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sabato 21 dicembre 2024
THE OTHER SIDE (2024)
giovedì 19 dicembre 2024
CAPTUM
1594_CAPTUM . Ucraina 2015: Regia di Anatoliy Mateshko
Una caratteristica
che rende comunque interessante un film, un testo, un documento, al di là della
qualità o dell’utilità dello stesso, è il fatto che quest’opera scontenti tutte
le parti chiamate in causa. Questa è un’iperbole, sia chiaro, tuttavia è
innegabile che Captum di Anatoly Mateshko, anche solo per come è stato accolto,
un po’ di curiosità la suscita. Il film, nonostante sia apparentemente
astratto, sotto il profilo dell’ambientazione sembra raccontare una tipica
storia che può succedere –e, purtroppo, le notizie dicono succeda con troppa
frequenza– nell’ATO, la zona di antiterrorismo nell’est dell’Ucraina, dove, dal
2014, sono insorti i separatisti. La guerra, infatti, infuria nel Donbas tra i
nazionalisti ucraini e i filorussi appoggiati da Mosca, e, a farne le spese,
sono sempre i civili. Captum, come accennato, non fa riferimenti
specifici, mostrando due uomini in uniforme che tengono reclusi una dozzina di individui
in condizioni disumane, divertendosi a torturarli e ad eliminarli. I
prigionieri vengono infatti rilasciati in un campo minato e i due carcerieri
scommettono su chi riesca a sopravvivere più a lungo, prima di saltare
inevitabilmente per aria calpestando un ordigno. La lingua parlata nel film è
il russo, nonostante Captum sia una produzione ucraina; questo non
sarebbe nemmeno troppo strano, il russo, da quelle parti, è una lingua
diffusissima. Nel 2015, tuttavia, la cosa assume probabilmente un significato
preciso: ovvero che, al netto della vaghezza voluta dagli autori, siamo nel
Donbas con due separatisti che tengono segregati un militare nemico ferito
gravemente (Fedir Hurinec) e alcuni civili, situazione raccontata troppo spesso
dalle cronache. Eccole, quindi, le due fazioni che vengono scontentate in Captum:
gli ucraini e i filorussi, se non proprio direttamente i russi, posto che ci
sia una differenza. Secondo il sito Ukinform, il film è stato rifiutato al Film
Festival di Mosca e al Kinotavr, la rassegna cinefila che si tiene a Sochi,
sempre in Russia. [dal sito Ukinform, pagina web https://www.ukrinform.ua/rubric-culture/1960101-u-kogo-zbroa-toj-i-pravij-novij-film-anatolia-mateska.html,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. D’altra parte, l’accoglienza in
Ucraina non è stata troppo migliore, con recensioni per lo più negative e,
almeno stando alle informazioni circolanti, scarso riscontro al botteghino. [Questo
secondo la pagina ucraina di Wikipedia del film https://uk.wikipedia.org/wiki/Captum#cite_note-11,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024 che riporta il link per il
Box-Office del paese esteuropeo della settimana di uscita di Captum,
pagina web https://web.archive.org/web/20160314000908/http://kino-teatr.ua/uk/main/box_article/article_id/256.phtml,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. È, quindi, un film così brutto Captum?
Non particolarmente; è invece una sorta di horror che si lascia guardare
senza problemi, seppure ci siano scene violente. Chissà, sul momento, può dare
l’impressione di non riuscire a mantenere le premesse che lascia intravvedere. Però
talune critiche sono davvero eccessive, come quelle di Olena Rubashevska per KinoUkraina:
“Indubbiamente, si ritiene che Mateshko abbia una scuola «Karpenko» [I.
K. Karpenko-Karyi Università Nazionale di Teatro, Cinema e Televisione di Kiyv]
nel senso peggiore. Non c’è un accenno di cinematografia: né nella costruzione
della messa in scena, né nella sceneggiatura, né nella recitazione, tranne
forse nell’ingiustificabile bianco e nero, che in qualche modo salva almeno il film”.
[dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Come visto, Captum è
un’opera che ha scontentato tanto gli uno e quanto gli altri, e questo è uno
dei suoi potenziali titoli di merito, per quanto da approfondire.
L’impostazione teatrale è evidente, tutto quanto il film è ambientato nello
scalcinato edificio, una sorta di cascina rurale, in parte adibito a prigione e
in parte a postazione per i due militari, situato in mezzo ad una desolata e
deserta pianura innevata. Oltre all’unità di luogo, quella di tempo, il
racconto si svolge in poche ore, aiuta a dare solidità ed efficacia al
racconto. Il bianco e nero contrastato della fotografia accentua l’irrealtà
della situazione; a questo punto, l’interpretazione degli attori non sembra
affatto fuori luogo o troppo enfatizzata, tutt’altro. La Rubashevska, per
altro, non è d’accordo “La scenografia, costruita in modo completamente
teatrale, accoglie organicamente tra le braccia attori di teatro, per
esempio, Ostap Stupka. Ma ciò che sembra organico in teatro a volte dà un
effetto completamente opposto sul grande schermo: plasticità innaturali, gesti
e suoni sono «migrati» dal palcoscenico allo schermo, creando una sorta di «effetto
film muto»: gli attori recitavano allo stesso modo all’inizio del ‘900, avendo
nel loro arsenale interpretativo principalmente solo la propria plasticità.
[Ibidem]. Punti di vista, certamente, ma quello che è certo che lo scopo di
Mateshko è di tenersi lontano da una rappresentazione realistica e, almeno su
quello, si può essere d’accordo che vi sia riuscito. Tuttavia la didascalia
biblica nel finale, il passaggio preso dal Vangelo secondo Matteo [Matteo 7,2: «perché
con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con
la quale misurate, sarà misurato a voi»] nel quale si invita a non giudicare, lascia
intendere che è previsto, dallo stesso autore, che il suo film venga
interpretato come metafora. L’utilizzo del Vangelo come citazione rafforza
l’impressione che il regista avesse mire assai significative e non costruire una
sorta di falso snuff movie in cui mostrare un po’ di crudeltà gratuita. Lo
stesso Matehsko dichiara in un’intervista che i personaggi protagonisti sono
dodici come gli apostoli [dal sito Ukrayina Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] e, sempre a proposito di rimandi biblici,
c’è anche la scena della «lavanda dei piedi», sebbene questi riferimenti sembrano
rimanere un po’ sterili, senza offrire chiave di lettura specifica. Quello che pare
mancare, a Captum, è anche uno sviluppo di un personaggio principale,
qualcosa su cui riflettere in ottica costruttiva; a meno che lo scopo del film
sia quello di affogare tutto in un pessimismo senza alcuna speranza. Ma è
davvero così? Tra i personaggi che si alternano, con una buona scansione
narrativa, si potrebbe pensare che i protagonisti siano i due rivali, il
superiore tra i due militari (Vladimir Goryanskiy) e il prigioniero silenzioso.
Il carceriere più giovane è, infatti, solo lo stereotipo del soldato violento e
ignorante, senza spessore, né come individuo né come personaggio; la donna alla
ricerca del figlio (Larysa Rusnak) è la classica madre disperata, ma non si
limita all’amore materno, dal momento che quando vede il soldato prigioniero sfigurato
e ferito gravemente che sembra essere in punto di morte, si prodiga lodevolmente
per salvarlo col massaggio cardiaco. Forse, questo passaggio è meno banale e
superfluo di quello che può apparire. Intanto, è clamoroso, oltre ad essere un
altro punto a favore del film, che, ad aiutarla, sia il losco trafficante (Dmitry
Surzhikov) amico degli aguzzini ma da loro scaricato, che era sembrato, almeno fin
lì, un tipo scontato e ovvio, nella sua banale e opportunistica ricerca di un
tornaconto personale senza curarsi di alcuna morale. Tra l’altro, gli autori
sembrano quasi metterlo alla prova, costretto com’è a fare la respirazione «bocca
a bocca» ad un moribondo, e lui, pur con tutta la reticenza del mondo, si dà da
fare finché il ferito non si riprende. Quasi ironicamente, il più stupito della
cosa sembra proprio lui stesso. Il copione, in questi passaggi, non è quindi
affatto male: ad esempio, quello che potrebbe essere un reporter (Ostap Stupka)
–il condizionale è d’obbligo perché nel film tutto e vago e non viene rivelato
il nome di nessuno dei personaggi– si lascia andare a due comportamenti simili
ma diversi ed entrambi discutibili. Ad un certo punto cerca di ammazzare a mani
nude il soldato moribondo, per alleviargli la sofferenza, senza riuscirci; in
compenso, si accanisce contro un gatto e lo uccide picchiandolo più volte
contro il muro, semplicemente per sfogare la rabbia. Da quel che si intuisce,
l’uomo è una persona famosa e istruita e non un individuo senza cultura e
istruzione. Ma, come detto, i rivali che si giocano la partita sono il capo
degli aguzzini, un ex insegnante –altro affondo alla élite culturale della
trama– e il prigioniero che non parla, che è anch’egli un soldato, per quanto,
ovviamente, dell’altra parte della barricata. Quest’ultimo sa qualcosa ma è
chiuso nel più totale silenzio; l’arrivo della donna, in cerca del figlio,
presumibilmente catturato dai militari, scuote l’ambiente, in particolar modo
ad essere turbato è il capo degli aguzzini. Perché anche lui vuole
informazioni, e le vuole dal soldato nemico silenzioso: promette allora alla
donna, che è ancora avvenente, di rivelarle del figlio cercato se riuscirà a
convincere il soldato silenzioso a parlare. Se l’aguzzino più giovane ha visto
nell’arrivo di una bella ed elegante signora la possibilità di stuprarla, il
suo più anziano commilitone è scosso più profondamente e sembra quasi
ravvedersi. Si rade, si cambia vestito, offre dell’acqua calda alla donna, per
la citata scena della lavanda dei piedi: perché? Forse perché vede nella donna
una speranza di convincere il «silenzioso» finalmente a parlare. Forse perché
spera che il fatto che anche la donna, come lui stesso, sia alla ricerca di un
figlio rapito dai soldati nemici, sia un segno del destino. Forse il soldato «silenzioso»
si impietosirà e racconterà finalmente che ne è di suo figlio. Il finale,
naturalmente, precipita, gli aguzzini si scontrano, e quello vecchio elimina
quello giovane e uccide anche il trafficante; ma, nel rivolgersi al «silenzioso»,
quasi l’implora di parlare, di dirgli finalmente dove si trova suo figlio. Il «silenzioso»
coglie una debolezza nel nemico e lo aggredisce e, mentre lo sta strozzando,
forse proprio perché lo sta vedendo morire, finalmente gli parla: di suo figlio
non ha lasciato niente, non avrebbe avuto neanche una tomba su cui piangere. L’aguzzino
ha un’ultima reazione ma dopo una breve colluttazione, si trova dalla parte
sbagliata del mitra. La madre interviene e fredda il «silenzioso»: l’uomo
taciturno aveva finalmente parlato, ora l’aguzzino doveva rivelarle dov’era suo
figlio, era questo l’accordo. Ma il militare è ormai completamente svuotato
dalle parole che ha sentito dal nemico silenzioso. Una donna e un uomo, nemici
nella guerra in corso, condividono la tragedia di perdere il proprio figlio. La
donna rimane in ginocchio, per terra, poi sente il soldato moribondo
lamentarsi, lo prende tra le braccia; lui mentre delira, la scambia per sua
madre, senza sbagliarsi di molto. In fondo la donna lo rianimato poco prima,
dandogli di nuovo la vita. Intanto l’aguzzino è uscito e si incammina nel campo
minato, mentre una triste cantilena in ucraino [il film è recitato in russo,
mentre la cantilena finale è in lingua ucraina, almeno stando a quanto riferito
dal sito Ukraiyna Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] lo accompagna al suo triste
destino. Insomma, in definitiva Captum non sembra affatto così male,
almeno non da meritarsi addirittura il quarto posto tra i film peggiori del
2015 nel panorama internazionale, secondo il sito ucraino Kinobuk [pagina web
https://kinobuk.com/survey/pidsymki-buk-2015/, visitata l’ultima volta il 17
dicembre 2024]. La già citata Olena Rubashevska, critica cinematografica di
KinoUkraina, chiude la sua recensione negativa cercando di mettere spalle al
muro il film di Matehsko, accusato di essere troppo influenzato dalla fiction
televisiva russa: “E di cosa parla, in effetti, il film? Di come l’esercito
ucraino non sia in grado di sconfiggere chissà quali creature che spuntano dal
nulla, che non hanno letto nulla di più intelligente dell’etichetta sui
deodoranti per ambienti e vivono come animali, bevendo vodka tutto il giorno? Di
come i nostri soldati in prigionia dimentichino l’onore e la coscienza e muoiano,
scordandosi tutto ciò che amavano e per cui hanno combattuto? Del fatto che, a
parte una madre single, nessuno faccia nulla per liberare i nostri ragazzi
dalla prigionia?” [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Parole che sembrano troppo dure,
forse dettate dal momento non certo facile che si vive nel Paese. Perché, Captum,
ad uno spettatore distaccato, sembra piuttosto raccontare la vicenda di due
personaggi in cerca di un figlio perduto. Chi, nel farlo, si accanisce contro
il nemico, con l’uso della violenza come unico linguaggio, è destinato a perdere
la propria anima, coma l’anziano aguzzino che vaga nel campo in cerca di una
mina. Chi, pur non potendo fare a meno di ricorrere alla stessa violenza –il
colpo sparato al «silenzioso», che, per altro, era in procinto di uccidere un
uomo– non dimentica la propria umanità, come la donna che si affanna per
salvare il soldato prigioniero già mezzo morto, può avere invece ancora una
speranza. Fosse anche solo l’illusione di una speranza, come quella legata
all’attimo in cui un giovane sconosciuto ti chiama “mamma” prima di morire, farebbe
comunque tutta la differenza del mondo. Non c’è ragione di avere dubbi: a conti
fatti, non è affatto male questo Captum.
martedì 17 dicembre 2024
MACISTE ALPINO
1593_MACISTA ALPINO. Italia 1916: Regia di Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi
Dopo che nel colossal Cabiria (1914, Giovanni
Pastrone) si era sorprendentemente imposto come personaggio, Maciste,
interpretato da Bartolomeo Pagano, divenne una vera e propria icona di un
cinema italiano ancora agli arbori. L’anno successivo Maciste, il primo
film a lui dedicato, aprì una lunga serie di lungometraggi che vedranno al
centro della scena il forzuto a cui prestava muscoli e simpatica faccia da
schiaffi il Pagano, un ex scaricatore di porto di Genova. L’arrivo della Prima
Guerra Mondiale anche in Italia fu colto al volo dai produttori che
spedirono sul fronte alpino il nostro Maciste che, non c’era da dubitarne,
saprà farsi onore. Le avventure del forzuto ideato dal regista Pastrone e da
Gabriele D’Annunzio, erano avvincenti, divertenti, spesso spassose e, in
genere, molto ben confezionate. Pagano aveva un certo carisma, una giusta
combinazione tra prestanza atletica per reggere le mirabolanti imprese del suo
personaggio e la capacità di trovare la complicità dello spettatore in modo
naturale. Le vicende narrate sono estreme, sia sul versante leggero che su
quello avventuroso: erano le caratteristiche di molto cinema muto, in
particolare nella sua importante deriva comica, che aveva un meccanismo
simile a quello poi ripreso dai cartoni animati di Tex Avery o della Warner
Bros. Considerato il tono tutto sommato leggero di Maciste alpino, non deve
quindi stupire vedere il forzuto lanciare da una finestra del secondo piano il
nemico austriaco. E la macchina da presa non si scomoda nemmeno a farci vedere
eventuali trami conseguenti ad una simile caduta, lo spettatore è consapevole
che si tratta di finzione e semmai nei momenti drammatici viene enfatizzato
proprio l’aspetto comico del racconto. Memorabile il duello tra Maciste e
l’ufficiale austriaco con il nostro che, non avendo la spada, si improvvisa con
due enormi pinze da camino con cui finirà per pizzicare per l’avversario per
una gamba sollevandolo manco fosse un crostaceo. La presa in giro nei confronti
del nemico è continua e ripetuta ed è tipica di un certo cinema di propaganda
ma, sia il clima leggero della pellicola che il periodo di uscita del film (a
guerra in corso) giustificano o rendono ampiamente tollerabile questo aspetto
del film. Strepitoso il duello con l’austriaco Pluffer (Fido Schirru) in una
serie di gag condite da dialoghi ancora oggi divertenti (“crepa Macisto!”)
e sviluppi narrativi ben articolati. Tra l’altro, pur considerando il tipo di
pellicola in questione, il lavoro di Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi in
regia (con la supervisione di Pastrone) non è affatto da sottovalutare: le
riprese panoramiche, ovviamente realizzate grazie ai celebri carrelli
(di cui Pastrone era l’inventore), la messa in scena armonica; insomma Maciste
alpino può contare su una solida base tecnica. Oltre a ciò, le location montane
sono affascinanti e la qualità della fotografia rende giustizia a cotanto
scenario. In molte riprese le gesta del forzuto lasciano il campo a quelle del
corpo degli Alpini ma l’ironia del racconto è sempre in agguato: vediamo
infatti un cannone trasportato a spalla dal nostro simpatico protagonista,
oppure audaci quanto improbabili scene di arrampicata su corde sospese con
arsenale al seguito. Oggi, scoprendo la storia del personaggio protagonista di
questo lungometraggio ci si potrebbe interrogare su come il Maciste di Cabiria,
che era ambientato nel III secolo a. C., potesse scorrazare ancora giovane e
vigoroso durante la Grande Guerra, ben più di 2000 anni dopo.
Naturalmente, dato il contesto, si sarebbero potuto trovare decine di
escamotage narrativi accettabili: quello attuale potrebbe essere un discendete,
un erede, la reincarnazione e via fantasticando. In fondo il tenore di Maciste
alpino è quello di una storia a fumetti e si sa che i pretesti di questo
tipo di avventure sono spesso assai ingenuamente variopinti. Gli autori de Maciste
alpino trovano invece una soluzione molto più raffinata, colta e
funzionale: quella metalinguistica. Sulla scena troviamo la troupe della
Itala-Film, lo studio che, tra gli altri, diede alla luce appunto Cabiria
e i film di Maciste: la guerra scoppia proprio durante una di queste
produzioni, girata nei pressi del confine austriaco. Le truppe di Francesco
Giuseppe fanno irruzione nel racconto e i nostri vengono catturati: tra loro
c’è naturalmente anche Bartolomeo Pagano che si presenta però col nome di Maciste,
in un sopraffino passaggio metalinguistico. Si sovrappone, cioè, la figura del
personaggio a quella dell’attore, garantendo così a Maciste la giustificazione
narrativa di interagire con il conflitto bellico in corso. Cose di oltre un
secolo fa: quando l’Italia e il cinema italiano erano davvero all’avanguardia
mondiale.
domenica 15 dicembre 2024
JOSEF
1592_JOSEF . Croazia 2011: Regia di Stanislav Tomic
Opera molto interessante, Josef di Stanislav
Tomić è un film che si pone su differenti piani di interazione con lo
spettatore. Può essere inteso come semplice racconto sulla Prima Guerra
Mondiale e soddisfare pienamente da un punto di vista squisitamente
narrativo come film bellico: una storia trascinante con una ricostruzione
ambientale fortemente evocativa. Sono infatti numerose le scene spettacolari e
dal forte impatto visivo e, tra le tante, va segnalata almeno la carica a
cavallo degli irregolari Circassi spada alla mano ai danni del reparto
austroungarico. La musica che accompagna questo passaggio è di grande efficacia
e, in effetti, tutta quanta la colonna sonora di Marko Petrović Thompson
funziona egregiamente. Ma è anche la regia di Tomić a svolgere in maniera
adeguata il suo dovere: dall’uso sapiente del rallenty alla scelta di
inquadrature di forte impatto visivo o simmetriche, tutto gira in modo
congeniale al tipo di racconto. Su un altro livello narrativo, il passaggio di
consegne della divisa, e della mostrina che ne indentifica il presunto
proprietario, ben rappresenta in modo simbolico la spersonalizzazione che un
conflitto bellico di proporzioni della Grande Guerra provocava. Un paio
di paragoni tra i soldati nelle trincee e i ratti nelle gallerie e con uno dei
protagonisti, l’ufficiale croato Tiffenbach (Alen Liveric), imprigionato in un
fetido buco messo nella stessa condizione del topo che gli portano chiuso in
una botte, forse come cibo, sono ulteriori elementi in questo senso. E quindi fin
qui potremmo godere di Josef come ottimo film bellico sulla Prima
Guerra Mondiale, oltretutto su un fronte, quello orientale in Galizia nel
1915, non frequentato quasi mai dal cinema. Ma c’è un altro elemento che è il
vero centro del discorso: la mostrina che passa di mano mano durante tutto il
film e che determina via via una serie di cambi di identità tra i vari
personaggi, che scelgono di prendere il rango di ufficiale per provare a
scampare la sbrigativa fine destinata ai soldati semplici, o anche a saltare
opportunamente barricata. Di questa piastrina non vedremo mai in azione l’uomo
a cui appartiene, visto che questi non è nemmeno il protagonista della prima
metà del film, il soldato Vodnik Josef (Neven Aljinovic-Tot), che la sfila
insieme all’uniforme ad un caduto in una trincea nell’incipit dell’opera. Questo
cadavere, a cui la mostrina appartiene, è quello di un ufficiale chiamato Josip
Broz e se il nome non vi dice ancora niente vi basti sapere che in seguito chi
lo porterà diverrà celebre in tutto il mondo col nome di Tito, il dittatore
grande artefice della Storia della Jugoslavia. Uno degli aspetti più
sorprendenti della personalità dell’autoritario politico era che, pur essendo
croato-sloveno di nascita, finì per favorire un certo centralismo serbo nella
nascente Jugoslavia. In questo senso il film va a mettere in dubbio questa
abituale considerazione: certo, il vero Josip Broz del film, quello morto nella
trincea di cui intravvediamo il cadavere all’inizio, è un ufficiale di un
reparto croato dell’esercito austroungarico e quindi la sua provenienza
d’origine non viene messa in discussione. Ma, sempre stando alla ricostruzione
storica che si potrebbe desumere dal film, Tito non fu il Jozip Broz
dell’anagrafe ma nemmeno il soldato Vodnik Josef e neppure l’ufficiale
Tiffenbach (che successivamente si appropria di divisa e mostrina in questione),
che erano croati o comunque di una delle etnie slave al tempo sotto l’Impero
Austroungarico. Infatti prima della fine del film uniforme e mostrina militare
passano ancora di mano, e stavolta finiscono addirittura addosso al capitano
Serjoza (Drazen Sivak), l’ufficiale dell’impero russo alla guida degli
irregolari Circassi che riesce così a salvarsi finendo intruppato nell’esercito
nemico, quello austroungarico. La controffensiva dell’esercito di Francesco
Giuseppe aveva infatti travolto le trincee russe, anche grazie all’uso dei
biplani tedeschi mostrati in alcune pirotecniche riprese, e il capitano russo
aveva cambiato casacca per poter scampare ai rastrellamenti finali. Difficile
stabilire, per lo spettatore occidentale, se ci sia da parte degli autori
l’intenzione di disconoscere Tito e la sua opera politica addossandole
un’origine estranea a quella degli slavi del sud (da cui il termine Jugoslavia).
Se interpretato in questa chiave, il testo di Tomić potrebbe certo rafforzare
l’impressione straniante che ha sempre fatto l’opera dello statista Tito, croato-sloveno
e nazionalista ma anche proteso ad innalzare la matrice filoserba della
Jugoslavia. Ma, in ogni caso, che Tito sia stato croato-sloveno o un ex
capitano russo in incognito poco conta: Josef è comunque un film
interessante, proprio per una certa assenza di certezze con i continui cambi di
casacca che negano, concettualmente, i principi nazionalisti che curiosamente
profileranno poi proprio in quell’area. E comunque, non deve certo essere un
film d’azione, finanche bellico di matrice storica, a dover farci cambiare
l’opinione su uno dei più importanti, nel bene e nel male, personaggi politici
del XX secolo. Per quello ci sono i testi storici attinenti la cui lettura può
essere appunto stimolata da un film a suo modo prezioso come Josef.
venerdì 13 dicembre 2024
IN FONDO IN MARI
1591_IN FONDO AI MARI (Seas Beneath). Stati Uniti 1931: Regia di John Ford
Intervistato da Peter Bogdanovic a proposito de In fondo ai mari (nel fondamentale libro Il Cinema secondo John Ford, Pratiche editore) il regista John Ford si rammaricava dell’imposizione da parte dello studio di produzione di Marion Lessing, che si meritò il ruolo di protagonista in virtù del fatto di parlare tedesco. La ragazza, a dire di Ford, non conosceva affatto il tedesco e, oltretutto, non era capace di recitare ma, cosa anche più importante, aveva rovinato una scena in cui un sottomarino stava facendo rifornimento affiancandosi ad una nave, perché masticava inopportunamente una chewing gum. A vederlo oggi, In fondo ai mari, non è che la Lessing ci faccia poi questa pessima figura, per la verità: un’attrice anonima in un film non certo memorabile. Ma le parole di Ford ci sono comunque utili per inquadrare qual era un po’ il senso di un certo cinema nei primi anni Trenta del ventesimo secolo. Perché a dar maggiormente fastidio al regista fu appunto più che altro che la scena del rifornimento al sommergibile era stata rovinata: il punto è che il cinema di allora spesso era realizzato dal vero, nelle stesse ambientazioni che la storia raccontata prevedeva. Hollywood non aveva ancora, probabilmente, quegli studi di posa faraonici che permetteranno di girare a Los Angeles scene ambientate in mezzo mondo. Se la vicenda de In fondo ai mari si svolge sul mare, Ford girò le splendide sequenze, tra cui spicca per verosimiglianza quella citata del rifornimento all’U-172, sul mare. La capacità di inquadrare la scena nel migliore dei modi diventava cruciale, quando non era possibile la pianificazione che si poteva disporre nei teatri di posa, e Ford, pur non essendo ancora al suo apice artistico, era già un regista provetto. La storia, da un punto di vista narrativo, mischia un po’ i generi, inserendo una trama di spionaggio a quella bellico marinaresca. Era un abbinamento abbastanza prevedibile, essendo sia gli U-Boot tedeschi, con in loro incedere di nascosto, sia le Q-Ship, le navi-esca dell’Intesa, elementi che ben si amalgamavano con il clima spionistico. A queste due tracce si sovrappone quella sentimentale, non particolarmente avvincente, per la verità e non solo per colpa delle qualità artistiche della Lessing, visto che anche George O’Brien (è il capitano Bob Kingsley) non è che impressioni più di tanto. Un po’ di pepe ce lo mette, piuttosto, Mona Maris (è Fraulein Lolita) mentre Warren Hymer (Lug Kaufman) si aggiunge alla lista di caratteristi rustici e grossolani che piacevano tanto a Ford. Insomma, non un film memorabile, In fondo ai mari, ma qualcosa di buono c’è soprattutto nelle scene documentaristiche del grande regista americano.
Galleria
mercoledì 11 dicembre 2024
DOPO QUELLA NOTTE
1590_DOPO QUELLA NOTTE (After Tonight). Stati Uniti 1933: Regia di George Archainbaud
Ai tempi, Dopo quella notte, film del 1933 di George Archainbaud fu un fiasco, e la RKO addossò la colpa di questo alla protagonista femminile, Costance Bennett. La cosa sembra paradossale perché se c’è un motivo a rendere ancora oggi Dopo quella notte un film intrigante e tutto sommato interessante è proprio la presenza di Costance. La maggiore delle sorelle Bennett sfodera, infatti, un’interpretazione che gronda glamour e fascino da ogni singola inquadratura che la vede sullo schermo. Constance non era solo una donna bellissima ma aveva un’innata eleganza che il film mette saggiamente a referto con un guardaroba che esalta la splendida siluette della diva. Il ruolo dell’attrice americana è quello di Carla Vanirska, alias K 14, una spia russa in azione durante la Prima Guerra Mondiale, in Austria. Il copione, per la verità, non brilla per originalità e comincia con l’incontro galeotto tra la nostra dama e il Capitano austriaco Rudolf Ritter (Gilbert Roland); la scintilla, almeno per quel che riguarda l’ufficiale, scatta subito ma Carla, che è appunto una spia nemica, si dilegua alla prima occasione. Ovviamente i due si ritroveranno e, altrettanto ovviamente, Ritter come incarico ha proprio quello di identificare gli agenti segreti nemici. Il rapporto sentimentale tra rappresentanti di schieramenti opposti durante la guerra, soprattutto quando uno (o tutti e due) di essi è una spia è uno dei classici del cinema ed è chiaro che per inscenare storie dove si mettesse in dubbio la fedeltà al proprio paese, parliamo di tempi in cui la cosa aveva un indiscutibile valore, occorrevano interpreti che avessero uno charme irresistibile. In questo caso Gilbert Roland se la cava con il fascino della divisa oltre alla invidiabile posizione di essere colui che caccia le spie nemiche, non rischiando sostanzialmente nulla. Insomma, nel film il nostro ha una posizione comoda e decisamente vantaggiosa (sin dall’inizio, quando si prodiga nell’aiutare Carla a lasciare in treno il Lussemburgo) e, agli occhi dello spettatore moderno, è soprattutto questo che può mettere sul piatto della bilancia per convincere l’amata nemica a tradire il suo paese.
La scena in questione precede il confronto cruciale, con Carla che probabilmente intuisce che il suo bel capitano le ha teso una trappola, ma ugualmente non cede ai tentativi dell’uomo di persuaderla a non recarsi all’appuntamento che la inchioderebbe. Ritter cerca in tutti i modi di fermarla, sperando di sbagliarsi nei suoi sospetti o magari anche di indurla a mancare il proprio dovere di spia, ma i suoi sforzi sono vani. Va detto che se la figura di Roland oggi non sembri impressionare più di tanto, all’epoca doveva avere il suo perché se la stessa Costance Bennett anni dopo arriverà a sposarlo. Gossip a parte, e al netto delle appartenenze e alle preferenze di genere, in ogni caso l’attore di origine messicana non regge certo il confronto con Costance che in Dopo quella notte sciorina una prestazione che le merita un posto di diritto tra le spie più affascinanti del cinema, accanto a mostri sacri come a Marlene Dietrich o la Garbo. Chiaro, la qualità complessiva di Dopo quella notte non l’aiuta, visto che il film altro non è se non un susseguirsi di scene classiche di spionaggio intervallate con i siparietti romantici tra i due protagonisti. Ma la sfilata della Bennett, che oltre ai classici e lussuosi vestiti da sera dell’epoca esibisce anche un attillato completino nero da infermiera davvero intrigante, è di assoluto livello. George Archainbaud era un regista professionale e sbriga il suo compito con diligenza, preparando anche un bel finale, con un risvolto tragico inaspettato. Peccato che sia una falsa pista, visto che un epilogo posticcio consegna ai nostri protagonisti un innocuo lieto fine buono solo per prendersi qualche critica, perlopiù dagli spettatori odierni. Al di là dello charme di Costance Bennet, la cosa migliore del film, vale la pena ricordare un divertente scambio di battute tra Ritter e Carla, durante il loro primo incontro. Il Capitano Ritter ci prova: “Non sapevo che ci fosse una viennese con capelli così adorabili”. La replica di Carla: “Non ho detto di essere viennese, ho detto che sarei andata a Vienna. Solo perché un gatto entra in un forno non è detto che sia un biscotto.”
La classe non è acqua.
Constance Bennett
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lunedì 9 dicembre 2024
SPIONAGGIO EROICO
1589_SPIONAGGIO EROICO (Im Geheimdienst). Germania 1931: Regia di Gustav Ucicky
Non c’è dubbio che Brigitte Helm, fin dal suo
folgorante esordio cinematografico nel ruolo di Maria nel Metropolis del
grande Fritz Lang, fu un’attrice che si impose soprattutto grazie ad una bellezza
a dir poco magnetica. Appena diciottenne si mise al lavoro sul capolavoro
langhiano, dopo aver firmato un contratto decennale con la UFA – il famoso
studio cinematografico tedesco – per il quale, tra il 1925 e il 1935, anno in
cui si ritirò prematuramente dalle scene, interpretò oltre trenta film. Dopo Metropolis,
e i successivi due film nei quali era comunque uno dei nomi principali del cast,
la Helm dominò con la sua presenza scenica qualunque pellicola che la vide
all’opera. Il suo nome era sempre il primo della lista nei film a cui prese
parte e i relativi manifesti sembrano una mostra dedicata alla sua avvenenza:
le due versioni di Airaune (del 1928 e del 1930), La nave dei sette
peccati (1928), Che scandalo quella donnina! (1929) sono tra i casi
più evidenti in questo senso. In Spionaggio eroico, ambientato durante
la Prima Guerra Mondiale, la Helm interpreta Vera Lanskaja, moglie del generale
russo Lanskoi (Oskar Homoika), ufficiale dell’esercito zarista che sta
preparando l’offensiva nella primavera del 1917. Siamo nel corso dell’anno
precedente, e i russi, che hanno rifiutato l’offerta di pace di Berlino, si
preparano a contrattaccare: il film è una produzione tedesca e coglie
l’occasione per mostrare come la Germania non fosse un paese così belligerante
come abitualmente veniva dipinto nei film anglo americani. Tra i personaggi
coinvolti nell’intrigo spionistico, Thoma Hagen (Willy Fritsch) è l’agente che
i tedeschi inviano – sotto la falsa identità del violinista americano Higgins –
in quel di San Pietroburgo per scoprire i piani nemici. All’Ochrana – il
servizio segreto zarista – non sfugge nessun cittadino straniero entri nel
paese e incaricano Dubbin (Theodor Loos) di tener d’occhio questo violinista
statunitense. Il tema musicale è fondamentale perché proprio attraverso una
particolare triade, la tipica combinazione di accordi, l’agente segreto scopre
che, in realtà, Dubbin è il suo contatto sul posto. I concerti di Higgins/Hagen
consentono di ambientare la vicenda nell’aristocrazia zarista e permettono alla
spia tedesca di conoscere alcuni tra gli alti ufficiali dell’esercito russo. In
queste circostanze Hagen conosce Vera, la moglie del generale Lanskoi, che è
tedesca di nascita: inevitabilmente il nostro eroe si innamora della bellissima
donna che, lusingata anche dall’idea di servire la propria patria, decide di
aiutarlo. La love story tra Vera e Hagen insospettisce Lanskoi e contribuisce a
far scoprire il gioco spionistico: l’Ochrana cerca ora Hagen che, dopo alcune
pregevoli scene di inseguimento nell’innevata San Pietroburgo, riesce a
defilarsi. Dubbin completa il lavoro di spionaggio, Vera prende il messaggio,
con i piani della controffensiva russa, e lo consegna a Hagen, riparato a
Stoccolma: lieto fine per i personaggi e per la Germania.
Almeno fino alla successiva primavera, insomma.
Brigitte Helm
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