Translate

Visualizzazione post con etichetta Sportivo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sportivo. Mostra tutti i post

giovedì 15 agosto 2024

FERRARI 312B

1530_FERRARI 312B . Italia 2017; Regia di Andrea Marini.

È innegabile che un film documentario incentrato su una specifica vettura di Formula 1 di mezzo secolo fa, attiri unicamente l’interesse di un pubblico selezionato e, si suppone, preparato. Tuttavia, nell’introduzione all’opera, è dato forse poco spazio alla definizione dell’operazione che si è deciso di seguire con il racconto filmico. Perché Ferrari 312B di Andrea Marini non è solo una descrizione tecnica sulla mitica autovettura che corse per il Cavallino Rampante nelle stagioni 1970 e 1971. O meglio, estratti da quegli anni, immagini dei Gran Premi, ci sono, ma fungono da sfondo alla vicenda raccontata in primo piano, che riguarda l’acquisto e la completa ristrutturazione di un esemplare della vettura in questione. Ed è qui che Andrea Marini, la fa troppo facile: come se trovare d’«occasione» una Ferrari di Formula 1 degli anni Settanta sia una cosa quasi naturale, al pari di conoscere di persona Mauro Forghieri, lo storico progettista che lavorò a Maranello per anni e che fu responsabile anche del progetto 312B. Certo, se ti chiami Paolo Barilla –fai il pilota, d’accordo– e sei il rampollo della nota famiglia di produttori di pasta, allora tutto assume un’altra prospettiva. Se c’è un appunto, che si può fare al docufilm di Marini, infatti, è proprio questo: guardando il suo Ferrari 312B si può infatti avere l’illusione che restaurare un bolide di Formula 1 di quell’epoca sia una cosa, non si dice alla portata di tutti, ma nemmeno così proibitiva. In realtà, probabilmente, è un’operazione preclusa alla totalità degli appassionati, e, allora quello di Marini diventa un’occasione unica per vedere davvero come è fatta e come funziona –e, anche come non funziona– un’auto da competizione. Infatti, pur avendo la consulenza di un geniaccio come Forghieri, e smontando e rimettendo a nuovo ogni singolo pezzo della vettura – motore compreso, revisionato da un’azienda specializzata– la 312B, una volta riassemblata, fa un po’ i capricci. Barilla non demorde, perché ha un sogno: guidarla al Gran Premio di Montecarlo per auto storiche. Un’idea che può suscitare qualche dubbio: è il caso di portare un autentico pezzo da museo –nel senso che è una vera e propria opera d’arte– a rischiare di schiantarsi ad ogni curva? Barilla, anche in base alle opinioni raccolte, si convince di sì: la Ferrari 312B è stata concepita per gareggiare e solo in una corsa potrà davvero rivivere. L’entusiasmo del buon Paolo è contagioso e finisce per essere anche convincente: se non fosse che, durante le prove, una Lotus dalla fiammante livrea John Player Special nera e oro, finisce contro il guard-rail e, a quel punto, qualche dubbio sull’opportunità di far correre rischi a quelle meraviglie tecnologiche ritorna eccome. In ogni caso, guardare Ferrari 312B, vedere smontare e rimontare una leggendaria monoposto di Maranello, è un’esperienza mistica più che cinematografica.    



Galleria 


martedì 13 agosto 2024

RUSH

1529_RUSH . Stati Uniti 2013; Regia di Ron Howard.

In qualche spunto, Ron Howard è un regista di primissimo rango; nel complesso, poi, sembra sempre mancargli quel pizzico per essere annoverato tra i veri maestri di Hollywood. Chissà, forse in futuro la sua arte si farà maggiormente strada, nell’analisi ai suoi film; per ora rimane un po’ imbrigliata nella sua diligente attenzione formale. Eppure, l’idea di dare concretezza cinematografica alla rivalità tra Niki Lauda e James Hunt, piloti di Formula 1 degli anni Settanta, è, a dir poco, geniale. Forse, i problemi –se vogliamo chiamare così i limiti che poi l’opera denota– nascono già dalla scelta di prendere come base di partenza la sceneggiatura di Peter Morgan: lo script dell’autore britannico si inserisce nella consuetudine dei suoi precedenti lavori, enfatizzando i fatti storici e raccontando scontri tra personalità opposte. A prima vista, uno stile come quello di Howard sembra particolarmente congeniale a questo tipo di soggetti: Rush, risultato in questo caso di tale connubio, è infatti un’ardente rilettura di alcuni eventi dell’età dell’oro della Formula 1. Un film che si consuma rapidamente sullo schermo nonostante le oltre due ore di durata, ma, di contro, lascia tutto sommato poco nello spettatore. È un po’ il limite di Howard –e forse anche di Morgan– che fatica a cogliere davvero nel segno, a lasciare una traccia indelebile, nonostante i suoi film siano in genere formalmente ottimi. Come Rush, appunto.
Il cinema, dopo i suoi approcci negli anni Sessanta, aveva lasciato perdere il mondo delle corse automobilistiche, affrontato quindi molto raramente e con prospettive laterali, si veda Un attimo, una vita di Sidney Pollack [
Bobby Deerfield, 1977] a titolo d’esempio. Il film di riferimento, per le gare in automobile, era ancora Grand Prix di John Frankeheimer, risalente al 1966; in seguito, solo Le 24 ore di Le Mans, [Le Mans, 1971] regia di Lee H. Katzin –che aveva diligentemente osservato le disposizioni di Steve McQueen– era riuscito ad avvicinarcisi. Il problema, già emerso con l’archetipo I diavoli del Grand Prix [The young racers, 1963] di Roger Corman, era la gestione del doppio binario narrativo: da una parte la componente agonistica che andava bilanciata da quella sentimentale dei personaggi.

Corman aveva privilegiato la resa scenica delle gare, lasciando le beghe umane in secondo piano; una scelta che Frankenheimer aveva ulteriormente enfatizzato. Tutto sommato i risultati avevano pagato, ma forse non come ci si aspettava. Per il citato film del 1971 ambientato a Le Mans, John Sturges, regista designato in origine, pensava di mettere in risalto la storia romantica; McQueen era di avviso opposto e impose la sua scelta. Risultato: Le 24 ore di Le Mans è un ottimo film, ma fu un fiasco al botteghino e, in ogni caso, non solo non riuscì a far compiere definitivamente il salto di qualità al genere sportivo di stampo motoristico, ma perse terreno anche nei confronti del film di Frankenheimer. A quel punto, l’impresa dovette sembrare proibitiva, e le corse automobilistiche rimasero un elemento di contorno, quando furono chiamate in causa dal cinema, ma raramente al centro della scena. Fino al 2013 quando Morgan e Howard approfittarono della stimolante rivalità tra Hunt e Lauda per riportare la Formula 1 sul grande schermo. Howard, che ha un ottimo fiuto per il casting, scelse gli interpreti adeguati: Chris Hemsworth, tipico fusto hollywoodiano e al tempo in rampa di lancio, è Hunt; Daniel Br
ühl, attore dal solido curriculum, è Lauda; Oliva Wilde è la bellezza mozzafiato ideale tanto per dare corpo alla modella Suzi Miller, che a mettere il giusto pepe rosa al film. Hunt e Lauda sono due piloti agli antipodi: il primo è uno sciupafemmine dotato di talento geniale anche in pista; il secondo unisce alle innate capacità tecniche, una volontà e un’abnegazione al lavoro da vero stakanovista. 

La rivalità comincia dalle formule minori e si amplifica quando i due piloti arrivano, con modalità differenti, in Formula 1. Entrambi sono di rango benestante, ma non hanno l’appoggio delle rispettive famiglie; Lauda, grazie ad un prestito bancario, si paga un sedile nella scuderia britannica BRM per la stagione 1973. Nel frattempo, l’istrionico titolare della scuderia di Hunt, Lord Hesketh (Christian McKay), decide di regalare al suo pupillo la possibilità di gareggiare nella massima formula. Il che sembra una sparata tipica del personaggio, un uomo d’altri tempi che si diletta a fare l’aristocratico, ma la Hesketh 731, derivata da una March, nelle mani di Hunt comincia a raggranellare punti nel campionato mondiale. Assai più di quanti ne faccia Lauda con la BRM che deve quindi assistere, impotente, il suo rivale festeggiare addirittura sul podio, sfiorando la vittoria. Il colpo di scena che ribalta la situazione è dovuto all’intercessione del compagno di scuderia di Niki, Clay Regazzoni (Pierfrancesco Favino): nonostante l’austriaco non sia certo un tipo amichevole, lo svizzero ne riconosce la grandissima capacità di messa a punto della vettura, e convince la Ferrari, suo prossimo team, ad ingaggiare anche Lauda. Per Hunt, che è rimasto alla Hesketh, scuderia di secondo piano, assistere all’ascesa del rivale che, in un top-team come la Ferrari, può cogliere le prime vittorie, è davvero frustrante. E se, l’anno successivo, anche Hunt riesce a vincere il suo primo Gran Premio, Lauda si erge a dominatore indiscusso del campionato, surclassando perfino Regazzoni che l’aveva voluto al suo fianco nella scuderia di Maranello. La situazione per l’inglese, già critica, peggiora, allorché lo svampito Lord Hesketh si rende conto che l’avventura in Formula 1 gli ha praticamente prosciugato il pur cospicuo conto corrente: è la bancarotta per il team e Hunt si ritrova a piedi. James è disperato, quand’ecco che gli capita un colpo di fortuna: Emerson Fittipaldi abbandona le corse, lasciando vacante il sedile sulla sua McLaren, una scuderia di punta con la quale aveva vinto il titolo iridato nel 1974. Il 1976 si presenta come la stagione della sfida decisiva: ora tutte e due i piloti hanno vetture competitive. Nonostante Hunt sia velocissimo, Lauda sembra imbattibile e accumula punti di vantaggio. Fino a questo momento, tutto sommato, le vicende raccontate hanno avuto una discreta attinenza storica; ora che si entra nel vivo del racconto, il lavoro di Morgan in sede di sceneggiatura si fa più rilevante. 

In occasione del quarto appuntamento, in Spagna, Hunt vince ma viene squalificato, stando a Rush, per un reclamo pretestuoso da parte della Ferrari; in seguito, a ribadire le ragioni del team inglese, la squalifica verrà revocata. Difficile, in ogni caso, stabilire chi avesse ragione, perché nel mondo delle corse, spesso, il potere politico pesa più delle attinenze meramente tecniche. Quel che è certo è che, in questo passaggio si può cogliere la volontà, da parte degli autori, di riservare alla Ferrari il ruolo di «cattiva», come da tradizione, almeno per quel che concerne la narrazione sul grande schermo. Del resto, seppure il film verta sulla rivalità tra i due piloti, se c’è una prospettiva privilegiata, nel racconto di Morgan e Howard, è quella di Hunt; per averne conferma, basta guardare i manifesti. James è il bello e dannato; Niki il primo della classe antipatico e spocchioso. E non solo: quando Hunt non vince, la colpa è della Hesketh poco competitiva, della crisi con la moglie Suzi, che se la intende con Richard Burton o delle modifiche che la McLaren è stata costretta a fare a causa dei cavillosi reclami della Ferrari. Una serie di problemi assai concreti che rendono umano il campione inglese. Lauda, al contrario, è il perfetto villain: quando può, vince, al punto da sembrare imbattibile ed imperturbabile. Ad esempio, la sua storia d’amore con Marlene (Alexandra Maria Lara), a differenza del rapporto tra James e Suzi, non intralcia la sua inarrestabile avanzata. Eppure sarà proprio Lauda a compiere l’evoluzione più significativa, sul letto d’ospedale. Ma andiamo con ordine: siamo al Gran Premio di Germania, al famigerato e pericolosissimo
Nürburgring e Lauda ha un’infinità di punti di vantaggio in classifica. Ha piovuto, in Germania, ma forse la pista si sta asciugando e il circuito, già insidioso anche per via della lunghezza di oltre 20 km che rende difficoltosi gli eventuali soccorsi, in queste condizioni è una vera trappola. In prima fila Lauda e Hunt, marcandosi vicenda, optano per le gomme da bagnato; Mass, compagno di Hunt alla McLaren, è tra i pochi ad osare le slick, i pneumatici da asciutto, una scelta che si rivela subito vincente. 

Nella bagarre che segue al primo giro, con i box intasati dal traffico per un inusuale cambio gomme immediato, Lauda rimane attardato e riparte come una furia. Nel briefing prima della gara, aveva chiesto l’annullamento della corsa, per via delle condizioni meteo. Qualcuno, nella sala gremita di piloti, aveva ironizzato sul fatto che avesse paura; nonostante il vantaggio in classifica, perdere malamente avrebbe dato credito a quelle voci. Al Bergwerk, il punto più lontano dai box, e quindi dai soccorsi, la sua Ferrari 312 T2 tocca il cordolo, sbanda paurosamente, si schianta contro il guardrail e ripiomba in pista in fiamme. Sopraggiungono altre vetture che, non riuscendo ad evitarla, la colpiscono violentemente; Lauda è nell’abitacolo e sta bruciando vivo, nonostante la tuta ignifuga. Viene comunque tratto in salvo, rimanendo ustionato pesantemente in volto, per tutta la vita. Mentre è all’ospedale, in condizioni disperate, grazie al supporto della moglie Marlene, comincia lentamente a rimettersi ma la sua ripresa subisce una brusca accelerata quando vede Hunt vincere i Gran Premi restanti nella stagione, insediando il suo primato in classifica. Non è, però, questa l’evoluzione di Lauda di cui si accennava: questo semmai è l’apice del suo agonismo, del suo esasperato desiderio di competizione che da sempre lo caratterizzava. Dopo soli 42 giorni dall’incidente, per difendere il suo primo posto nella graduatoria mondiale, contro ogni aspettativa, logica e buon senso, Niki Lauda si presenta al via del Gran Premio di Monza: dopo le iniziali difficoltà, riesce a piazzarsi quarto mentre Hunt è costretto al ritiro. Le cose sembrano rimettersi al meglio per l’austriaco della Ferrari. In Rush, dopo questa svolta positiva per Lauda si passa subito all’ultima gara, in Giappone; nella realtà, prima dell’appuntamento al circuito del Monte Fuji, c’erano state due corse, dove Hunt aveva fatto bottino pieno e Lauda faticato. In ogni caso, tanto negli almanacchi che nel film di Howard al via del Gran Premio del Giappone l’inglese è a soli tre punti dal primo posto dell’austriaco. Piove, sul circuito del Monte Fuji, e, da perfetto eroe hollywoodiano, Hunt, vorrebbe lasciar perdere corsa e campionato. Nel briefing al Nürburgring era stato proprio lui a condizionare gli altri piloti, e ad indurli a votare per correre, contro il parere di Lauda. Naturalmente, la gara si disputerà, e la colpa, in questo caso, è del Sistema: nello specifico del fatto che l’evento è stato venduto a troppe televisioni sparse in tutto il mondo; impensabile rimborsarle tutte. Al via, Hunt balza al comando, tallonato da Lauda, immerso nella scia d’acqua dell’inglese; alla fine del primo giro, l’austriaco si ritira, ritenendo le condizioni della pista eccessivamente rischiose. Stando alle storiche dichiarazioni, e alle cronache, ci furono molti fattori, da tenere in considerazione; di tutto quanto ciò, Howard e Morgan tengono in sostanza solamente l’onestà di Lauda che rifiuta l’offerta del responsabile tecnico della Ferrari, Mauro Forghieri (Vincent Riotta) di attribuire ad un guasto elettrico il motivo del ritiro. 

L’immagine di Marianne, che si palesa davanti al casco di Lauda, sommerso dalla pioggia durante l’unico giro disputato dall’austriaco, è, naturalmente, farina del sacco degli autori, e serve a giustificare narrativamente la coraggiosa scelta del pilota Ferrari, sebbene non sia necessariamente del tutto campata in aria. Hunt, dopo qualche incertezza sull’ordine d’arrivo, fatto curiosamente storico, si ritrova terzo, risultato che gli permette di vincere il titolo. L’italiana Ferrari è sconfitta, si veda anche il sorpasso decisivo di Hunt a Regazzoni, compagno di squadra di Lauda, nel finale; gli inglesi, pilota e vettura, hanno vinto, e, per un film americano, missione è quindi compiuta. Il pistolotto finale, non è che la conferma di questa impostazione: Hunt è il cavaliere, che sfida la morte e la irride, solo per battere il rivale. Lauda, l’austriaco –comunque l’area è germanica– è il freddo professionista che calcola le percentuali di rischio e si rode nell’invidia guardando l’avversario vincere.
Pur essendoci moltissimi rimandi alla realtà, Rush è penalizzato da quest’uso smodato dei luoghi comuni angloamericani, si veda la stereotipata descrizione dell’Italia, che è lo specchietto tornasole della caratura artistica degli autori. La vicenda umana è forte, perché gli eventi reali lo erano, ma è trattata in modo superficiale e solo la stilizzazione visiva dell’opera attenua il fastidio derivante. Proprio la scelta formale, nella messa in scena delle corse, è l’aspetto più convincente del film: le scene non ricercano il realismo alla Grand Prix, piuttosto oscillano tra l’iperrealismo e una rappresentazione fortemente stilizzata della realtà. L’insistenza sui dettagli, le vibrazioni, il rumore, e soprattutto, le gare decisive sotto l’acqua, al Nürburgring o al Monte Fuji, con i cieli plumbei, le nubi scure ed incombenti, la pioggia a confondere ogni cosa: le corse, in Rush, sono un inferno dantesco.
Nel complesso, come i film sulle gare automobilistiche che l’hanno preceduto, nemmeno quello di Howard e Morgan è un vero capolavoro. Ma con il suo iperrealismo stilizzato, potrebbe fungere da utile indizio, per riuscire finalmente a trovar l’alchimia giusta per rappresentare in modo adeguato il fantastico mondo della Formula 1 al cinema. 





Olivia Wilde 





Alexandra Maria Lara 



Galleria 




domenica 11 agosto 2024

SCHUMACHER

1528_SCHUMACHER . Germania 2021; Regia di Hans Bruno-Kammertons, Vanessa Nocker e Michael Wech.

In Italia il documentario Schumacher è un evento di una certa importanza: a Schummy, come venne soprannominato, è, infatti, indissolubilmente legato l’ultimo grande periodo della Ferrari in Formula 1. Come in Germania, del resto: Schumacher è ricordato, oltre che per i sette titoli, anche per essere stato il primo tedesco a laurearsi campione del mondo nella massima serie automobilistica. Per tutti quanti, in ogni caso, Michael Schumacher è il pilota più vincente della storia della Formula 1, almeno fino all’arrivo di Lewis Hamilton che ne ha uguagliato il numero di mondiali vinti ma lo ha superato nella classifica dei trionfi nei Gran Premi. Dettagli statistici: Schummy è una vera leggenda dell’automobilismo e il film Netflix di Hans-Bruno Kammertöns, Vanessa Nöcker e Michel Wech ne ripercorre sommariamente la carriera e regala anche qualche dettaglio, molto commovente, legato alla vita privata del pilota. Il documentario non è una rigorosa cronistoria, dando maggiormente spazio alle prime due fasi della carriera di Schumacher, mentre il glorioso periodo dei cinque titoli consecutivi, vinti al volante della Ferrari, viene quasi tralasciato. Volontà, forse, di non sconfinare nell’agiografia; rischio inevitabile, tuttavia, in quanto nessuno si sognerebbe di fare un documentario su uno sportivo che non abbia amato. In Germania, e in seguito anche in Italia, in ogni caso, era impossibile non innamorarsi sportivamente di un asso come Schummy. Oltretutto, se siamo di fronte ad un predestinato, le cause di questa garanzia di successo sono da ricercarsi nel suo talento e nella sua feroce determinazione, perché la famiglia di Schumacher non è che navigasse nell’oro. Per correre nei Kart, Michael doveva ricorrere alle gomme che gli altri scartavano; tanto poi, con la sua formidabile abilità nella guida, vinceva lo stesso. Dopo qualche stagione nelle categorie inferiori, Michael, nel 1991, ebbe la fortuna di debuttare con la Jordan Ford facendo all’esordio –in un templio della velocità come Spa-Francorchamp, a lui totalmente sconosciuto–meglio del compagno di squadra, il veterano Andrea De Cesaris. 

Eddie Jordan si rese conto di aver per le mani il nuovo fenomeno della Formula 1, e provò a far firmare a Schummy un contratto; il manager del pilota, Willy Weber, prese opportunamente tempo. Flavio Briatore, direttore della Benetton Ford, non si lasciò scappare l’occasione e appiedò il suo secondo pilota, Roberto Moreno, per far posto al giovane tedesco, al fianco del tre volte campione del mondo Nelson Piquet. Nei restanti cinque Gran Premi, Schumacher arrivò tre volte a punti, dando del filo da torcere a tutti, a cominciare dall’illustre compagno di squadra. Nelle due stagioni successive il tedesco consolida la fama di giovane promessa, riuscendo a vincere una gara all’anno nonostante, il quel biennio, la Williams Renault fosse praticamente imbattibile. Da un punto di vista generale, l’anno successivo, con l’approdo in Williams del formidabile Ayrton Senna –idolo, tra l’altro, del giovane Schumacher– sembra nascere sotto auspici ancora più foschi per chi non piloti un’auto di Sir Frank. A sorpresa, il 1994 si apre con due vittorie per Schumacher e la Benetton, poi, a Imola, nel mese di maggio, il week end forse più nero della Formula 1, porta via Ayrton Senna –e Roland Ratzenberger– e, a quel punto, il mondiale sembra ormai già assegnato. La Williams Renault, che rimane infatti la scuderia di riferimento, è rimasta con la seconda guida Damon Hill e il collaudatore David Coulthard; due piloti che vediamo intervistati nel documentario, anche perché protagonisti, insieme a Schumacher, di episodi controversi. Il primo dei quali capita giusto all’ultima gara del 1994, nel decisivo Gran Premio di Australia. A sorpresa, infatti, Hill ha compiuto una strepitosa rimonta e ora è ad un solo punto di distacco da Schummy: in fondo, siamo ancora nei primi anni Novanta, e giova ricordare che il pilota tedesco era stato gran fan di Senna, un pilota che di mondiali decisi in modo assai poco ortodosso all’ultima –o penultima– gara se ne intendeva. Ad Adelaide, nonostante la Williams sia ormai dichiaratamente superiore alla Benetton, Schummy prende il comando; Hill lo tallona ma non sembra avere la verve per attaccarlo. 

Tuttavia non molla di un centimetro e induce Schumacher all’errore: la Benetton del tedesco urta un muretto del circuito cittadino e rimbalza in pista. Sopraggiunge Hill, che ora avrebbe la strada spianata verso il titolo: Schumacher chiude con decisione, nonostante sia già fuori gara, ed elimina anche il rivale. Il mondiale 1994 è suo. Il documentario sorvola su questo passaggio, che, a suo tempo, l’ex pilota di Formula 1 John Watson definì “un colpo d’esperienza, altro che errore casuale”, mentre l’ex campione di motociclismo Barry Sheene sentenziò: “Schumacher ha provocato l’incidente, è una cosa evidente a tutti”. [La Repubblica, 15 novembre 1994]. Schumacher si ripeterà, tanto nella vittoria del mondiale che nella scorrettezza specifica, sebbene riuscirà ad avere successo solo nel primo dei due tentativi di replica. Il titolo dell’anno successivo arrise, infatti, ancora al tedesco, stavolta senza code particolarmente polemiche. Per cercare un «corpo a corpo» nella gara decisiva degno di un «Senna v Prost», si deve attendere il 1997: Schummy è approdato alla Ferrari, il rivale è sempre l’alfiere della Williams Renault, in questo caso Jacques Villeneuve, figlio dell’indimenticato Gilles. Ultima gara, Gran Premio d’Europa al circuito di Jerez de la Frontera: Schumacher ha 78 punti in classifica, Villeneuve 77. La Pole Position è del canadese ma il tedesco prende saldamente la testa della gara; poi, al 47° giro, Schumacher si fa sorprendere da Villeneuve alla curva Dry Sack. Vistosi perduto, Schummy chiude la traiettoria nel tentativo di speronare l’avversario; malauguratamente per lui, è il solo a rimetterci e Jaques può finire la gara con i punti necessari per vincere il mondiale. In un certo senso l’incidente di Jerez è emblematico di come funzioni la comunicazione degli eventi in Formula 1: il tedesco ha provato una scorrettezza ma, stavolta, gli è andata male. 

C’è da credere che, se fosse riuscito a buttar fuori Villeneuve come fatto con Hill, si sarebbe applaudito la sua determinazione, specialmente in Italia, dal momento che guidava una Ferrari. Al contrario, avendo perso, nonostante Schumacher fosse sicurissimo di avere ragione e fosse furibondo con Villeneuve, il suo comportamento venne criticato dagli organi di stampa, un quotidiano tedesco lo definì “kamikaze senza onore” <si tratta del Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito https:// it.wikipedia.org/wiki/Gran_Premio_d%27Europa_1997>, dagli addetti ai lavori e persino la FSI arrivò a squalificarlo dal campionato. Una sanzione spropositata se paragonata all’incolumità concessa ai casi precedenti –da Prost, a Senna, allo stesso Schumacher– che, curiosamente, avevano sempre visto premiata dalla pista tale condotta. La colpa di Schummy, guardando le cose in quest’ottica, sembra unicamente quella di non essere riuscito nel suo intento piratesco. In questo caso, perfino un documento agiografico per sua stessa natura come il film di Hans-Bruno Kammertöns, Vanessa Nöcker e Michel Wech, ammette la scorrettezza di Schumacher. Che, in ogni caso, si ripeterà altre volte, e nel documentario in questione si approfitta della presenza di Coulthard per rinverdire l’episodio che vide il pilota tedesco tamponare violentemente lo scozzese in Belgio nel 1998. Naturalmente, in Italia, patria della Ferrari, la cosa provocò un’ondata di indignazione e il pilota della McLaren fu accusato di aver rallentato deliberatamente per farsi urtare da Schumacher, un modo suicida per fare il gioco di squadra e favorire Hakkinen, il compagno in lotta col tedesco nel campionato. 

Ancora oggi, se si cerca in un qualunque sito di motorsport italiano l’incidente in questione, per sottolineare al meglio la responsabilità di Coulthard, vi si trovano elencate tutte le regole che un doppiato deve rispettare, quali non rallentare, spostarsi dalla traiettoria principale di gara, eccetera eccetera. Basterà, peraltro, guardare un qualsiasi Gran Premio per rendersi conto che i piloti, anche i doppiati, in pista gareggiano e capita che non siano sempre ligi e rispettosi di tutte quante le regole previste. Gente come Senna e Schumacher, tanto per fare due nomi, meno degli altri. In ogni caso, se anche la telemetria ha stabilito che la McLaren rallentò inopinatamente, furono gli spruzzi d’acqua che limitarono la visibilità, ad impedire a Schumacher di vedere la vettura di Coulthard. Schummy, per una questione di sicurezza, oltre che per motivi di classifica, avrebbe fatto meglio ad essere più prudente, evitando di tallonare così da vicino la McLaren, anche perché nelle condizioni della pista, in quel momento, il fattore aereodinamico e perfino la questione della traiettoria di gara, avevano assai meno valore. Il tedesco poteva superare lo scozzese dove voleva e solo la sua temerarietà cagionò l’incidente; l’ira che lo colse, in seguito, quando ai box cercò di aggredire Coulthard, ci lascia qualche dubbio, purtroppo, anche sulla vera natura dell’uomo, dopo che quella della scorrettezza di pilota era stata smascherata dai troppi episodi discutibili. Per altro, i famigliari e gli amici, in primis la moglie Corinna, nel documentario, assicurano che Michael era un uomo premuroso e dolce. Per carità, non ci occorre altro per chiudere la questione, anche perché, c’è da credere che, allo spettatore tipico di Schumacher, il documentario, interessino più che altro le sue gesta sulla pista. E sulla pista, Schummy si può ricordare per le tante vittorie e per la determinazione che ne fanno, indiscutibilmente, uno dei piloti più competitivi di sempre. Con tutto quel che questo, evidentemente, comporta.  




Corinna Schumacher 


Galleria 


venerdì 9 agosto 2024

SENNA

1527_SENNA . Regno Unito, Stati Uniti, Francia 2017; Regia di Asif Kapadia.

Ci sono sportivi per i quali è difficile comprendere cosa li renda, agli occhi di pubblico e addetti ai lavori, davvero unici e speciali: tra i non tantissimi, giusto per fare qualche esempio, si possono citare Diego Armando Maradona nel calcio, Roger Federer nel tennis, Valentino Rossi nel motomondiale. E naturalmente, Ayrton Senna nella Formula 1, personaggio a cui è dedicato il film documentario Senna di Asif Kapadia. Già il fatto che un cineasta inglese di origine indiana si prenda la briga di dedicare una sua opera ad un pilota brasiliano, la dice lunga sull’internazionalità di Ayrton, che era beneamato ovunque per il globo. Certo, in Brasile, e nel film la cosa è ribadita a più riprese, Senna era ben più che una bandiera, e in questo senso l’aurea che l’accompagnava travalicava l’ambito sportivo, tanto che si potrebbero scomodare anche altri paragoni, che possono andare da Che Guevara a Elvis Presley. Del resto siamo di fronte ad un personaggio che, più volte in carriera, dirà di essersi avvicinato a Dio. Il che potrebbe forse aiutare a spiegare il motivo per cui Senna era amato da tutti, non solo dagli appassionati di corse automobilistiche; e, a conferma di ciò, nel suo paese egli raccolse un consenso che aveva caratteristiche messianiche. La cosa è quantomeno curiosa perché quando Ayrton arriva in Formula 1, Nelson Piquet, pilota anch’esso brasiliano, vince il suo secondo titolo mondiale a cui ne succederà un terzo prima che Senna riesca nell’impresa. Questo per dire che Ayrton non fu certo il primo a dare lustro al palmares verdeoro nella massima categoria automobilistica: c’era stato in precedenza Emerson Fittipaldi e, come detto, Piquet negli anni Ottanta era ancora in attività ed era un’autentica leggenda automobilistica. Tuttavia il favore popolare che aveva Nelson, vincente, simpatico, carismatico, era irrisorio se paragonato a quello di Ayrton.

Il motivo per cui Ayrton piaceva, probabilmente, è il più ovvio: era il più forte. Le interviste ai brasiliani di ogni età, sesso o categoria, che, nel film di Kapadia, assicurano questo o quel motivo socialmente profondo per spiegare il fascino di Ayrton –facendo spesso, ad esempio, riferimento al riscatto che un pilota vincente offriva ad un popolo al tempo martoriato dalla povertà– sono piacevoli da ascoltare, ma assai poco convincenti. Come detto, anche Piquet, a quel riscatto avrebbe contribuito, ma Nelson, che pure era un pilota formidabile, non ha mai dato, in carriera, l’idea di una supremazia tanto netta sui rivali come invece fece Senna. E, di conseguenza, mai ebbe il suo seguito. Inoltre, Senna era amato in maniera cieca e quasi inspiegabile anche fuori dal Brasile, persino in Italia dove l’essere stato sempre avversario della Ferrari, non lo poneva certo in un’ottica favorevole, almeno in linea teorica. In una simile situazione, è quasi superfluo andare a controllare se il regista Asif Kapadia sia stato un fan di Ayrton; in ogni caso, il suo film ha i caratteri dell’agiografia, del resto per un personaggio come Senna è quasi inevitabile. Probabilmente, per scongiurare questa sensazione, viene dato molto spazio ad Alain Prost, l’acerrimo rivale che contese più di un titolo mondiale al brasiliano, con situazioni davvero sopra le righe che rimasero nella Storia della Formula 1. I campionati decisi all’ultima o penultima gara, con il pilota più avanti in classifica che scaraventava fuori il rivale per togliergli la possibilità di superarlo in classifica, sono pagine a loro modo epiche della fine degli anni 80, ma anche profondamente scorrette oltre che pericolosissime. È molto interessante, nel film, la figura di Jean-Marie Balestre, patron assoluto della Formula 1 dell’epoca, amico di Prost e accusato da Senna –e indirettamente anche da Kapadia che ne asseconda le istanze– di complotti per favorire in ogni modo il Professore, come era chiamato il pilota francese. In effetti, già a Montecarlo, nel 1984, Prost era stato per così dire «salvato» dai giudici di gara, che, appena al trentunesimo dei settantasette giri previsti, avevano interrotto la corsa. Il pilota francese, in quel momento leader sulla pista a bordo della formidabile McLaren TAG Porsche, aveva quindi ottenuto la vittoria, a discapito del giovanissimo Ayrton Senna che stava recuperando a tutta birra con una assai poco competitiva Toleman Hart. 

Sotto il diluvio che inondava il principato quel pomeriggio, difatti, l’auto contava relativamente e Ayrton mise in luce tutto il suo talento. In quel 1984, nonostante il campionato fosse ancora all’inizio, si era già in parte intuito l’enorme potenziale della McLaren motorizzata Porsche e, nella lotta per il titolo, Prost conduceva la classifica iridata con sei punti di vantaggio sul compagno di squadra, Niki Lauda. A Montecarlo, con l’austriaco fuori gioco, Prost aveva la possibilità di incrementare il distacco; Senna, che era partito nelle retrovie ed era un esordiente, quando le condizioni della pista peggiorarono, divenne per il Professore una variabile fastidiosa. Alla maniera in cui guidava Ayrton, nonostante Monaco fosse un Gran Premio in cui era assai arduo superare gli avversari, il francese non sembrava avere chances di resistergli. La decisione della direzione della corsa, presa dall’ex pilota Jacky Ickx, fu salutata come salvifica, da Alain, mentre Ayrton si vedeva negata una possibile prima vittoria in F1 davvero insperata, considerato il mezzo che aveva a disposizione. Del resto il Principato di Monaco, seppur indipendente, si trova immerso in territorio francese e, considerata la crescente influenza di Balestre nella Formula 1, la cosa destò non pochi sospetti. In realtà, e a testimonianza di come le corse siano imponderabili anche a livello di campionato stagionale, la scelta di Ickx finì per danneggiare Prost, seppure sul momento sembrò semmai favorevole al francese, avendogli salvata la vittoria interrompendo la gara prima del prevedibile sorpasso di Senna. Perché, con soli trentun giri compiuti, la corsa finì per avere un punteggio ridotto e Prost incamerò quattro punti e mezzo, la metà dei nove previsti per il vincitore. 

Purtroppo per lui, a fine campionato, Lauda vinse il titolo per mezzo punto di vantaggio; se Prost avesse finito la gara di Montecarlo, anche finendo secondo –superato come prevedibile da Senna– avrebbe preso i sei punti destinati alla piazza d’onore e vinto il mondiale a fine anno. Congetture, d’accordo, ma servono per comprendere come, volendo forzare le interpretazioni, si possono fare tantissime ipotesi, anche affascinanti o stimolanti, ma spesso la realtà potrebbe essere più semplice. Ad esempio, nel film, dopo aver dato il giusto spazio alla vittoria mancata da Senna a Montecarlo, si passa al periodo successivo, con il brasiliano al volante della Lotus, e si arriva presto al 1988. L’approdo di Ayrton in McLaren sarà caratterizzato dalla rivalità con Prost che ci mette davvero poco ad accendersi. Stranamente, il documentario di Kapadia tralascia quello che fu, almeno a detta di Prost, l’innesco di un’aperta ostilità senza riserve tra i due piloti McLaren, il Gran Premio di Portogallo di quella stagione. Niente di drammatico, sia chiaro, Senna aveva una prepotenza nella guida che Prost non ha mai avuto e forse, in quel caso, il brasiliano si spinse un po’ troppo oltre al consentito da quel codice cavalleresco che, del resto, in carriera mai si è curato di rispettare. Che la pellicola di Kapadia trascuri lo screzio dell’Estoril è anche comprensibile, ma solo se la si ritiene un’opera agiografica; diversamente gli andava dato il giusto risalto, essendo il primo vero battibecco di pista tra i due galletti alle dipendenze di Ron Dennis, al tempo, boss della McLaren. Per quella stagione il film Senna si limita a mostrare qualche intervista tra i due rivali e, per questioni di pista, punta più che altro dritto sull’appuntamento decisivo a Suzuka. Nel quale il brasiliano, dopo aver fatto spegnere l’auto al via, vanificando così la pole position, si era ben riscattato trionfando in gara e nel mondiale. 

Questa è l’occasione in cui Senna dichiarò esplicitamente di aver visto Dio, dopo il precedente accenno in seguito all’errore di Montecarlo, e, al di là delle questioni mistiche, fu una gara condotta magistralmente dal brasiliano, pasticcio alla partenza a parte. Successivamente Kapadia asseconda in tutto e per tutto le lamentele di Senna, che accusò pesantemente Balestre di favorire Prost: in Giappone, l’anno successivo, il brasiliano venne squalificato –e il mondiale andò a Prost– mentre nel 1990, sempre nella gara decisiva a Suzuka, Senna avrebbe voluto che fosse cambiato lo schema della griglia di partenza. Senna sollevò un problema comprensibile: curiosamente, nel Gran Premio giapponese, chi registrava il miglior tempo nelle prove si trovava a partire dal lato sporco della pista; il che non era propriamente un vantaggio, per via degli pneumatici che, per scattare prontamente, necessitavano della massima aderenza sull’asfalto. Se Ayrton aveva le sue ragioni, va detto che era consuetudine di Suzuka che la Pole Position avesse tale posto sulla griglia di partenza; una modifica all’ultimo dello schema delle vetture al via era una richiesta inconsueta e forse nemmeno prevista dal regolamento. Fatto sta che Senna si convinse che fosse l’ennesima manovra del «Sistema», capitanato da Balestre, per favorire Prost, e si sentì autorizzato ad agire di conseguenza, speronando Prost alla partenza e mettendosi in tasca il titolo mondiale. Secondo il documentario di Kapadia, Senna agì a malincuore, e questo sarebbe confermato dal «linguaggio del corpo» del pilota brasiliano e da altri dettagli. Più prosaicamente, l’impressione è che Senna non avesse alcuno scrupolo cavalleresco, a differenza di Prost –che forse aveva semplicemente maggiore prudenza– quanto alle influenze del «Sistema» è fuori di dubbio che vi fossero, ma che fossero tutte a vantaggio del suo rivale e contro di lui, che era il beniamino e il principale polo d’attrazione della Formula 1, è, se non difficile da credere, quantomeno curioso. 

Ma non secondo Kapadia e i tanti fan di Senna. In ogni caso, l’episodio di Suzuka nel 1990 è un fatto che non ha eguali nella storia della Formula 1, e, dando credito alle convinzioni del complotto contro il brasiliano, il film Senna ne conferma l’assoluta gravità. Spesso i piloti di Formula 1, sotto pressioni psicologiche e fisiche, nella concitazione del momento, hanno compiuto sgarbi profondamente scorretti. Lo stesso Prost nella stagione 1989, sempre a Suzuka, oppure, in seguito, Michael Schumacher che, quando vide la male parata, non esitò a tamponare intenzionalmente il malcapitato di turno, Damon Hill o Jacques Villeneuve. Paiono, in ogni caso, gesti istintivi, dettati dalla situazione che si concretizza in quell’istante; una reazione violenta e inaccettabile, ad una svolta inattesa e contraria alle aspettative del pilota. Tutt’altra faccenda è quella di Ayrton a Suzuka 90, laddove la sua scorrettezza fu ampiamente premeditata, «giustificata» dai, veri o presunti, torti orchestrati dal Sistema a suo danno, confortata anche dai media non solo brasiliani. Purtroppo, non è una pagina edificante, a carico di Senna, ma non sorprende affatto che il film di Kapadia sorvoli opportunisticamente su questa riflessione.    
Il documentario si chiude mestamente, con la terribile scena dell’incidente mortale di Ayrton nel maledetto Gran Premi di Imola del 1994. Impossibile non avere il magone quando assistiamo al lungo «camera car» che anticipa il momento fatale.

Oltretutto, quel week end imolese fu davvero funesto e il clima, in coda al documentario, si fa via via sempre più cupo. Nel racconto di Kapadia siamo giunti quindi a Imola, 1994, uno dei peggiori Grand Prix della Storia della Formula 1: già al venerdì Rubens Barrichello volò fuori pista a bordo della sua Jordan riportando gravi lesioni, tra cui la rottura di un braccio e del naso oltre ad una parziale amnesia. Il giorno successivo andò assai peggio a Roland Ratzenberger alla cui Simtek cedette l’alettone anteriore ad oltre 300 chilometri orari. Le conseguenze del tremendo impatto furono purtroppo fatali al pilota austriaco. Era dal 1986 che un conduttore di Formula 1 non moriva sulla pista, da quando Elio De Angelis aveva perso la vita durante alcuni test sull’autodromo del Paul Richard, in Francia. Nel documentario si fa cenno al fatto che, nel 1994, furono abolite tutte le sofisticazioni elettroniche che permettevano il controllo automatico delle vetture: l’ipotesi potrebbe essere che, in tali condizioni, le auto, meno stabili, mettessero più facilmente a nudo le debolezze costruttive. Sia come sia, il tragico week end del Gran Premio di Imola 1994 era tutt’altro che concluso. Alla partenza della corsa, la Benetton di J. J. Lehto rimase impiantata sulla griglia, scansata prontamente dalle vetture retrostanti. Pedro Lamy, partito in ventiduesima posizione, arrivò già ben lanciato alla posizione di Letho, ancora fermo in terza fila, non lo vide per tempo e lo tamponò violentemente. La sua Lotus, sfondato il retrotreno della Benetton, si fermò dopo un centinaio di metri, inondando la pista e gli spalti di detriti. I piloti se la cavarono con poche contusioni, uno spettatore finì in coma per qualche giorno e, in totale, nel pubblico, si contarono nove feriti.
Ma, come noto, il calvario imolese non era ancora finito.  
  



Galleria 


mercoledì 7 agosto 2024

LE 24 ORE DI LE MANS

1526_LE 24 ORE DI LE MANS (Le Mans). Stati Uniti 1971; Regia di Lee H. Katzin.

Steve McQueen aveva già provato a realizzare un film sul mondo delle corse automobilistiche, come si può vedere nel documentario The Lost Movie [2021, regia di Alex Rodger] ed è controverso il suo rapporto con Grand Prix di John Frankenheimer, il lungometraggio dello stesso «genere» che poi ad Hollywood venne prodotto. Pare che per il ruolo di protagonista, in seguito andato al suo vicino di casa James Gardner, fosse proprio lui, il prescelto; Steve declinò l’invito; salvo poi, visto il grande successo tecnico commerciale del film di Frankenheimer, mangiarsi le mani. Cinque anni dopo Grand Prix, McQueen ci riprova, stavolta portando a termine il risultato, nonostante, anche in questo caso, non siano mancate le vicissitudini. Al netto delle beghe riportate pocanzi, il rimando alla pellicola di Frankenheimer è comunque giustificato: Grand Prix è, infatti, la pietra angolare, l’esempio insuperato di rappresentazione cinematografica delle gare automobilistiche. Almeno dal punto di vista scenico, perché qualche perplessità il film del 1966 la suscitava; e, guarda caso, furono proprio questi elementi a creare la divergenza di opinioni che portò al divorzio tra John Sturges, il regista che aveva cominciato a dirigere Le 24 ore di Le Mans, e Steve McQueen, il cui ascendente sulla Produzione finì per fargli avere il sopravvento. Sturges, che aveva diretto McQueen in film eccellenti come I Magnifici Sette [The Magnificent Seven, 1960] e La Grande Fuga [The Big Escape, 1963], voleva che la storia romantica in Le 24 ore di Le Mans equilibrasse maggiormente la parte destinata alle vetture in pista. In effetti, il regista americano non aveva tutti i torti: tanto il capostipite I diavoli del Grand Prix [The Young Racers, 1963, regia di Roger Corman] che il citato Grand Prix di Frankenheimer, nonostante i buoni risultati al botteghino, non erano riusciti a trovare davvero la formula giusta. Sturges, che era un regista classico, riteneva che ricorrere ad una soluzione consolidata dalla tradizione –storia d’amore in primo piano, vicende storiche/realistiche sullo sfondo– fosse la scelta migliore. McQueen, al contrario, pensava che la componente romantica andasse diminuita, mettendo la pista come unico polo d’attrazione del film. 

La spuntò McQueen e Lee H. Katzin, il regista subentrato a Sturges, seguì le sue direttive, mettendo le potenti vetture Endurance in primo piano e relegando la storia sentimentale tra Michael Delaney (McQueen) e la bella Lisa Belgetti (Elga Andersen) tiepidamente sullo sfondo. Fu la scelta giusta? Relativamente. O almeno, non lo fu assolutamente al Box Office, tasto sempre assai dolente ad Hollywood più che altrove. Dal punto di vista artistico, Le 24 ore di Le Mans confermò la tendenza dei due precedenti film inerenti alle corse automobilistiche, I diavoli del Grand Prix e Grand Prix: riuscitissima la parte dedicata alle corse, meno quella romantica. In questo caso c’è una maggior consapevolezza, in tal senso, con McQueen che aveva pianificato di puntare tutto sulla corsa; tuttavia, seppur apprezzabile come sorta di finto-documentario, Le 24 ore di Le Mans non riesce a raggiungere lo status di capolavoro. Il che potrebbe anche sembrare legittimo, non è che tutte le ciambelle debbano uscire col buco, verrebbe da obiettare. Il punto è che, come nei film di Corman e Frankenheimer, è la perfezione tecnica delle riprese su pista ad alzare l’asticella, a far naturalmente ambire al film uno status di assoluta eccellenza. In questo caso, per la verità, la minor attenzione alla trama romantica è palesemente dichiarata e la sensazione di incompiutezza ne esce attutita: di conseguenza Le 24 ore di Le Mans è un film che può venir ragionevolmente consigliato solo agli appassionati delle competizioni motoristiche e questa è già una limitazione non trascurabile. Un po’ come se Titanic [1997, di James Cameron] fosse apprezzabile in modo esaustivo solo dagli amanti dei viaggi in nave.
Cercando di cambiare il punto di vista, si può provare ad azzardarsi a dire che Le 24 ore di Le Mans abbia, nel suo rigore e nella sua attinenza alla corsa, un motivo di fascino, uno spunto di curiosità anche per chi non sia abitualmente interessato all’automobilismo. Anche solo osservare come si muove Steve McQueen, completamente a suo agio al punto da «vivere» il momento più che recitarlo, vale il biglietto, come si suol dire. E poi ci sono loro, le vetture prototipo, la Porsche 917 del team Gulf e la sua acerrima avversaria, la Ferrari 512: da notare come, anche stavolta, Hollywood riservi alla casa di Maranello il ruolo di nemico dell’eroe di turno. Il film di Katzin è, come detto, concentrato sulla competizione e non si presta nemmeno tanto a metafore approfondite, tuttavia rispetta alcuni tipici cliché dei film hollywoodiani del tempo. 

L’eroe è rigorosamente yankee, il rivale, Stahler (Siegfried Rauch), è tedesco, oltre che dall’aspetto sinistro; la scuderia di Delaney è britannica, quindi strettamente imparentata con gli americani nonostante utilizzi una Porsche, auto costruita in Germania. La Ferrari è naturalmente italiana e, come detto, si trova dalla parte sbagliata della barricata. Va ricordato che il mondo dell’automobilismo, per via dei concetti aerodinamici, era ancora legato a quello bellico e, in particolare, alla Seconda Guerra Mondiale. È opinione condivisa che la supremazia inglese in campo aereodinamico sulle auto da corsa –si pensi all’introduzione della monoscocca all’invenzione delle minigonne che sfruttavano l’effetto suolo– sia diretta conseguenza di quelle competenze ingegneristiche che permisero ai britannici la cruciale vittoria nella Battaglia d’Inghilterra, combattuta tra la Royal Air Force e la Luftwaffe tedesca nei cieli d’Albione. Lo schema de Le 24 ore di Le Mans si inserisce quindi perfettamente in questa sorta di tradizione: l’eroe americano, alleato degli inglesi, combatte contro un sodalizio italo-germanico. Altri elementi, come l’auto di fabbricazione tedesca del team Gulf, o la nazionalità prevedibilmente italiana di Lisa –la coprotagonista che flirta blandamente con Delaney– sono elementi che servono argutamente a stemperare il manicheismo dell’impostazione. Memori della lezione di Grand Prix, come detto esempio insuperato di rappresentazione cinematografica in chiave di corse automobilistiche, i produttori di Le 24 ore di Le Mans non lesinarono sforzi nella realizzazione di un’opera di grandissimo impatto visivo. I tempi di realizzazione vennero sforati, la pretesa di realismo cagionò non pochi problemi agli stuntmen che pilotavano le macchine, in questo senso l’apice venne toccato con l’amputazione di una gamba di David Piper in seguito alle conseguenze di un incidente. Le immagini sono spettacolari; il clima è quello di una vera gara a Le Mans, probabilmente la più dura oltre che la più famosa tra le corse di durata. McQueen poté dirsi ragionevolmente soddisfatto; i produttori, dato il flop al botteghino, certamente meno. Ad oggi rimane uno degli esempi più attinenti e concentrati sul mondo delle corse, senza divagazioni; a patto di essere più appassionati di gare automobilistiche che di cinema, si può definire capolavoro. In tutti gli altri casi, un ottimo film.  







Elga Andersen 




Galleria