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martedì 14 gennaio 2025

FALLING

1607_FALLING . Ucraina 2017: Regia di Maryna Stepanskaya

C’è un proverbio italiano che recita «la necessità aguzza l’ingegno». Chissà se in Ucraina hanno qualcosa di simile che spieghi in poche parole come, a fronte di una situazione che non sembra offrire soluzioni comode, le persone finiscano per trovarne di geniali. Questa cosa è clamorosa nel cinema ucraino, che sta attraversando un momento di grande fermento proprio quando il Paese è nella situazione conosciuta con una guerra terribile che l’attanaglia. Ma le difficoltà furono precedenti a questa escalation e anche agli eventi di Euromaidan, anzi si può dire che i dubbi e le incertezze dei giovani dell’epoca furono una delle cause scatenanti le proteste di Piazza Indipendenza. Marina Stepanska, la sorprendente regista dello splendido Falling, ennesimo capolavoro del cinema ucraino di questi anni, a proposito del suo esordio al lungometraggio, ricorda anche quei giorni con queste parole: “Questo film parla di me e dei miei amici; nel 2013 vivevamo tutti a Kiyv, anche se ora nessuno di noi è più là. Il sentimento più forte che avevo in quei giorni era una sorta di disorientamento. C’era un’enorme differenza tra quello che provavo e quello che avrei dovuto provare. Stavo tutto il tempo seduta in cucina, che è per tutti il luogo sacro della casa, a leggere notizie e opinioni sul futuro del nostro paese, e mi sono resa conto che pensavo al futuro di una persona in particolare. Questa persona ha assorbito il mio dolore e i miei momenti di gioia. Ne è venuta fuori la storia di un ragazzo di 26 anni, perché conoscevo quel tipo di persona, ma sono giunta alla conclusione che se fosse stata una ragazza, sarebbe stata la stessa cosa”. [dall’intervista alla regista Marina Stepanska sul sito Cineuropa, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/330804/, visitata l’ultima volta il 24 dicembre 2024]. Il ragazzo in questione è il protagonista di Falling, Anton (Andriy Seletskiy), un compositore enfant prodige che, non riuscendo a gestire la sua ossessione per la musica, si era rifugiato nell’alcol e nella droga. Dopo un lungo periodo di riabilitazione torna dalle sue parti, in periferia di Kyiv, dove incontra Katya (Daria Palkhtii, bravissima, e in grado di bucare lo schermo in almeno un paio di occasioni), apparentemente una normalissima ragazza. 

In realtà, Katya, ha qualcosa di speciale, non a caso il fotoreporter tedesco Johann (Christian Borys), quando la immortalò ai tempi delle proteste di Piazza Indipendenza, l’aveva definita la “Principessa di Maidan”. In effetti, nella scena forse più iconica del film, la Palkhtii che fuma mezza nuda, con il solo pellicciotto a coprirne le grazie, sfodera un fascino che giustifica il nobile soprannome. Anche per via della giovane età, l’attrice ucraina ha un minimo di carriera alle spalle mentre il coprotagonista Andriy Seletskiy è all’esordio sullo schermo: la mancanza di esperienza non è però un limite per la loro prestazione attoriale, tutt’altro. A questo proposito, la Stepanska spiega così come sia riuscita ad ottenere un risultato eccellente proprio grazie alle caratteristiche dei suoi interpreti: “Questo è il metodo che ho usato in Falling, si è trattato veramente di ricostruire uno scenario di vita reale a partire da dettagli reali, durante le riprese. Le storie di questi attori sono in parte simili a quelle dei personaggi che interpretano, ma possono modificarle come se fossero strumenti in mano a loro stessi. Non credo nella cosiddetta manipolazione della realtà da parte del regista, soprattutto quando sono coinvolti attori non professionisti. Non ho ancora visto un risultato che mi abbia convinto. Se hai una scena precisa in mente, prendi degli attori e ricostruiscila con loro; se però vuoi indagare la vita vera, prendi attori non professionisti, ma non credere di dar vita alle tue idee grazie a loro. Bisogna aver rispetto della realtà, perché trova sempre il modo di sovrastarti”. [Ibidem]. Come accennato, i protagonisti della storia d’amore del film sono due personaggi un po’ incerti e spaesati: Anton torna alla vita normale dopo la disintossicazione in clinica e, comunque, in precedenza era stato un bambino prodigio, non un tipo ordinario e inquadrato. Katya è una bella ragazza, “Principessa di Maidan” mica per niente, e, ora, insieme a Johann, il fotografo tedesco, è in procinto di lasciare l’Ucraina per trasferirsi in Germania. In teoria, se Anton ha tutte le ragioni per essere frastornato, la posizione della ragazza non sembra poi così indecisa, si appresta piuttosto a cambiare radicalmente vita. Ma, forse, per Katya, la realtà non è così lineare come per il suo fidanzato tedesco Johann, che non riesce a comprenderla fino in fondo così come non riesce a cogliere le sfumature delle storie che la ragazza ama raccontare. Come quella con il rimando all’oppressione del regime sovietico, una eredità che l’Ucraina non si è riuscita a scrollare di dosso e, quando ci stava provando con più decisione, ci ha pensato Putin a rinfrescarle la memoria. Geopolitica a parte, Katya incontra per caso Anton, troppo perso nei suoi labirinti interiori per corteggiarla seriamente, ma la ragazza è intraprendente e coraggiosa, e la storia sentimentale, pur faticando a carburare, in qualche modo si avvia. L’ex musicista prodigio, oltre ai suoi problemi è, tra l’altro, alle prese con una madre alcolizzata e abbandonata al suo destino (Larysa Rusnak) e un nonno autoritario, (Oleh Mosiichuck), che lo accoglie in casa ma non sembra perdonagli tutto quel talento sprecato. Katya ha comunque fatto la sua mossa, lasciando ampiamente intendere l’interesse per Anton, che, tuttavia, ha sempre un atteggiamento ambiguo. Poi, quando il nonno sta male e la ragazza mostra la sua capacità di affrontare la situazione, il giovane cala le sue carte, proiettando nel futuro la loro ipotetica storia d’amore. E non è una previsione ottimistica: Anton è un ex alcolista e drogato, conosce le proprie debolezze e cosa gli riserva il futuro e non può certo augurare ad una ragazza, di cui con ogni evidenza è innamorato, di condividerlo. “Perché una cosa è pulire il vomito di un alcolista, un’altra è salvare un genio. Vuoi davvero pulire vomito tutta la vita?” È un tremendo knockout per la storia d’amore dei due protagonisti e arriva proprio quando questa sembrava poter decollare. Nel finale, gli scossoni narrativi del soggetto, dopo che la vicenda sentimentale si è sviluppata sottotraccia a fronte di un’apparente stagnazione, si susseguono e la chiamata alle armi di Anton ribalta completamente la situazione. Nel suo citato slancio di sincerità, il giovane aveva confessato quanto fosse opportunista per indole, oltre che per via delle dipendenze di cui era stato afflitto, e la trama ne offre la conferma: Anton si mette alla ricerca di Katya, la ritrova, e la love-story può finalmente incendiarsi. Poi, dopo l’amore, il ragazzo confessa di essere stato richiamato dall’esercito lasciando sgomenta la povera giovane. L’ultimo colpo di scena è quasi beffardo, e il montaggio, non cronologico, serve forse a confermare le parole di Anton: nel loro vagare senza meta, i giovani ucraini sembrano davvero degli spettri, incapaci di governare il proprio talento o le opportunità che la vita ti offre. Il film è giocato tutto sull’espressività dei volti dei due attori, Daria Palkhtii e Andriy Seletskiy con risultati sorprendenti, come sottolinea Jessica Kiang nella sua recensione per Variety: “le scene dell’attrazione iniziale di Katya e Anton sono meravigliose. Stepanska tiene un’inquadratura di loro che si guardano l’un l’altra attraverso una piccola cucina e, sebbene rimangano in silenzio, le informazioni trasmesse nei loro sguardi e nel sottile movimento dei loro corpi sembrano una conversazione densa”. [Jessica Kiang, Karlovy Vary recensione: Falling, Variety, pagina web https://variety.com/2017/film/reviews/falling-review-1202486202/, visitata l’ultima volta il 24 dicembre 2024]. Per ottenere questo risultato in termini di espressività di volti e immagini, è stato importante anche il contributo del direttore della fotografia, Sebastian Thaler, anche lui al sorprendente esordio. Tutto questo talento per un film pessimista, quindi? E non tanto perché il protagonista muoia, ma perché la storia d’amore finisce quasi prima di cominciare, anzi, è fatta cominciare con la consapevolezza che fosse già finita. È un film intimo, Falling, e racconta il destino dei suoi protagonisti, e non del loro Paese; oltretutto la guerra, pur se presente e determinante, è lasciata sullo sfondo. Al centro della scena ci sono i personaggi, certo: nessuno dei quali particolarmente fortunato. La madre ubriacona e abbandonata alla sua sorte, il nonno che la combina grossa proprio per la sua testardaggine e Anton, che ci lascia stupidamente le penne ma, forse, è proprio quello che ha meno rimpianti. Chi ha un destino atroce è Katya: e dire che stava per andare a Berlino, a vivere una vita probabilmente normale; prevedibile, forse non felice, ma almeno non una tragica. Sarà anche un film intimo, Falling, ma serve ricordare che Berlino è in Europa o la metafora è già abbastanza chiara? 


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domenica 12 gennaio 2025

AFRICA SEGRETA

 1606_AFRICA SEGRETA . Italia 1969: Regia di Angelo e Alfredo Castiglioni

É in questo momento che nacque la carriera cinematografica dei Castiglioni, come detto, in parte associata a Pellini e Guerrasio. Sulle modalità precise, le testimonianze dirette divergono un poco. Angelo Castiglioni: “E, quasi per caso, gli mostrammo (al direttore commerciale della Cineriz, NdA) questo nostro pre-montato. Lo guardò con attenzione e ci disse che il materiale era interessante, che erano immagini mai viste e che ne poteva venir fuori un buon prodotto. Aggiunse poi: voglio che questa mia ipotesi sia avvallata da Angelo Rizzoli”. [Angelo Castiglioni, Intervista ad Angelo e Alfredo Castiglioni, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 194]. Alfredo prosegue nel resoconto: “Poi iniziò a elencare ciò che, secondo lui (Angelo Rizzoli, NdA), andava bene e ciò che doveva essere modificato”. [Alfredo Castiglioni, Intervista ad Angelo e Alfredo Castiglioni, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 194]. I Castiglioni, a questo punto, presero tempo, non volendo snaturare il loro film. In seguito, trovarono il Commendator Penotti, direttore della CEIAD Columbia Italia, che accettò di produrre Africa segreta così come gli venne presentato. Differente il ricordo di Guido Gerrasio, secondo il quale, Angelo Rizzoli gli consegnò del materiale girato in 16 millimetri per cercare di cavarci fuori qualcosa di utile. “Non sapevo come comportarmi, perché si trattava di materiale realizzato da dilettanti, impossibile da mostrare così come si presentava. Ho avuto allora l’intuizione, che ha fatto la fortuna di film come Africa segreta, di capovolgere quello che era il classico documentario girato in Africa come nel caso di Gualtiero Jacopetti, che si portava dietro una troupe vera e lavorava solo in esterni. (…) Dalle immagini consegnatemi, traspariva una brutale sensazione di verità, così ho pensato di trasformarle in un nuovo modo di fare documentario: uno sguardo naif sull’Africa, nessuna ricerca sociale. Mi sono impadronito del materiale, poi ho diretto, con una sorta di sceneggiatura, quello che ancora restava da realizzare”. [Stefano Stefanutto Rosa, Intervista a Guido Gerrasio, Cinecittà News, 20 settembre 2012, da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 207 e 208]. Continua, Guerrasio, in un’altra occasione: “Io e mia moglie (Mimi Ferrari, NdA), che collaborava con me dal lontano 1941, rimanemmo chiusi in moviola per ben sei mesi. Ma alla fine Africa segreta venne pronto. Andai, dunque, a mostrare il mio lavoro ad Angelo Rizzoli e alla moglie, che mi accolsero nella loro casa di via del Gesù. Ma la proiezione mi riservò più di una sorpresa. Al primo indigeno nudo la signora si alzò, dando la buonanotte a tutti. Rizzoli mi chiese: «Ascolta, non ti capisco… tu che sei un poeta… cosa hai fatto qui? È spaventoso!». «Ma –ricordo che risposi– quello era il materiale, questo è il film». Ovviamente, di produrlo non se ne parlò neanche. Alla Cineriz –dove per di più c'erano anche amici come Leoni e Gigi De Santis– tutti lo sconsigliarono di produrre un film del genere. Per Africa segreta avevo creato un mosaico e una regia a tavolino... ecco, più che montaggio mi piace definirla in questo modo. Naturalmente, la quantità di materiale a mia disposizione era spaventosa. I Castiglioni e Pellini avevano lavorato in 16 mm, ma molte cose le avevano girate, ancor prima che decidessimo di fare il film, alla velocità di 18 fotogrammi al secondo. Noi siamo riusciti ad utilizzare anche quello, raggiungendo i 2700 metri di lunghezza –o 2600 non ricordo con esattezza– sfruttando persino i fotogrammi bruciati. 
Per quanto riguarda le immagini delle danze dei neri –nelle quali era visibile il sesso maschile– anche Pasolini ebbe a dire:
«Questa roba non passerà mai». In realtà, poi, parte del lavoro passò e tutti ebbero la sensazione che, in fin dei conti, qualcosa si poteva pur mostrare. E fu proprio Pasolini a proseguire per questa direzione”. <https://www.italiataglia.it/interviste/africa_segreta_africa_ama_africa_taglia visitato l'ultima volta il 18 marzo 2024)>. Mimi Ferrari, moglie di Guerrasio e sua stretta collaboratrice, aggiunge ancora qualche dettaglio sulla particolare ed inedita gestazione di Africa segreta. “So che ad un certo momento i fratelli Castiglioni erano andati a far vedere a Rizzoli qualche pezzo di un film che avevano girato. Rizzoli si è rifiutato di vederlo, ma l’ha dato a mio marito, chiedendogli se ne poteva fare qualche cosa. Il girato era da buttare via, però abbiamo pensato di farne, comunque, qualche cosa. Abbiamo provato a montare qualche primo pezzo per vedere se si riusciva ad ingrandirlo perché era girato a 16 mm e così abbiamo cominciato a collaborare con loro”. [Conversazione con Mimi Ferrari da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 202].
In un qualsiasi documentario una parte importante, addirittura cruciale, è il commento che accompagna le immagini, perché permette di comprendere meglio quello che si sta vedendo. Del resto anche nei Mondo movie la voce fuori campo fu uno degli elementi vincenti di questo particolare format cinematografico. Il cinema dei fratelli Castiglioni si dimostrerà più tradizionale, nel suo accompagnamento esplicativo alle scioccanti immagini che i film andranno a mostrare. Ma chi ne fu il principale artefice? Anche in questo caso, impossibile stabilirlo con certezza. Quello che si può fare, è annotare le varie testimonianze, per quanto discordanti tra loro. Nella già citata intervista riportata sul fondamentale Jacopetti Files, Angelo Castiglioni racconta: “Quando abbiamo elaborato i testi dei film, abbiamo sempre avuto l’appoggio della professoressa Giovanna Salvioni, che ancora oggi tiene la cattedra di Etnologia e Antropologia alla Cattolica di Milano. Con lei abbiamo scritto anche diversi libri”. Alla domanda sul motivo per cui il nome della professoressa non sia mai accreditato, Angelo risponde così: “la Salvioni è una persona molto riservata e non ha mia voluto apparire. Però ha sempre lavorato alla stesura dei testi, anche perché era importante spiegare alcuni rituali non facilmente comprensibili dal pubblico e che potevano generare l’idea di «selvaggi» per coloro che li praticavano. Parola dispregiativa che non andrebbe mai usata”. Rimanendo in tema del commento, discostandoci per un attimo dalla questione sulla paternità dello stesso, è interessante ciò che Angelo aggiunge ulteriormente: “Devo dire che ho visto film in cui il commento era legato al modo di vedere la realtà di chi lo aveva redatto. Mi ha sempre dato molto fastidio. Noi abbiamo descritto la realtà con la cinepresa senza trarre conclusioni: abbiamo sempre fatto un discorse semplicemente descrittivo. Esprimere un giudizio è profondamente sbagliato nei confronti dello spettatore. È solo lui che deve trarre le conclusioni e i giudizi. A noi è sempre solo interessato realizzare una documentazione e farla vedere così come è”. [
Angelo Castiglioni, Intervista ad Angelo e Alfredo Castiglioni, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 197 e 199]. Come si intuisce, al netto di chi abbia poi compiuto l’effettiva stesura del testo, i Castiglioni ne erano pienamente partecipi e convinti. Mimi Ferrari, vedova di Guido Guerrasio, a proposito di chi scrisse i commenti dei film in questione, la ricorda però in modo «leggermente» diverso: “No – non so che notizie avete avuto dai Castiglioni – i commenti li ha sempre e solo scritti lui (Guerrasio, NdA). Tutte le parti sono state scritte da lui, per i documentari come per altri film, ha sempre scritto solo lui”. E riguardo alla sua competenza nel merito, specifica: “Si era interessato, aveva cercato di farsi un’idea procurandosi dei libri –soprattutto francesi– insomma, si era informato anche lui. Comunque la verità è che i fratelli Castiglioni erano attirati soltanto dalle cose più violente, cioè la parte diciamo dolce dell’Africa in quei lavori non c’è”. [Conversazione con Mimi Ferrari da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 203]. Quest’ultima battuta della signora Ferreri, velatamente velenosa, ci permette di passare ad uno dei punti cruciali di Africa segreta, e in generale dei film dei fratelli Castiglioni, ovvero la violenza mostrata senza sconti. Abbiamo visto come alla Cineriz, che pure aveva prodotto opere come Africa addio e Mal d’Africa, si rifiutarono di distribuire il lavoro assemblato da Guerrasio, il che significa che la percezione, al tempo, doveva essere decisamente diversa dai citati precedenti esempi di shockumentary dedicati al Continente Nero. In ogni caso, il distributore venne comunque trovato e il film fu un successo commerciale, tanto che il sito Box Office Italia, per la stagione 1969/70 lo piazza ad un lusinghiero 46° posto su scala nazionale. <https://www.hitparadeitalia.it/bof/boi/boi1969-70.htm visitato l’ultima volta il 19 marzo 2024>.
A titolo di curiosità, sono interessanti i ricordi di Mimi Ferrari: “Il primo giorno è stato qualcosa di incredibile, è stato il giorno che c’è stato quell’attentato a Milano (la Strage di Piazza Fontana, NdA). Comunque dissero: c’è stato un grosso attentato e la gente entrava a valanga e noi pensavamo che era perché c’era l’attentato… Il cinema invece era pienissimo mattina, pomeriggio, pienissimo alla sera fino a mezzanotte. Non sapevamo più dove mettere i posti e poi dopo di allora tutto è partito…”. [
Conversazione con Mimi Ferrari da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 204]. Se la coincidenza con il tragico evento milanese possa avere influito in qualche modo con il successo del film, è impossibile dirlo con certezza. Un aspetto che certamente ebbe il suo peso fu l’efficace promozione commerciale sui giornali, che, stando alla Ferrari, fu ideata ancora una volta dal marito.
Da parte loro, i fratelli Castiglioni non ebbero, come in parte già detto, nessuna reticenza ad ammettere che il film avesse una particolare attenzione al suo lato commerciale.
In seguito, Angelo entrò maggiormente nel dettaglio: “Noi abbiamo fatto ricerche basandoci su studi precisi sulla vita di queste popolazioni. È però evidente che se faccio vedere un uomo che zappa il terreno con uno strumento che risale ancora alla preistoria, sono immagini che posso tenere sullo schermo per pochi istanti, poi alla gente non interessano più. Questo lo puoi mostrare in un congresso –come ci è capitato di fare più volte, dove abbiamo portato filmati che andavano bene in un contesto scientifico– però quando si trattava di immagini dirette al grande pubblico, e dietro c’era il produttore che metteva soldi e un’organizzazione, era necessario cercare materiale che incuriosisse la gente e che, quindi, richiamasse il pubblico. Abbiamo comunque sempre cercato di mantenere le basi di una seria ricerca etnologica. È indispensabile capire che al pubblico, piuttosto che veder l’uomo che zappetta, interessava ciò che è inusitato e lo colpisce di più, come i rituali magici che talvolta sfociano in sacrifici di animali. Però, dal punto di vista etnologico, tutte e due le azioni hanno lo stesso valore”. [
Angelo Castiglioni, Intervista ad Angelo e Alfredo Castiglioni, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 193].
Sono parole convincenti? Bastano a giustificare la violenza esplicita di Africa segreta? Naturalmente non è tanto un problema della violenza in sé, che se è un elemento della realtà che si deve descrivere, è inevitabile che venga mostrata. Il punto è: è davvero esente da critiche sfruttare la morbosità del pubblico, anche a fini divulgativi, anche per far conoscere culture diverse dalla nostra? Questi dubbi possono sorgere anche per via dell’impatto visivo del film. Che, al tempo, fu davvero tremendo come si può apprendere dall’incipit di un articolo dedicato al film su Stampa Sera: “A Milano 51 svenimenti in due settimane, uno studente –Antonio Cattaneo– il quale chiede di laurearsi in lettere discutendo le sequenze del film, 10 milioni d'incasso in due giorni al Vittoria di Torino: il documentario Africa segreta costituisce oggi il maggior successo di pubblico con il suo dosaggio di riprese ora sconcertanti ora raccapriccianti. Guido Guerrasio ne ha scritto il testo e curato il montaggio. Mesi di lavoro per vagliare le parti vive del reportage che si doveva ricavare da un ammasso di 30 mila metri di pellicola impressionata, una riuscita collaborazione con il maestro Lavagnino che ha composto le musiche ispirate a ritmi dell'Africa Centrale, la curiosità di operare su un piano di parità con una troupe non professionale. (…) Parla Alfredo Castiglioni, uno dei realizzatori: «Crediamo di aver fatto opera originale, documentando gli usi di un'Africa che ormai scompare tra i grattacieli. Viaggiamo insieme da quando eravamo ragazzi, tutto quello che abbiamo girato è a nostro rischio. Una volta, per un nonnulla, quando uno di noi toccò una gallina squartata per inserirla nel campo di ripresa mentre lo stregone ne traeva gli auspici, abbiamo avuto paura di essere impalati». Angelo Castiglioni, suo gemello, ricorda che il riserbo su abitudini impressionanti è stato vinto solo grazie alla confidenza che tutti sapevano ispirare negli indigeni. Ne hanno anche condiviso la vita: un ippopotamo ucciso, significò, ad esempio una settimana di ospitalità con la possibilità di filmare la raccapricciante circoncisione degli adulti”. [
P. Per., Che colpo il poker di Africa segreta! Incontro con i quattro realizzatori: Guerrasio, i gemelli Castiglioni e Oreste Pellini, Stampa Sera, anno 101, n. 285, sabato 13, domenica 14, dicembre 1969, pagina 8].
Sebbene, tra la critica, ci fu chi trovò delle assonanze con i Mondo movie di jacopettiana memoria: “Nessuna pretesa di dare un inquadramento ideologico –se si eccettua una citazione dell'etnologo Lévi-Strauss contro la cultura dei bianchi– ma un costante senso dello spettacolo e un discreto ritmo da reportage. Molti di questi pregi sfumano però nella memoria degli spettatori più sensibili, certamente urtati dai parecchi momenti di sadismo e dall'insistere su feroci stragi di animali: l'immagine finale di una giraffa in libertà nella savana sembra quasi una liberazione”.
[Vice, Quattro documentaristi nell’Africa segreta, La Stampa, mercoledì 10 dicembre 1969, pagina 7]. In generale, i recensori apprezzarono la genuinità degli intenti originali, e ci fu, anzi, chi colse l’occasione per uno spunto di riflessione particolarmente intrigante. Scrisse, il critico Filippo Sacchi: “Ecco, forse, cosa è, in fondo, Africa segreta: una passeggiata nella preistoria. Non rideteci troppo, probabilmente la nostra preistoria non è stata molto diversa, dolore e sangue. E la nostra Storia?”. [Filippo Sacchi, Epoca, 7 dicembre 1969, da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 184]. Anche più ficcante quest’altra osservazione: “Dopotutto, se un cineasta africano approdasse nella «civiltà bianca» potrebbe, alla stessa stregua, cogliere aspetti ancora più orrendi e disumani, non certo a nostro vanto”. [F.C., L’Eco di Bergamo, 7 dicembre 1969, da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 184].
A vederlo oggi, Africa segreta rimane un documentario scioccante. Certo, dopo Africa addio si poteva pensare di avere fatto il callo per qualsiasi atrocità nel merito, eppure, le riprese amatoriali e il sobrio commento, infondono al testo un sapore di assoluta verità che, inutile negarlo, i film di Jacopetti non riescono ad avere proprio per la loro natura provocatoria. E allora il colpo arriva senza che il cervello possa in qualche modo trovare una sorta di attenuante e diventa meno sopportabile. Manca, inoltre, quell’aurea di bellezza che Jacopetti e Prosperi spesso riuscivano a conferire alle loro pur strazianti e durissime immagini. Qui ci sono passaggi di violenza nuda e cruda a cui è davvero difficile assistere, sebbene poi riescano, in un modo o nell’altro, a creare una fascinazione per lo spettatore. Indubbiamente, le immagini erano già di loro eclatanti ma il montaggio di Guerrasio, meno appariscente di quello di Jacopetti, è intrinsecamente più puro, più classico. Mentre nello stile jacopettiano il montaggio è la controparte tecnica del sensazionalismo delle immagini, Guerrasio utilizza la sua capacità in sala taglio per nobilitare materiale che, di suo, ha certamente potenza visiva ma non è stato girato con uno scopo così consapevole. Il risultato è puramente cinematografico, essendo il film, come opera finita, frutto prevalentemente del montaggio che, del cinema, è la pura essenza. Quanto alla violenza delle immagini, è sicuramente un appunto che si può fare alla pellicola. Ma è cosa assai meno rilevante di avere la possibilità di guardare cosa abbiamo, in quanto uomini esattamente come quelli mostrati nel film, in fondo alla nostra natura, forse anche alla nostra anima, nonostante il tentativo delle nostre infrastrutture morali –cultura, tradizione, religione– di insabbiare tutto quanto.
In definitiva, Africa segreta, pur con qualche problema nella prima fase, dalle difficoltà di Guerrasio nel dare una forma accettabile al girato dei suoi colleghi esploratori, all’iniziale scetticismo dei produttori, era stato poi gratificato dal grande successo di pubblico. E la critica, tutto sommato, cogliendo una certa differenza dai Mondo movie alla Jacopetti, non si era nemmeno accanita eccessivamente nonostante le immagini cruente. 




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venerdì 10 gennaio 2025

DOC

1605_DOC . Stati Uniti 1971: Regia di Frank Perry 

Tra i film ispirati alla vicenda storica della sparatoria di Tombstone in Arizona, prima di questo Doc, si possono citare un paio di capolavori: nel '46 uscì nelle sale Sfida infernale di John Ford, mentre undici anni dopo fu la volta di Sfida all'OK corrall di John Sturges. Trattandosi di due pellicole ottime e di grande successo, ne consegue che i fatti narrati, perlomeno la versione romanzata giunta ai nostri giorni, siano abbastanza noti. La vicenda è incentrata sulla sfida a colpi di arma da fuoco tra i fratelli Earp affiancati da Doc Holliday opposti ad una banda di cowboy poco raccomandabili. Se questi ultimi erano non erano certamente stinchi di santo, le figure degli Earp, in primo luogo il più celebre Wyatt, e di Doc Holliday sono state oggetto di un certo revisionismo, a cui si ascrive anche questo Doc girato da Frank Perry. Gli eleganti tutori della legge vengono dipinti da Perry come persone ambigue, non migliori e certamente meno coerenti di Ike e compagni, ovvero la banda di balordi loro avversari. Questi ultimi sono descritti come persone rozze, sporche e rissose ma, almeno nella pellicola, non si capisce bene se il loro operato sia effettivamente contro la legge. Al contrario, sia Wyatt Earp che Doc, i personaggi più rilevanti tra i presunti «buoni» della vicenda, sono colti in fragrante in comportamenti poco edificanti. Ad esempio, nella prima e interessante scena, dopo aver sfidato ad una mano di poker scoperto Ike, Doc bara nell'operazione del «taglio» del mazzo di carte. In sostanza Doc ripone sopra al resto del mazzo, le carte che stavano già nella parte superiore dello stesso, annullando di fatto il cosiddetto «taglio» da parte di Ike. Questo passaggio lascia ben più di un dubbio sulla legittimità delle copiose vittorie di Doc al tavolo da poker, ottenute nei giorni immediatamente seguenti. Per quel che riguarda Wyatt, al di là dei dialoghi dove ammette esplicitamente i suoi intenti poco onesti, la sua ambiguità trova conferma nella sfida a mani nude con Ike, dove il Marshall attacca a tradimento, per venire poi, comunque, brutalmente sconfitto.

Quest'operazione di demolizione dei miti del west è fatta, ad onor del vero, senza eccessivo furore fazioso da parte del regista, e si basa anche sulle buone interpretazione di Stacy Keach (Doc) e Harris Yulin (Wyatt Earp): tormentato il primo, ambiguo e viscido il secondo.
Note di merito per Faye Dunaway, splendida interprete femminile principale del cast. Curiosamente la bellissima attrice interpreta una prostituta chiamata Katie Elder, il cui nome non può non evocare il classico western di Henry Hathaway I quattro figli di Katie Elder, tra i cui interpreti dei figli c’erano John Wayne e Dean Martin. Un po’ come dire che il western crepuscolare non faceva sconti neanche alle leggende come John Wayne o Dean Martin: in fondo, non erano che figli di «buona donna».




Faye Dunaway 



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mercoledì 8 gennaio 2025

STEPNE

1604_STEPNE . Ucraina, Germania, Polonia, Slovacchia 2023: Regia di Maryna Vroda 

 

Non ha fretta, il cinema di Maryna Vroda. Per la verità, se intendiamo la sua attività di regista, Maryna aveva cominciato presto e, dopo aver diretto il suo primo cortometraggio nel 2003 a soli ventun anni, nel 2011 grazie a Cross aveva vinto nientemeno che la Palma d’Ora a Cannes nella categoria «miglior cortometraggio». Al lungometraggio, la regista nata a Kyiv nel 1982, quando c’era ancora l’Unione Sovietica, arriva nel 2023, effettivamente prendendosi il suo tempo: ma lo fa a ragion veduta. Stepne, il suo esordio, è un capolavoro oltre che un film sorprendentemente universale. Per questo la trama è ridotta all’osso e anche i dialoghi sono al minimo sindacale per un film sonoro: perché la Vroda ha la stoffa della fuoriclasse e sa che, per far funzionare le cose al meglio, occorre trovare il giusto equilibrio. Il suo film è già così pregno, così denso di significato, che insistere troppo su questioni marginali, come il canovaccio o le chiacchere tra i personaggi, rovinerebbe la magia del suo lavoro. Innanzitutto, Stepne è forse l’esempio più evidente di come il cinema ucraino stia vivendo una sorta di Neorealismo, così come avvenne in Italia nel dopoguerra; scrive, Giorgia Del Don sul sito Cineuropa: “Personaggio a sé stante, il desolato, gelido ed evanescente villaggio natale dove Anatoly (Oleksandr Maksiakov) ritorna ad occuparsi della madre morente, non può non ricordarci l’arida precisione di molti film neorealisti italiani, La terra trema di Luchino Visconti in primis”. [dal sito Cineuropa.org, pagina web https://cineuropa.org/it/newsdetail/447429/, visitata l’ultima volta il 6 gennaio 2025]. 

È un’analogia che Stepne condivide con altri recenti capolavori ucraini, da Klondike a This rain will never stop a Songs from the slow burning Earth giusto per fare tre titoli. Anche Stepne ha un’ambientazione contemporanea, ovvero prima dell’inizio dell’invasione su larga scala, ma la guerra non è presente: tuttavia è uno dei film più illuminanti nel mostrarne alcuni dei presupposti. Al di là delle questioni geopolitiche, sembra chiaro che Putin abbia, in molte aree dell’ex Unione Sovietica, una base demografica se non favorevole quantomeno indifferente alle sue strategie espansionistiche. Indifferenti non per menefreghismo, sia chiaro, ma perché tagliate fuori da quella globalizzazione che proprio globale non è. Per fortuna, verrebbe quasi da commentare, ma non divaghiamo. Queste aree lasciate ai margini del sistema economico capitalista, in Ucraina sono perlopiù ad est ma non sono necessariamente russofone: a Sumy –nome reale del villaggio di Stepne, vero protagonista del film secondo la citata giornalista di Cineuropa– si parla ucraino e quando un’anziana si esprime in russo la cosa è subito rimarcata da un vecchio che le chiede come sia arrivata sin lì. La scena è una delle più belle, tra le tante, di Stepne, ed è quella della cena dopo il funerale, in cui la piccola comunità si ritrova nella casa della defunta a condividere il triste momento con un pasto semplice e frugale. La domanda dell’anziano, che sollecita più volte la donna seduta accanto a lui a spiegare come sia finita in quello sperduto angolo di mondo, suscita una serie di ricordi da parte dei presenti. A parte qualche individuo di mezza età e un paio di ragazzini, arrivati per la cerimonia, gli abitanti di Sumy sono tutti vecchi ed è a loro che Maryna Vroda pensava quando ha immaginato Stepne. Questo è uno dei momenti topici perché si avverte in modo chiaro che, pur essendo un film di finzione, l’impiego della gente del posto e il loro apporto quasi documentaristico, rende a  Stepne la valenza di resoconto storico. Scrive ancora la Del Don: “I «veri» abitanti di Sumy, sapientemente scelti dalla regista in quanto custodi di una storia che deve dev’essere assolutamente preservata, si posano sul racconto principale, arricchendolo con una strana e feroce poesia della verità”. [Ibidem]. 

Il cinema ucraino contemporaneo, anche quando non è ufficialmente un documentario, si fonda in modo clamoroso sul momento storico del Paese. Al punto che la componente strettamente narrativa, come accennato, in Stepne è assai stringata: Anatoly, il personaggio principale, per assistere alla madre (Nina Antonova, storica attrice ucraina vista anche in Donbass) ritorna al villaggio natale dove reincontra Anna (Radmila Shegoleva), probabilmente una sua vecchia fiamma. La madre muore e Anatoly sembra quasi indugiare a tornare alla sua realtà, chissà se c’era qualcosa di vero nelle parole dell’anziana donna? Suo fratello Olekszy (Oleg Prymohenow), arrivato giusto per il funerale, lo sprona piuttosto a risolvere velocemente le questioni di eredità, del terreno e della vecchia cascina. Anatoly e Olekszy sono due uomini di mezza età, non ancora anziani; vivono da qualche parte nell’ovest del paese, dove la svolta occidentale intrapresa dall’Ucraina dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha sortito i suoi effetti. Non come al villaggio, dove i vecchi sono rimasti ancora nelle stesse condizioni di una vita fa: le vie sono sconnesse e fangose, non c’è illuminazione stradale e, nelle case, ci si lava scaldando l’acqua. Non c’è la linea del cellulare, tanto che Anatoly deve prendere un bastone su cui poggiare lo smartphone in modo da poterlo alzare e cercare il segnale, quando deve avvertire il fratello della morte della madre. I pagamenti avvengono spesso in forma di baratto, ad esempio quando i due fratelli affittano i terreni ereditati dalla madre alla locale impresa agricola, oppure come capita ai dipendenti della stessa azienda, che si stanno appunto lamentando perché le bollette non le possono pagare con i beni con cui il loro titolare li ricompensa per il lavoro svolto. E questi sembrano, ai nostri occhi come a quelli dei due fratelli, limiti di un mondo arcaico ormai inconcepibile. Quando c’è il citato momento di ritrovo per la cena dopo il funerale, anche Anatoly, il più riflessivo dei fratelli, sembra prestare solo distratta attenzione alle parole dell’anziano che gli sta confidando una storia a cui pare, al contrario, dare molta importanza. Anatoly annuisce più volte, chiede giusto qualcosa, più per educazione che per reale interesse. Eppure, forse anche per la presenza di Anna, una donna ancora piacente, oppure per la sua vena artistica, disegna spesso e scolpisce personalmente la lapide per la tomba per la madre, ma qualcosa del suo vecchio villaggio sembra toccare il suo animo. 

E forse il discorso vale anche per gli spettatori. Perché, in effetti, guardando le tradizioni del paesino, guardandole con la necessaria pazienza, con riflessività, ci si accorge che qualcosa abbiamo perso. La scena in cui gli abitanti si recano alla casa della donna morta e prendono qualcosa che può tornare ancora utile, un paio di scarpe, un cappotto, una pentola, è una dimostrazione di riciclo con cui nessuna moderna campagna ecologica e di sostenibilità può competere. Se nelle splendide immagini (fotografia di Andrii Lysetski) Stepne ricorda i quadri del Realismo ottocentesco di Jean-François Millet o la sublime arte del nostro Giovanni Segantini, da un punto di vista cinematografico, oltre al Neorealismo, il tono narrativo sembra riportarci ne L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. È davvero un concentrato di bellezza e nostalgia, il film della Vroda, seppure nella forma diluita e dilatata di immagini poetiche, silenzi al posto dei dialoghi e assenza di sviluppi narrativi. Questa capacità di infondere nel proprio cinema elementi diversi e di farlo in modo armonico è l’universalità della sua arte. Qualcosa che ci tocca nel profondo, in un’intimità che è abitualmente stordita dal frastuono quotidiano della vita moderna. Qualcosa che tocca anche Anatoly: ma quando offre la sua torcia ad Anna, per camminare nelle oscure campagne del villaggio, lei la rifiuta, perché è l’uomo civilizzato ad averne più bisogno. Anatoly ci rimane perfino male, ma non è scortesia della donna: è semplicemente troppo tardi per tornare indietro. «Perché?» Probabilmente si chiede Anatoly, e noi con lui. C’è però un personaggio che, forse, più di ogni altro, incarna l’anima di quel villaggio dell’estrema periferia ucraina. Un villaggio sperduto in una steppa che ci è geograficamente del tutto estranea ma che abbiamo scoperto esserci tanto affine, al punto di rievocare opere fondamentali della nostra Storia come il citato capolavoro di Olmi, la corrente del Neorealismo e, andando ancora più a fondo, la pittura del maestro Segantini. Il personaggio in questione è Jula, il cane della madre di Anatoly. Quando il corteo funebre parte della cascina, la macchina da presa della Vroda rimane ferma sul cancello, vedendosi sfilare d’innanzi il sobrio feretro, poi via via i pochi abitanti del villaggio. Gli uomini non tradiscono emozioni, le donne intonano il triste canto funebre, ce ne una che si asciuga gli occhi col fazzoletto. L’unico a piangere, in modo comunque composto, è Jula, che guaisce sommessamente ai margini dell’inquadratura. Talmente ai margini che, quando tutti sono passati oltre, l’inquadratura rimane vuota: poi la macchina da presa si muove lentamente verso destra, e il cane compare, quasi nascosto dietro un muro, quasi a voler nascondere la volontà repressa di unirsi al corteo. È un animale docile e buono, Jula; in un’altra scena lo vediamo attendere pazientemente che Olekszy gli dia qualcosa di cui è evidentemente ghiotto, ma riesce ad essere educato proprio come un bravo cane. Ma, ora che la madre è morta, chi se n’è occuperà? Questo è un problema che va risolto, non si può rischiare che venga sbranato dai lupi, osserva Olekszy con la professata bontà d’intenti tipica dell’uomo emancipato. Anatoly è tentato dall’idea di rimanere, per Anna, forse anche per qualcos’altro, per quel famoso «qualcosa» di cui si accennava prima. Jula, in quest’ottica, potrebbe anche essere una specie di pretesto. Cos’era quel colpo? In ogni caso, si è detto, è troppo tardi; tra le cose che hanno trovato, cercando, chissà, forse davvero il fantomatico tesoro della madre, c’era una pistola. Intanto, Jula non risponde più ai suoi richiami, in compenso Olekszy ha bisogno di una mano per chiudere la buca nel terreno. Dentro c’è il cadavere del cane e, forse, della umanità dell’uomo moderno.      



  
  

lunedì 6 gennaio 2025

FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA

 1603_FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA . Italia 2015: Regia di Leonardo Tiberi 

Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria – La Grande Guerra di Leonardo Tiberi lascia doppiamente spiazzati. In un primo momento, la notizia che quello prodotto dalla Rai sia un innesto tra una fiction e una considerevole parte di filmati storici in bianco e nero colorati per l’occasione, fa storcere un po’ la bocca. Ben che per avere fiducia nelle fiction televisive ci vuole tutta, ma la sola idea di immagini documentaristiche colorate sembra ancora più sconfortante. Invece il risultato è  l’opposto. Cioè, la parte recitata, tra gli altri da Eugenio Franceschini nel ruolo del milite ignoto, non risolleva di un grado la scarsa reputazione delle produzioni televisive di pura finzione ma, a suo modo, il collage di immagini storiche, suoni e voci ora dell’epoca ora sovrapposte, in qualche modo funziona. L’impressione è naif, è vero, ma ci si rende conto che, un po’ come guardando un disegno spesso lo si scopre più comprensibile di una fotografia, con gli irrealistici colori le immagini documentaristiche della guerra prendono, per assurdo, un po’ di vita. Smettono i panni di crudi resoconti per diventare una specie di cartone animato e quindi più accessibile, più fruibile, o almeno interpretabile in un senso nuovo rispetto a quanto siamo abituati. Se poi questo basti a salvare l’operazione nel suo complesso, è difficile dirlo, anche perché ci sono troppi passaggi vacillanti. Ad esempio le voci fuoricampo, nel tentativo di essere comunque parte della storia, finiscono in quello che nei fumetti è stato efficacemente definito spiegazionismo, un neologismo di rara precisione. Ovvero quando la spiegazione è fine a sé stessa e non alla narrazione, che è una clamorosa contraddizione di termini. Tanto per capirci: una voce fuori campo neutra avrebbe potuto raccontare gli interessanti dettagli tecnici senza accampare mezze scuse non richieste (“così mi han detto che si chiamano”). In sostanza un esperimento curioso non arrivato in porto a causa delle lacune ormai croniche della nostra scuola cine-televisiva.   




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sabato 4 gennaio 2025

KHARTOUM

1602_KHARTOUM . Regno Unito 1966: Regia di Basil Dearden

Khartoum è un colossal storico di Basil Dearden, ambientato nella capitale sudanese nel 1884, ai tempi della dominazione inglese. La storia dell’Impero Britannico è talmente vasta e densa di avvenimenti, che potrebbe dar origine ad un sottogenere all’interno dei film con ambientazione storica: da I Lancieri del Bengala a Zulu, passando naturalmente per Lawrence d’Arabia, esiste infatti una fiorente filmografia dedicata alle imprese delle forze di Sua Maestà. Onestamente questo Khartoum non è uno degli esempi migliori, nonostante gli sforzi della produzione per farne un colossal che si rispetti: dal formato Ultra Panavision 70 mm al cast, forte di due star come Charlton Heston e Laurence Oliver, nei panni dei due protagonisti, rispettivamente Gordon Pascià e il Mahdi. Gordon Pascià, al secolo Charles George Gordon, venne nominato governatore inglese del Sudan per fronteggiare la rivolta capeggiata da Muhammad Ahmad, autoproclamatosi “il Mahdi”, una sorta di messia islamico. Il film si apre con lo sterminio, da parte degli insorti guidati dal Mahdi, di un reparto dell’esercito egiziano sotto la sciagurata guida di Hicks Pascià, il predecessore di Gordon; non è un buon auspicio per gli inglesi, che però lungo la durata del lungometraggio faranno anche di peggio. Lo statista William Ewart Gladstone (Ralph Richardson) spedisce Gordon in Sudan, per proteggere Khartoum dall’assedio degli uomini dal Mahdi; ma diffidando dall’indole indipendente del generale, gli appioppa alle costole il colonnello Stewart (Richard Johnson), il quale, nel corso del tempo, imparerà però ad apprezzare il carisma dell’uomo che deve sorvegliare. Una volta comprese l’impossibilità di difende la capitale sudanese con appoggi locali o egiziani, Gordon reclama rinforzi dalla madre patria; a Londra però, non si vuole un coinvolgimento troppo diretto, e così alla fine si opta per un ignobile e opportunistico sacrificio di Gordon e degli assediati, arrivando con i soccorsi dopo un calcolato lieve ritardo. E’ chiaro che l’Impero Britannico, a fine ‘800, avesse i suoi bravi problemi a gestire un dominio enorme; quindi la politica passiva adottata in Sudan nell’occasione dell’assedio di Khartoum può avere delle giustificazioni: ma fa comunque un po’ specie vedere un regista e una produzione inglesi, sparare a zero sulla condotta della madrepatria. La trama del film ha naturalmente romanzato gli avvenimenti storici, che però nel complesso vengono grosso modo rispettati; può essere che Gordon fosse anche nella realtà un personaggio scomodo, oltre che un eroe. In questo caso il comportamento del governo inglese potrebbe essere anche più comprensibile, sebbene comunque ignobile. Il regista Basil Dearden si affida ad una regia abbastanza convenzionale; Heston recita il suo ruolo di granitico eroe, mentre Oliver si adatta ad una parte più pittoresca, con buona riuscita. Nel complesso il prodotto finale è godibile, soprattutto per la curiosità dovuta alla matrice storica.   





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giovedì 2 gennaio 2025

GLI SPECIALISTI

1601_GLI SPECIALISTI . Italia, Francia, Germania Ovest 1969: Regia di Sergio Corbucci

Sergio Corbucci conferma, con l’interessante Gli specialisti, la sua fama di nume tutelare, secondo solo al grandissimo Sergio Leone, degli spaghetti-western. Il regista romano ha una assoluta padronanza di questo particolarissimo genere, e riesce ad inserire nel suo lavoro alcune forzature che, a conti fatti, finiscono per essere tra gli aspetti più rimarchevoli dell’opera. Ad esempio la presenza dei quattro giovani debosciati che fumano hashish, o l’incredibile e grottesca ultima sequenza con gli abitanti di Blackstone nudi e costretti a strisciare come vermi per la main-street, sono passaggi che, a rigor di logica e coerenza narrativa, dovrebbero lasciare perplessi. Eppure rappresentano anche il lato meno gratuito e scontato del film e, se li assumiamo ad esempio, in generale del western all’italiana. Genere che può avere un senso se porta qualcosa di originale, di realmente significativo, perché diversamente l’idea di produrre film sulla conquista dell’ovest americano girati in Italia o in Europa sarebbe davvero poco comprensibile. Da un punto di vista squisitamente narrativo la storia è ben congeniata, e riflette anche la critica sociale che probabilmente preme a Corbucci, che se la prende con gli affaristi e la gente per bene: sarebbero questi ultimi gli specialisti del titolo, nel senso di ‘specialisti in linciaggi’, o, per proseguire con la metafora, in giustizia di comodo. Il protagonista è Hud, un pistolero che se ne va in giro con un gilet in maglia di ferro in grado di respingere le pallottole (tipico espediente da spaghetti-western) interpretato da un Johnny Halliday che fa un po’ troppo il verso al Clint Eastwood della trilogia del dollaro. Più interessanti le figure dello sceriffo interpretato da Gastone Moschin, che pur sembrando un impiegato più che un uomo di azione, rivela comunque una sua non comune dignità, e del bandito pseudo-rivoluzionario messicano El Diablo (Mario Adorf), un personaggio interessante anche se, forse, non definito fino in fondo. Nonostante moltissimi elementi siano smaccatamente legati alla frontiera americana del 1800, nel complesso, vuoi per l’ambientazione alpina, vuoi per certi passaggi davvero troppo grotteschi, il lungometraggio sembra una sorta di pastiche, divertente e graffiante: ma forse rappresenta meglio di tanti altri, l’anima anarchica che è la cifra più tipica degli spaghetti-western.  







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