1603_FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA . Italia 2015: Regia di Leonardo Tiberi
Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria –
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Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria –
Ancora una volta arriva dall’Ucraina uno dei film più interessanti di questi ultimi tempi. Stavolta la guerra non c’entra, visto che 107 madri –questa la traduzione del titolo internazionale del film di Peter Kerekes– è ambientato in un carcere femminile con detenute che hanno figli piccoli o sono in stato di gravidanza. O forse la guerra c’entra lo stesso, perché a Odessa, nel 2021, la guerra è impossibile da lasciar fuori da qualsiasi ambito. Tra l’altro, la situazione che vediamo sullo schermo –un ambiente popolato da detenute perlopiù vedove, alle prese con i problemi per gestire i figli piccoli– ricorda quella delle tante donne che hanno i mariti impegnati al fronte o, peggio, che sono caduti in battaglia. In ogni caso, quello che rende speciale l’Ucraina oggi, è certamente legato al conflitto in corso, ma non in modo così diretto. Non sono le bombe o i missili a rendere il paese dell’est Europa quello che è ora, un vero e proprio «ombelico del mondo», ma la consapevolezza dei suoi abitanti, e non solo, che è lì che si stia facendo la Storia, che si stia giocando il destino di buona parte dell’Umanità. Per quale motivo, un regista slovacco, Peter Kerekes, si reca proprio in Ucraina, per dirigere il suo film? 107 madri è un’opera atipica, è recitato ma, a parte la protagonista Lesya, interpretata da Maryna Klimova, e di un altro personaggio a cui presta le vesti Raisa Roman, il cast è formato, perlopiù, da vere detenute. Curioso il caso di Lyubov Vasylina, che nel film interpreta Nadia; la ragazza era stata rilasciata quando erano appena cominciato le riprese –che si sono protratte per alcuni anni– ed è tornata in seguito in carcere nelle vesti di attrice. Persino Iryna, la guardia carceraria coprotagonista, è impersonata da Iryna Kyriazeva, che, anche nella realtà è “l’ufficiale operativo del carcere di Odessa” [dall’intervista a Peter Kerekes: Alissa Simon, Il regista di 107 mothers Kerekes riflette sul suo film a Venezia, Variety, dal sito http://variety.com/2021/film/spotlight/107-mothers-director-kerekes-reflects-on-venice-film-1235055746/ visitato l’ultima volta il 22 agosto 2024].
Anzi, è stata proprio lei ad avere un ruolo decisivo nelle scelte di Kerekes a proposito di come realizzare il film. L’intenzione originale del regista slovacco era affrontare il tema della censura; in effetti, il titolo originale, Cenzorka, a quello fa riferimento. Trattandosi di una sorta di via di mezzo tra il documentario e la fiction, il regista si è messo alla ricerca di un posto dove poter filmare una qualche forma di censura che fosse ancora attiva e funzionante. E qui si risponde alla domanda lasciata in sospeso: dove, se non in Ucraina, nella terra della nuova frontiera, si può trovare un luogo simile? Una volta incontrata Iryna Kiryazeva, che tra le sue funzioni aveva quelle di aprire, leggere e, eventualmente, censurare, la corrispondenza delle detenute, è divenuto infatti chiaro che il posto ideale per girare il film fosse il carcere di Odessa numero 74. Del resto, per citare ancora le parole di Kerekes, “tutto era possibile ad Odessa” [ibidem] compreso filmare un parto dal vivo per poi inserirlo nella trama del film. A vederlo con gli occhi di un occidentale –che volenti o nolenti devono essere pure quelli di Kerekes, visto che la Slovacchia è nell’Unione Europea– il compito di Iryna è inaccettabile e sgradevole: ascolta all’interfono i colloqui durante le visite e, soprattutto, legge e «corregge» le missive che queste ricevono, e guarda caso, pone particolare attenzione a quelle con qualche spunto erotico sentimentale. Tra le ragazze del carcere numero 74 ce n’è qualcuna ancora piacente, in ogni caso Iryna, come le altre guardie, al confronto, appare grossa e sgraziata.
A confermare che una forma di invidia mista a frustrazione, sia un possibile corroborante all’azione censoria della donna, c’è la figura di sua madre (Raisa Roman, una delle attrici storiche dell’Odessa State Yiddish Theatre) che le rimprovera la vita sentimentale praticamente assente. La prospettiva non è, quindi, per niente favorevole a Iryna, nonostante nei colloqui con Lesya e le altre detenute si dimostri anche comprensiva. A proposito delle ragazze ospiti del carcere, va detto che nessuna di loro sembra affrontare in modo adeguato il tema del pentimento. Quelle che raccontano il motivo per cui sono rinchiuse, parlano per lo più di un delitto inerente alla vita sentimentale: o è il marito fedifrago a finire accoltellato o l’amante. Ma la cosa non sembra aver lasciato particolari strascichi nell’animo delle donne o, almeno, non nel modo in cui siamo abituati a vederli rappresentati al cinema. Nonostante la difficoltà di queste ragazze a confrontarsi con le proprie colpe, la loro condizione disagiata, la difficoltà di vivere appieno un momento importante della vita come la maternità, suscita nello spettatore un sentimento di solidarietà. Iryna, e il suo curiosare nelle lettere d’amore –spesso molto piccanti ma sempre in modo divertente– di empatia ne suscita invece ben poca. Sembra che la nostra guardia subisca una sorta di pena del contrappasso quando scopre che sua madre le apra la posta privata per controllare se abbia finalmente trovato qualche spasimante. E quando Iryna si lamenta dell’indelicatezza della genitrice, questa le rinfaccia prontamente che lei lo fa abitualmente a danno delle donne imprigionate nel carcere. I conti, in un certo senso, sembrano tornare: le ragazze, come Lesya o Nadia, hanno sbagliato e pagano; anche Iryna sconta il suo essere indiscreta con una vita sentimentale insoddisfacente o, meglio, inesistente. Un equilibrio che, ad un occhio di uno spettatore occidentale, inevitabilmente condizionato dal famigerato politicamente corretto, non sembra tuttavia molto soddisfacente.
Perché, poi, del tutto inaspettatamente, e con un colpo di scena degno di un giallo, una soluzione che, in qualche modo, salva la baracca, salta fuori. Iryna, la massiccia e poco femminile guardia, parte per un viaggio in treno: con il vestito corto, le gambe distese sul sedile a fianco, in un atteggiamento poco consono ad un “ufficiale operativo del carcere di Odessa”, sembra anzi una bella donna. Si reca all’orfanotrofio, a trovare il figlio di Lesya con un atto di solidarietà umana, o forse è l’istino materno, che da solo riscatta l’intero desolante quadro sociale mostrato dal film. Un film che, in quel momento, diviene bellissimo, quando figurativamente lo è stato per molti dei suoi fotogrammi: immagini dalla valenza pittorica– e si prenda il bel manifesto per farsene un’idea. Non un vezzo autoriale, sia chiaro, ma il modo cinematografico per raffigurare lo stato di sospensione, di attesa, delle detenute in attesa che la propria reclusione finisca. E pazienza per coloro i quali si sono eventualmente annoiati nelle fasi precedenti, effettivamente un po’ statiche. 107 madri è un’opera che non segue i rigidi schemi del cinema conformato ma si affida alla vitalità dei suoi personaggi che, seppur costretti, chi più chi meno, da mille sbarre e ostacoli, hanno sprazzi di libertà di coscienza che, nel codificato e omologato mondo occidentale, possono apparire spiazzanti.
Si potrebbe pensare che, visto che quello di Christopher Spencer è un TV movie, Lusitania: Murder on the Atlantic sia una sorta di versione ridotta del colossal Titanic (1997) di James Cameron. Il che potrebbe anche avvalorare, in un certo senso, il collegamento metaforico tra i due fatti storici, con l’evento del 1912 molto più famoso del successivo e, quindi, direttamente o indirettamente, più importante, più significativo. Sul piano cinematografico, il fatto nasconde una parte di verità, è inutile negarlo: il capolavoro di Cameron è inevitabilmente un testo di riferimento ineguagliabile qualora ci si affacci al tema degli affondamenti di grandi navi sullo schermo. Ma questo non sminuisce affatto le possibilità di Lusitania: Murder on the Atlantic perché, come detto, quello del 1997 è un vero capolavoro. Quindi c’è tutto lo spazio per inserirsi nella scia dell’opera del regista canadese e, pur restando in ambito televisivo, fare un buon lavoro: che è appunto quello che avviene con il film di Christopher Spencer. Prodotto dalla tedesca NDR e dalla britannica BBC (oltre che da altri studi televisivi), Lusitania: Murder on the Atlantic è in genere etichettato come docudrama visto che le trame fittizie sono piuttosto blande e c’è invece un solido ricorso a scandire la narrazione seguendo quelli che vengono forniti come dati storici. E’ un vezzo, e un limite, tipicamente televisivo, quello di arrogarsi la pretesa di oggettività che, al contrario, al cinema, anche nel genere documentario, non avviene sostanzialmente mai.
Tuttavia gli eventi accertati e tutto considerato abbastanza noti che portarono all’affondamento del Lusitania sono fuori discussione e, semmai, c’è da parte del film di Spencer il tentativo di incrinare la comune convinzione che si trattò di un atto di deliberata pirateria da parte del sottomarino tedesco U20. In questo senso, Lusitania: Murder on the Atlantic potrebbe venir inteso anche come una specie di opera di contropropaganda: innanzitutto viene spesa qualche parola per chiarire quella che era la situazione del tempo, con la Germania che vedeva scarseggiare nei suoi negozi i primari generi alimentari a causa del blocco navale imposto dall’Inghilterra (siamo nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, forse giova ricordarlo).
Questo non giustificava certo l’affondamento di navi dedite al trasporto passeggeri civili da parte degli U-Boot tedeschi; ma va anche considerato che, forti di questo presupposto, gli inglesi usavano queste imbarcazioni per rifornimenti bellici di armi e munizioni. Insomma, l’idea di guerra cavalleresca era già tramontata da un pezzo anche se, successivamente, la propaganda anglosassone (britannica e americana) cavalcherà l’odioso attacco tedesco ad un transatlantico colmo di civili per alimentare il sentimento antigermanico e invogliare gli Stati Uniti ad unirsi al conflitto. Qui, il testo di Spencer si spinge forse troppo in là, ipotizzando che l’ammiragliato britannico e, più o meno consapevolmente addirittura Winston Churchill, avessero se non ordito il grave fatto in sé, quantomeno colto al volo alcune possibilità che lo svolgersi degli eventi offriva loro.
Questo nell’ottica di fare dell’affondamento del Lusitania lo strumento di propaganda decisivo per convincere gli americani ad unirsi alla battaglia e vincere la guerra. E’ forse una tesi complottista un po’ azzardata, in certi dettagli, questo va detto ma la cosa che deve far riflettere è che questa ricostruzione regge assai meglio di quella che ci venne tradizionalmente propinata. Pertanto, se alcuni passaggi sono evidenti interpretazioni narrative, ad esempio i dialoghi nell’ammiragliato britannico o anche quelli a bordo dell’U Boot, è altrettanto evidente che, per citare solo un punto, stivare munizioni su una nave passeggeri era un’azione che metteva deliberatamente a rischio la vita degli stessi. In ogni caso, essendoci in quel periodo una guerra, e non una guerra da poco, probabilmente per lungo tempo è stato difficoltoso accertare i particolari concreti degli avvenimenti; tuttavia, al di là delle vicende belliche specifiche vecchie ormai più di un secolo, il carico di mistero che ancora avvolge la vicenda non fa che aumentare il fascino della storia dell’affondamento del Lusitania. Pare infatti che sia strano che un solo siluro abbia affondato una nave del genere; in soli 18 minuti, poi, altro dettaglio che desta perplessità. E che dire della seconda esplosione? Cosa l’ha provocata? Questi interrogativi, uniti agli altri di natura più politica o di strategia militare, insinuano dubbi e perplessità alimentando la suspense della narrazione. Per questo motivo anche una produzione televisiva, comunque realizzata ben più che decorosamente, come Lusitania: Murder on the Atlantic alla fine centra pienamente il bersaglio. La traccia di finzione è in ogni caso ben gestita, con John Hannah (è il professor Ian Holboum), la piccola Madeleine Garrood (Alvis Dolphin), Kenneth Cranham (il capitano Turner) e Karen Haacke (Dorothy Taylor), tra gli altri, che fanno con professionalità la loro parte. Muovendosi sulla base di una storia, vera e tragica ma anche avvincente, con un mistero che ancora la avvolge e una serie di supposizioni che si possono condividere o meno ma comunque qualche pulce nell’orecchio riescono a metterla. Come spettatori, non c’è di che lamentarsi.
La storia attorno a questo film è anche più interessante, ai giorni nostri, del film stesso. Intendiamoci, le riprese di Léon Poirier hanno un valore eccezionale perché la ricostruzione delle fasi della battaglia di Verdun, combattuta tra francesi e tedeschi nel 1916, in seno alla Prima Guerra Mondiale, sono preziosissime. Oltre ad essere state girate in tempi brevi dallo scontro, videro la partecipazione di molti veterani che poterono fornire così informazioni utili al regista sullo svolgersi dei fatti e sull’aspetto scenico del campo di battaglia. E, in effetti, le immagini erano (e sono) talmente verosimili che un opuscolo promozionale del film fu scambiato negli anni per un documento storico e le foto di scena di Verdun vision d’histoire si dice che finirono addirittura sui libri sulla Grande Guerra in qualità di autentici scatti del fronte. Questo fu dovuto anche dal fatto che, essendo il film una rappresentazione piuttosto sobria e ben poco romanzata nel senso tipico del termine, l’impressione che si aveva (e si ha) vedendo la pellicola di Léon Poirier era quella di guardare un documentario. Certo la scelta di figure simboliche o anche la stessa suddivisione del lungometraggio in tre atti, dai titoli quanto mai evocativi (Forza, Inferno e Destino), si risolve in una rappresentazione di grande impatto emotivo. Al tempo stesso ci sono però alcuni passaggi di vita quotidiana, ad esempio quello che vede protagoniste le due donne (Suzanne Bianchetti e Jeanne-Marie Laurent) che sembrano appunto immagini strappate alla realtà quotidiana della gente comune in un momento tanto grave. Nonostante si tratti di una battaglia che infuriò a conflitto già ben avviato, quella di Verdun può facilmente essere interpretata comunque come un’aggressione tedesca a terra francese.
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