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domenica 9 febbraio 2025

LA DONNA NEL MONDO

 1620_LA DONNA NEL MONDO . Italia 1963. Regia di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi 

Leggendo i commenti del tempo, l’idea più diffusa era invece che La donna nel mondo fosse stato realizzato con i residui del materiale di Mondo cane: quasi un modo per stroncare a priori un film che, in sostanza, sarebbe fatto con lo scarto dello scarto. Per la verità, la critica non fu poi molto più severa, nei confronti di questa nuova fatica del trio di autori, rispetto alla precedente, tuttavia furono più compassati anche i pochi commenti a favore. In sostanza La donna nel mondo evitò forse le stroncature più trancianti, ma ottenne anche un plauso minimo che, quando vi fu, fu legato proprio al suo essere meno sfrontato di quanto potesse essere prevedibile.

Emblematica, in tal senso una recensione dell’epoca: “questo secondo film di Jacopetti ha un solo vantaggio sul primo: si serve di materiale che non fu ritenuto sufficientemente macabro e orrido per Mondo cane, e perciò le sue immagini sono meno atroci e, grazie a questo, anche più verosimili. [Dino Biondi, “Il resto del Carlino”. Jacopetti Files pagina 59]. Nello specifico, Biondi chiudeva poi la sua analisi stroncando La donna nel mondo e liquidando l’opera di Jacopetti, Prosperi e Cavara con quella superficialità comune alle altre recensioni del tempo. Tuttavia, seppure sia partito probabilmente da un presupposto sbagliato – La donna nel mondo non sembra fatto con gli avanzi di Mondo cane– l’analisi del critico del «Carlino» in parte centra il punto. In effetti, questo secondo documentario dei tre autori ha meno mordente rispetto al precedente, è meno cattivo, meno cinico. L’impressione è che gli autori avessero tenuto da parte uno dei piatti forti, di questa loro nuova idea di documentario: da sempre gli argomenti sconvenienti sono sesso e violenza. In Mondo cane di violenza ce n’era, ma il sesso era stato messo un filo in secondo piano, forse per darvi spazio nel successivo lavoro. Naturalmente, per tre autori uomini, in un mondo, quello del cinema, manovrato da altri uomini, parlare di sesso voleva dire, inevitabilmente, mettere al centro del discorso la donna, e qui poteva essere nata l’idea de La donna nel mondo.

Poi, forse, anzi senz’altro, nelle mire di Jacopetti e soci c’era già l’intenzione di allargare il tema, mostrando non solo la sfera sessuale, ma sembrava evidente quale fosse il richiamo principale dell’operazione. Del resto i Mondo movie erano nati con Europa di notte che, prima di dar vita al genere come noi oggi lo conosciamo, aveva scatenato una serie di imitazioni a puro sfondo erotico, dal citato Il mondo di notte in poi. Una simile situazione giustificherebbe la relativa morigeratezza di Mondo cane in campo sessuale: l’intenzione poteva infatti essere quella di lasciare il terreno «vergine» per La donna nel mondo. Se queste erano le premesse, poi, in concreto, il secondo film di Jacopetti, Prosperi e Cavara le disattende, almeno in parte, rimanendo piuttosto vago in fatto di contenuti espliciti e inserendo, al contrario, segmenti che esplorano altre sfere della vita delle donne nel globo terrestre.

Secondo il critico Onorato Orsini, fu soprattutto la censura a smorzare i toni de La donna nel mondo. Scrisse, infatti, Orsini su La Notte: “Documentario squilibrato, ma non è colpa dei realizzatori. È abbastanza chiaro che quattro mesi di permanenza in censura, sforbiciate, raccomandazioni, inviti alla prudenza, minacce di «blocco», devono aver fatto alla pellicola più danni di un terremoto” [Onorato Orsini, “La Notte”, Jacopetti Files, pagina 58]. Lo scetticismo del giornalista era comunque più profondo: “La donna nel mondo manca certo di unità e coerenza, e questo è il difetto più vistoso, un vizio d’impianto che non si può ragionevolmente attribuire all’intervento della censura” concludeva infatti il critico. [Ibidem]

Le tematiche dei segmenti sono, in effetti, molto disparate tra loro, del resto questo era stato il marchio di fabbrica di Mondo cane, ma stavolta la cosa sembra funzionare meno. Il film si apre sul posteriore ancheggiante di un’elegante signorina, sulle note spumeggianti delle musiche di Riz Ortolani e Nino Oliviero, ma presto si arriva alle più sobrie donne soldato israeliane, non prese propriamente sul serio. Il tono del documentario continua sulla stessa falsariga, con un vecchio colonnello scozzese che, stando al divertito commento del confermato Stefano Sibaldi, ha un harem di 84 mogli in una sperduta isola che, a quanto si può ascoltare, sarebbe abitata da sole donne. Con un tipico ribaltamento di 180°, si passa quindi in un isolotto-prigione nel mare di Carpentaria, nel nord dell’Australia, un lembo di terra in mezzo alle acque su cui sono insediati galeotti che, a quanto si vede, sembrano per lo più aborigeni.


Qui il tono si fa decisamente più serio e il documentario sfodera uno dei tipici colpi della «Jacopetti e soci», con il riferimento ad un presunto rito d’amore, piuttosto scabroso in realtà, con protagonista un povero dugongo, un animale spesso spacciato per la mitologica sirena dalle leggende dell’oceano Indiano. Il successivo passaggio si sposta in Francia, dove si festeggia la caduta della Bastiglia, con una serie di pubblici ed appassionati baci tra coppie prese tra la gente per le vie parigine. L’accostamento tra gli aborigeni e il loro presunto discutibile culto sessuale e i romantici french kisses potrebbe oggi far pensare ad un paragone palesemente razzista. Ma, questo, come altri «stacchi» del lungometraggio, sembra più che altro il tipico montaggio jacopettiano che gioca con contrasti, assonanze, rimandi, concatenando, ora in un senso, ora nell’altro, i vari segmenti narrativi. In tema di veridicità, rimane clamoroso ed esplicito il monito degli autori a dubitare di quanto si sta vedendo: ad un certo punto Sibaldi, con la sua voce suadente, ci informa che Molière avrebbe citato la Statua della Libertà: peccato che il commediografo francese visse nel XVII secolo, e Miss Liberty fece la sua comparsa sul finire dell’Ottocento! A parte la credibilità di quanto mostrato, tema sempre caldo negli shockumentary –come sono conosciuti i Mondo movie nei paesi anglosassoni– La donna nel mondo lambisce costantemente i contenuti erotici, bilanciati anche da passaggi ora seri, ora meno, dal momento che lo scopo principale del testo è stuzzicare, ma senza esagerare, evitando, al contempo, di annoiare. Così il segmento figurativamente molto bello, con le suore missionarie, che, nei loro candidi vestiti, si recano ad evangelizzare il cuore dell’Africa Nera, è accostato ad alcune modelle, rappresentanti dell’alta moda, che, secondo il commento, si trovano analogamente in quei remoti luoghi per portare la «parola di Dior».

Nel finale, La donna nel mondo torna ad incupirsi: prima una sorprendente ed esplicita visita in una moderna sala parto, poi le donne beduine che rischiano la vita tra le dune di sabbia del poligono di tiro d’artiglieria pesante per recuperare il metallo dei proiettili, infine un passaggio perfino azzardato, nel suo approccio morale. Siamo a Liegi, una donna belga ha abortito la figlia vittima di una malformazione alle braccia: Sibaldi, che quando vuole è assai credibile, nel commento ce lo presenta come un fatto “straordinario, imprevedibile e moderno”. «Moderno»: successivamente, il riferimento è alla Talidomide, un farmaco usato negli anni Sessanta che, come effetto collaterale, causava gravidanze con gravi alterazioni congenite, in genere del tipo di cui si è accennato in merito alla signora belga.

Mentre il commento si interroga sul triste stato d’animo della donna, il documentario si sposta in Germania, dove pare vi siano 7800 piccole vittime degli effetti collaterali della Talidomide, accudite con amore dalle rispettive madri e famiglie. Un tema, questo, che inevitabilmente alimentò l’antipatia per gli autori, da parte della sinistra italiana che, sebbene i tempi della legge sull’aborto [Legge 22 maggio 1978, n. 194] fossero ancora lontani, certo già all’epoca si preparava ideologicamente alla battaglia. Il finale chiarisce, d’altronde, a quale approdo Jacopetti mirasse per cercare una sorta di protezione: l’ultimo, toccante, segmento ambientato a Lourdes, prova ad accattivarsi le fantasie della sponda cattolica del paese, mettendosi, di conseguenza, ancora più in contrasto con l’élite culturale italica.

Cercando di fare un bilancio complessivo, si nota il tentativo da parte degli autori di non scadere tanto nel maschilismo e nel sessismo, tipici dei sexy-movie scaturiti da Europa di notte, e nemmeno in un, al tempo forse ancora in divenire sui nostri lidi, sentimento propriamente femminista. Il quadro generale è, per assurdo, al netto dei passaggi più fantasiosi, anche credibile, proprio per il suo non essere faziosamente schierato né con una sponda né con l’altra, almeno tra quelle più prevedibili. Tuttavia l’impressione di essere di fronte a quello che in seguito verrà efficacemente definito cerchiobottismo può legittimamente sorgere, oltre a lasciare la pietanza un po’ insipida. Insomma: un Mondo movie moderato è, sostanzialmente, un ossimoro.






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venerdì 7 febbraio 2025

NUDO E CRUDELE

1619_NUDO E CRUDELE . Italia 1984. Regia di Bitto Albertini 

Direttore della fotografia di lungo corso, Bitto Albertini era poi approdato alla regia –per quanto avesse fatto quasi di tutto, all’interno del processo produttivo di un film– con risultati, per la verità, non certo indimenticabili. Quasi in chiusura della propria carriera di cineasta, Albertini pescò un jolly che, oltre che del tutto inaspettato al tempo, è, ancor oggi, quasi inspiegabile. Il fenomeno Mondo movie era esploso con Mondo cane negli anni Sessanta, si era poi affievolito col tempo fino a quasi sparire a metà del decennio successivo quando, del tutto inaspettatamente, aveva rialzato prepotentemente la testa con Ultime grida dalla savana. Si sta analizzando, più che altro, il riscontro generale, sia in termine di incassi, che di eco mediatica o influenza sul genere: tuttavia fa specie che, la terza e ultima vampata improvvisa arrivi con Nudo e crudele, anno 1985, regia di Bitto Albertini, appunto. Non che i citati precedenti siano capolavori della Settima Arte –o meglio, a suo mondo Mondo cane lo è– però il livello qualitativo di Nudo e crudele, al confronto, è davvero deprimente. Eppure ci fu qualcosa, in quel 1985, che trascinò flotte di ragazzini a vedere questo «documentario» in cui un uomo veniva mangiato dagli alligatori, scena peraltro ripresa da Le facce della morte [Faces of death, regia di John Alan Schwartz, 1978]. O come, analogamente al ladro a cui veniva amputata la mano, uno stupratore veniva punito, in Arabia, o ancora, l’esibizione degli «uomini proboscide», bizzarri individui africani la cui caratteristica principale non era legata al naso lunghissimo ma a qualcosa che stuzzicava maggiormente gli adolescenti del tempo. Vedendo oggi il film, si potrebbe pensare che Albertini sia stato anche «onesto»: il suo lungometraggio è smaccatamente una ricostruzione in troppi passaggi, e sembra quasi incredibile che il pubblico ci possa essere cascato. Tuttavia, se Nudo e crudele fosse stato preso per quello che è, una discreta collezione di bufale, difficilmente avrebbe avuto quel riscontro: gli spettatori accorsero e, per la maggior parte, c’è da credere che fossero ingenuamente convinti di andare a vedere un documentario. Chi scrive può dare la sua piccola testimonianza, essendo lui stesso stato spettatore partecipe e testimone del clamore che Nudo e crudele ebbe tra i giovanissimi dell’epoca. In effetti, stupisce che un film che, tutto sommato, aveva ancora qualche spunto valido come Dimensione violenza [regia di Mario Morra, 1983] abbia avuto un impatto minore; pur essendo prodotto l’anno precedente, anche quello di Morra uscì in quella stessa estate dell’84, approfittando degli spazi lasciati dai blockbuster che, ad agosto, non venivano certo sprecati con le città deserte per via delle vacanze. Il segreto del successo di Nudo e crudele è forse in uno degli aspetti che, a vederlo oggi, lascia maggiormente perplessi: il commento letto da Romano Malaspina e scritto da Vincenzo Mannino, è di per sé ironico ma ci sono molti passaggi spudoratamente comici, di quella comicità grossolana e becera della commedia italiana del tempo. Tra tutte, si erge forse la scena del fuoristrada che attraversa i confini tra gli emirati arabi, talmente ridicola da far perdere qualsiasi pretesa di credibilità al testo; ma non è certo l’unica di quel tenore, forse solo la più insulsa. Per altro, poco diverse sono le scazzottate con il rumore dei pugni che ricorda i film di Bud Spencer e Terence Hill o il segmento dei giochi di guerra che si conclude in modo tragicomico; questo umorismo di bassa lega contamina anche le scene naturaliste, si vedano le avances del rinoceronte alla giraffa. La vicenda di padre Lagrange, che finisce nei piatti dei suoi fedeli che, evidentemente, non si erano del tutto redenti dalla pratica cannibale, oltre all’ironia palese, affronta anche il tema antropofago, uno dei topoi dei Mondo movie. Argomento che ormai aveva avuto la sua consacrazione con la nascita dei Cannibal movie, ma su cui Albertini insiste inserendo anche la scena del cuore mangiato durante un rito indigeno, oggettivamente tra i punti più bassi del film dal punto di vista della confezione formale. L’impressione, insomma, è quella di un fumettone autocompiaciuto che interpreta, probabilmente meglio del coevo citato Dimensione violenza, la superficialità e la «leggerezza» degli anni Ottanta. Si trattò di un’alchimia fortunata e irripetibile, frutto più di situazioni circostanziali che di intuizioni autoriali; perché l’ironia c’era già alla base, all’origine dei Mondo movie, al tempo gestita sagacemente da Jacopetti, mentre per altri il dosaggio del tema leggero fu una difficoltà di non semplice soluzione. E così, negli anni Settanta, si era preferito stemperare la matrice umoristica, privilegiando il lato violento, perché se la si metteva sul ridicolo si rischiava di perdere anche gli ultimi barlumi di credibilità. Nel decennio successivo, Nudo e crudele si giocò, probabilmente, l’ultima carta; il tal senso e va dato atto ad Albertini di averla sfruttata a dovere. Innanzitutto già il titolo lavora nell’ottica scelta dal regista, cioè di non rivelare la vera natura farsesca dell’opera. Nudo e crudele è composto da due sostantivi, in ossequio, almeno in apparenza, ai due filoni del genere Mondo, quello sexy e quello violento; ad indicare quest’ultima tendenza è la seconda parola, decisamente «cattiva», ma anche la prima, che dovrebbe richiamare il versante «sexy» è quantomeno ambigua. «Nudo», infatti, abbinato a «crudele» rievoca, anche solo foneticamente, un terzo termine, «crudo» che potrebbe essere la crasi dei due e spesso è utilizzato per enfatizzare il primo nella formula «nudo e crudo», e che ci riporta in un «clima» violento più che sexy. In sostanza, pur senza essere esplicito come Dimensione violenza, anche Nudo e crudele lascia intendere che, ad attenderci, ci sia un testo duro e pesante. In coerenza con questa sorta di inganno, anche il film ha un approccio serio: le iniziali scene dei parti, per quanto esenti da violenza, sono molto esplicite mentre il primo segmento palesemente artificiale, quello del bambino abbandonato, sembra quasi introdurre un film dai nobili intenti. Questa vena socialmente impegnata è confermata dal successivo passaggio, quello dei ragazzini storpiati volutamente dai genitori per poter essere poi più «persuasivi» nell’atto di chiedere l’elemosina; ciliegina sulla torta, la partita di calcio dei menomati, è un passaggio quasi commovente. Ma, in seguito, Nudo e crudele comincia a concentrarsi con troppa insistenza sulla questione organi genitali, da quelli degli animali, al cambio di sesso di un omosessuale con tanto di operazione chirurgica, fino ad arrivare al «culto del fallo» in Giappone, scivolando via via, nel suo affrontare l’argomento, nel pecoreccio sempre più manifesto. Oggi, guardando Nudo e crudele, le possibilità di non rimanere infastiditi dalle fandonie che ci propina sono davvero poche ma, come detto, al tempo, per qualche sortilegio dovuto forse anche alla disattenzione, che era lo stato in cui versava un’intera generazione, il film riuscì in qualche modo a funzionare. E, almeno di questo, gli va dato atto.  




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mercoledì 5 febbraio 2025

LA LIGNE D'OMBRE

1618_LA LIGNE D'OMBRE . Francia1973. Regia di Georges Franju

Tre anni dopo L’amante del prete tratto da Emile Zola, George Franju prende in mano un testo di Jospeh Conrad per il suo nuovo lungometraggio. Quello in progetto è un lavoro televisivo dal budget assai modesto, dal momento che la carriera cinematografia del regista bretone è ormai segnata. Rimasto escluso dalla Nouvelle Vague, la nuova corrente che ha infiammato nel decennio precedente il cinema francese, Franju avrebbe meritato ben altra considerazione dai produttori ma nel 1973 si deve accontentare di lavorare per la televisione. La ligne d’ombre è un racconto di formazione, se vogliamo così dire, nel quale Conrad racconta del primo incarico di un giovane capitano. Il viaggio si rivela particolarmente duro, l’equipaggio subisce un’epidemia di febbre tropicali e il vascello rimane in preda a lungo della bonaccia, tanto che riaffiora il timore che la maledizione del vecchio capitano stia sortendo i suoi effetti. Al termine di questo calvario, il protagonista potrà ben dire di aver superato la propria linea d’ombra e di essere pronto per affrontare nuove sfide stavolta in modo più preparato. La necessità di Franju di rivolgersi a testi già pronti risultava dalla sua dichiarata incapacità di raccontare: il bretone era un regista di visioni e le storie erano pretesti per poter dare forma sullo schermo alla propria immaginazione in proposito. La prosa di Conrad, per quanto questi fosse uno scrittore moderno, è particolarmente difficile da adattare per lo schermo, in quanto verte su personaggi di grande spessore interiore e quindi non semplici da rappresentare. Nell’originale, il nome del capitano protagonista è omesso, tanto che viene naturale interpretare il testo come autobiografico identificandolo con Conrad; nell’adattamento di Franju prende invece il nome di Marlow (Jean Babilée) ha significare invece un distinguo tra chi narra e chi agisce nel racconto. Ma non è soltanto questa l’unica modifica che il regista bretone introduce, smentendo in parte la sua stessa affermazione di non essere in grado di inventare racconti. Tra le novità rispetto al racconto, nel film di Franju troviamo gli ambigui fratelli Jacobus, Alfred e Ernest (interpretati dal medesimo attore, Kurt Grosskurth), il commercio delle patate e, soprattutto, la figlia di Alfred, Alice (Jaqueline Parent). Nonostante il nome potesse al massimo rimandare al noto romanzo di Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie) la ragazza è protagonista di un inserto sognante che ricorda Cenerentola, evocata esplicitamente nella scena della scarpetta dove il feticismo latente di Franju fa di nuovo la sua comparsa. La fiaba di Perrault è tra l’altro citata nel discorso di commiato del capitano Mearlow che si appresta a salpare, mentre saluta il capitano Gilles (Tino Carraro, inappuntabile come suo solito). L’offerta irrinunciabile di Gilles, attraverso la quale Mearlow si ritrova in un batter d’occhio capitano d’una nave, è paragonata alla carrozza che magicamente appare dinnanzi a Cenerentola. A volte si è faticato a comprendere la definizione che venne data al cinema di Franju, realismo fantastico, e qui possiamo averne un bell’esempio. Le premesse sono di fantasia – quale armatore affiderebbe una nave per un viaggio così impegnativo ad un inesperto capitano? – ma la successiva realizzazione è particolarmente realistica, con il cigolio perpetuo del veliero che non ci abbandona mai. Inoltre, non soddisfatto del fantasma del capitano morto, quello evocato dal racconto dal secondo di Mearlow, Burns (Roger Blin), che aveva maledetto la nave, introduce quello di Alice. Il mazzo di fiori del giardino dei Jacobus è innaffiato con cura dal cuoco Ransome (Luis Masson) e rievoca costantemente la breve storia sentimentale tra il capitano Mearlow e Alice. Il cuoco si prende così la briga di incarnare la presenza positiva all’opposto del secondo Burns, che in qualche passaggio rievoca addirittura il Nosferatu di Murnau, tanto da spaventare gli ispettori che salgono a bordo quando la nave arriva a destinazione. Del resto appare evidente che, a livello narrativo, Burns avesse messo gli occhi sul posto di capitano, poi soffiatogli d’improvviso da Mearlow: ancora un bel accostamento tra il realistico senso di invidia e gelosia professionale, e il fantastico, nel richiamo alla maledizione del vecchio capitano unita ad un aspetto poco rassicurante del secondo. E’ comunque Burns a chiudere in un certo senso la questione, svincolando la nave, e di conseguenza il suo capitano, da queste ombre che vi aleggiano sopra. Burns prima getta in mare la custodia del violino del vecchio capitano, e con lei la presunta nefasta influenza di questi; poi, per chiudere il conto, butta nell’acqua del porto anche i fiori di Alice, del resto ormai appassiti. Il capitano, il suo capitano, è ora davvero pronto per un nuovo viaggio: le linee d’ombra sono ormai alle sue spalle. E se quella del vecchio capitano, ereditata direttamente dal romanzo di Conrad, può interpretare la paura di affrontare la vita, quella di Alice, introdotta da Franju, riguarda la sfera sentimentale. L’idealizzazione dell’amore – l’eccessivo rilievo dato ad un breve incontro, la cui effimera consistenza è ben simboleggiata dal mazzo di fiori recisi destinati ad appassire – è un’altra ombra da cui ci dobbiamo liberare. 



Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU 




lunedì 3 febbraio 2025

PER LA PATRIA

1617_PER LA PATRIA (J'accuse). Francia1919. Regia di Abel Gange

Opera monumentale in tre parti, per un totale di 266 minuti, Per la Patria di Abel Gange è un caposaldo del cinema antimilitarista ma, allo stesso tempo, di quello bellico. Perché è certamente esplicita la visione di forte critica alla guerra e a tutti i suoi fautori (emblematico il titolo originale, J’accuse, io accuso) ma l’utilizzo di vere scene del conflitto, tutto sommato ben amalgamate con il racconto filmico, in un’opera del 1919, contribuì in modo importante all’idea visiva che abbiamo ancora oggi della Grande Guerra. La guerra di trincea e la desolata terra di nessuno, sono ancora oggi i concetti che affiorano per primi quando si parla della Prima Guerra Mondiale. Sono certamente elementi scenici molto peculiari e di grande impatto e Per la Patria fu appunto tra i primi film a mostrare queste immagini al grande pubblico. Perché la robusta storia d’amore che si intreccia sullo sfondo storico del conflitto mondiale rese il film di Gange appetibile ad una vasta platea. L’importanza della protagonista femminile, Edith (Maryse Dauvray), vero perno su cui ruota l’opera, era un’intuizione notevole e originale visto che, in buona sostanza, quello bellico sarebbe in seguito divenuto in modo più naturale (o culturale?) un genere maschile. La ragazza è l’epicentro del lungometraggio: è moglie, amante, madre, figlia, e in tutti questi ruoli la guerra ha su di lei un peso decisivo, quasi a rivendicare l’importanza delle sofferenze patite anche dalle donne durante i conflitti. Narrativamente Edith è al centro di un triangolo sentimentale tra l’uomo che ama, il poeta e letterato Jean Diaz (Romuald Joubé) e il marito François (Séverin-Mars), un individuo un po’ troppo incline alla violenza. E già qui si può notare una nota lievemente stonata, perlomeno perché l’anomalia, chiamiamola così, viene fornita sin dall’inizio e non capita cammin facendo nel racconto, com’è usuale. Cioè, in sostanza, sin dalla prima apparizione di Edith si capisce che ama un altro uomo e non il marito: il perché non abbia sposato Jean, visto che l’amore è ricambiato, non è dato a sapere. Tuttavia per un po’ i due riescono a farla in barba a François, ma mica per tanto e visto il focoso carattere del bruto la situazione si fa sempre più tesa. Allo scoppio della guerra François viene chiamato subito al fronte mentre Jean ha tempo poco più un mese prima di partire. Per evitare il continuo flirtare di sua moglie con l’amante, François la spedisce dai suoi genitori; la poveretta viene però fatta prigioniera dai tedeschi. Intanto in prima linea l’uomo è un soldato che si distingue compiendo atti eroici; per suo massimo scorno, Jean si aggrega giusto nel suo reparto col grado di tenente. Nonostante la causa dei loro dissidi non sia presente con loro in trincea, i due continuano a guardarsi in cagnesco. Poi Jean riceve l’ordine di mandare il valoroso François in una missione praticamente suicida: essendosi reso conto che l’uomo ama la moglie, il nobile tenente non se la sente di spedire il marito di Edith incontro alla morte. Così l’ufficiale si lancia allo sbaraglio personalmente, conduce in porto l’impresa e riporta a casa la pelle. Da lì in poi le cose tra i due rivali in amore migliorano, seppur lentamente, nonostante il buon François, che la guerra paradossalmente sta leggermente civilizzando, abbia sempre qualche sospetto sui due amanti, non del tutto infondato. Mentre sul versante bellico si alternano scene realistiche a sequenze degne perfino di una comica (ad esempio quella in cui François cattura da solo un reparto tedesco) la questione sentimentale ha pronto un vero e proprio colpo basso. Edith è stata liberata ma l’esperienza della prigionia le ha lasciato una eredità: Angele (Angèle Guys), una bambina. La scena dello stupro di gruppo, suggerita dall’uso espressionista delle ombre dei soldati tedeschi che incombono sulla poveretta, è particolarmente evocativa e, in ogni caso, il messaggio veicolato è tremendo. Se Jean, uomo d’arte e ricco di sensibilità, è in grado di accettare la situazione, il vecchio Marie Lazare (Maxime Desjardins) riserva allo spettatore una cocente delusione. L’anziano genitore di Edith era sembrato fin lì una figura simpatica, pronto a srotolare la sua cartina “la mia Alsazia e la mia Lorena”, auspicandosi venissero riconquistate con la Grande Guerra. Nonostante incarni la tipica stoltezza degli uomini di una certa età che furono tra i più soddisfatti dello scoppio del conflitto, Marie Lazare è tratteggiato bonariamente nella storia. Ma è un trucco narrativo d’alta scuola di Gange per spiazzare lo spettatore e sottolineare il carattere infimo del personaggio: l’anziano è sì un vecchio rincitrullito ma questo non lo rende un individuo degno di rispetto. La sua bieca morale è manifesta nel suo darsi alla fuga non essendogli sostenibile la vista di una povera bambinetta, unicamente per il sangue tedesco di questa. Per altro il regista non fa sconti nemmeno ai bambini del villaggio, che ghettizzano crudelmente la piccola Angele, infilandole in testa un elmo chiodato (il pickelhaube) in versione giocattolo per sottolineare il suo essere nemica dei francesi. Da un certo punto di vista, a fronte di questi atteggiamenti, dei vecchi come Marie Lazare e dei marmocchi del paese, risulta quasi più comprensibile il comportamento di uno zoticone come François. Intendiamoci, l’uomo lì per lì strozzerebbe la bambina seduta stante ma, al fronte, in mezzo all’orrore che ha vissuto, qualcosa deve aver scalfitto la sua barbarie. In un modo o nell’altro evita di far del male alla piccola, nonostante la cultura millenaria di odio di cui è intriso non gli sia in questo di grande aiuto. Tuttavia c’è una guerra da finire e François deve tornare in prima linea; Jean è stato congedato per motivi di salute ma accetta di ritornare al fronte con quello che ormai è divenuto un amico. Il conflitto è al suo apice, i due uomini rimangono gravemente feriti: la guerra è vinta ma François muore e Jean sembra aver perso il senno. Al suo ritorno al villaggio la pazzia darà voce ad un allucinato grido d’accusa verso la sua gente, rea di aver provocato il conflitto, di averlo alimentato con l’odio, di essersi approfittata impunemente delle circostanze, di aver mandato altri a fare il lavoro sporco mentre essi si curavano i propri interessi. Quello di Jean sarà anche un delirio ma è quanto mai lucido. Anche sotto il profilo visivo: le scene delle croci che lasciano il posto ai caduti che poi si rialzano per tornare a chiedere conto a chi li ha mandati al macello, sono particolarmente allucinanti e il lungometraggio finisce per sconfinare in una sorta di storia dell’orrore. Del resto, cos’è la guerra, se non l’orrore più grande?  

sabato 1 febbraio 2025

IMPICCALO PIU' IN ALTO

1616_IMPICCALO PIU' IN ALTO (Hang 'Em High). Stati Uniti 1968. Regia di Ted Post

Il regista Ted Post firma questo western che segna il ritorno in patria di Clint Eastwood, dopo i fasti della trilogia italiana diretta da Sergio Leone. Il film è anche la prima produzione della società di produzione The Malpaso Company, di proprietà dello stesso attore americano, che testimonia l’insolita intraprendenza di Eastwood anche fuori dallo schermo. Il periodo sotto la direzione di Leone ha lasciato una pesante eredità, che si nota nell’influsso che il genere Spaghetti Western ha su questo Impiccalo più in alto. Il film è senz’altro godibile, sorretto dalla verve di Eastwood che, pur non avendo un gran registro espressivo, è ormai un’icona western che basta da sola a reggere il peso della pellicola. Il cast è comunque molto ricco: come non citare Inger Stevens, dalla elegante figura bionda e snella, particolarmente intrigante in ambito western. Bene anche l’istrionico premio Oscar Ed Begley ( il capitano Wilson), buone anche le comparsate di Ben Johnson (lo sceriffo Dave Bliss), Dennis Hopper (il predicatore), Pat Hingle (il giudice Fenton), Bruce Dern (Miller), e Ned Romero (Charlie Blackfoot) mentre lascia un po’ perplesso lo spento Charles McGraw (lo sceriffo Calhoum). Insomma il film ha tutto per ben figurare: la simbolica iniziale scena biblica del buon pastore, qui in versione “buon allevatore”, vira subito sul drammatico per uno fulminate incipit. Anche l’arrivo dei titoli di testa, in particolar modo “starring Clint Eastwood” che folgora il nostro eroe appena appeso ad un ramo, è di quelli che lasciano il segno. Tuttavia forse occorre riconoscere che l’uso delle zoomate sui volti, i primi piani insistiti, le espressioni quasi da cinema espressionista, insomma tutto il corollario che vorrebbe riprendere il cinema di Leone, lo fa in modo un po’ troppo manierista. Inoltre, qualche passaggio nella messa in scena e della narrazione, non convince fino in fondo. La struttura della storia poi, dà l’idea di essere un po’ dispersiva: insomma, non sembra che il regista abbia padroneggiato al meglio il materiale a disposizione. Nel complesso, un western sufficiente ed interessante anche nell’ottica di cogliere l’influsso europeo sulla produzione americana del genere.



Inger Stevens 



giovedì 30 gennaio 2025

E JOHNNY PRESE IL FUCILE

1615_E JOHNNY PRESE IL FUCILE (Jonny got his Gun ). Stati Uniti 1971: Regia di Dalton Trumbo

Dalton Trumbo in ambito cinematografico è più che altro noto per il suo lavoro di scrittura, per i soggetti (due volte premio Oscar, per Vacanze Romane di William Wyler e La più grande corrida di Irving Rapper)  e per le sceneggiature (tra le altre, Spartacus di Stanley Kubrick e La sanguinaria di Joseph H. Lewis). Nella sua carriera realizzerà la regia di un unico film, E Johnny prese il fucile, tratto dal suo omonimo romanzo, curandone anche la sceneggiatura; sarà l’unico lungometraggio diretto da Trumbo, e questo può essere un indice di quanto, quello trattato dall’opera, sia stato un argomento sentito dall’autore. Alla fine, questa palpabile partecipazione emotiva, quasi viscerale, di Trumbo per la sua opera, finisce per essere un po’ anche il limite della stessa. E Johnny prese il fucile è un film sentito, passionale, nel quale l’accusa del regista alla politica militare estremamente palese sin da subito, nello scorrere della pellicola si trasforma in un’interrogazione su questioni più profonde, sull’esistenza di Dio, sulla sacralità o meno della vita, o meglio sulla preservazione a tutti i costi della vita, anche a fronte di situazioni limite come quelle presentate nel lungometraggio. Un tema ardito, come anche la scelta di narrare la storia di un reduce, ormai ridotto ad un tronco umano, immobilizzato sul letto; le divagazioni, i sogni, i ricordi, allentano un po’ la situazione angosciante, ma non distolgono mai del tutto l’attenzione dal punto focale. La scelta registica di filmare in bianco e nero la realtà dell’uomo immobilizzato al letto di ospedale, e la fase onirica o dei ricordi a colori, vuol essere significativa, ma è soprattutto questa seconda parte a patire maggiormente una certa mancanza di nerbo nella narrazione. Questi intermezzi colorati, alla fin fine, sembrano utilizzati per allungare un po’ il brodo, perché un uomo senza faccia, braccia e gambe, immobilizzato in un letto, non è un protagonista che può reggere, almeno non nelle mani di Trumbo, la durata di un lungometraggio. Insomma, se vanno riconosciuti i lodevoli intenti dell’autore, sembra assai più difficile promuovere a pieni voti quanto poi è rimasto impresso sulla pellicola.  




martedì 28 gennaio 2025

GLI INESORABILI

1614_GLI INESORABILI (The Unforgiven). Stati Uniti 1960: Regia di John Huston

John Huston è giustamente considerato uno dei grandi registi americani ma, curiosamente, non è certo un habitué del genere cinematografico americano per eccellenza, il western. Anzi, Gli inesorabili è il suo primo impegno ufficiale come regista di un lungometraggio ambientato alla frontiera: e si tratta di un esordio istrionico almeno quanto il suo autore. Perché per questo suo tardivo approccio al genere che ha sancito il mito del Sogno Americano, Huston addirittura ribalta i presupposti di quel Sentieri selvaggi di John Ford che forse si può ritenere il “western definitivo”. Tratto da un romanzo di Alan Le May, esattamente come Sentieri Selvaggi, The unforgiven ne capovolge infatti le coordinate narrative: se nel film di Ford erano i bianchi a cercare una ragazza rapita ed allevata dagli indiani, qui sono i Kiowas, una tribù delle praterie, a ricercare una giovane ragazza strappata alla propria gente per essere adottata presso una famiglia di coloni. La ragazza in questione è Rachel Zachary (una raggiante Audrey Hepburn), sorellastra di tre giovanotti di cui il maggiore è Ben (il granitico Burt Lancaster), della quale lei è invaghita, sebbene non in modo dichiarato. Questa sorta di tresca amorosa, avrà la sua importanza, sebbene in principio appaia un po’ torbida, essendo i due cresciuti come fratello e sorella. Comunque la situazione generale presentata da Huston ci appare senza particolari problemi, con gli Zachary alleati e legati ad una famiglia vicina, i Rawlins (il cui capofamiglia è Zeb, interpretato da Charles Bickford); gli affari come allevatori vanno bene e tutto fila per il meglio. Senonché si presenta sulla scena un vecchio e malandato soldato, forse pazzo o forse no, che, come avesse una sorta di funzione di memoria storica, ricorda o rivela a tutti l’origine di Rachel. La situazione precipita quando arriva il fratello di sangue della ragazza, Lost Bird, in capo ai Kiowas, determinato ad avere indietro la sorella. Sorella su cui si scaglia la comunità, incolpandola di aver causato la morte di un membro della famiglia Rawlins, e addirittura ripudiata, in primis addirittura da Cash (Audie Murphy) uno dei suoi fratellastri, solo per il suo essere di sangue indiano. 

I toni dello spettacolo si alzano e, nello stile eccentrico del regista americano, passa sullo schermo perfino l’impiccagione del vecchio soldato per mano di una donna, ma’ Rawlins furibonda per la perdita del figlio. E’ quindi un film con momenti di grande enfasi dove Huston si diverte a rovesciare i soliti cliché narrativi del west: dei presupposti abbiamo detto, ma va ricordato almeno la scena “simbolica” della vacca sul tetto della fattoria, che in parte è documento storico e in parte è ribaltamento di un’immagine consueta (l’animale sta’ sopra anziché a terra), e nella fase dell’attacco degli indiani fa specie che l’incendio della casa sia, contrariamente al solito, appiccato dagli assediati come sistema difensivo. Attacco indiano che, tra l’altro, è un fiasco colossale per i nativi, con un’intera schiera di guerrieri fatti fuori da un uomo, un ragazzo e due donne. A Huston, evidentemente, gli indiani non interessano e li tratta come mere comparse; a Lost Bird viene concesso qualcosa in più, ossia l’onore di essere sacrificato da Rachel che di fronte alla scelta tra la sua natura e la sua cultura, sceglie quest’ultima. Un confronto tra questi due grandi ascendenti, natura e cultura, è evidenziato anche dalla scena del piano: agli indiani che suonano i loro primitivi strumenti prima della battaglia, gli Zachary rispondono con la madre Matilda (Lilian Gish) che suona Mozart al pianoforte, piazzato per l’occasione nel cortile di casa. Gli indiani sono zittiti a fronte della superiore evoluzione musicale degli assediati; una scena piuttosto surreale, affascinante e certamente anche simbolica. Huston non pare quindi tanto interessato alla questione razziale; il razzismo diffuso tra la comunità dei coloni è vissuto con qualcosa di più che rassegnazione (leggi comprensione) perfino da parte di Rachel. La ragazza sembra quasi d’accordo con il fatto di essere discriminata, e solo l’amore che alla fine sboccerà liberamente con Ben aggirerà il problema. Ecco, su questo il regista sembra non avere dubbi: l’amore è più forte del pregiudizio; il resto, le questioni razziali dal punto di vista sociale e morale come pure le vicende storiche, possono anche venire ribaltate tanto poco rilevante è l’importanza che hanno.

 



Audrey Hepburn 




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