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lunedì 19 agosto 2024

BUIO NELLA VALLE

1532_BUIO NELLA VALLE . Italia 1984; Regia di Giuseppe Fina.

I misteri di Alleghe, cosiddetti dal titolo del libro di Sergio Saviane che aveva portato in luce la tragica vicenda ambientata nel paesino dolomitico, erano stati, nel 1965, oggetto di un trattamento cinematografico. La donna del lago, di Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, era ufficialmente ispirato all’omonimo libro di Giovanni Commisso, e, in ogni caso, si discostava abbastanza dai fatti reali, perlomeno dalla versione degli stessi abitualmente riconosciuta. Una ventina d’anni dopo, la vicenda approda in televisione, per opera di Giuseppe Fima, nella forma di sceneggiato in due puntate, per una lunghezza complessiva di circa tre ore. Buio nella valle sembra, almeno a grandi linee, più attinente agli eventi storici; ma senza esagerare. Fina, il regista, al tempo, per spiegare lo strano rapporto che lo sceneggiato ha con la realtà, intervistato dal settimanale Radiocorriere TV, dichiarò: “mi chiedevo come fosse possibile che, in un paesino dove si conoscono tutti, si possano far passare per suicidi una serie di omicidi, quando uno dei morti ha la testa quasi troncata da una rasoiata, l’altro, che è stato dichiarato annegato, non ha acqua nei polmoni… insomma, Alleghe per me è diventato un simbolo, il microcosmo che rappresenta il mondo. Non ho voluto fare un «giallo», ho voluto piuttosto raccontare come si articola il meccanismo del sopruso, come si saldino le connivenze tra il potere economico e il potere politico, come c’entrino il sesso e la morale, come favore chiami favore, come infine la giustizia finisca per trionfare lasciandosi però alle spalle anonimi eroi, vittime innocenti. A me non interessa tanto la catena di delitti quanto i meccanismi che riescono ad alterare la verità”. [Teresa Buongiorno, Un nido di vipere, Radiocorriere Tv n. 38/1984, pagina 12, settembre 1984].


Il risultato di queste intenzioni è un racconto filmico strepitoso nella prima parte, una sorta di L’albero degli zoccoli [1978, di Ermanno Olmi] da incubo, adeguatamente introdotto dalle immagini inquietanti dei titoli di testa, accompagnati dalla musica terrorizzante di Romolo Grano. Pur raccontando di delitti, ed essendo destinati al Secondo Canale RAI, da sempre più permissivo in questo senso del “Primo”, Buio nella valle non eccede nella rappresentazione fisica della violenta. Quella che è letteralmente spaventosa è quella morale che i protagonisti esprimono senza alcun ritegno, personaggi di una cattiveria assolutamente inaudita. Fintanto che Luigi Cosic (un monumentale Alain Cuny) è ancora abbastanza giovane da sfoderare tutta la sua maligna prepotenza, lo sceneggiato è letteralmente sostenuto dalla sua crudele verve, che costringe tutti i suoi compari, perlopiù famigliari, a darsi da fare, negli ora famosi atti criminali. Nella seconda parte del racconto filmico, Luigi appare invecchiato e, giocoforza, costretto a essere più guardingo; guarda caso anche Buio nella valle, come opera, ne risente, si affievolisce. Qui si fanno strada le indagini del carabiniere Sanna (Luca Barbareschi) che porteranno a dipanare l’intrigo; tuttavia, diversamente che in un «giallo» di stampo anglosassone, questa parte è la meno avvincente, per quanto ugualmente interessante.
Nella realizzazione del film, la prima cosa che fecero lo stesso Fina, Marcello Coscia e Luigi de Santis, in sceneggiatura, fu spostare cronologicamente gli eventi, forse per dare una maggior unità di tempo al racconto, ma ebbero l’accortezza di mantenere tutta quanta la prima parte della vicenda ambientata in epoca fascista. Il rapporto dei fatti col Fascismo, che sembra evocato dalle stesse parole di Fina nella citata intervista, è puntellato da una serie di dettagli portanti dello sceneggiato. Il patriarca di casa Cosic, Luigi, è definito un “Marcia su Roma”, una sorta di onorificenza verbale per aver partecipato alla nota manifestazione Fascista del 1922. 

Un altro dei personaggi cardine della storia, del tutto inventato in sede di stesura del soggetto, è il gerarca De Cesa (Carlo Alighiero, bravissimo), elemento che, con la sua influenza, è decisivo nell’insabbiamento dei vari delitti. Il rapporto tra De Cesa è la famiglia Cosic è esemplare della situazione che Fina, con Buio nella valle, vuol denunciare: ufficialmente è una figura di potere, ma è subalterno a Luigi, per gli illustri trascorsi fascisti di quest’ultimo nonché per la sua disponibilità economica, necessaria al gerarca per combinare i suoi affari. Sul posto di lavoro, De Cesa è il diretto superiore di Alvaro (Orso Maria Guerrini, fortissimo anche lui), figlio di Luigi; ma ne è da questi controllato. Anche tramite Lidia (Maria Schneider, vera star dell’opera), moglie di Alvaro ed amante di De Cesa, figura simbolica, con la sua spietata ambiguità che lascia credere, a brevissimi sprazzi, di avere un filo di umanità. Rimane il dubbio –formale, beninteso– che, sia nei confronti di De Cesa che, nel finale, con il reduce Egidio (Maurizio Donadoni), possa ancorare la sua recita ad un barlume, un ricordo, di umanità; un’attitudine del tutto sconosciuta tanto a Luigi che ad Alvaro, due predatori senza l’ombra di coscienza. Quella che, al contrario, potrebbe avere Antonio (Renato Scarpa), secondo genito di casa Cosic ed anello debole della famiglia. Proprio la sua incapacità di sopportare il rimorso per i delitti commessi dai suoi congiunti, lo spinge a confessarsi con la sposina, Isa Mascia Musy) proprio durante il viaggio di nozze. Pessima idea: la ragazza, già debole di nervi, crolla di fronte all’atroce verità, e quando Luigi, Alvaro e Lidia se ne accorgono, la sua sorte è segnata. In mancanza di un lago –la Produzione aveva tagliato brutalmente i costi costringendo Fina e i suoi collaboratori a dimenticarsi un’eventuale trasferta sulle alpi orientali– la giovane, una volta uccisa, viene gettata in un torrente. 

Dettagli marginali, d’altronde anche la sigla iniziale, in ogni caso molto efficace, è girata in Valle d’Aosta e il paese in cui è ambientata la vicenda è quello fittizio di Pradegà, in luogo dell’originale Alleghe. Ma, come detto dallo stesso autore nella citata intervista, il suo intento non era una ricostruzione storica della vicenda, semmai un’analisi sociale che potesse essere ancora valida. Buono l’intento; tuttavia, l’impostazione ideologica degli autori mostra, già ad una prima analisi, la propria inadeguatezza: il Fascismo non era un elemento poi così significativo, o almeno non era la profonda causa scatenante. Il Fascismo diventa un problema, anche nell’ottica di Fina che racconta dei fatti di Alleghe per descrivere l’Italia degli anni Ottanta –un proposito che può clamorosamente essere funzionale ancor oggi– se consideriamo la sua capacità di propaganda, forse la vera chiave del successo del movimento di Mussolini, allora come adesso. Ma è unicamente una sorta di “vestito della festa” –tra mille virgolette– per una mentalità arcaica assai ben più radicata nella nostra cultura. Buio nella valle è, in ogni caso, una valida rappresentazione della situazione: De Cesa, come detto gerarca fascista della zona, dopo la guerra si ricicla e continua a fare le stesse identiche cose. Certo, la “camicia nera” era un abito comodo, per fare i propri porci interessi, ma la sostanza cambia assai poco. I personaggi più significativi sono però Luigi, Alvaro e Lidia: il primo, come detto, è stato fascista, è addirittura un “Marcia su Roma” ma, in pratica, se ne frega del Fascio e pensa esclusivamente al suo interesse, per ottenere il quale non ha alcuno scrupolo. 

Alvaro ne è la versione leggermente aggiornata: privo di qualsivoglia riferimento politico, sociale o sentimentale, è il braccio armato di Luigi. Il suo essere l’esecutore materiale degli ordini criminali del padre, lo relega ad un livello inferiore, in chiave umana, anche rispetto allo spregevole genitore. La figura di Lidia porta con sé alcune differenze, in quanto donna e, quindi, sfavorita nella società patriarcale ma dotata di qualche opportuna arma tipica del gentil sesso. Su questa questione il regista Giuseppe Fina si scontrò con l’interprete Maria Schneider: l’attrice, al tempo, pativa ancora per la sua fama, legata indissolubilmente all’essere stata la Jeanne –“quella della scena col burro”– nel controverso Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, seppure fossero passati ormai dodici anni. [Lina Agostini, Quel maledetto ultimo tango, Radiocorriere Tv n. 39/1984, pagina 20, settembre 1984]. La Schneider avrebbe voluto dare a Lidia, il suo personaggio, una caratterizzazione unicamente feroce; Fina si impose, a sentire l’attrice, e pretese che la protagonista dello sceneggiato avesse una certa propensione sensuale. Che non si vede poi molto, in realtà. Perché quel poco che Lidia lascia intendere, quei rari momenti di intimità, non sono altro che una strategia differente rispetto ai degni compari, che, per seguire i propri scopi, perseguono invece prepotenza brutale, Luigi, o appena velata di ironia sarcastica, Alvaro. Ma sono tre facce di un unico mostro, quello dell’avidità, dell’egoismo, del disprezzo, dell’arroganza: un mostro assai più antico, e radicato, e che il Fascismo semplicemente cavalcò e provò a codificare, a strutturare ideologicamente. Ma che, in buona sostanza, non riuscì mai davvero a domare. 





Maria Schneider


Mascia Musy 



sabato 17 agosto 2024

LA DONNA DEL LAGO

1531_LA DONNA NEL LAGO . Italia 1965; Regia di Luigi Bazzoni e Franco Rosselli.

Alla base di La donna del lago, film diretto a quattro mani da Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, c’è il romanzo omonimo di Giovanni Comisso, a sua volta ispirato dal caso dei delitti di Alleghe. Tra il 1933 e il 1946 cinque omicidi commessi nei pressi del lago di Alleghe, erano rimasti sostanzialmente impuniti, almeno fino all’indagine giornalistica di Sergio Saviane, che, nel 1952, pubblicò un articolo in proposito su Il lavoro illustrato. Dopo varie peripezie anche giudiziarie, nel 1964 Saviane diede ulteriore forma narrativa alle sue informazioni con la pubblicazione de I misteri di Alleghe da cui scaturì un’indagine investigativa dei Carabinieri che portò all’arresto dei responsabili e alla loro successiva condanna.
Ispirandosi a questa vicenda, con l’aiuto di Giulio Questi in sede di sceneggiatura, Bazzoni e Rossellini imbastiscono un’opera allucinante, sfuggente ed onirica, che prova a interpretare gli stilemi del giallo discostandosi dalla tradizione anglosassone. Qui c’è poco da dedurre, perché tutto è confuso, le persone sono reticenti a parlare, le informazioni vaghe, tanto quelle che recupera il protagonista, Bernard (Peter Baldwin), quanto quelle che vengono fornite al pubblico. Lo spettatore si trova quindi nella medesima condizione del personaggio principale, uno scrittore che si reca in un paesino di montagna, affacciato su un lago, per trascorrere un breve periodo fuori stagione, nell’albergo dove aveva soggiornato l’anno precedente. Bernard è in crisi sentimentale, lo comprendiamo nella pur vaga telefonata dell’incipit, prima dei titoli di testa; o forse addirittura i suoi turbamenti sono esistenziali ma, come detto, La donna del lago non è un testo che fa dell’essere esplicito e chiaro il suo biglietto da visita. Il motivo del suo ritorno nello stesso albergo diviene però evidente allorché vediamo le foto che il giovane aveva scattato alla cameriera Tilde, e che erano il pretesto per rivederla. La bella Tilde è, infatti, interpretata da una quanto mai radiosa Virna Lisi e, quindi, è ben comprensibile che Bernard abbia voglia di rivederla: ma, della cameriera, nessuna traccia. 

Il padrone dell’albergo, Enrico (uno strepitoso Salvo Randone), un uomo affabile ma ambiguo, non si sbottona; il fotografo del paese, Francesco (Piero Anchisi), un tipo dall’aspetto inquietante, accetta di collaborare, ma anche il suo comportamento non sembra del tutto limpido. Irma (Valentina Cortese), figlia di Enrico, si dimostra amichevole, ma qualche dubbio lo lascia; Mario (Philippe Leroy), suo fratello, incute invece un certo timore. Sua moglie Adriana (Pia Lindström), unitasi a lui per un matrimonio d’interesse, ne pare più che impaurita; anche il comportamento della donna, in ogni caso, aumenta l’impressione di disagio. Su tutto quanto grava un’atmosfera cupa e angosciante; Bazzoni e Rossellini, aiutati dalla potente ed evocativa musica di Renzo Rossellini –padre di Franco, uno dei registi– e dalla splendida fotografia in bianco e nero di Leonida Barboni, confezionano un piccolo gioiello di straniamento surreale. Le fasi oniriche, alimentate anche dalla malattia che coglie Bernarnd, che rimane più giorni febbricitante a letto, confonde le idee che già faticavano a farsi strada nelle poche informazioni in possesso degli spettatori. Abitualmente, il «giallo» funziona un po’ come la storia di Pollicino, con lo spettatore indotto a seguire la trama dagli indizi che hanno la funzione dei sassolini bianchi lasciati dal protagonista dalla fiaba di Perrault. 

In questo caso, gli autori fanno una vera e propria scommessa: perché, seppur musica, fotografia e anche alcuni dettagli della trama, abbiano un forte traino, lo spaesamento causato dalla mancanza di un apparente filo logico negli avvenimenti rimane la sensazione predominante. Nel finale, il colpo di scena non ha la funzione di sorprendere lo spettatore ma di enfatizzarne lo sbigottimento: il «male» non ha origini esterne, ma interne alla famiglia, non è legato alla tipica violenza individuale, che abitualmente si manifesta nei maschi della specie umana, e neppure trae la sua forza dalla sfera sessuale, almeno non quella esplicita, che in genere ne è una delle prime cause. Nella reale vicenda dei «misteri di Alleghe», il denaro e i possedimenti, erano stati la causa scatenante e, in seguito, la pretesa di impunità, di chi si riteneva superiore alla Legge, era stato l’additivo che aveva sostenuto la catena di delitti. Nel film di Bazzoni e Rossellini, gli agenti sono una malata idea di famiglia e della sua rispettabilità in seno alla comunità, sebbene la questione economica, con l’arrivismo di Tilde come miccia di innesco, è comunque uno degli elementi sul tavolo. Un cambio di prospettiva legittimo, come qualsiasi scelta autoriale, sia chiaro. Nella vicenda originale, perlomeno per la versione conosciuta grazie al citato libro di Saviane, il Fascismo, con la connessa idea di impunità per i suoi rappresentanti più illustri, era uno dei fattori principali. 

Il che, naturalmente, si innestava sul concetto di società tradizionale patriarcale tipico del nostro paese di cui, del resto, il Fascismo stesso era un prodotto ideologico. La donna del lago è un film del 1965, influenzato, forse, dal Gotico nostrano, un «genere» che provava a dare al versione italiana dei tipici racconti gialli di stampo britannico. La figura di Irma –la cui follia è solo un’attenuante narrativa– metteva sotto accusa una donna giovane, una figlia; a rincarare la dose, seguendo questa chiave di lettura, era anche la figura di Tilde, idealizzata da Bernard e rivelatasi, in realtà, una persona avida e persino peggiore dei suoi due squallidi partner, Enrico e Mario.
Di lì a poco, anche in Italia, la protesta sessantottina porterà con sé le istanze rivoluzionarie del movimento femminista e la donna, nei successivi cinquanta e più anni, verrà indicata, da tutti, come la soluzione ad ogni problema di natura sociale. Al momento, siamo ancora intrisi da questa prospettiva, nonostante non manchino gli esempi che dimostrino come, in sostanza, non basti sostituire gli uomini di potere, o comunque collocati in ruoli decisivi, con donne per risolvere i problemi che attanagliano la società. A volte, viene addirittura il sospetto che, in questi casi, le cose siano persino peggiorate. Certo, La donna nel lago, con la sua vaghezza allucinate e onirica, non può essere preso come manifesto anticipatore di una eventuale pericolosa evoluzione sociale.
Ma come sogno premonitore forse sì.          




Virna Lisi 





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giovedì 15 agosto 2024

FERRARI 312B

1530_FERRARI 312B . Italia 2017; Regia di Andrea Marini.

È innegabile che un film documentario incentrato su una specifica vettura di Formula 1 di mezzo secolo fa, attiri unicamente l’interesse di un pubblico selezionato e, si suppone, preparato. Tuttavia, nell’introduzione all’opera, è dato forse poco spazio alla definizione dell’operazione che si è deciso di seguire con il racconto filmico. Perché Ferrari 312B di Andrea Marini non è solo una descrizione tecnica sulla mitica autovettura che corse per il Cavallino Rampante nelle stagioni 1970 e 1971. O meglio, estratti da quegli anni, immagini dei Gran Premi, ci sono, ma fungono da sfondo alla vicenda raccontata in primo piano, che riguarda l’acquisto e la completa ristrutturazione di un esemplare della vettura in questione. Ed è qui che Andrea Marini, la fa troppo facile: come se trovare d’«occasione» una Ferrari di Formula 1 degli anni Settanta sia una cosa quasi naturale, al pari di conoscere di persona Mauro Forghieri, lo storico progettista che lavorò a Maranello per anni e che fu responsabile anche del progetto 312B. Certo, se ti chiami Paolo Barilla –fai il pilota, d’accordo– e sei il rampollo della nota famiglia di produttori di pasta, allora tutto assume un’altra prospettiva. Se c’è un appunto, che si può fare al docufilm di Marini, infatti, è proprio questo: guardando il suo Ferrari 312B si può infatti avere l’illusione che restaurare un bolide di Formula 1 di quell’epoca sia una cosa, non si dice alla portata di tutti, ma nemmeno così proibitiva. In realtà, probabilmente, è un’operazione preclusa alla totalità degli appassionati, e, allora quello di Marini diventa un’occasione unica per vedere davvero come è fatta e come funziona –e, anche come non funziona– un’auto da competizione. Infatti, pur avendo la consulenza di un geniaccio come Forghieri, e smontando e rimettendo a nuovo ogni singolo pezzo della vettura – motore compreso, revisionato da un’azienda specializzata– la 312B, una volta riassemblata, fa un po’ i capricci. Barilla non demorde, perché ha un sogno: guidarla al Gran Premio di Montecarlo per auto storiche. Un’idea che può suscitare qualche dubbio: è il caso di portare un autentico pezzo da museo –nel senso che è una vera e propria opera d’arte– a rischiare di schiantarsi ad ogni curva? Barilla, anche in base alle opinioni raccolte, si convince di sì: la Ferrari 312B è stata concepita per gareggiare e solo in una corsa potrà davvero rivivere. L’entusiasmo del buon Paolo è contagioso e finisce per essere anche convincente: se non fosse che, durante le prove, una Lotus dalla fiammante livrea John Player Special nera e oro, finisce contro il guard-rail e, a quel punto, qualche dubbio sull’opportunità di far correre rischi a quelle meraviglie tecnologiche ritorna eccome. In ogni caso, guardare Ferrari 312B, vedere smontare e rimontare una leggendaria monoposto di Maranello, è un’esperienza mistica più che cinematografica.    



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martedì 13 agosto 2024

RUSH

1529_RUSH . Stati Uniti 2013; Regia di Ron Howard.

In qualche spunto, Ron Howard è un regista di primissimo rango; nel complesso, poi, sembra sempre mancargli quel pizzico per essere annoverato tra i veri maestri di Hollywood. Chissà, forse in futuro la sua arte si farà maggiormente strada, nell’analisi ai suoi film; per ora rimane un po’ imbrigliata nella sua diligente attenzione formale. Eppure, l’idea di dare concretezza cinematografica alla rivalità tra Niki Lauda e James Hunt, piloti di Formula 1 degli anni Settanta, è, a dir poco, geniale. Forse, i problemi –se vogliamo chiamare così i limiti che poi l’opera denota– nascono già dalla scelta di prendere come base di partenza la sceneggiatura di Peter Morgan: lo script dell’autore britannico si inserisce nella consuetudine dei suoi precedenti lavori, enfatizzando i fatti storici e raccontando scontri tra personalità opposte. A prima vista, uno stile come quello di Howard sembra particolarmente congeniale a questo tipo di soggetti: Rush, risultato in questo caso di tale connubio, è infatti un’ardente rilettura di alcuni eventi dell’età dell’oro della Formula 1. Un film che si consuma rapidamente sullo schermo nonostante le oltre due ore di durata, ma, di contro, lascia tutto sommato poco nello spettatore. È un po’ il limite di Howard –e forse anche di Morgan– che fatica a cogliere davvero nel segno, a lasciare una traccia indelebile, nonostante i suoi film siano in genere formalmente ottimi. Come Rush, appunto.
Il cinema, dopo i suoi approcci negli anni Sessanta, aveva lasciato perdere il mondo delle corse automobilistiche, affrontato quindi molto raramente e con prospettive laterali, si veda Un attimo, una vita di Sidney Pollack [
Bobby Deerfield, 1977] a titolo d’esempio. Il film di riferimento, per le gare in automobile, era ancora Grand Prix di John Frankeheimer, risalente al 1966; in seguito, solo Le 24 ore di Le Mans, [Le Mans, 1971] regia di Lee H. Katzin –che aveva diligentemente osservato le disposizioni di Steve McQueen– era riuscito ad avvicinarcisi. Il problema, già emerso con l’archetipo I diavoli del Grand Prix [The young racers, 1963] di Roger Corman, era la gestione del doppio binario narrativo: da una parte la componente agonistica che andava bilanciata da quella sentimentale dei personaggi.

Corman aveva privilegiato la resa scenica delle gare, lasciando le beghe umane in secondo piano; una scelta che Frankenheimer aveva ulteriormente enfatizzato. Tutto sommato i risultati avevano pagato, ma forse non come ci si aspettava. Per il citato film del 1971 ambientato a Le Mans, John Sturges, regista designato in origine, pensava di mettere in risalto la storia romantica; McQueen era di avviso opposto e impose la sua scelta. Risultato: Le 24 ore di Le Mans è un ottimo film, ma fu un fiasco al botteghino e, in ogni caso, non solo non riuscì a far compiere definitivamente il salto di qualità al genere sportivo di stampo motoristico, ma perse terreno anche nei confronti del film di Frankenheimer. A quel punto, l’impresa dovette sembrare proibitiva, e le corse automobilistiche rimasero un elemento di contorno, quando furono chiamate in causa dal cinema, ma raramente al centro della scena. Fino al 2013 quando Morgan e Howard approfittarono della stimolante rivalità tra Hunt e Lauda per riportare la Formula 1 sul grande schermo. Howard, che ha un ottimo fiuto per il casting, scelse gli interpreti adeguati: Chris Hemsworth, tipico fusto hollywoodiano e al tempo in rampa di lancio, è Hunt; Daniel Br
ühl, attore dal solido curriculum, è Lauda; Oliva Wilde è la bellezza mozzafiato ideale tanto per dare corpo alla modella Suzi Miller, che a mettere il giusto pepe rosa al film. Hunt e Lauda sono due piloti agli antipodi: il primo è uno sciupafemmine dotato di talento geniale anche in pista; il secondo unisce alle innate capacità tecniche, una volontà e un’abnegazione al lavoro da vero stakanovista. 

La rivalità comincia dalle formule minori e si amplifica quando i due piloti arrivano, con modalità differenti, in Formula 1. Entrambi sono di rango benestante, ma non hanno l’appoggio delle rispettive famiglie; Lauda, grazie ad un prestito bancario, si paga un sedile nella scuderia britannica BRM per la stagione 1973. Nel frattempo, l’istrionico titolare della scuderia di Hunt, Lord Hesketh (Christian McKay), decide di regalare al suo pupillo la possibilità di gareggiare nella massima formula. Il che sembra una sparata tipica del personaggio, un uomo d’altri tempi che si diletta a fare l’aristocratico, ma la Hesketh 731, derivata da una March, nelle mani di Hunt comincia a raggranellare punti nel campionato mondiale. Assai più di quanti ne faccia Lauda con la BRM che deve quindi assistere, impotente, il suo rivale festeggiare addirittura sul podio, sfiorando la vittoria. Il colpo di scena che ribalta la situazione è dovuto all’intercessione del compagno di scuderia di Niki, Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino): nonostante l’austriaco non sia certo un tipo amichevole, lo svizzero ne riconosce la grandissima capacità di messa a punto della vettura, e convince la Ferrari, suo prossimo team, ad ingaggiare anche Lauda. Per Hunt, che è rimasto alla Hesketh, scuderia di secondo piano, assistere all’ascesa del rivale che, in un top-team come la Ferrari, può cogliere le prime vittorie, è davvero frustrante. E se, l’anno successivo, anche Hunt riesce a vincere il suo primo Gran Premio, Lauda si erge a dominatore indiscusso del campionato, surclassando perfino Regazzoni che l’aveva voluto al suo fianco nella scuderia di Maranello. La situazione per l’inglese, già critica, peggiora, allorché lo svampito Lord Hesketh si rende conto che l’avventura in Formula 1 gli ha praticamente prosciugato il pur cospicuo conto corrente: è la bancarotta per il team e Hunt si ritrova a piedi. James è disperato, quand’ecco che gli capita un colpo di fortuna: Emerson Fittipaldi abbandona le corse, lasciando vacante il sedile sulla sua McLaren, una scuderia di punta con la quale aveva vinto il titolo iridato nel 1974. Il 1976 si presenta come la stagione della sfida decisiva: ora tutte e due i piloti hanno vetture competitive. Nonostante Hunt sia velocissimo, Lauda sembra imbattibile e accumula punti di vantaggio. Fino a questo momento, tutto sommato, le vicende raccontate hanno avuto una discreta attinenza storica; ora che si entra nel vivo del racconto, il lavoro di Morgan in sede di sceneggiatura si fa più rilevante. 

In occasione del quarto appuntamento, in Spagna, Hunt vince ma viene squalificato, stando a Rush, per un reclamo pretestuoso da parte della Ferrari; in seguito, a ribadire le ragioni del team inglese, la squalifica verrà revocata. Difficile, in ogni caso, stabilire chi avesse ragione, perché nel mondo delle corse, spesso, il potere politico pesa più delle attinenze meramente tecniche. Quel che è certo è che, in questo passaggio si può cogliere la volontà, da parte degli autori, di riservare alla Ferrari il ruolo di «cattiva», come da tradizione, almeno per quel che concerne la narrazione sul grande schermo. Del resto, seppure il film verta sulla rivalità tra i due piloti, se c’è una prospettiva privilegiata, nel racconto di Morgan e Howard, è quella di Hunt; per averne conferma, basta guardare i manifesti. James è il bello e dannato; Niki il primo della classe antipatico e spocchioso. E non solo: quando Hunt non vince, la colpa è della Hesketh poco competitiva, della crisi con la moglie Suzi, che se la intende con Richard Burton o delle modifiche che la McLaren è stata costretta a fare a causa dei cavillosi reclami della Ferrari. Una serie di problemi assai concreti che rendono umano il campione inglese. Lauda, al contrario, è il perfetto villain: quando può, vince, al punto da sembrare imbattibile ed imperturbabile. Ad esempio, la sua storia d’amore con Marlene (Alexandra Maria Lara), a differenza del rapporto tra James e Suzi, non intralcia la sua inarrestabile avanzata. Eppure sarà proprio Lauda a compiere l’evoluzione più significativa, sul letto d’ospedale. Ma andiamo con ordine: siamo al Gran Premio di Germania, al famigerato e pericolosissimo
Nürburgring e Lauda ha un’infinità di punti di vantaggio in classifica. Ha piovuto, in Germania, ma forse la pista si sta asciugando e il circuito, già insidioso anche per via della lunghezza di oltre 20 km che rende difficoltosi gli eventuali soccorsi, in queste condizioni è una vera trappola. In prima fila Lauda e Hunt, marcandosi vicenda, optano per le gomme da bagnato; Mass, compagno di Hunt alla McLaren, è tra i pochi ad osare le slick, i pneumatici da asciutto, una scelta che si rivela subito vincente. 

Nella bagarre che segue al primo giro, con i box intasati dal traffico per un inusuale cambio gomme immediato, Lauda rimane attardato e riparte come una furia. Nel briefing prima della gara, aveva chiesto l’annullamento della corsa, per via delle condizioni meteo. Qualcuno, nella sala gremita di piloti, aveva ironizzato sul fatto che avesse paura; nonostante il vantaggio in classifica, perdere malamente avrebbe dato credito a quelle voci. Al Bergwerk, il punto più lontano dai box, e quindi dai soccorsi, la sua Ferrari 312 T2 tocca il cordolo, sbanda paurosamente, si schianta contro il guardrail e ripiomba in pista in fiamme. Sopraggiungono altre vetture che, non riuscendo ad evitarla, la colpiscono violentemente; Lauda è nell’abitacolo e sta bruciando vivo, nonostante la tuta ignifuga. Viene comunque tratto in salvo, rimanendo ustionato pesantemente in volto, per tutta la vita. Mentre è all’ospedale, in condizioni disperate, grazie al supporto della moglie Marlene, comincia lentamente a rimettersi ma la sua ripresa subisce una brusca accelerata quando vede Hunt vincere i Gran Premi restanti nella stagione, insediando il suo primato in classifica. Non è, però, questa l’evoluzione di Lauda di cui si accennava: questo semmai è l’apice del suo agonismo, del suo esasperato desiderio di competizione che da sempre lo caratterizzava. Dopo soli 42 giorni dall’incidente, per difendere il suo primo posto nella graduatoria mondiale, contro ogni aspettativa, logica e buon senso, Niki Lauda si presenta al via del Gran Premio di Monza: dopo le iniziali difficoltà, riesce a piazzarsi quarto mentre Hunt è costretto al ritiro. Le cose sembrano rimettersi al meglio per l’austriaco della Ferrari. In Rush, dopo questa svolta positiva per Lauda si passa subito all’ultima gara, in Giappone; nella realtà, prima dell’appuntamento al circuito del Monte Fuji, c’erano state due corse, dove Hunt aveva fatto bottino pieno e Lauda faticato. In ogni caso, tanto negli almanacchi che nel film di Howard al via del Gran Premio del Giappone l’inglese è a soli tre punti dal primo posto dell’austriaco. Piove, sul circuito del Monte Fuji, e, da perfetto eroe hollywoodiano, Hunt, vorrebbe lasciar perdere corsa e campionato. Nel briefing al Nürburgring era stato proprio lui a condizionare gli altri piloti, e ad indurli a votare per correre, contro il parere di Lauda. Naturalmente, la gara si disputerà, e la colpa, in questo caso, è del Sistema: nello specifico del fatto che l’evento è stato venduto a troppe televisioni sparse in tutto il mondo; impensabile rimborsarle tutte. Al via, Hunt balza al comando, tallonato da Lauda, immerso nella scia d’acqua dell’inglese; alla fine del primo giro, l’austriaco si ritira, ritenendo le condizioni della pista eccessivamente rischiose. Stando alle storiche dichiarazioni, e alle cronache, ci furono molti fattori, da tenere in considerazione; di tutto quanto ciò, Howard e Morgan tengono in sostanza solamente l’onestà di Lauda che rifiuta l’offerta del responsabile tecnico della Ferrari, Mauro Forghieri (Vincent Riotta) di attribuire ad un guasto elettrico il motivo del ritiro. 

L’immagine di Marianne, che si palesa davanti al casco di Lauda, sommerso dalla pioggia durante l’unico giro disputato dall’austriaco, è, naturalmente, farina del sacco degli autori, e serve a giustificare narrativamente la coraggiosa scelta del pilota Ferrari, sebbene non sia necessariamente del tutto campata in aria. Hunt, dopo qualche incertezza sull’ordine d’arrivo, fatto curiosamente storico, si ritrova terzo, risultato che gli permette di vincere il titolo. L’italiana Ferrari è sconfitta, si veda anche il sorpasso decisivo di Hunt a Regazzoni, compagno di squadra di Lauda, nel finale; gli inglesi, pilota e vettura, hanno vinto, e, per un film americano, missione è quindi compiuta. Il pistolotto finale, non è che la conferma di questa impostazione: Hunt è il cavaliere, che sfida la morte e la irride, solo per battere il rivale. Lauda, l’austriaco –comunque l’area è germanica– è il freddo professionista che calcola le percentuali di rischio e si rode nell’invidia guardando l’avversario vincere.
Pur essendoci moltissimi rimandi alla realtà, Rush è penalizzato da quest’uso smodato dei luoghi comuni angloamericani, si veda la stereotipata descrizione dell’Italia, che è lo specchietto tornasole della caratura artistica degli autori. La vicenda umana è forte, perché gli eventi reali lo erano, ma è trattata in modo superficiale e solo la stilizzazione visiva dell’opera attenua il fastidio derivante. Proprio la scelta formale, nella messa in scena delle corse, è l’aspetto più convincente del film: le scene non ricercano il realismo alla Grand Prix, piuttosto oscillano tra l’iperrealismo e una rappresentazione fortemente stilizzata della realtà. L’insistenza sui dettagli, le vibrazioni, il rumore, e soprattutto, le gare decisive sotto l’acqua, al Nürburgring o al Monte Fuji, con i cieli plumbei, le nubi scure ed incombenti, la pioggia a confondere ogni cosa: le corse, in Rush, sono un inferno dantesco.
Nel complesso, come i film sulle gare automobilistiche che l’hanno preceduto, nemmeno quello di Howard e Morgan è un vero capolavoro. Ma con il suo iperrealismo stilizzato, potrebbe fungere da utile indizio, per riuscire finalmente a trovar l’alchimia giusta per rappresentare in modo adeguato il fantastico mondo della Formula 1 al cinema. 





Olivia Wilde 





Alexandra Maria Lara 



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