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lunedì 6 gennaio 2025

FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA

 1603_FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA . Italia 2015: Regia di Leonardo Tiberi 

Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria – La Grande Guerra di Leonardo Tiberi lascia doppiamente spiazzati. In un primo momento, la notizia che quello prodotto dalla Rai sia un innesto tra una fiction e una considerevole parte di filmati storici in bianco e nero colorati per l’occasione, fa storcere un po’ la bocca. Ben che per avere fiducia nelle fiction televisive ci vuole tutta, ma la sola idea di immagini documentaristiche colorate sembra ancora più sconfortante. Invece il risultato è  l’opposto. Cioè, la parte recitata, tra gli altri da Eugenio Franceschini nel ruolo del milite ignoto, non risolleva di un grado la scarsa reputazione delle produzioni televisive di pura finzione ma, a suo modo, il collage di immagini storiche, suoni e voci ora dell’epoca ora sovrapposte, in qualche modo funziona. L’impressione è naif, è vero, ma ci si rende conto che, un po’ come guardando un disegno spesso lo si scopre più comprensibile di una fotografia, con gli irrealistici colori le immagini documentaristiche della guerra prendono, per assurdo, un po’ di vita. Smettono i panni di crudi resoconti per diventare una specie di cartone animato e quindi più accessibile, più fruibile, o almeno interpretabile in un senso nuovo rispetto a quanto siamo abituati. Se poi questo basti a salvare l’operazione nel suo complesso, è difficile dirlo, anche perché ci sono troppi passaggi vacillanti. Ad esempio le voci fuoricampo, nel tentativo di essere comunque parte della storia, finiscono in quello che nei fumetti è stato efficacemente definito spiegazionismo, un neologismo di rara precisione. Ovvero quando la spiegazione è fine a sé stessa e non alla narrazione, che è una clamorosa contraddizione di termini. Tanto per capirci: una voce fuori campo neutra avrebbe potuto raccontare gli interessanti dettagli tecnici senza accampare mezze scuse non richieste (“così mi han detto che si chiamano”). In sostanza un esperimento curioso non arrivato in porto a causa delle lacune ormai croniche della nostra scuola cine-televisiva.   




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giovedì 31 ottobre 2024

PHOTOPHOBIA

1569_PHOTOPHOBIA. Ucraina, Slovacchia, Cechia, 2023; Regia di Ivan Ostrochovsky e Pavol Pekarcik

Il titolo del film di Ivan Ostrochovskye Pavol Pekarčík, Photobhobia –in italiano fotofobia– fa riferimento al disturbo dovuto al fastidio per la luce, la cui origine può essere dovuta a motivi diversi. Nel caso del film della coppia di registi slovacchi è legato alla vita reclusa e lontana dall’aria aperta a cui è costretta la popolazione ucraina –nello specifico della città di Kharkiv– per proteggersi dai bombardamenti russi scatenatesi dopo l’inizio dell’aggressione su vasta scala. Photobhobia è un ibrido tra un film e un documentario, e lo pseudo-racconto che sorregge l’opera si concentra sulla vita di un pugno di persone, tra le tante che si sono rifugiate nella metropolitana di quella che è la seconda città ucraina, e che lì sotto vivono 24 ore al giorno sette giorni su sette, ormai da due mesi. La confusione e lo stato di precarietà estremo regnano sovrani, considerato che nei tunnel della metro mancano gli elementi necessari alla vita: luce, aria, spazio, prima ancora di acqua e cibo. La messa in scena di Ostrochovsky e Pekarčík è soffocante, con lo schermo sempre e costantemente ricolmo di cose –persone, animali domestici, materassi, borse, scatoloni, qualunque oggetto è ficcato dentro l’inquadratura in ogni spazio disponibile– a sottolineare la situazione fortemente oppressiva. Manca il cibo, come detto, e l’acqua è razionata; ma a far più danni è la lontananza dall’aria aperta, dalla luce del sole: Niki (Nikita Tyshchenko), il ragazzino protagonista del film, comincia ad avvertire i primi sintoni che una vita costantemente al chiuso comporta. «Costantemente» nel puro senso del termine, perché la potenza di fuoco russa non concede deroghe: chi si azzarda ad uscire alla luce del sole, rischia grosso. “I bambini si ricorderanno tutto questo?” chiede, durante il film, la madre di Niki (Yana Yevdokymova) al marito: è questo, il quesito su cui si interrogano gli autori. Il punto di vista è, infatti, quello dei più piccoli: di Niki, ma anche di Anya (Anna Tyshchenko), la sua sorellina, o di Vika (Viktoriia Mats), l’amichetta del cuore. Un punto di vista che non ha mai un orizzonte, perché relegato dentro i vagoni di un treno o la galleria della metropolitana, e su questo aspetto insistono con perseveranza gli autori. Persino i ricordi, l’immaginazione dei ragazzini, non è in grado di andare oltre alla tragedia della guerra. Simbolicamente, ed efficacemente, questo è mostrato dall’utilizzo, da parte di Niki e Vika, di un vecchio visore portatile per diapositive che, magicamente, è in grado di riprodurre brandelli di vita all’aria aperta, come fossero filmati in Super 8. Ma i personaggi che vi si vedono sono sempre accompagnati da uno sfondo distrutto dai bombardamenti, a ricordare l’onnipresenza della guerra, anche nella fantasia dei ragazzini. Visivamente, la sensazione di chiuso, di costrizione, persiste anche in queste immagini, per altro surreali per via della colorazione fortemente artificiosa: le varie inquadrature sono circondate dai bordi delle diapositive a significare l’impossibilità di qualsiasi via di fuga, persino per l’immaginazione. È un film triste, pessimista, quindi, Photophobia? Certamente non è allegro, se pensiamo che le uniche persone che vediamo muoversi all’aria aperta sono gli uomini che trafficano con tubi di ferro vicino ai tombini, in una Karkhiv spettrale con le poche auto che sfrecciano veloci per il timore del bombardamento russo. È il breve ed enigmatico incipit, poi tutto il resto del film si svolge nel chiuso della metro e la luce del sole farà la sua comparsa, per un breve momento, unicamente nel finale, quando Niki e Vika giocano con le mani a fare le ombre cinesi sul muro. Vika, per la verità, con le sue buffe orecchie da coniglio suonanti, è stata, sin dal primo incontro, una nota –anche letteralmente– lieta, qualcosa in grado di sovvertire la negatività imperante nei tunnel della metropolitana. Due elementi, la musica e il sentimento, che il romanticismo coniugava alla perfezione e di cui si fa efficace portavoce il vecchio cowboy (Vitaly Pavlovitch), e che possono forse incarnare l’ultima speranza d’evasione. Non a caso, nel momento più trascinante del film, quando la colonna sonora si fa potente, i ragazzi corrono veloci per i corridoi della metro, deserti per l’occasione, che, in quel frangente, sembrano ambienti domestici e non claustrofobici. Merito della musica e, ça va sans dire, dell’amore, anche di quello tenero e acerbo di due ragazzini. E allora si può rispondere alla domanda della signora Yevdokymova, la madre di Niki: i bambini si ricorderanno di tutto questo, e, a quel punto, nei filmini dei loro ricordi ci sarà qualcosa che nessuna bomba potrà mai distruggere.









martedì 27 agosto 2024

107 MOTHERS

1536_107 MADRI(Cenzorka) . Slovacchia, Cechia, Ucraina 2021; Regia di Péter Kerekes.

Ancora una volta arriva dall’Ucraina uno dei film più interessanti di questi ultimi tempi. Stavolta la guerra non c’entra, visto che 107 madri –questa la traduzione del titolo internazionale del film di Peter Kerekes– è ambientato in un carcere femminile con detenute che hanno figli piccoli o sono in stato di gravidanza. O forse la guerra c’entra lo stesso, perché a Odessa, nel 2021, la guerra è impossibile da lasciar fuori da qualsiasi ambito. Tra l’altro, la situazione che vediamo sullo schermo –un ambiente popolato da detenute perlopiù vedove, alle prese con i problemi per gestire i figli piccoli– ricorda quella delle tante donne che hanno i mariti impegnati al fronte o, peggio, che sono caduti in battaglia. In ogni caso, quello che rende speciale l’Ucraina oggi, è certamente legato al conflitto in corso, ma non in modo così diretto. Non sono le bombe o i missili a rendere il paese dell’est Europa quello che è ora, un vero e proprio «ombelico del mondo», ma la consapevolezza dei suoi abitanti, e non solo, che è lì che si stia facendo la Storia, che si stia giocando il destino di buona parte dell’Umanità. Per quale motivo, un regista slovacco, Peter Kerekes, si reca proprio in Ucraina, per dirigere il suo film? 107 madri è un’opera atipica, è recitato ma, a parte la protagonista Lesya, interpretata da Maryna Klimova, e di un altro personaggio a cui presta le vesti Raisa Roman, il cast è formato, perlopiù, da vere detenute. Curioso il caso di Lyubov Vasylina, che nel film interpreta Nadia; la ragazza era stata rilasciata quando erano appena cominciato le riprese –che si sono protratte per alcuni anni– ed è tornata in seguito in carcere nelle vesti di attrice. Persino Iryna, la guardia carceraria coprotagonista, è impersonata da Iryna Kyriazeva, che, anche nella realtà è “l’ufficiale operativo del carcere di Odessa” [dall’intervista a Peter Kerekes: Alissa Simon, Il regista di 107 mothers Kerekes riflette sul suo film a Venezia, Variety, dal sito http://variety.com/2021/film/spotlight/107-mothers-director-kerekes-reflects-on-venice-film-1235055746/ visitato l’ultima volta il 22 agosto 2024]. 

Anzi, è stata proprio lei ad avere un ruolo decisivo nelle scelte di Kerekes a proposito di come realizzare il film. L’intenzione originale del regista slovacco era affrontare il tema della censura; in effetti, il titolo originale, Cenzorka, a quello fa riferimento. Trattandosi di una sorta di via di mezzo tra il documentario e la fiction, il regista si è messo alla ricerca di un posto dove poter filmare una qualche forma di censura che fosse ancora attiva e funzionante. E qui si risponde alla domanda lasciata in sospeso: dove, se non in Ucraina, nella terra della nuova frontiera, si può trovare un luogo simile?  Una volta incontrata Iryna Kiryazeva, che tra le sue funzioni aveva quelle di aprire, leggere e, eventualmente, censurare, la corrispondenza delle detenute, è divenuto infatti chiaro che il posto ideale per girare il film fosse il carcere di Odessa numero 74. Del resto, per citare ancora le parole di Kerekes, “tutto era possibile ad Odessa” [ibidem] compreso filmare un parto dal vivo per poi inserirlo nella trama del film. A vederlo con gli occhi di un occidentale –che volenti o nolenti devono essere pure quelli di Kerekes, visto che la Slovacchia è nell’Unione Europea– il compito di Iryna è inaccettabile e sgradevole: ascolta all’interfono i colloqui durante le visite e, soprattutto, legge e «corregge» le missive che queste ricevono, e guarda caso, pone particolare attenzione a quelle con qualche spunto erotico sentimentale. Tra le ragazze del carcere numero 74 ce n’è qualcuna ancora piacente, in ogni caso Iryna, come le altre guardie, al confronto, appare grossa e sgraziata. 

A confermare che una forma di invidia mista a frustrazione, sia un possibile corroborante all’azione censoria della donna, c’è la figura di sua madre (Raisa Roman, una delle attrici storiche dell’Odessa State Yiddish Theatre) che le rimprovera la vita sentimentale praticamente assente. La prospettiva non è, quindi, per niente favorevole a Iryna, nonostante nei colloqui con Lesya e le altre detenute si dimostri anche comprensiva. A proposito delle ragazze ospiti del carcere, va detto che nessuna di loro sembra affrontare in modo adeguato il tema del pentimento. Quelle che raccontano il motivo per cui sono rinchiuse, parlano per lo più di un delitto inerente alla vita sentimentale: o è il marito fedifrago a finire accoltellato o l’amante. Ma la cosa non sembra aver lasciato particolari strascichi nell’animo delle donne o, almeno, non nel modo in cui siamo abituati a vederli rappresentati al cinema. Nonostante la difficoltà di queste ragazze a confrontarsi con le proprie colpe, la loro condizione disagiata, la difficoltà di vivere appieno un momento importante della vita come la maternità, suscita nello spettatore un sentimento di solidarietà. Iryna, e il suo curiosare nelle lettere d’amore –spesso molto piccanti ma sempre in modo divertente– di empatia ne suscita invece ben poca. Sembra che la nostra guardia subisca una sorta di pena del contrappasso quando scopre che sua madre le apra la posta privata per controllare se abbia finalmente trovato qualche spasimante. E quando Iryna si lamenta dell’indelicatezza della genitrice, questa le rinfaccia prontamente che lei lo fa abitualmente a danno delle donne imprigionate nel carcere. I conti, in un certo senso, sembrano tornare: le ragazze, come Lesya o Nadia, hanno sbagliato e pagano; anche Iryna sconta il suo essere indiscreta con una vita sentimentale insoddisfacente o, meglio, inesistente. Un equilibrio che, ad un occhio di uno spettatore occidentale, inevitabilmente condizionato dal famigerato politicamente corretto, non sembra tuttavia molto soddisfacente. 


Le ragazze dovrebbero, nell’ottica di “elaborare la propria colpa”, dimostrare maggiore pentimento, affinché il carcere riveli il suo essere un percorso rieducativo. Nel finale, quando a Lesya viene negata la libertà condizionata, e si appresta a vedere suo figlio destinato ad un orfanotrofio, il suo rivolgersi a madre, sorella e persino suocera (Irina Tokarchuk) –madre dell’uomo da lei ucciso– chiedendo di prendersi in carico il bambino, appare impietosamente nel suo sfacciato opportunismo. La madre rifiuta, adducendo la misera motivazione di non aver spazio, la sorella, che ha tre figli piccoli, replica con la stessa scusa; la suocera, al contrario, accetterebbe anche, ma unicamente per vendicarsi, negando poi a Lesya la possibilità di riavere il figlio una volta scontata la pena. Insomma, non se ne esce: la desolazione morale non è propria solo delle recluse ma sembra collettiva, dell’intera società. Sembra quasi ironico, il regista Kerekes, quando mostra che l’unico barlume di umanità ce l’abbia Iryna, la guardia, che prende in simpatia il povero piccolo destinato all’orfanotrofio, e si fa aiutare da lui nell’azione censoria delle lettere. Ma probabilmente è solo il nostro sguardo condizionato, che non riesce più ad accettare le sfumature della realtà: forse, anche un atto in linea teorica aberrante come la censura, non è poi così grave se fatto con coscienza, con responsabilità individuale. Che Iryna, come persona, comincia a mostrare, aiutando il povero bambino prima che questi venga trasferito, ma non è che un piccolo anticipo. 

Perché, poi, del tutto inaspettatamente, e con un colpo di scena degno di un giallo, una soluzione che, in qualche modo, salva la baracca, salta fuori. Iryna, la massiccia e poco femminile guardia, parte per un viaggio in treno: con il vestito corto, le gambe distese sul sedile a fianco, in un atteggiamento poco consono ad un “ufficiale operativo del carcere di Odessa”, sembra anzi una bella donna. Si reca all’orfanotrofio, a trovare il figlio di Lesya con un atto di solidarietà umana, o forse è l’istino materno, che da solo riscatta l’intero desolante quadro sociale mostrato dal film. Un film che, in quel momento, diviene bellissimo, quando figurativamente lo è stato per molti dei suoi fotogrammi: immagini dalla valenza pittorica– e si prenda il bel manifesto per farsene un’idea. Non un vezzo autoriale, sia chiaro, ma il modo cinematografico per raffigurare lo stato di sospensione, di attesa, delle detenute in attesa che la propria reclusione finisca. E pazienza per coloro i quali si sono eventualmente annoiati nelle fasi precedenti, effettivamente un po’ statiche. 107 madri è un’opera che non segue i rigidi schemi del cinema conformato ma si affida alla vitalità dei suoi personaggi che, seppur costretti, chi più chi meno, da mille sbarre e ostacoli, hanno sprazzi di libertà di coscienza che, nel codificato e omologato mondo occidentale, possono apparire spiazzanti. 





Maryna Klimova 


Iryna Kiryazeva


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giovedì 3 novembre 2022

LUSITANIA: MURDER ON THE ATLANTIC

1152_LUSITANIA: MURDER ON THE ATLANTIC Regno Unito, Germania 2007;  Regia di Christopher Spencer.

Si potrebbe pensare che, visto che quello di Christopher Spencer è un TV movie, Lusitania: Murder on the Atlantic sia una sorta di versione ridotta del colossal Titanic (1997) di James Cameron. Il che potrebbe anche avvalorare, in un certo senso, il collegamento metaforico tra i due fatti storici, con l’evento del 1912 molto più famoso del successivo e, quindi, direttamente o indirettamente, più importante, più significativo. Sul piano cinematografico, il fatto nasconde una parte di verità, è inutile negarlo: il capolavoro di Cameron è inevitabilmente un testo di riferimento ineguagliabile qualora ci si affacci al tema degli affondamenti di grandi navi sullo schermo. Ma questo non sminuisce affatto le possibilità di Lusitania: Murder on the Atlantic perché, come detto, quello del 1997 è un vero capolavoro. Quindi c’è tutto lo spazio per inserirsi nella scia dell’opera del regista canadese e, pur restando in ambito televisivo, fare un buon lavoro: che è appunto quello che avviene con il film di Christopher Spencer. Prodotto dalla tedesca NDR e dalla britannica BBC (oltre che da altri studi televisivi), Lusitania: Murder on the Atlantic è in genere etichettato come docudrama visto che le trame fittizie sono piuttosto blande e c’è invece un solido ricorso a scandire la narrazione seguendo quelli che vengono forniti come dati storici. E’ un vezzo, e un limite, tipicamente televisivo, quello di arrogarsi la pretesa di oggettività che, al contrario, al cinema, anche nel genere documentario, non avviene sostanzialmente mai. 

Tuttavia gli eventi accertati e tutto considerato abbastanza noti che portarono all’affondamento del Lusitania sono fuori discussione e, semmai, c’è da parte del film di Spencer il tentativo di incrinare la comune convinzione che si trattò di un atto di deliberata pirateria da parte del sottomarino tedesco U20. In questo senso, Lusitania: Murder on the Atlantic potrebbe venir inteso anche come una specie di opera di contropropaganda: innanzitutto viene spesa qualche parola per chiarire quella che era la situazione del tempo, con la Germania che vedeva scarseggiare nei suoi negozi i primari generi alimentari a causa del blocco navale imposto dall’Inghilterra (siamo nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, forse giova ricordarlo). 

Questo non giustificava certo l’affondamento di navi dedite al trasporto passeggeri civili da parte degli U-Boot tedeschi; ma va anche considerato che, forti di questo presupposto, gli inglesi usavano queste imbarcazioni per rifornimenti bellici di armi e munizioni. Insomma, l’idea di guerra cavalleresca era già tramontata da un pezzo anche se, successivamente, la propaganda anglosassone (britannica e americana) cavalcherà l’odioso attacco tedesco ad un transatlantico colmo di civili per alimentare il sentimento antigermanico e invogliare gli Stati Uniti ad unirsi al conflitto. Qui, il testo di Spencer si spinge forse troppo in là, ipotizzando che l’ammiragliato britannico e, più o meno consapevolmente addirittura Winston Churchill, avessero se non ordito il grave fatto in sé, quantomeno colto al volo alcune possibilità che lo svolgersi degli eventi offriva loro. 

Questo nell’ottica di fare dell’affondamento del Lusitania lo strumento di propaganda decisivo per convincere gli americani ad unirsi alla battaglia e vincere la guerra. E’ forse una tesi complottista un po’ azzardata, in certi dettagli, questo va detto ma la cosa che deve far riflettere è che questa ricostruzione regge assai meglio di quella che ci venne tradizionalmente propinata. Pertanto, se alcuni passaggi sono evidenti interpretazioni narrative, ad esempio i dialoghi nell’ammiragliato britannico o anche quelli a bordo dell’U Boot, è altrettanto evidente che, per citare solo un punto, stivare munizioni su una nave passeggeri era un’azione che metteva deliberatamente a rischio la vita degli stessi. In ogni caso, essendoci in quel periodo una guerra, e non una guerra da poco, probabilmente per lungo tempo è stato difficoltoso accertare i particolari concreti degli avvenimenti; tuttavia, al di là delle vicende belliche specifiche vecchie ormai più di un secolo, il carico di mistero che ancora avvolge la vicenda non fa che aumentare il fascino della storia dell’affondamento del Lusitania. Pare infatti che sia strano che un solo siluro abbia affondato una nave del genere; in soli 18 minuti, poi, altro dettaglio che desta perplessità. E che dire della seconda esplosione? Cosa l’ha provocata? Questi interrogativi, uniti agli altri di natura più politica o di strategia militare, insinuano dubbi e perplessità alimentando la suspense della narrazione. Per questo motivo anche una produzione televisiva, comunque realizzata ben più che decorosamente, come Lusitania: Murder on the Atlantic alla fine centra pienamente il bersaglio. La traccia di finzione è in ogni caso ben gestita, con John Hannah (è il professor Ian Holboum), la piccola Madeleine Garrood (Alvis Dolphin), Kenneth Cranham (il capitano Turner) e Karen Haacke (Dorothy Taylor), tra gli altri, che fanno con professionalità la loro parte. Muovendosi sulla base di una storia, vera e tragica ma anche avvincente, con un mistero che ancora la avvolge e una serie di supposizioni che si possono condividere o meno ma comunque qualche pulce nell’orecchio riescono a metterla. Come spettatori, non c’è di che lamentarsi.  



Karen Haacke


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martedì 11 ottobre 2022

VERDUN: VISION D'HISTOIRE

1129_VERDUN: VISION D'HISTOIRE . Francia 1928;  Regia di Léon Poirier.

La storia attorno a questo film è anche più interessante, ai giorni nostri, del film stesso. Intendiamoci, le riprese di Léon Poirier hanno un valore eccezionale perché la ricostruzione delle fasi della battaglia di Verdun, combattuta tra francesi e tedeschi nel 1916, in seno alla Prima Guerra Mondiale, sono preziosissime. Oltre ad essere state girate in tempi brevi dallo scontro, videro la partecipazione di molti veterani che poterono fornire così informazioni utili al regista sullo svolgersi dei fatti e sull’aspetto scenico del campo di battaglia. E, in effetti, le immagini erano (e sono) talmente verosimili che un opuscolo promozionale del film fu scambiato negli anni per un documento storico e le foto di scena di Verdun vision d’histoire si dice che finirono addirittura sui libri sulla Grande Guerra in qualità di autentici scatti del fronte. Questo fu dovuto anche dal fatto che, essendo il film una rappresentazione piuttosto sobria e ben poco romanzata nel senso tipico del termine, l’impressione che si aveva (e si ha) vedendo la pellicola di Léon Poirier era quella di guardare un documentario. Certo la scelta di figure simboliche o anche la stessa suddivisione del lungometraggio in tre atti, dai titoli quanto mai evocativi (ForzaInferno e Destino), si risolve in una rappresentazione di grande impatto emotivo. Al tempo stesso ci sono però alcuni passaggi di vita quotidiana, ad esempio quello che vede protagoniste le due donne (Suzanne Bianchetti e Jeanne-Marie Laurent) che sembrano appunto immagini strappate alla realtà quotidiana della gente comune in un momento tanto grave. Nonostante si tratti di una battaglia che infuriò a conflitto già ben avviato, quella di Verdun può facilmente essere interpretata comunque come un’aggressione tedesca a terra francese. 


Eppure in Verdun vision d’histoire non traspare un particolare astio nei confronti degli invasori; certo Poirier era francese e quindi l’ottica complessiva dell’opera ne risente, ma senza eccessi. Tanto che il film in Germania fu presentato come Das Heldentum zweier Völker [L’eroismo di due popoli] curato da Heinz Paul. Dopo un secondo adattamento edito dal Reicharchiv, lo stesso regista tedesco, autore anche di Tannenberg (1932), nel 1933 produrrà Das Ringen um Verdun [La lotta per Verdun] attingendo allo stesso materiale. Tutte queste riedizioni rivelano anche un significativo mutamento del clima politico: lo sguardo da riconciliazione tra i popoli in pochi anni si era trasformato in rievocazione retorica di un’importante pagina bellica della Germania. E va detto che anche in Francia il film subì un aggiornamento, nel 1931, dal titolo Verdun, souvenir d’histoire, sempre opera del regista della versione originale, Léon Poirier. Oggi le immagini d’epoca o le ricostruzioni attendibili della Grande Guerra non mancano, ma Verdun vision d’histoire offre anche la differenza d’approccio agli eventi negli anni successivi. Alla fine del primo conflitto ci fu un periodo in cui sembrava remota la possibilità di ricadere nello stesso errore; eppure pochi anni dopo si cominciava già a preparare il terreno per la Seconda Guerra Mondiale. Per concludere con la storia travagliata di questo lungometraggio, la copia ben conservata attualmente disponibile pare sia stata trovata nel Gosfilmofond, l’archivio cinematografico di Mosca. A suo tempo era stata depredata dai nazisti ma poi i sovietici l’avevano riportata in Russia: ora è disponibile a tutti, in ossequio a quella fratellanza tra i popoli che era stata originariamente negli intenti di Poirier.




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lunedì 10 ottobre 2022

DOUAMONT - DIE HOLLE VON VERDUN

1128_DOUAMONT - DIE HOLLE VON VERDUN . Germania 1931;  Regia di Hainz Paul.

Nel secondo dopoguerra, alcuni lavori del regista Heinz Paul furono accusati di aver contribuito alla propaganda nazista (Wilhelm Tell, del 1934 dove recitava Emmy Göring moglie del gerarca nazista, I quattro moschettieri e persino Wunder des Fliegens) ma, prima dell’ascesa al potere di Hitler, il cineasta aveva dimostrato ben altra sensibilità. Paul, forte della sua esperienza diretta nella Grande Guerra, aveva dedicato al primo conflitto mondiale alcune sue opere, generalmente apprezzabili per l’approccio sobrio e, nel complesso, meno fazioso di altri registi. Va detto che non siamo di fronte ad un autore del calibro di Lewis Milestone, Georg Wilhlem Pabst o Jean Renoir, per restare a registi che hanno trattato la Grande Guerra a livelli cinematograficamente altissimi. Ma, in questo ambito, Paul il suo lo ha saputo fare con discreto mestiere e apprezzabile sensibilità. Anche Douaumont - Die Hölle von Verdun conferma le buone qualità messe in mostra nel di poco precedente, e tutto sommato simile, Die Somme: Das Grab der Millionen. Con questa sua nuova opera il regista bavarese completa così il quadro semi-documentaristico su una delle fasi cruciali della Prima Guerra Mondiale sul fronte occidentale, quando gli schieramenti cominciavano ad avere cognizione che non sarebbe stato semplice, per nessuna delle due parti, prevalere in tempi brevi. Se il precedente film era dedicato alla Somme, con Douaumont - Die Hölle von Verdun Paul si sposta a Verdun, come intuibile sin dal titolo, l’altro epicentro del fronte occidentale del periodo. 

Con il suo testo, per la precisione, il regista si concentra sulla presa tedesca e riconquista francese del Forte Douaumont: la roccaforte era del resto il punto nevralgico della cintura di difesa al cruciale centro di Verdun e fu oggetto di una situazione particolarmente curiosa. I francesi, convinti che i forti non potessero resistere al fuoco d’artiglieria tedesco, li lasciarono ben poco custoditi tanto che i nemici poterono occupare Douaumont con una semplice incursione. Nel film, al comando dei soldati tedeschi, c’è addirittura un simpatico e attempato ufficiale che si serve di un bastone come ausilio per camminare e offre sigarette a tutti. Il bonario ufficiale, dopo averlo salvato dall’aggressione di un suo sottoposto, sembra addirittura rincuorare il povero soldato francese lasciato solo alla custodia del forte e facilmente sopraffatto dal manipolo di incursori tedeschi. La presa del forte è quindi mostrata praticamente senza scontri cruenti sebbene l’artiglieria faccia da costante accompagnamento sin dalle prime operazioni. 

In effetti nella prima parte del film, che si occupa appunto della presa tedesca di Douaumont, la guerra sembra semplicemente una lotteria a non venir colpiti da qualche colpo d’artiglieria; anche l’ambientazione, i campi erbosi a perdita d’occhio nel quale i soldati avanzano allo scoperto, non ricorda le classiche scene a cui siamo abituati quando si parla di Prima Guerra Mondiale. La situazione diventa più simile al consueto con la controffensiva francese: la pesante artiglieria ferroviaria francese apre crateri sempre più grandi e demolisce le mura in mattoni del forte. Ora, con i tedeschi che sfoderano le proverbiali mitragliatrici, anche Douaumont - Die Hölle von Verdun si mostra come un tipico film sulla Grande Guerra. I francesi riconquisteranno il forte a prezzo salatissimo, per entrambi gli schieramenti, riprendendo un presidio che, pare evidente, avrebbero potuto evitare di cedere in modo tanto superficiale. Un ennesimo esempio sulla sostanziale inutilità, anche in questi fatti specifici, della guerra. Da un punto di vista tecnico Paul assembla il suo film con misurata capacità: miscela poche scene autentiche con molte ricostruzioni che, peraltro, si integrano in modo omogeneo. Nel 1931, poi, il sonoro non aveva ancora preso piede in modo così evoluto e anche in questo senso il regista bavarese opera con discrezione. Pur se il film ha più di un passaggio dialogato, per le scene più concitate, come gli assalti o le incursioni, si affida ad una musica d’accompagnamento quasi fossimo ancora alle prese con un film muto. Allo stesso modo, ricorre a mappe animate per chiarire gli sviluppi dello scontro e a didascalie per fornire ulteriori chiarimenti. Inoltre, Paul riesce sempre a dare un discreto ritmo alle sue riprese, anche quelle che tutto sommato potrebbero sembrare monotone. Nel complesso, pur essendo tecnicamente un pastiche eterogeneo, Douaumont - Die Hölle von Verdun riesce a darci un quadro interessante degli avvenimenti e dell’umore tedesco intorno agli anni Trenta, quando l’avvento di Hitler era imminente. Ma, tutto sommato, vedendo il film di Paul, non sembrerebbe stato così semplice da prevedere. 


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