Translate

Visualizzazione post con etichetta Noir. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Noir. Mostra tutti i post

martedì 29 luglio 2025

CRIMINE SILENZIOSO

1705_CRIMINE SILENZIOSO (The Lineup), Stati Uniti1958. Regia di Don Siegel 

A proposito di Don Siegel, fondamentale regista della storia del cinema, si citano in genere i suoi riconosciuti capolavori, Contratto per uccidere [The Killers, 1964], Ispettore Callaghan: il caso Scorspio è tuo! [Dirty Harry, 1971] o Fuga da Alcatraz [Escape from Alcatraz, 1979], giusto per elencare tre dei suoi più noti crime-movie di pura azione. Può darsi che si argomenti sul fantascientifico L’invasione degli Ultracorpi [The invasion of the Body Snatchers, 1956] o sul western Il pistolero [The Shootist, 1976] a testimonianza della sua capacità di uscire dal suo abituale ambito, che era il poliziesco in tutte le sue sfumature. Anche approfondendo ulteriormente, e considerando che Siegel è accreditato di una cinquantina di regie comprese la quindicina di quelle televisive, ben difficilmente viene preso in considerazione Crimine silenzioso, un atipico tardo noir. L’origine di questa inaspettata gemma è la serie televisiva The Lineup, di cui Siegel aveva diretto l’episodio pilota nel 1954 oltre ad altre successive puntate. In realtà, la stessa serie televisiva era uno spin-off da un precedente programma radiofonico e si trattava sostanzialmente del classico Police Procedural ovvero quei racconti che mettevano sotto l’obiettivo il lavoro di un distretto di polizia o istituzioni similari. Se nella versione radiofonica si era mantenuta anonima l’ambientazione, per quella televisiva si puntò forte sull’identificazione di San Francisco come luogo delle vicende poliziesche raccontate. Una scelta che, considerato il successo della serie, verrà confermata anche per la trasposizione cinematografica per la quale Siegel subisce precise direttive. Folgorante incipit a parte, i primi venti minuti di Crimine silenzioso non sono poi infatti troppo diversi da un comune episodio della serie: il tenente Ben Guthrie (Warner Anderson), spalleggiato dall’ispettore Asher (Marshall Reed), indagano sul traffico di stupefacenti provenienti dall’estremo oriente, spessi introdotti negli Stati Uniti grazie ad ignari viaggiatori i cui bagagli trasportano la droga a loro insaputa. Anche l’idea alla base della storia è degna di un telefilm e basta osservare la scia di cadaveri che viene disseminata per capire che un simile metodo di trafficare droga era contro ogni logica, attirando su di sé un’attenzione eccessiva. Non sono solo i morti imputabili a Dancer (Eli Wallach, straordinario) a destare perplessità ma anche solo quelli del citato bellissimo incipit che precede i titoli di testa. 

La morte del finto tassista ma soprattutto quella del poliziotto, per un modesto quantitativo di droga, non sembrano l’indice di una pianificazione adeguata ad un traffico che, stando alle premesse, volesse introdurre gli stupefacenti in modo subdolo e silenzioso. Ce ne sarebbe già per derubricare The Lineup a semplice operazione a beneficio dei fan del telefilm dell’epoca; Siegel, tuttavia, non è affatto d’accordo. E lo mette in chiaro subito, in quei sessanta secondi che costituiscono l’introduzione che, si è già detto, è girata con dinamismo magistrale, grazie ad un montaggio che è puro cinema d’alta scuola. Dopodiché, l’intemperante regista assolve il compito di accontentare produzione e spettatori della serie TV, mettendo in scena un po’ di investigazione dei volenterosi Guthrie e Asher, di cui giusto val la pena ricordare la splendida Dodge Custom Royal del 1957 con cui scorrazzano per le vie di Frisco. Ma quello che preme a Siegel è ben altro. Il momento in cui Crimine silenzioso cambia marcia è l’entrata in scena dei due criminali protagonisti, il citato Dancer e il suo collega più anziano Julian (Robert Keith), su cui converge completamente l’attenzione di Siegel, mentre i due poliziotti saranno costantemente relegati in comportamenti di routine. Julian e Dancer, al contrario, sono due personaggi formidabili, in anticipo sui tempi e in grado di conferire alla storia un’atmosfera malsana e disturbante davvero sorprendente per un film che è ancora ascritto agli anni 50. In apparenza è Dancer il soggetto perverso e maniacale, e Julian sembra una sorta di tutore che ne smorzi gli eccessi. In realtà, se effettivamente Dancer è l’elemento che esce dagli schemi della normalità, Julian è perfino peggio, considerato che sfrutta le deviazioni del giovane socio per sfogare una violenza di cui non è capace in prima persona. Al netto delle letture psicanalitiche sulla follia di Dancer e Julian, che sono effettivamente due individui privi di qualsivoglia struttura morale, la cosa che interessa maggiormente di Crimine silenzioso è il suo essere un manifesto programmatico del cinema secondo Don Siegel. I due criminali si muovono, nella storia, tra due blocchi sociali contrapposti: da una parte c’è la polizia, che incarna ufficialmente la società, dall’altra l’organizzazione criminale, di vediamo solo Il Capo (Vaughn Taylor) ma che sembra altrettanto ben strutturata. In sostanza San Francisco, e come lei l’America o il Mondo Occidentale intero, è divisa tra Buoni e Cattivi, ma si tratta più che altro di convenzioni perché Siegel non conferisce alcuna profondità ai personaggi se non ai due criminali protagonisti. 

I due poliziotti sono ingessati nel loro ruolo; di contro Il Capo è addirittura sulla sedia a rotelle e non degna nemmeno d’una espressione Dancer quando ha con lui il fatale dialogo nel museo marittimo. I personaggi di contorno assolvono semplicemente alla parte che il copione prevede per loro, ma lo spazio emotivo del racconto è occupato interamente dal confronto tra Julian e Dancer. Tutta quanta la struttura di Crimine silenzioso sembra una grande metafora dell’industria cinematografica secondo Don Siegel. La polizia, rappresenta il pubblico e gli organi censori istituzionali, che intralciano con le loro pretese, vedi i rimandi dovuti alla serie televisiva o il limite per la violenza esibita, la libertà artistica. Il Capo è il tipico produttore degli studios hollywoodiani, sordo alle giustificazioni per eventuali problemi ineluttabili che possano insorgere nello svolgere pur con la massima efficienza il lavoro. Com’è tipico di chi non lavora e non ha mai lavorato un singolo giorno. Siegel non era, e tantomeno lo sarebbe oggi, un buon rappresentante del Politicamente Corretto e ce lo mostra vecchio, inespressivo, rinsecchito e su una sedia a rotelle: non potrebbe essere più imbalsamato di così. Quando Dancer lo scaraventa giù dal parapetto sulla pista ghiacciata di pattinaggio, il regista si guarda bene dall’arretrare la camera per avere un minimo di rispetto per la tragedia umana che sta avvenendo. Al contrario, cambia prospettiva e si piazza di lato, per cogliere e gustarsi senza perdersi un attimo del terribile volo che si conclude con un fatale schianto. Siccome si è detto del cinismo di cui Siegel vuol essere libero di poter disporre, nella sua caduta Il Capo travolge e uccide anche un ignaro e innocente pattinatore. Non rimane che comprendere i ruoli dei due protagonisti, Dancer e Julian. Se il primo è evidentemente l’alter ego del regista, che non vuole pastoie morali o di altro genere mentre svolge il suo mestiere, l’altro è una figura che può essere qualcosa come uno sceneggiatore o un produttore esecutivo, qualcuno non in grado di fare il regista, così come Julian non è in grado di sparare, ma che vuole ugualmente assurgere al ruolo di maestro. Proprio in virtù di un’onestà intellettuale che può sconfinare nel cinismo, Siegel conferisce al suo personaggio, quello che lo rappresenta, una connotazione negativa: l’artista, il cineasta, secondo il buon Donald, deve avere mano libera, non deve essere vincolato da limiti tanto meschini come quelli descritti. Ma nell’opera c’è comunque una prospettiva senza speranza, e questa è innegabile ed è resa esplicita dalla migliore sequenza del film, quella giustamente conclusiva. La società, la collettività, rappresentata splendidamente dalla città di San Francisco, ha un effetto mortale sulla libertà dell’individuo. Essendo un crime-movie, assai più che un poliziesco, il protagonista di Crimine silenzioso è un criminale, un cattivo a tutto tondo. 

L’importante, per Siegel, che in qualità di artista se ne frega del quadro morale, è che si batta contro il tentativo di ingabbiarlo, di comandarlo, di costringerlo dentro le regole. Alla fine deve liberarsi anche di Julian, e gli spara alla schiena, proprio senza alcun riguardo per qualsiasi barlume di cavalleria o rispetto, perché in fin della fiera anche il suo socio cercava di piegarlo alla disciplina, come si capisce sin dalla loro prima apparizione quando discutono di grammatica. Tuttavia Dancer non ha alcuno scampo e la città letteralmente lo ingoia, nella geniale chiusura che segna la fine della pista. I tentativi di Sandy (Richard Jaeckel), l’autista messo a disposizione ai due gangster dall’organizzazione criminale, prova a scappare nell’ultimo spettacolare inseguimento finale. Il Golden Gate, il mitico ponte di Frisco, è la strada per la libertà, ma prima le vie bloccate, poi un’autostrada in costruzione, che si interrompe su uno strapiombo e infine una carreggiata che si rivela essere solo una sorta di spartitraffico cieco, precludono ogni possibilità d’uscita. La città, simbolo supremo della società occidentale, ha leggi ferree: se non le accetti, sei destinato ad essere fagocitato, annientato, distrutto. Siegel lo sa; almeno dal 1958 e da Crimine silenzioso: ma non per questo ha intenzione di lasciar fare. Basta guardare lo sguardo di Eli Wallach quando manovra il canocchiale al museo marino, guidandolo come una macchina da presa: dove sono i capi, i boss, quelli che tirano i fili della baracca? Prima di soccombere, com’è destino, si può sempre giocargli qualche brutto tiro. Quello di Wallach, oltre che maniacale, folle, lucido, divertito e compiaciuto, è lo sguardo di Don Siegel.         







Galleria 






martedì 17 giugno 2025

LA SECONDA MOGLIE

1685_LA SECONDA MOGLIE (The second woman)Stati Uniti 1951. Regia di James V. Kern

Per una volta, possiamo perdonare la faciloneria dei distributori italiani che decisero di intitolare La seconda moglie, il film dello sconosciuto James V. Kern che, nell’originale ha certamente un nome più pertinente, The second woman, ovvero «la seconda donna». Evidentemente, la voglia –leggi la possibilità di incrementare i guadagni al botteghino– di rendere esplicito il rimando al capolavoro hitchcockiano Rebecca – La prima moglie [Rebecca, di Alfred Hitchcock, 1940] era troppo forte per resisterle. E, in effetti, i riferimenti al celebre film del maestro inglese sono evidenti, sebbene se ne potrebbero trovare anche altri, ad esempio Angoscia [Gaslight, di George Cukor, 1944] per quel che riguarda il «decor» di certi ambienti. Ma rischieremmo di affossare troppo La seconda moglie che non ha la statura artistica cinematografica di quei capolavori. E sarebbe un peccato, perché il film di Kern è un onesto intrattenimento che sfrutta gli illustri capostipiti del genere per inserirsi discretamente nella loro scia, senza pretese autoriali ma approfittando del contesto ormai consolidato per giocare la sua partita mistery. Il tema è, infatti, di natura «gialla» con un enigma da risolvere che riesce, a distanza di tanti anni, a sorprendere ancora lo spettatore. La costruzione dell’incastro misterioso, infatti, è costruita coi tempi giusti e l’insorgere sul dubbio di chi possa essere il vero colpevole colpisce lo spettatore giusto un attimo prima della rivelazione della trama sullo schermo, esattamente come dovrebbe fare un Giallo da manuale. Certo, la sceneggiatura ha qualche forzatura, ma siamo nel campo di un film smaccatamente di genere, che ammette sin da subito di sfruttare l’eco dei più importanti esempi del filone. E se in questo ambito La seconda moglie ammette senza pudore il suo essere dichiaratamente opera minore, dal punto di vista formale il film è di ottimo livello, come si conviene alla Hollywood del tempo. Le location suggestive –la casa sulla scogliera, il mare ruggente sugli scogli– sono fotografate in un bianco e nero che attinge direttamente dai noir del decennio al tempo appena trascorso. 

Gli arredi delle case, i dettagli degli interni, certe inquadrature audaci, rimandano invece all’horror, per un mix comunque ben calibrato. Robert Young –nei panni di Jeff Cohalan, il protagonista vittima di una sorta di complotto che lo vuole distruggere– se la cava con la tipica nonchalance. A dargli man forte, e a salvarlo in dirittura d’arrivo della vicenda, c’è la controparte femminile, Ellen Foster, a cui Betsy Drake dona garbo e dolcezza ma a cui manca forse un po’ di consistenza scenica. Tuttavia la cosa, considerato il tenore di La seconda moglie, non disturba affatto la visione. E, come accennato, per una volta non disturba nemmeno il titolo italiano che riesce a essere doppiamente fallace; il che è, a suo modo, una sorta di record. Perché il titolo fa riferimento a due mogli del protagonista che, in realtà, non si sposa mai. Si è detto che Jeff è al centro di un complotto, per via del quale si sente invece perseguitato dalla sfortuna; o è, piuttosto, il senso di colpa per la morte di Vivian (Shirley Ballard), la sua fidanzata? Perché, a differenza da quanto indicato dal titolo italiano, la prima donna del protagonista muore durante un ricevimento prima delle nozze, e quindi quando ancora non è sua moglie. Ma neanche Ellen, la presunta seconda moglie a cui fa esplicitamente riferimento il titolo italiano, fa in tempo a sposarsi Jeff che, per quel che si vede nel film di Kern, rimane scapolo fino ai titoli di coda. Se non fosse che l’equivoco è tutto italiano, si potrebbe perfino pensare che il regista ci scherzi su: manca poco al sipario, i due protagonisti si stagliano su quel rabbioso mare che ha fatto da sfondo a tante scene del film ma la musica ci fa ampiamente capire che siamo al lieto fine. Jeff chiede quindi il permesso di formulare una domanda e Ellen si illumina in volto: in effetti sembra proprio la premessa per una richiesta di matrimonio. Invece l’uomo chiede delucidazioni su come la ragazza, esperta in materia di calcoli statistici per una compagnia di assicurazioni, sia riuscita a risolvere il giallo e a salvarlo per tempo. Ma è solo un diversivo, perché l’amore sboccia per il classico appassionato bacio finale e per il matrimonio ci sarà certo tempo in seguito. Ai distributori italiani rimane il record di due errori in un unico titolo. 





mercoledì 11 settembre 2024

LA PALISIADA

1544_LA PALISIADA . Ucraina 2023; Regia di Philip Sotnychenko

Quasi sempre, il primo interrogativo che pone il lungometraggio di esordio di Philip Sotnychencko riguarda il titolo: La palisiada si riferisce alla verità lapalissiana, ovvero una cosa di una tale ovvietà che il ribadirla risulta praticamente umoristico. Va detto che La palisiada come opera non è precisamente ironica; perlomeno, non lo dà scopertamente a vedere. L’umorismo nero di Sotnychencko rimane sottotraccia ma, forse proprio per questo, la sua azione finisce per essere ancora più corrosiva. Non è un film semplice, La palisiada: in qualche momento può sorgere il dubbio che ci sia stata qualche magagna nel montaggio e si stia guardando qualcos’altro; poi lentamente, le tessere non tornano al loro posto, questo no, ma si comincia ad avere la percezione che ci sia un disegno nascosto nel racconto filmico di Sotnychencko, una sorta di mosaico da ricostruire. Con un’unica visione del film, è difficile chiedere di più allo spettatore, che finisce nel migliore dei casi affascinato dai dialoghi, dalla rada ironia, dalla costruzione delle scene, dai pochi ma fulminanti passaggi tragicamente bruschi del racconto. Ma per cogliere meglio il film di Sotnychencko occorre un minimo sforzo in più, una seconda visione è infatti non solo consigliabile ma diviene addirittura avvincente: ora i pezzi del puzzle sembrano combaciare, seppure il giovane regista ucraino lavori a molti livelli contemporaneamente mantenendo sempre al suo racconto qualcosa di sfuggente. Il titolo, secondo l’autore, dovrebbe fare riferimento alla «verità» che emerge dall’indagine che sorregge la trama del film, e che, una volta chiusa con l’arreso e la condanna dell’imputato, viene definita appunto lapalissiana. Il che dovrebbe significare che il risultato fosse a tal punto ovvio e scontato, che le indagini finiscano per essere ridondanti: niente affatto, sulla colpevolezza del condannato rimane più di qualche dubbio. Al di là di questo, va detto che il termine La palisiada interpreta a pennello lo spirito di un film singolare come quello di Sotnychencko: da un certo punto di vista ne è la completa negazione, visto che di palese, ovvio, non c’è nulla, da un altro tutto quanto è, tuttavia, ridondante. Una situazione, quindi, paradossale: è come ribadire qualcosa che non è chiaro, finendo per confondere ancora di più le cose, lasciando comunque senza parole l’interlocutore. Questa strategia di lavoro sembra una delle tante eredità del passato sovietico, di cui il racconto principale, ambientato nel 1996, è ancora grondante: ripetere con forza, con autorità, aiuta a convincere anche gli scettici; aggiungendoci il carico di una parola altisonante come La palisiada, nessuno avrà più da obiettare alcunché. 

Che è un po’ il primo stato d’animo di chi assiste al film: cosa si può dire di un’opera se il senso sfugge e nemmeno si riescono a cogliere i riferimenti? In questa fase, La palisiada rischia di essere rigettato completamente dal pubblico e sarebbe un vero peccato perché il film di Sotnychencko è davvero notevole. L’autore, per quanto ermetico, è tuttavia abilissimo nel seminare dettagli che, lentamente, carburano nella testa dello spettatore cominciando ad incasellarsi al posto giusto. Il tema della ridondanza, un argomento strettamente legato alla retorica imperialista sovietica, non è poi difficile da cogliere, ad uno sguardo più attento: nel film, moltissimi eventi avvengono due volte, a conferma che la ripetitività è il leitmotiv del racconto. Due sono i morti ammazzati da un colpo di pistola, due i tempi del racconto –l’incipit e il corpo narrativo vero e proprio– due le volte che si ascolta la canzone popolare rutena O sheep, my sheep, due le volte che il treno passa costringendo il mercatino a sloggiare dai binari, due le «ricostruzioni del crimine», due le volte che la ragazza «stende» il coetaneo, e via di questo passo. Per accentuare l’idea di ripetitività, nei raddoppi meno espliciti, il regista lavora ulteriormente con la trama: ad esempio, sia l’incipit che il racconto vero e proprio cominciano con una perlustrazione delle pareti dell’appartamento di Alexander (Andrii Zhurba) che termina, in entrambi i casi, con uno sguardo dal balcone verso la strada. Questo parallelismo chiarisce il collegamento tra i due tronconi del film, il primo più breve e domestico, ambientato nel presente, e la storia criminale degli anni Novanta. Proprio essere posta in principio, prima dell’inizio del film, ci dice che questa è la parte più urgente, quella più significativa. La relazione tra il presente –il cui intermezzo dal sapore televisivo, con la scena della mostra artistica che si inserisce come fosse un servizio realizzato per il piccolo schermo, rafforza il concetto di quotidiano– e il passato, suggerisce che quanto vediamo di aberrante nel finale del prologo, l’esplosione inaudita e immotivata di violenza, è il riflesso di ciò che avviene nel finale della seconda e più corposa parte del film. La palisiada si chiude in effetti con l’improvvisa ed imprevedibile brutale uccisione dell’accusato dell’indagine: seppure questi fosse stato condannato a morte, l’esecuzione lascia del tutto senza parole. 

Da notare che la pena capitale sarebbe stata abolita di lì a pochi mesi, quando l’Ucraina avrebbe finalmente aderito al protocollo n.6 alla Convenzione Europea sui diritti fondamentali dell’uomo. Non si tratta di dettagli secondari ma, al contrario, stanno all’origine del soggetto. Dice, in proposito dell’idea alla base del suo film, il regista Sotnychencko: “Sono partito dal fatto che, fino al 1996, in Ucraina esisteva la pena di morte. Poi, allontanandomi da questo, ho cominciato a ricordare la mia infanzia. Il tema della pena di morte è in qualche modo passato in secondo piano. Stava già diventando una storia non sull’ultima esecuzione, ma sulle persone che vivevano a quel tempo e sui loro figli che sono vivi adesso”. [Natalia Serebriakova, Philip Sotnychencko regista di La palisiada, dal sito Cineuropa, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/437853/ visitato l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Lo spunto della pena di morte passerà anche in secondo piano, ma è innegabile che sia un collegamento con l’Unione Sovietica, mentre proprio l’adesione a normative più conformi alla mentalità europea ne determineranno, per fortuna, l’accantonamento. Nonostante Sotnychencko cerchi di minimizzare le connessioni in proposito, ecco che il conflitto con la Russia, sempre in antitesi all’Europa, emerge in modo abbastanza lampante. In ogni caso, sull’argomento, queste le considerazioni del regista in un’intervista rilasciata a Il Manifesto: “Me ne sono accorto sin dalla prima proiezione, al festival di Rotterdam, lo scorso gennaio. Il pubblico vede nel film il riflesso dell’invasione russa, e invece quando è iniziata la guerra eravamo già in post-produzione. Però è molto interessante questo processo, mostra come ciascuno tende a interpretare le cose connettendole alla propria esperienza che oggi a livello mondiale per l’Ucraina è quella del conflitto”. Osservazione pertinente, ma la giornalista lo incalza: “Dicevi che il pubblico tende a vedere nel film un legame con la guerra. Forse al di là delle connessioni più immediate c’è qualcosa che suggerisce una origine lontana di quanto accade ora”. Replica Sotnychencko: “La guerra non ci ha sorpresi, molti di noi lo sapevano già prima di Biden o del Pentagono che la Russia ci stava invadendo. È almeno dal 2014 che si combatte, per chi vive nella capitale la percezione è forse diversa ma chi abita nelle regioni coinvolte lo sa bene. Poi la Russia nega come ha sempre fatto su tutto. Anche per questo ho voluto lavorare sulle relazioni tra le persone, credo che è dove si concentrano maggiormente i rimossi di questi anni. Risolvere il mistero dell’indagine non è così importante, conta l’investigazione delle anime e le domande che ogni fatto accaduto pone.” Infine, alla precisa domanda “Stai filmando la guerra? Raccogliendo materiali di documentazione?” il regista conclude: “In realtà no, ci sono già altri registi ucraini a filmare e senz’altro lo fanno molto meglio di me”.  [Cristina Piccino, La Palisiada, l’Ucraina nei ricordi d’infanzia della mia generazione, dal sito de Il Manifesto, pagina web https://ilmanifesto.it/la-palisiada-lucraina-nei-ricordi-dinfanzia-della-mia-generazione, visitata l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Eppure l’impressione è che la Piccino abbia ragione: la guerra tra ucraini –che siano «filo ucraini» o filo russi, agli occhi degli occidentali è difficile scorgere la differenza– ha spiazzato tutti allo stesso modo in cui, nel finale dell’incipit del film, vediamo la ragazza risolvere in modo definitivo la discussione con il coetaneo. Insomma, per la violenza dilagante che c’è in Ucraina oggi, certamente andrebbe chiesto il conto prevalentemente a Mosca, d’accordo; però guardando la materializzazione dei ricordi di infanzia di Sotnychencko qualche dubbio sugli eventuali residui nella coscienza del paese può venire. Come detto, il tono del racconto è sottilmente umoristico, ma non per questo meno caustico. Come accennato, siamo alle prese con una crime story e il caso riguarda l’omicidio di un colonnello della polizia. A condurre l’inchiesta è l’investigatore Ildar (Novruz Hikmet), che è il coprotagonista insieme al citato Alexander, lo psichiatra forense che lo affianca nelle indagini. Ildar ha una figlia piccola, Alexander un figlio; i due bambini, una volta cresciuti, sono tra i personaggi dell’incipit e gli assoluti protagonisti della spiazzante scena citata, quella chiusa con un colpo di pistola. È forse l’origine di questa immotivata follia, che stiamo cercando nel passato; una mancanza di senso che è un altro dei percorsi sottotraccia che propone il film. Ovviamente il rimando scontato è all’attuale guerra –nonostante le parole del regista nell’intervista citata– il cui senso in occidente continua sostanzialmente sfuggire nonostante si combatta da anni. Ma nel film ci sono dei rimandi precisi che indicano il concetto di vuoto, mancanza, perdita: per esempio, il ragazzo, nell’incipit, è in un appartamento spogliato della mobilia e ha precedentemente perso il treno. 

Quando poi si unisce agli altri giovani amici, la serata è piena zeppa di chiacchere, dalle quali si ricava poco; si discute di cinema, criticando le americanate coi super-eroi ma non si riesce, probabilmente, nemmeno a essere veramente toccati dall’arte con l’«A» maiuscola, quella degli Uffizi di Firenze. Questi ragazzi sono persone che possono al massimo discutere di tatuaggi –simbolo assoluto della superficialità del momento globale e non solo ucraino, per la verità– di cui nemmeno chi se li è fatti fare si ricorda più quale significato possano avere. In ogni caso, tutto ciò riguarda il corposo incipit e, a questo punto, stiamo già occupandoci dell’indagine, nella quale si fanno rapidamente passi da gigante. Grazie ad una testimonianza si cerca un uomo rasato: basta una violenta incursione in un covo di tagliagole ed ecco che, magicamente, vengono prelevati una decina di possibili indiziati. L’uomo che finirà per essere individuato come assassino non sembra molto presente, lucido, sebbene tra il momento dell’arresto e il confronto con la testimone, si scambi la giacca forse al fine di confondere le acque. Al riconoscimento, infatti, l’uomo si presenta con una giacca sportiva diversa rispetto a quella indossata durante il fermo, ma è evidente che non sia della sua taglia. In qualche modo gli inquirenti se ne accorgono e, una volta che l’indiziato ha indossato il suo indumento, viene riconosciuto come l’omicida. Forse. Perché tutta la questione della testimonianza –elemento chiave dell’indagine, per altro– è uno dei passaggi più ironici e sarcastici del film. Innanzitutto, la testimone è una donna muta: il che è ovviamente un dettaglio simbolicamente umoristico ma velenoso, di Sotnychencko. Fosse stata cieca, sarebbe stato paradossale; una testimone muta lascia invece intendere che possa anche aver visto, ma non possa parlare. Niente paura, c’è l’interprete: e qui, nei loro dialoghi, ci sono i passaggi più divertenti in assoluto del film. La testimone è costretta dagli inquirenti a ripetere per l’ennesima volta ciò che ha visto: mentre faceva il bagno in uno specchio d’acqua, sulla riva due uomini avevano una colluttazione, alla fine della quale il colonnello della polizia sarebbe rimasto sul terreno senza vita. La donna è stufa di ribadire le stesse cose con il linguaggio dei segni; l’interprete la sollecita e lei la minaccia di rivelare il perché fosse da sola, quel giorno, a fare il bagno. Il poliziotto vedendole discutere animatamente, chiede cosa abbiano da dirsi, ma l’interprete glissa, lasciandolo quanto mai perplesso. Come gli spettatori: a parte che la curiosa minaccia della sordomuta rimane inspiegata, in ogni caso, quello a cui assistiamo non sembra propriamente un interrogatorio. Poi la testimone ha un impulso di «loquacità» e si dilunga a raccontare come, sul momento, avesse pensato che i due fossero amanti, che si stessero baciando. Va detto che al pubblico, queste informazioni, arrivano dai sottotitoli che traducono il linguaggio dei segni durante i dialoghi. Il poliziotto che, al contrario, deve attendere la versione dell’interprete, si incuriosisce, scorgendo forse delle novità nel gesticolare della donna e ne chiede conto alla traduttrice. Questa taglia corto, evitando di riportare la faccenda degli amanti e riferendo che la testimone abbia visto i due uomini discutere; così, di sua iniziativa. Tuttavia, questa testimonianza sarà la chiave dell’indagine. Da notare che, durante una delle ripetizioni delle ricostruzioni della scena del crimine – di cui la seconda fatta sotto un diluvio torrenziale– nello specchio d’acqua c’è un tizio a mollo e non sembra affatto nella posizione ideale per vedere alcunché. Ciononostante l’indagato è processato e condannato e, infine, ucciso senza troppe cerimonie, in una cella che, per macabra ironia, si trova, nella realtà, nella prigione di Bucha, località, in seguito, divenuta tristemente nota per il massacro perpetrato dai soldati russi a danno della popolazione civile. E, anche se questa è, evidentemente, soltanto una coincidenza, forse possiamo anche prenderla come un segno. La violenza, anche quella fatta ai poveri disgraziati come il personaggio del condannato di La palisiada, porta frutti che non sono mai buoni. E anche se ci può volere un po’ di tempo, poi maturano sempre.

sabato 17 agosto 2024

LA DONNA DEL LAGO

1531_LA DONNA NEL LAGO . Italia 1965; Regia di Luigi Bazzoni e Franco Rosselli.

Alla base di La donna del lago, film diretto a quattro mani da Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, c’è il romanzo omonimo di Giovanni Comisso, a sua volta ispirato dal caso dei delitti di Alleghe. Tra il 1933 e il 1946 cinque omicidi commessi nei pressi del lago di Alleghe, erano rimasti sostanzialmente impuniti, almeno fino all’indagine giornalistica di Sergio Saviane, che, nel 1952, pubblicò un articolo in proposito su Il lavoro illustrato. Dopo varie peripezie anche giudiziarie, nel 1964 Saviane diede ulteriore forma narrativa alle sue informazioni con la pubblicazione de I misteri di Alleghe da cui scaturì un’indagine investigativa dei Carabinieri che portò all’arresto dei responsabili e alla loro successiva condanna.
Ispirandosi a questa vicenda, con l’aiuto di Giulio Questi in sede di sceneggiatura, Bazzoni e Rossellini imbastiscono un’opera allucinante, sfuggente ed onirica, che prova a interpretare gli stilemi del giallo discostandosi dalla tradizione anglosassone. Qui c’è poco da dedurre, perché tutto è confuso, le persone sono reticenti a parlare, le informazioni vaghe, tanto quelle che recupera il protagonista, Bernard (Peter Baldwin), quanto quelle che vengono fornite al pubblico. Lo spettatore si trova quindi nella medesima condizione del personaggio principale, uno scrittore che si reca in un paesino di montagna, affacciato su un lago, per trascorrere un breve periodo fuori stagione, nell’albergo dove aveva soggiornato l’anno precedente. Bernard è in crisi sentimentale, lo comprendiamo nella pur vaga telefonata dell’incipit, prima dei titoli di testa; o forse addirittura i suoi turbamenti sono esistenziali ma, come detto, La donna del lago non è un testo che fa dell’essere esplicito e chiaro il suo biglietto da visita. Il motivo del suo ritorno nello stesso albergo diviene però evidente allorché vediamo le foto che il giovane aveva scattato alla cameriera Tilde, e che erano il pretesto per rivederla. La bella Tilde è, infatti, interpretata da una quanto mai radiosa Virna Lisi e, quindi, è ben comprensibile che Bernard abbia voglia di rivederla: ma, della cameriera, nessuna traccia. 

Il padrone dell’albergo, Enrico (uno strepitoso Salvo Randone), un uomo affabile ma ambiguo, non si sbottona; il fotografo del paese, Francesco (Piero Anchisi), un tipo dall’aspetto inquietante, accetta di collaborare, ma anche il suo comportamento non sembra del tutto limpido. Irma (Valentina Cortese), figlia di Enrico, si dimostra amichevole, ma qualche dubbio lo lascia; Mario (Philippe Leroy), suo fratello, incute invece un certo timore. Sua moglie Adriana (Pia Lindström), unitasi a lui per un matrimonio d’interesse, ne pare più che impaurita; anche il comportamento della donna, in ogni caso, aumenta l’impressione di disagio. Su tutto quanto grava un’atmosfera cupa e angosciante; Bazzoni e Rossellini, aiutati dalla potente ed evocativa musica di Renzo Rossellini –padre di Franco, uno dei registi– e dalla splendida fotografia in bianco e nero di Leonida Barboni, confezionano un piccolo gioiello di straniamento surreale. Le fasi oniriche, alimentate anche dalla malattia che coglie Bernarnd, che rimane più giorni febbricitante a letto, confonde le idee che già faticavano a farsi strada nelle poche informazioni in possesso degli spettatori. Abitualmente, il «giallo» funziona un po’ come la storia di Pollicino, con lo spettatore indotto a seguire la trama dagli indizi che hanno la funzione dei sassolini bianchi lasciati dal protagonista dalla fiaba di Perrault. 

In questo caso, gli autori fanno una vera e propria scommessa: perché, seppur musica, fotografia e anche alcuni dettagli della trama, abbiano un forte traino, lo spaesamento causato dalla mancanza di un apparente filo logico negli avvenimenti rimane la sensazione predominante. Nel finale, il colpo di scena non ha la funzione di sorprendere lo spettatore ma di enfatizzarne lo sbigottimento: il «male» non ha origini esterne, ma interne alla famiglia, non è legato alla tipica violenza individuale, che abitualmente si manifesta nei maschi della specie umana, e neppure trae la sua forza dalla sfera sessuale, almeno non quella esplicita, che in genere ne è una delle prime cause. Nella reale vicenda dei «misteri di Alleghe», il denaro e i possedimenti, erano stati la causa scatenante e, in seguito, la pretesa di impunità, di chi si riteneva superiore alla Legge, era stato l’additivo che aveva sostenuto la catena di delitti. Nel film di Bazzoni e Rossellini, gli agenti sono una malata idea di famiglia e della sua rispettabilità in seno alla comunità, sebbene la questione economica, con l’arrivismo di Tilde come miccia di innesco, è comunque uno degli elementi sul tavolo. Un cambio di prospettiva legittimo, come qualsiasi scelta autoriale, sia chiaro. Nella vicenda originale, perlomeno per la versione conosciuta grazie al citato libro di Saviane, il Fascismo, con la connessa idea di impunità per i suoi rappresentanti più illustri, era uno dei fattori principali. 

Il che, naturalmente, si innestava sul concetto di società tradizionale patriarcale tipico del nostro paese di cui, del resto, il Fascismo stesso era un prodotto ideologico. La donna del lago è un film del 1965, influenzato, forse, dal Gotico nostrano, un «genere» che provava a dare al versione italiana dei tipici racconti gialli di stampo britannico. La figura di Irma –la cui follia è solo un’attenuante narrativa– metteva sotto accusa una donna giovane, una figlia; a rincarare la dose, seguendo questa chiave di lettura, era anche la figura di Tilde, idealizzata da Bernard e rivelatasi, in realtà, una persona avida e persino peggiore dei suoi due squallidi partner, Enrico e Mario.
Di lì a poco, anche in Italia, la protesta sessantottina porterà con sé le istanze rivoluzionarie del movimento femminista e la donna, nei successivi cinquanta e più anni, verrà indicata, da tutti, come la soluzione ad ogni problema di natura sociale. Al momento, siamo ancora intrisi da questa prospettiva, nonostante non manchino gli esempi che dimostrino come, in sostanza, non basti sostituire gli uomini di potere, o comunque collocati in ruoli decisivi, con donne per risolvere i problemi che attanagliano la società. A volte, viene addirittura il sospetto che, in questi casi, le cose siano persino peggiorate. Certo, La donna nel lago, con la sua vaghezza allucinate e onirica, non può essere preso come manifesto anticipatore di una eventuale pericolosa evoluzione sociale.
Ma come sogno premonitore forse sì.          




Virna Lisi 





Galleria 








venerdì 21 giugno 2024

FURIA

1501_FURIA (Fury). Stati Uniti 1936; Regia di Fritz Lang.

Approdato negli Stati Uniti nel 1934, Fritz Lang, tramite David O. Selznick aveva firmato un contratto con la MGM: l’accordo prevedeva la regia di un film più l’opzione per eventuali ulteriori realizzazioni. L’ingaggio da parte dello Studio del leone ruggente sembrava di buon auspicio per la carriera di Lang in America, dal momento che la MGM era considerata la casa cinematografica più illustre del tempo. Le cose sembrano procedere in modo spedito: il primo giugno 1934 Lang e Selznick si incontrarono a Londra, dove fu firmato il contratto; cinque giorni dopo il regista austriaco era a bordo di una nave alla volta degli States. La traversata oceanica tra Cherbourg e New York, durò sei giorni, a bordo, insieme a Lang, c’era anche George Cukor, anch’egli ingaggiato da Selznick. Ricorda, a tal proposito il «regista delle donne»: “Lang avrebbe potuto essere un diplomatico. Assumeva un atteggiamento molto formale e distinto. Aveva uno humor tutto proprio e una particolare visione della vita. Suscitava incredibile rispetto e un’impressione di autorevolezza”. [Autori vari, Fritz Lang - America, Roma, Edizioni Carte Segrete, 1990, pagina 67]. Caratteristiche valide per qualcuno che emigrasse negli Stati Uniti d’America? Vedremo.
Lang non era arrivato nel Nuovo Continente che da pochi giorni, che Selznick cambiò idea sull’opportunità di realizzare il film che stava progettando insieme al regista. Il 22 giugno il vulcanico produttore ufficializzò la rinuncia: come si vede, a strettissimo giro di posta. Per comprendere come sia possibile che un cineasta arguto come Selznick vada a prelevare in Europa un regista come Fritz Lang promettendogli di fare un film per poi cambiare idea nell’arco di una ventina di giorni, è forse utile ricordare che, in quel fatidico 1934, esattamente il 13 giugno, entrò in vigore un emendamento del famigerato Codice Hays, che istituì la PCA, Production Code Administration, senza il cui certificato i film non sarebbero potuti approdare nelle sale a partire dal primo luglio. Il primo film a subire gli effetti del Production Code –che era quindi un codice auto-impostosi da Hollywood al fine di evitare noie con la censura – fu Tarzan e la compagna [
Tarzan and his mate, 1934, di Cedric Gibbons] per via delle scene di nudo della controfigura dell’attrice protagonista Maureen O’Sullivan. <http://en.wikipedia.org/wiki/Hays_Code visitata l’ultima volta il 13 giugno 2024>.
In quel particolare frangente, in cui la PCA non era ancora operativa, Selznick si rivolse direttamente a Will H. Hays per chiedere consiglio riguardo al suo progetto con Lang. Ciò che preoccupava il produttore era il tema del film, nel quale un gruppo sovversivo arrivava a rovesciare il governo. Il 18 giugno, Hays rispose così a Selznick: “
A seguito della nostra conversazione relativa al film preso in considerazione per il signor Fritz Lang: il signor Pettijohn è tornato da Washington e vi allego il suo memorandum originale dell’ufficio che mi riporta il suo colloquio con il Dipartimento di Giustizia su questo argomento. É mio giudizio ragionato, con il quale il signor Pettijohn è d’accordo, che in ogni circostanza non sarebbe saggio procedere con il film contemplato e me ne raccomando”. Selznick non poté che convenire: “Caro generale Hays, ho ricevuto una lettera da Charlie Pettijohn che afferma la violenta obiezione del Dipartimento di Giustizia all’idea del film suggerito dal signor Fritz Lang e a Voi sottoposto attraverso la mia proposta. Mi rammarico enormemente che non ci sia altra strada se non quella di abbandonare l’idea, anche se penso che avremmo potuto svolgere un vero servizio pubblico”. <http://starsandletters.blogspot.com/2014/06/selznick-abandons-fritz-lang-project.html visitata l’ultima volta il 13 giugno 2024>. Sebbene cerchi di salvare in parte la faccia, è evidente che Selznick scarichi abbastanza rapidamente Lang, sottolineando come l’idea del film fosse del regista quando, dal momento che era stato da pochissimi giorni ingaggiato, è più che probabile che il produttore ne condividesse lo spunto. Tra le note di curiosità si può segnalare che Selznick si rivolga a Hays con l’appellativo di «generale», forse in quanto questi era stato Direttore Generale delle Poste degli Stati Uniti, mentre il citato Charlie Pettijohn era il Consigliere Generale dell’MPPDA, la Motion Picture Producers and Distributors of America, l’organizzazione guidata appunto dallo stesso Hays attraverso l’applicazione del noto codice di autocensura. Come detto, di lì a poco sarebbe entrata in vigore la PCA affidata a Joseph Breen, che inasprì pesantemente l’autocensura e il cui avvallo divenne vincolante per ottenere il visto di distribuzione: il clima, effettivamente, non era quindi dei migliori. In questo contesto, forse presentarsi da Hays con una proposta che aveva visto la “violenta obiezione” addirittura del Dipartimento di Giustizia del paese non era certo stata una mossa tempestiva. Per capire: Pettijohn faceva parte dell’entourage del Presidente Frank Delano Roosevelt, e il Dipartimento di Giustizia, in quel periodo, era in febbrile attività anche mettendo sotto osservazione il mondo del cinema. I crime movie del tempo esaltavano le imprese dei gangster, mentre i poliziotti, al loro inseguimento, dovevano fermarsi ogni volta che questi fuorilegge passavano un confine di Stato, facendoci ben poca figura. Se, per combattere direttamente il crimine, l’amministrazione Roosevelt intendeva riorganizzare il braccio armato del Dipartimento di Giustizia, ovvero quell’istituzione di polizia federale che, dal 1935, prenderà il nome di FBI, sul piano prettamente propagandistico Hays e soprattutto Breen si diedero da fare per contrastare il dilagante fenomeno di romantica ammirazione per Dillinger e compagni che il cinema aveva fin lì suscitato.
Il cineasta intellettuale, che, arrivando dalla Germania nazista con un atteggiamento che “suscitava incredibile rispetto e un’impressione di autorevolezza”, proponendo un film che ipotizzava movimenti sovversivi negli Stati Uniti, non si guadagnò certo il favore dell’ambiente.
Il progetto originale era quindi scartato; in ogni caso, il contratto c’era e un film andava realizzato. Mentre Lang ne approfittava per guardarsi un po’ in giro, in cerca di ispirazione, nel mese di settembre di quel 1934 la SS Morro Castle, un transatlantico americano in rotta da Cuba a New York, prese fuoco e s’incagliò, causando la morte di oltre cento persone. Con l’aiuto di Oliver H. B. Garret, il regista non padroneggiava ancora la lingua inglese, Lang mise giù una sceneggiatura, Hell Afload [
t. l. L’inferno galleggiante], anche nota come The journey [t. l. Il viaggio]. Stando alle parole dello stesso regista, sul momento l’idea sembrava potesse funzionare: “A Selznick piacque molto, alla vigilia di Natale; dopo tre giorni era la cosa più disgustosa che avesse mai letto”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 17]. Successivamente sviluppò Passport to Hell [t.l. Passaporto per l’Inferno], un trattamento da un racconto di James Warner Bellah, uno scrittore di pulp-fiction che sottolinea l’approccio di Lang all’America. Il regista dichiarò che imparò molto, nei suoi primi mesi negli Stati Uniti, dalla letteratura popolare e dai fumetti, che gli furono utili per comprendere la differente natura del paese che l’ospitava rispetto alla patria natìa. In ogni caso nemmeno questo progetto andò in porto come del resto anche l’interessante aggiornamento della vicenda del Dottor Jekyll e Mister Hyde, The Man behind You [t. l. L’uomo dietro di te], una sorta di studio sulla personalità schizofrenica. Niente da fare; ricorda, in proposito, Lang: “per un anno, non mi fu data l’opportunità di fare niente, e così cercai di imparare il più possibile dalla vita americana” [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 17].
Alla MGM erano però scontenti e uno dei dirigenti dello Studio, Eddie Mannix, parlò con il regista paventandogli l’ipotesi di essere licenziato. Lang ottenne però un’ultima chance: gli fu consegnata Mob Rule [
t. l. La legge della folla], una scaletta di quattro pagine con quello che sarebbe divenuto il soggetto di Furia [Fury], scritta da Norman Krasna, e gli fu affiancato un collaboratore, Bartlett Cormack, dal momento che il regista non era ancora autosufficiente con l’inglese. Tuttavia Lang si aiutava molto, nel lavoro di stesura, collezionando ritagli di giornale da cui trarre ispirazioni e spunti; utilizzando i quotidiani americani, era quindi in grado di interpretare a dovere la vita di un paese anche se lo conosceva poco. Tuttavia, nel momento di cominciare la stesura definitiva della sceneggiatura, il regista nato a Vienna dimostrò di non aver ancora colto l’essenza della cultura americana. Secondo la primissima versione di Furia, il protagonista, Joe Wilson, poi interpretato da Spencer Tracy, era un avvocato. Questo, secondo quanto racconta Lang nel fondamentale libro intervista a Peter Bogdanovich, avrebbe permesso a Joe Wilson di potersi esprimere meglio, di poter spiegare in modo più esauriente, i propri pensieri. Conoscendo Fritz Lang, viene da supporre che la svolta rabbiosa che intraprende l’uomo, una volta scampato al linciaggio, avesse a quel punto una forza maggiore, un’importanza più clamorosa, se a farla fosse stato un uomo di legge. Joseph L. Mankiewicz, al tempo neo produttore della MGM, spiegò al regista venuto dall’Europa che in America, il protagonista doveva essere «Joe Doe», Jane nel caso fosse una donna: qualcuno del popolo. E fu convincente, tanto che Lang pensò che questo era un segno della democrazia; il che era vero, naturalmente, dal momento che la forza rivoluzionaria del cinema americano era appunto quest’approccio popolare. É però innegabile che immaginare un distinto avvocato nei panni del Wilson divenuto brutalmente belluino, al punto da voler ardentemente veder finire sulla forca tutti i 22 individui che avevano preso parte al linciaggio, avrebbe dato ancora più forza al concetto. Argutamente, Paul M. Jensen nel suo The cinema of Fritz Lang notò come Furia, il primo film americano di Lang, avesse la struttura della sua opera forse più importante del periodo tedesco, almeno dal punto di vista culturale, I Nibelunghi, [Die Nibelungen: Siegfried + Die Nibelungen: Kriemhilds Rache,1924]. In questo caso, Joe, il protagonista è prima la vittima Sigfrido e, nella seconda parte, la vendicatrice Crimilde, confermando però i progressi psicologici già manifestati in M – Il mostro di Dusseldorf [M, 1931]. Joe, infatti, è personaggio moderno, non è completamente buono o cattivo, ma muta, nel corso della vicenda, si evolve sia in chiave positiva che negativa. Rispetto ai suoi formidabili sviluppi successivi, all’interno del cinema americano, Lang in Furia conserva qualche aspetto di troppo del suo bagaglio tedesco, in particolare il ricorso ad un simbolismo un po’ stucchevole. In seguito, lo stesso autore riconoscerà questo limite, in questa sua opera: “In Germania usavamo molto i simboli. Un simbolo deve spiegare qualcosa. Per esempio ne I Nibelunghi i due amanti sono seduti sotto una pianta in fiore (…) E così, dopo che se ne sono andati dal giardino, lei guarda l’albero dalla finestra, e improvvisamente vede questi fiori dissolversi e comparire un teschio. Questo è un simbolo per mostrare un pericolo incombente, un oscuro presagio. In Furia c’era una scena in cui mostravo il diffondersi di un pettegolezzo: una donna inizia a parlare, poi un’altra e un’altra ancora – dopo di che facevo una dissolvenza su alcune galline, che facevano lo stesso rumore. Lo stesso produttore che mi aveva parlato di Joe Doe (quindi probabilmente Mankiewicz, NdA) disse: «Fritz, agli americani non piacciono i simboli. Non sono così stupidi da non capire senza». E aveva ragione. Non so se l’ho tagliata o meno – ma aveva assolutamente ragione. Tutti sanno cosa fanno le donne pettegole”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagine 27 e 28]. La scena è rimasta e, se è vero che crea un effetto ridondante, insistendo su un concetto già evidente, è anche vero che inserisce una vena ironica –il paragone tra le donne e le galline– e che, quindi, gratuita del tutto non è. Un aspetto non secondario: in sé Furia non è particolarmente «leggero», c’è un po’ di accorato romanticismo nella prima parte, che serve, per altro, a preparare il «terreno» alla svolta drammatica. Ma quel paragone ironico evidenzia come la situazione degeneri, e gli abitanti di Strand si trasformino in una folla inferocita, in seguito ad un meccanismo messo in moto superficialmente, senza riflettere. Senza cattiveria, nel senso di piena consapevolezza, ma con una superficialità tale che rende difficile non condividere il risentimento che Joe non riuscirà mai a vincere del tutto nei loro confronti. Racconta, sempre Lang nell’intervista con Bogdanovich, che la MGM non gradì affatto Furia. Addirittura Eddie Bendix, il dirigente che gli aveva affidato l’incarico per il film, lo accusò di aver cambiato qualcosa rispetto alla sceneggiatura. Come detto, il regista non se la cavava ancora così bene con l’inglese e, quindi, la cosa non era molto probabile; in ogni caso, su consiglio dello stesso Lang, vi fu un rigoroso controllo, copione alla mano, della pellicola. Nel frattempo, l’autore viennese venne “messo in castigo” con un’umiliazione pubblica che, nel 1965, oltre trent’anni dopo, sembrava ancora far male al regista di Metropolis. Il verdetto di Bendix fu emblematico: “Sì, hai ragione c’è (attinenza alla sceneggiatura, NdA) ma SEMBRA una cosa diversa sullo schermo!”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 32
]. Quello che avvertirono Bendix e gli altri dirigenti della MGM era l’essenza del cinema di Fritz Lang: in Furia, faticava ancora un po’, a trovare la giusta quadra all’interno del cinema americano, ma era già presente in forma cristallina. In seguito questa capacità del maestro troverà la sua massima espressione nei noir degli anni Quaranta e Cinquanta, ma Furia ne era già un sublime esempio. La storia di vendetta personale era un classico di Hollywood, e la morale era sempre che la vendetta non portava alcun beneficio, per chi la metteva in atto. Che è, in sostanza, la stessa conclusione che si può trarre da Furia, beninteso, come aveva dovuto ammettere a denti stretti persino Bendix. Quello che cambiava, era il rigore della messa in scena che contrastava l’emotività della storia, mantenendola viva e pulsante, ardente: in genere, i registi, dopo aver infiammato gli animi con qualche passaggio focoso, prendevano le distanze dalla violenza, in modo da condannarla. Lo spettatore seguiva ipocritamente questo percorso, prima facendosi prendere dall’enfasi e poi, nel finale, se non accusando il comportamento violento di turno, assai più spesso cancellando tutto con un colpo di spugna e celebrando idealmente il lieto fine insieme ai protagonisti. Lang non era tipo da sconti. Era, per sua stessa ammissione, un perfezionista, una persona meticolosa nel lavoro, e lo era anche dal punto di vista morale ed è proprio qui, nella sua statura etica, che risiede la sua grandezza. Per questo arrivò a dire, a proposito di Furia, che odiò il bacio finale, che rendeva sdolcinata e priva di rigore morale tutta quanta la storia. Joe non si meritava, almeno non così in fretta, di convolare con la sua bella Katherine (Sylvia Sidney), non dopo quello che aveva fatto nella seconda metà del film. In effetti, nel discorso finale, Lang fa precisare a Joe che dovrà pagare per il suo inganno alla corte del tribunale e alla collettività, nonostante lo stesso autore, è esplicitamente evidente, condivida il rancore che l’uomo prova nei confronti di quegli individui che, solo qualche tempo prima, avevano provato a mandarlo arrosto. È questa la forza del cinema di Fritz Lang: Joe non dimentica coloro i quali lo volevano linciare, e nemmeno li perdona. Il perdono non è, come il cinema e con esso tutta quanta la nostra cultura recente ha insegnato, un voltar pagina e pensare ad altro. Il perdono è una conquista dura e faticosa e non è qualcosa che ci verrà concesso, ma che dovremo meritare. Non è, quindi, compito di Joe, perdonare i suoi linciatori: essi dovranno fare i contri con la propria coscienza, e in questo senso ci sono le parole di Katherine a chiarire il punto di vista del regista. Se Joe non deve marcire nel rancore, e peggio ancora nella vendetta, è perché così facendo perde sé stesso e, in effetti, per buona parte del film, quando la brutale voglia di rivalsa lo pervade, egli è ufficialmente perfino morto. La capacità di Lang, quella che sfugge agli uomini della MGM, è di mantenere vivi questi sentimenti potenti, la rabbia di Joe o l’angoscia degli abitanti di Strand, che non sfociano mai in banali finali consolatori. Non si può convivere pacificamente con sé stessi dopo aver linciato un uomo: nemmeno se questo è scampato e se dovesse perdonarti. Bisogna certamente imparare a convivere coi propri demoni, e cercare di soffocarli, come spiega bene Joe, nel finale, rivolgendosi ai ventidue che tentarono di linciarlo: non si vendica ma neppure può perdonare così, con un nonnulla, una cosa di una tale gravità. Perfino dimenticare è impossibile ma proverà ad andare oltre. Se questi disgraziati riusciranno a far pace con la propria coscienza, non è affar suo ma loro: loro sono i rimorsi, e loro deve essere il percorso di redenzione. Ad Hollywood, il pragmatismo americano non aveva tempo per questi sofismi e, in genere, un lieto fine riusciva a lenire tutti i problemi, comprese le coscienze del pubblico nel caso l’opera avesse avuto una qualche forma catartica – cosa per niente infrequente con il cinema. Quello che Lang riuscì subito a cogliere del cinema americano è la responsabilità individuale del protagonista: Joe è un brav’uomo, diventa una belva in seguito ad un’ingiustizia ma saprà, finanche con l’aiuto di Katherine, fermarsi prima di commettere l’irreparabile. La vita è una questione di scelte e, per alcune di esse, non c’è poi tutto questo margine: e questo è meglio tenerlo bene a mente.            

martedì 9 aprile 2024

LA MORTE CORRE SUL FIUME

1465_LA MORTE CORRE SUL FIUME (The night of the hunter). Stati Uniti 1955; Regia di Charles Laughton.

E’ davvero un peccato che La morte corre sul fiume fu un fiasco al botteghino; l’insuccesso del film, di fatto, stroncò ogni eventuale ipotesi di carriera registica a Charles Laughton. The night of the Hunter, questo l’eccellente titolo originale, rimane così l’opera prima e ultima del formidabile attore inglese. La morte corre sul fiume uscì nel 1955, si presenta formalmente come un noir – e lo è – ma è anche un’opera spiazzante e originale, nonché raffinatissima. Forse troppo per quel pubblico che, presumibilmente, si poteva anche aspettare una storia oscura venata di paura, un thriller, insomma. Ma non una favola nera, onirica ed espressionista al punto da sembrare surreale in qualche passaggio. L’ambientazione scelta da Laughton è quella americana della Grande Depressione, quella tipica dei film di gangster degli anni 30 che furono antesignani del genere noir che fu invece espressione peculiare del decennio successivo. Ben Harper (Peter Graves) è costretto a compiere una rapina per poter sostenere la famiglia: la polizia non molla né tantomeno scherza e l’uomo rimarrà sul terreno non prima di aver consegnato il malloppo ai figlioletti, John (Billy Chapin) e la piccola Pearl (Sally Jane Bruce), con la raccomandazione di custodirlo gelosamente. Il nascondiglio scelto è all’interno dell’inseparabile bambola di Pearl: in un film fortemente simbolico come La morte corre sul fiume, un modo per dire che l’eredità della violenza che contraddistinse l’America della Grande Depressione aveva un lascito in profondità. Addirittura nei giochi dei bambini; quanto di più innocente ci potesse essere. E, proprio inseguendo questo denaro, ecco arrivare il noir, incarnato in modo sontuoso da Robert Mitchum – l’anima del cinema noir secondo il critico Roger Ebert – e dal suo personaggio, Harry Powell. 

Per presentare il quale, basterebbe citare qualcuna delle sue frasi ad effetto ma non si possono certamente tralasciare i tatuaggi sulle dita, love su quelle della mano destra e hate su quelle della sinistra, con la storiella del bene e del male in lotta tra loro che questo simpatico presunto predicatore sfoderava alla bisogna. Powell è un personaggio strepitoso, in anticipo sui tempi, con la sua cattiveria esplicita condita da malsano umorismo, non l’unico connubio atipico. L’altro, è ancora più interessante: Powell è implacabile, inesorabile, inarrestabile eppure non riesce mai a ad avere la meglio sulle sue prede che in fin dei conti sono semplici bambini. Egli sembra in grado di ritrovare le tracce dei piccoli in fuga ovunque possano andare, procedendo con ogni mezzo, ma senza affrettarsi mai troppo: una figura incombente e terrorizzante. Ma i ragazzi riescono sempre a fargliela; e quando vengono presi al varco, non cedono comunque alle sue insistenze. Caratteristiche contrastanti, la sua implacabilità e l’incapacità di riuscire nel suo scopo, che hanno qualche debito con Wile E. Coyote, il cartone animato della Warner Bros creato da Chuck Jones e Michael Maltese nel 1949, mentre anticipano di decenni alcuni personaggi del cinema horror degli anni 80, come il Freddy Krueger di Nightmare - Dal profondo della notte (1984, regia di Wes Craven). 

L’aspetto che sembra però interessare maggiormente Laughton sono per la verità i rimandi religiosi di Powell che, come detto, si spaccia per predicatore e il regista se ne serve per mettere sotto accusa il tipico bigottismo americano. In questo senso va anche la sciocca ingenuità di Willa Harper (Shelley Winters, bravissima come suo solito), vedova di Ben e madre di John e Pearl, che finisce irretita dalle false parole caritatevoli di Powell. In parte con grave responsabilità di altri due personaggi particolarmente ottusi, i coniugi Spoon (Don Beddoe e Evelyn Varden), di cui Icey, la moglie, incarna ancor meglio di Willa la dabbenaggine bigotta messa sotto accusa dal film. A salvare i ragazzi dalle grinfie di Powell sarà infine Mrs Rachel Cooper interpretata da Lillian Gish, ormai più che sessant’enne. La Gish era l’emblema di un cinema d’altri tempi, forse ancora puro e non inquinato totalmente dal potere del dollaro; l’influenza nefasta del denaro è esplicitata dalla scena in cui John se ne libera violentemente, strappando i bigliettoni verdi dal corpicino della bambola e gettandoli via. Se il denaro è visto in chiave totalmente negativa, il cinema non è solo fonte di salvezza – la Gish, diva del muto – ma anche minaccia incombente – l’anima nera di Mitch – mentre la religione appare come uno strumento pretestuoso, ottuso e privo di valore. Pur se un’opera di forte senso simbolico dovrebbe avere nel significato la sua massima importanza, in questo caso la bellezza astratta è l’apice del lavoro di Laughton. 

La celeberrima scena di Shelley Winters in fondo al fiume, coi capelli che si librano nell’acqua come alghe, è il caso più clamoroso ma ce ne sono molte altre. L’ombra di Mitchum, il suo incedere inesorabile, la follia mistica che si impossessa del personaggio della Winters: formalmente La morte corre sul fiume è un campionario di immagini dal grande impatto scenico e forte valore simbolico. Eppure il film non ebbe successo; chissà perché? Chissà se davvero fu un limite del pubblico che non colse lo spirito dell’opera. Oppure, ci sia davvero, nel film di Laughton, qualcosa che non è dosato col giusto equilibrio: per essere un film espressionista, manca forse di peso nel senso, nel significato: per essere un noir, la storia manca un po’ di mordente – considerato che il cattivo non riesce a spuntarla contro due bambini. Come fiaba sarebbe invece perfetta, non fosse che a finire sulla graticola satirica è il bigottismo religioso e forse questo non è un tema propriamente adeguato. Certo, Powell può benissimo incarnare il Male ma è un cattivo come detto piuttosto atipico. E’ spregevole, eppure a suo modo suscita simpatia; forse, accettare questo in un film serio – seppur dai toni fortemente astratti – e non in un cartoon, non era così scontato. Sia come sia, Mitch che sentenzia placidamente minaccioso “Tornerò quando sarà buio” ad oggi ancora non si batte.  







Galleria