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giovedì 17 luglio 2025

MATA HARI (1931)

1699_MATA HARI , Stati Uniti 1931. Regia di George Fitzmaurice 

Ispirato alla reale figura della spia olandese Margaretha Geertruida Zelle, Mata Hari è più che altro l’occasione di vedere una delle interpretazioni memorabili della divina Greta Garbo. La scena della danza è tutt’ora di grande impatto visivo e la Garbo, che sfoggia una serie di fantastici costumi, sfodera una classe che ne giustifica la fama arrivata fino ad oggi. La sua versione di Mata Hari è la quintessenza del fascino della femme fatale, un ruolo che calzava a pennello all’attrice svedese. In Mata Hari la sua interpretazione è da manuale: la seducente spia è una donna perduta che si fa gioco degli uomini da cui deve attingere informazioni, ma la sua anima non è del tutto dannata. Finché si tratta di ingannare il generale russo Shubin (Lionel Barrymore), che pare per altro consapevole delle manovre dell’amante, Mata Hari non si pone alcuno scrupolo. E se obbedisce ad Andriani (Lewis Stone), il losco capo dell’organizzazione spionistica, è solo perché le fa comodo lasciarsi andare ad una dissoluta vita di piacere condita da ben più di un pizzico di pericolo. Ma quando si trova per le mani il giovane tenente Rosanoff (Ramòn Navarro), che si innamora di lei in modo romanticamente ingenuo, dalle profondità in cui l’aveva rinchiuso emerge il suo buon cuore. In questo la Garbo è davvero divina, termine che le affibbiarono giustamente: sublime la sua capacità di gestire i due registri interpretativi, passando senza strappi da quello conturbante ma in realtà freddo e distaccato a quello appassionatamente genuino e trepidante. La dark lady ha infatti questa natura: sotto la scorza dura deve nascondere un cuore di panna, come attrici del calibro della Garbo o Marlene Dietrich sapevano perfettamente. Peccato che Greta non amasse questo tipo di ruoli, al punto da smettere precocemente la sua attività di attrice forse proprio perché non riuscì a ritagliarsi uno spazio diverso nel mondo del cinema. E, vedendola nella danzare negli aderenti costumi in Mata Hari, non può che far venire ben più di un rimpianto. 



Greta Garbo 








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martedì 15 luglio 2025

DISONORATA (1931)

1698_DISONORATA (Dishonored), Stati Uniti 1931. Regia di Josef von Sternberg

Da un punto di vista visivo Disonorata di Josef von Sternberg con la divina Marlene Dietrich è un film molto affascinante. La storia in sé, invece, non appare troppo convincente e questo è forse un limite che stavolta il grande regista di origine austriaca non è riuscito a mascherare a dovere. Abilità nella quale l’autore era in genere sublime maestro: del resto il tema delle maschere è onnipresente anche in Disonorata, dalla festa carnevalizia ai travestimenti a cui si sottopone la Dietrich. E poi, in qualità di racconto della Prima Guerra Mondiale ambientato tra gli alti ufficiali degli Imperi Austroungarico e Russo, con loro caratteristiche uniformi, Disonorata sembra quasi un film in costume. La protagonista poi, passa da due ruoli che prevedono in un certo senso l’utilizzo di maschere: è una prostituta, e quindi si veste secondo i codici del desiderio, che diviene una spia, nome in codice X-27, che del travestimento fa uno degli strumenti per ingannare il nemico. E, in definitiva, Disonorata è un inganno: a partire già dal titolo, sebbene pare che von Sternberg avesse previsto X-27 per intitolare l’opera. Tuttavia il Disonorata poi scelto è funzionale: Marie, il personaggio della Dietrich, è disonorata per aver tradito il proprio paese nel momento in cui agisce, per la prima volta, per vero amore, e quindi semmai con azione degna del più alto onore. E’ un film importante, Disonorata, sia per von Sternberg che per la Storia del cinema in generale; Marlene merita un discorso a parte, essendo una vera divinità cinematografica e quindi al di fuori, meglio al di sopra, queste classificazioni. Disonorata è importante perché ribalta completamente il ruolo della donna nell’economia di un racconto di avventure; per di più un racconto di guerra, e quindi un racconto maschile per antonomasia. Certo, si parla di spie e questa attività, con il tema del mascheramento e dell’inganno, rimette in gioco la figura femminile in modo già noto all’epoca: la donna è da sempre maestra nell’arte del desiderio e quindi dell’inganno e questo la rende perfetta per il ruolo di spia. Ma l’operazione di von Sternberg è sopraffina e niente affatto scontata. 
Ovviamente con Marlene sullo schermo per la maggior parte del tempo se ne sfrutta la capacità seduttiva: difficile trovare qualche altro esempio con il fascino che aveva la diva di origine tedesca. E nel film, non si eccede nemmeno troppo, in questa direzione, tanto che con l’attendente zarista la nostra X-27 gioca a fare l’ingenua contadina russa perdendo tempo senza concedere nulla, in termini piccanti, al povero ufficiale. Certamente più consono alla fama della Dietrich il modo in cui gioca il colonnello Hindau (Warner Oland), l’ufficiale austriaco traditore, nella prima parte del film. Ma il passaggio cruciale è quello decisivo ed è di tutt’altra natura: ovvero quando offre la possibilità di fuggire all’acerrimo nemico, il colonnello russo Kranau (Victor McLaglen). Kranau è una spia e si è già scontrato due volte con X-27, la seconda delle quali venendo sconfitto e graziato dall’uso di un semplice sonnifero da parte della donna. Ora Kranau è prigioniero, è stato riconosciuto come pericolosissima spia e quindi va incontro a morte certa. Marie non dimentica, però, che l’uomo le concesse una notte d’amore quando era lei a trovarsi in quella scomoda posizione; o forse erano state le parole dell’ufficiale, che aveva più volte detto di essersi innamorato di lei, a farle sciogliere l’ostentata freddezza sentimentale. 
Fatto sta che ora Marie amava quell’uomo condannato a morte e, lasciandolo fuggire, si sacrificava al suo posto. L’aspetto inconsueto non è nell’estremo sacrificio della donna per l’uomo amato; ma è che la donna, in questo caso, ha soppiantato l’uomo nel suo ruolo. In pratica è la damigella in pericolo a salvare il cavaliere. Marie è una spia tanto quanto Kranau, ma è stata più in gamba di lui; ora è lei ad avere la pistola dalla parte del manico (riferimento, se vogliamo, anche fallico). Ciononostante la Dietrich ha fatto questo senza perdere un grammo del suo fascino femminile ma semmai condensando su di sé i ruoli attivi, rilevanti e dominanti. Kranau è un bellimbusto, aitante e sorridente, ma non può andare oltre ad una certa verve fisica. Non a caso, probabilmente, è interpretato da Victor McLaglen, un attore bravo ma senza lo spessore, anche scenico, di un Gary Cooper o di un John Wayne. Il suo ripetere più volte la parola amore, il più profondo dei sentimenti, fa il paio con la superficialità con cui, appena vede uno spiraglio per fuggire, vi si butta a capofitto senza nemmeno accorgersi che Marie aveva volutamente, e in modo smaccatamente esplicito, perso la pistola di mano per favorirlo. Il finale, con la fucilazione della donna ritornata nei panni di prostituta, chiude il film in un cerchio perfetto. Con un suicidio di una donna di facili costumi si era aperto Disonorata, con un suicidio (di fatto) di una donna della stessa risma si chiude. Come a smentire che con il suo film von Sternberg abbia detto qualcosa di nuovo: se siamo degli ottusi come Kranau o gli ufficiali austriaci, non abbiamo di che preoccuparci. Diversamente, sapremo perché Marlene Dietrich è Marlene Dietrich.      





Marlene Dietrich 







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domenica 15 giugno 2025

LA SPIA DEI LANCIERI

1684_LA SPIA DEI LANCIERI (Lancer spy)Stati Uniti 1937. Regia di Gregory Ratoff

Basato su un soggetto non propriamente credibile, La spia dei lancieri di Gregory Ratoff è un curioso film che fa di una certa leggerezza la sua carta vincente seppur la trama dovrebbe, visto i presupposti, vertere su ben altro tenore. In effetti il protagonista, che è stato ficcato in una situazione di grandissimo pericolo e sua moglie addirittura si crede già vedova, sostanzialmente se la spassa con una sventola del calibro di Dolores del Rio, vera star della pellicola. Eppure, forse proprio in questa discrepanza, in questo volar basso dal punto di vista della tensione della messa in scena rispetto ai presupposti, c’è l’alchimia che permette al film di funzionare. Ma andiamo con ordine: la nota meno plausibile del racconto, e che ne mina la credibilità sin dalle fondamenta, è che gli inglesi catturino un ufficiale tedesco che è il sosia sputato di un loro tenente. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, il barone von Rohback (George Sanders), una volta catturato, viene studiato di nascosto dal tenente Bruce (ovviamente lo stesso Sanders) che ne prenderà il posto inscenando una fuga per intrufolarsi nel quartier generale tedesco in qualità di spia. Per evitare fuoriuscite di notizie bisogna però far sparire il tenente inglese e si pensa di diffondere la notizia della sua morte, addirittura pubblicandone una sorta di necrologio sui giornali. Se la cosa può sembrare anche plausibile, è in realtà un altro passo falso del soggetto (oltre che degli inglesi) perché fornisce ai tedeschi l’informazione che tra gli ufficiali nemici c’è un sosia di von Rohback. Il passaggio è poi sfruttato, effettivamente, dall’ufficio della polizia segreta tedesca, in cui troviamo anche Peter Lorre nei panni del maggiore Gruning, ma sembra comunque un errore dilettantesco che agenti del controspionaggio non dovrebbero commettere. Insomma, si capisce ben presto che non sarà la credibilità della storia il punto di forza di questo La spia dei lancieri. Se Sanders prova a sfruttare la sua duttilità per cavalcare una vicenda che ondeggia tra due differenti generi, un po’ commedia un po’ storia di spionaggio di guerra, presto entra in scena il vero motivo di interesse della pellicola, Dolores del Rio. La star messicana è anch’essa un po’ fuori fuoco, nell’interpretazione di una ballerina ungherese, e per la verità il soggetto non le mette a disposizione scene di particolare rilevanza; comunque una manciata di costumi memorabili vengono messi a referto. E poco più, purtroppo; la traccia romantica che prevedibilmente si sviluppa, infatti, non ha concreti sbocchi essendo il tenente Bruce felicemente sposato con Joan (Virginia Field) da cui ha una figlioletta, e anche questa sembra una scelta poco avveduta dagli autori del soggetto. Tuttavia pur in un canovaccio tanto mal imbastito, il film funziona e ha anche qualche spunto degno di particolare interesse. Siamo nel 1937, il clima è già piuttosto plumbeo e probabilmente i venti di guerra stanno già spirando, il film è una produzione americana eppure i tedeschi non sono dipinti in modo particolarmente fosco, anzi. Se il tenente colonnello Hollen (Sig Rumann) è il solito bieco ufficiale teutonico visto in tanti film americani, il principe Schwarzwald (Joseph Schildkraut) è una divertente macchietta e il generale von Meinhardi (Maurice Moscovich) addirittura un uomo di buon senso. I dialoghi della sceneggiatura gli riservano una battuta che, visto che siamo già nel 1937, non si può forse definire profetica ma insomma… “il militarismo non può generare che altro militarismo e una guerra non può condurre che ad un'altra guerra” (!).  Un altro passaggio non banale è la sferzata di Joan, la moglie del tenente Bruce, quando scopre di essere stata ingannata e di aver pianto alla notizia della morte del marito che ora scopre essere falsa. Alla dura reprimenda che le rifila in aggiunta il colonnello Fenwick (Lionel Atwill) pur con la voce tremante risponde lapidaria: “è tutt’altro che facile essere patriota e donna nello stesso tempo”.
Parole sante e che valgono anche per gli uomini.   


Dolores del Rio


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venerdì 13 giugno 2025

MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA

1683_MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA, Francia 1937. Regia di George Wilhelm Pabst

Per la sua versione di Mademoiselle Docteur (nota in Italia anche come Salonicco, nido di spie) il maestro George Wilhelm Pabst mise al lavoro uno stuolo di sceneggiatori. La storia originale era di Irma von Cube e Georges Noveaux su cui lavorarono Leo Birinsky e Herman J. Mankiewicz; Jaques Natanson curò gli efficaci dialoghi. Al di là del fatto che la protagonista a cui si ispira la vicenda fu un personaggio storico – la spia nota come Fräulein Doktor e, appunto, Mademoiselle Docteur – non passa certo inosservata la cura con cui Pabst volle preparare il film in fase di scrittura. Va detto che poi, il regista, ammanta tutto quanto con la sua messa in scena a tratti ipnotica, con immagini velate, ora da una tenda svolazzante, ora dalle ombre notturne, mentre una trama labirintica spesso ci disorienta. Il cast, fatto di nomi importanti del cinema francese dell’epoca, ci offre molte sponde narrative, nessuna delle quali sembra quella su cui fare affidamento. Cioè, la protagonista è ovviamente Mademoiselle Docteur, al secolo Annamaria Lesser (una magnetica Dita Parlo), ma è una spia tedesca e, quindi, per quanto affascinante, è chiaro che non può essere lei il supporto narrativo a cui ancorarci. In questo senso giova forse ricordare che il film è del 1937 ed è prodotto in Francia, quando la Germania era sotto il giogo nazista e i venti di guerra, la seconda mondiale, forse si cominciavano già a percepire. In ogni caso, la figura di Mademoiselle Docteur, un po’ come tutte le spie in gonnella degli anni 30, anticipa le femme fatale dei noir del decennio successivo. Il genere principe degli anni 40 attingerà anche al sapiente uso delle ombre e del superbo bianco e nero, propri della scuola fotografica a cui appartiene Eugen Schufftan che, tornando al film in questione, illustra da par suo le immagini della pellicola accompagnato dall’efficace commento sonoro di Arthur Honegger. L’idea di Pabst sembra quella di orchestrare un grande mosaico, composto da tanti splendidi frammenti non del tutto complementari tra loro, ma di ingannare poi lo spettatore, in questo senso, con la sontuosa messa in scena. Ad esempio, l’incipit con l’interrogatorio del comandante Jacquart (Georges Colin) alla spia tedesca Courdane (Pierre Blanchar), è notevole e poi la vicenda si sposta fino ad arrivare a Salonicco, passando da un’ambientazione all’altra senza mai capire quale sia quella a cui fare maggiore riferimento per seguire il discorso. C’è la storia romantica tra Annamaria e il bel capitano Carrere (Pierre Fresnay), a cui però la donna fatica a concedere corda (è pur sempre un’agente in missione), c’è il covo delle spie celato dietro la bottega di Simonis, il fruttivendolo (Louis Jouvet), c’è il comando alleato, c’è il Bristol Hotel e c’è il night club dove si esibisce la bella Gaby (una notevole Vivianne Romance). Tra le tante imbeccate della trama, c’è anche quella melodrammatica, con Gabi che si incaponisce in una disputa del tutto campata per aria con Annamaria, di cui teme che l’amato Courdane si sia invaghito. In realtà l’uomo sta facendo il triplo gioco, costretto dalle circostanze, e, preoccupato solo di cavarsela, non ha certo tempo per correre dietro alle signorine. Eppure, proprio un risvolto di questa traccia estemporanea, sarà infine decisivo per il racconto, a testimonianza di come l’intreccio proceda in modo imprevedibile. Il passaggio più interessante, poi, è apparentemente del tutto scollegato dalla trama: ad un certo punto, da Simonis si presenta un tizio alquanto strano, che potrebbe aver pedinato una delle spie che fanno capo al negozio di fruttivendolo. Questo signore (Jean-Louis Barrault) ha un che di ambiguo ma, in definitiva, non fa che ordinare un melone; ma ecco che estrae un minaccioso coltello. Con il quale, chiede semplicemente di assaggiare il frutto, diffidando delle apparenze; il frutto, per quanto bello, potrebbe infatti essere insipido. Il che, narrativamente, è logico pensare voglia sottintendere qualcosa di importante, in una storia di spionaggio. Invece rimane un episodio che, col suo carico di mistero e di minaccia incombente, alimenta la suspense generale pur non avendo specifiche connessioni con i vari risvolti dell’intreccio. Il finale, con il parapiglia che si scatena in seguito all’attacco aereo, manda a gambe all’aria tutto il castello di carte costruito in precedenza. E’ un passaggio di pura azione, tanto che, negli ultimi minuti, i dialoghi sono assenti anche dopo che l’inseguimento in auto si conclude tragicamente. Nell’epilogo le uniche parole sono quelle del comandante del plotone di esecuzione che sentenzia la fine di Courdane, a cui non è bastato tradire i suoi complici per salvare la pelle. E nemmeno tanto bene è andata a Mademoiselle Docteur, finita in una casa di cura a guerra conclusa: nonostante la scena muta, più che la parola, la donna sembra però aver perso il senno. E, a corredo di una storia così volutamente dal significato sfumato, si può chiedersi se possa averlo mai avuto chi, all’interno di una cosa priva di senso come la guerra, faceva addirittura il doppiogioco. 






Dita Parlo 

mercoledì 11 giugno 2025

ON SECRET SERVICE aka SPY 77

1682_ON SECRET SERVICE aka SPY 77 , Regno Unito 1933. Regia di Arthur B. Woods

La presenza di Greta Nissen, star del cinema degli anni Trenta, è l’elemento più interessante di On Secret Service, noto anche come Spy 77. Cinque anni prima, quando la Nissen aveva ventidue anni ed era in rampa di lancio, Raoul Walsh e Howard Hughes la scelsero per il ruolo di protagonista ne Gli angeli dell’inferno, un film previsto e prodotto per essere un successo epocale. Greta era norvegese ma questo non costituiva un problema, dal momento che il film era muto, come tutti gli altri, al tempo. Se non che, la povera attrice finì nel classico caso di sliding doors: quello stesso anno uscì Il cantante jazz (regia di Alan Crosland), primo film sonoro della Storia e Hughes cambiò rapidamente i piani di produzione per il suo Gli angeli per l’inferno, che, cominciato appunto come film muto, fu completato come sonoro. A quel punto la Nissen fu messa fuori gioco dal suo accento scandinavo e venne chiamata, a sostituirla, tale Jean Harlow, allora sconosciuta, che divenne una star leggendaria anche grazie al film di Walsh. Ritiratasi in Gran Bretagna, la Nissen partecipò, tra gli altri, a questo film di spionaggio, On Secret Service, che segnò l’esordio dietro alla macchina da presa di Arthur B. Woods. Il fatto che il regista sia alle prime armi può, se vogliamo, deporre a suo favore, considerato che al film manchi sostanzialmente il senso del ritmo. Mentre è più difficile digerire il passaggio finale, in cui letteralmente inganna gli spettatori, mostrando l’aereo del capitano austriaco von Humberg (Kart Ludwig Diehl, marziale, come richiesto dal ruolo) venire abbattuto, salvo poi mostrarci il lugubre ufficiale vivo e vegeto ultimare la sua missione. C’è, per la verità, un’inquadratura in cui si vede un pilota zoppicante, e non sembra Diehl, allontanarsi e venire catturato dagli italiani: forse si intendeva che l’aereo colpito era un altro ma è una giustificazione cervellotica. L’idea sembra piuttosto quella di lasciar credere che von Humberg sia stato abbattuto, per preparare il colpo di scena in cui, al contrario, è riuscito a farla franca e passare le linee nemiche. Uno stratagemma davvero dozzinale in una fase del film, quella del combattimento nei cieli, che la passione per gli aeroplani del regista rende ancora più grave. Woods, infatti, più che per le qualità tecniche o artistiche, è passato alla Storia per essere stato l’unico regista britannico che si unì volontariamente alla Royal Air Force, durante la Seconda Guerra Mondiale, conflitto nel quale morì a soli 39 anni. Tornando a On Secret Service, si può ricordare che è ambientato durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano, dove si scontravano gli austriaci, rappresentati qui dal citato von Humberg, e gli italiani, lusingati da avere nei propri ranghi la Nissen nel ruolo della marchesa Marcella Galdi, agente del controspionaggio. Nell’incipit, la bella nobildonna ha un ruolo decisivo, sotto il profilo sentimentale, nell’intrigo che inguaia il povero capitano austriaco che, in seguito, viene espulso con infamia dall’esercito imperiale. Ripartendo da zero, von Humberg, si fa comunque valere e ottiene la possibilità di riscattare il proprio onore, con la rischiosissima missione di mascherare il tremendo agente segreto italiano 77, che passa puntualmente le informazioni al nemico. Le coincidenze, per cui von Humberg e la marchesa Gualdi si reincontrano a più riprese, si sprecano, ma in un film di spionaggio appena venato di romanticismo, sono licenze narrative consuete e tollerabili. In ogni caso, il sentimentalismo, che la Nissen prova ad infondere nel film, si perde nella lugubre messa in scena e, comunque, non intacca l’inflessibile corazza austera di von Humberg. Greta può comunque sfoggiare una serie di lussuosi abiti che rendono giustizia al suo elegante portamento, prima di un’uscita di scena tragica nella quale si aggrappata all’aereo di von Humberg che, eroicamente, decolla ugualmente e se la trascina via, fino al fatale volo nel vuoto della nobildonna. Complimenti.  



Greta Nissen