamenti disinibiti in ambito sessuale che in quello dell’uso degli stupefacenti, due aspetti che caratterizzavano allora le società nordeuropee. Come detto, a vedere oggi il film, salta all’occhio che a dirigerlo sia stato Sergio Martino che della morale costituita non sarà certo un paladino, nel proseguo della carriera. Ma, in quest’ottica, si può cogliere l’ipocrisia borghese che criticava tali libertà che le nuove generazioni andavano a prendersi. L’«uomo della strada», che incarna alla perfezione il punto di vista di questi pseudo-documentari, non difendeva la morale tradizionale per convinzione, ma perché, nella situazione precostituita, era in grado di infrangerla senza dare troppo nell’occhio, o comunque senza incorrere in una sorta di «scomunica» civile. Questo era vero in ottica complessiva: Jacopetti costituiva, con i suoi estremismi, l’eccezione. La capacità di andare di poco oltre il limite, pensandoci bene, fu proprio una caratteristica del cinema ‘di genere’ all’italiana, soprattutto nei gialli o nelle commedie sexy, di cui Martino fu uno dei migliori interpreti. La ricetta era, grosso modo, spingersi sempre vicino o al massimo poco oltre al limite concesso dalla morale comune, per solleticare la pruderie dello spettatore, sia in campo erotico delle commediole che della violenza dei thriller. Ma, per far questo, necessitava un limite, un confine del lecito consentito, che, invece, la rivoluzione sessantottina voleva abbattere e, nei paesi nordici, aveva praticamente abbattuto. Al tempo, Martino era un regista esordiente e, di conseguenza, semisconosciuto. Nonostante ciò, e prendendo quindi in esame solo Mille peccati… nessuna virtù, la critica colse già una certa ipocrisia nel suo film: “Con un lavoro di montaggio non troppo persuasivo, Sergio e Luciano Martino ci conducono per mano nel solito itinerario del vizio europeo. Non c’è nulla di nuovo in quel finto matrimonio tra anormali celebrato da uno spretato, in quella famiglia hippy dove tutti si drogano, in quelle feste per donne sole. In più abbiamo un commento che parla di decadenza, esalta l’amore, e biasima l’industria del «proibito» che attrae gli ingenui. Ma al regista non fischiano le orecchie?”. [P. Per., I peccati sono mille, Stampa Sera, anno 101 n. 286, 15, 16 dicembre 1969, pagina 9]. L’incoerenza indicata nella recensione è, ovviamente, legata al fatto che il regista, con il suo film, cercava di attrare gli spettatori proprio con quegli elementi che poi, nel commento, criticava severamente. Il che è innegabile, anche perché si tratta di una caratteristica non solo di Mille peccati… nessuna virtù ma di tutto il genere Mondo movie. Andando nello specifico del lungometraggio, Martino ha comunque delle intuizioni argute, che, a vederle oggi, sono sorprendenti. Ad esempio, quando si lamenta che le istituzioni sociali sconfinino arrivando nell’ambito dell’educazione famigliare –si fa l’esempio che ai genitori, in Svezia, fosse proibito dalla Legge dare perfino uno scappellotto ai propri figli– e, per quanto possa sembrare un passaggio qualunquista, è purtroppo divenuto oggi un problema concreto anche nei nostri lidi. E anche la lamentela per l’eccessiva esposizione ad immagini disinibite in ambito sessuale, cui erano sottoposti i minori nei paesi nordici –al netto del moralismo fastidioso che si avverte nel commento letto da Riccardo Cucciolla– non è affatto detto che sia del tutto campata in aria. Aspetti delicati e complessi che i Mondo movie affrontavano, onestamente, un po’ troppo a cuor leggero e, al contrario, in sede di critica cinematografica è meglio evitare. Ma a cui il beneficio del dubbio si può concedere anche perché l’ideologia rivoluzionaria, di cui nel film vediamo i primi frutti applicati in pratica, aveva quegli stessi sistemi dogmatici che criticava nella società tradizionale. Un problema che, negli anni, si è perfino radicalizzato.
Il film presenta una moltitudine di segmenti, di varia natura ma, grosso modo, tesi a contestare le nuove abitudini della generazione rivoluzionaria. Oltre all’accento su cui, scaltramente, si insiste per i costumi disinibiti, prevalentemente in ambito femminile, anche gli hippy e il loro sfacciato opportunismo, in genere taciuto dall’intellighenzia e dall’élite culturale, finiscono condannati dal severo moralismo della voce fuoricampo. Come accennato, ci sono degli spunti anche condivisibili ma, nel calderone imbastito da Sergio e Luciano Martino, è francamente difficile stabilire cosa davvero meriti. Piuttosto di può notare la spiccata attitudine del regista, che confermerà nei thriller successivi, alle allucinanti scene di riti satanici di sette clandestine e affini, in questo abilmente aiutato dalla musica psichedelica di Peppino De Luca. Verrebbe da dire con passaggi degni di un trip allucinogeno, ma, visto la ferma condanna del film all’uso degli stupefacenti, sembrerebbe voler evidenziare una contraddizione di troppo.  
 



           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI



mercoledì 9 luglio 2025

IL PRIMO PREMIO SI CHIAMA IRENE

1695_IL PRIMO PIANO SI CHIAMA IRENE , Italia 1969. Regia di Renzo Ragazzi 

Se in Svezia inferno e paradiso Scattini osservava esplicitamente, già nel titolo, come la celebrata Svezia non fosse solo un «paradiso» ma anche un «inferno», Renzo Ragazzi non si discostò poi molto, almeno nella scelta del titolo. Il primo premio si chiama Irene fa riferimento alla protagonista di una sola parte del film: protagonista era Irene Grunschwitz, un’infermiera che aveva accettato da fare «ricompensa» per il vincitore di una particolare lotteria. Per quanto la notizia possa anche essere stata vera e singolare, nell’enfatizzazione dell’evento rispetto ad un documentario che abbraccia tutta quanto la vita sociale danese, si può leggere un po’ del moralismo che, ogni tanto, riecheggia nel commento. In alcuni casi, per la verità, non si può che convenire con le critiche alla freddezza tipicamente nordica che spedisce gli anziani nelle case di riposo senza troppi convenevoli. Anche il tema dell’infanzia nei cosiddetti collettivi famigliari è un argomento su cui le perplessità manifestate dal film di Ragazzi sono condivisibili, e, seppure la «voce over» in quei frangenti possa sembrare bigotta, anche il tema della pornografia lasciata in bella mostra ai minori è un percorso scivoloso. Tuttavia, questi temi, come del resto la vocazione nudista dei danesi e, soprattutto, delle danesi, oppure le unioni omossessuali, seppur occupino uno spazio considerevole nel film di Ragazzi, non scadono mai nel tipico sensazionalismo dei Sexy mondo. Tant’è che se non fosse per la generale impostazione, per un’attenzione un po’ morbosa all’argomento sessuale e per la contingenza con gli altri Mondo movie focalizzati sui paesi culturalmente evoluti, si potrebbe anche lasciare Il primo premio si chiama Irene fuori dal genere in oggetto di questo studio. Alcuni passaggi, come la rievocazione moderna dell’Amleto di William Shakespeare, sono affascinanti, così come le osservazioni su come lo scrittore inglese abbia scelto con grande acume di ambientare proprio a Copenaghen quella sua tragedia. Interessante è anche il passaggio sulla figura triste della Sirenetta, che per incontrare il principe di cui è innamorata perse la voce, e in generale Hans Christian Andersen, citato in un paio di occasioni, offre buoni spunti. Non sono certo analisi approfondite, ma questo non è richiesto ad un documentario generico e divulgativo: tuttavia alcuni dettagli sono segnalati in modo opportuno, ad esempio il mutismo della povera Sirenetta che non potrà dichiarare il suo amore al principe, a rappresentare una certa «chiusura» del popolo danese. Il quadro generale, poi, non è affatto negativo: c’è una certa difficoltà, da parte di un autore latino come Ragazzi, ad accettare alcuni comportamenti tipici dei popoli nordeuropei, e questo è naturale. A questo aspetto va aggiunta l’insistenza sui temi piccanti da parte del regista che va in risonanza con l’eccessiva disinvoltura su argomenti delicati degli scandinavi. Il tutto va poi condito con la spropositata fiducia nel progresso e la solerte attività regolamentatrice del popolo danese. Tutti questi elementi concorrono a creare un clima non troppo entusiastico nei confronti della Danimarca, di cui pure, in numerosi passaggi, vengono ribaditi i meriti civili e sociali. Ma per un italiano di fine anni Sessanta, la famiglia, rimaneva sempre la famiglia e i figli ne erano il cemento: l’interessante chiusa, con protagonista la cicogna, è la conferma di quest’impressione. “Un tempo le cicogne erano il simbolo della Danimarca. L’uccello migratore che veniva dai lontani paesi del sud, simboleggiava l’ansia d’infinito dei danesi, ma è anche l’emblema della fecondità, della quieta serenità di un popolo di agricoltori. Le cicogne venivano chiamate confidenzialmente col nome di Peter, facevano parte della vita quotidiana, del folklore. Andersen le aveva scelte come protagoniste di molte favole. In Danimarca le cicogne si sono fatte ormai molto rare; evidentemente, non è più tempo di favole. Perché in Danimarca le cicogne sono quasi completamente scomparse? abbiamo domandato. E ci hanno risposto: perché le nostre donne, prendono ormai tutte la pillola”.
Una battuta con cui Ragazzi poteva anche chiudere la sua indagine sul paese scandinavo ma, in realtà, lo sguardo del cineasta, pur se rivolto a nord, era più introspettivo di quel che si potrebbe pensare. Il commento continuava così: “Proprio perché le cicogne sono ormai rarissime, con precisione tipicamente danese, il Parlamento, nel 1960 ha votato una legge in base alla quale il nuovo uccello che simboleggia la Danimarca è ora l’allodola, l’uccello solitario, dal canto colmo d’angoscia, l’uccello che annuncia il mattino. Il mattino di un mondo nuovo: la società danese, la società scandinava. Ma sarà il mattino di un mondo nuovo anche per noi, che siamo tanto diversi dagli scandinavi? Forse, le allodole danesi, cantano anche per noi”.    

           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI