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martedì 27 giugno 2023

FOXHOLE IN CAIRO

1299_FOXHOLE IN CAIRO Regno Unito,1960; Regia di John Llewellyn Moxey.

Dopo il positivo esordio con La città dei morti, John Llewellyn Moxey ottiene l’incarico di dirigere una storia di tutt’altro genere. Ambientato in Egitto durante la Seconda Guerra Mondiale, Foxhole in Cairo è infatti un film a basso costo di spionaggio bellico. Curiosamente, se per un horror Moxey si era attenuto ad uno svolgimento iscritto nei canoni della tradizione – laddove per sorprendere e spaventare il pubblico sarebbe stato utile mischiare un po’ le carte in tavola – per questa sua seconda prova, in un genere abitualmente più ordinario, il regista lavora in modo assai meno scontato. Al tempo, nella maggioranza di opere belliche di consumo a cui Foxhole in Cairo va indubbiamente ascritto, i nazisti – e di conseguenza i tedeschi – avevano un ruolo negativo abbastanza stereotipato. Certo non mancano gli esempi in cui si provava ad approfondire il lato umano dietro gli schieramenti ma per le produzioni di cassetta questo aspetto era meno appetibile, considerato che si cercava piuttosto il facile consenso degli spettatori. In quest’ambito per decenni i tedeschi incarnarono il nemico per definizione, senza troppe sfumature. A conti fatti questo avviene anche in Foxhole in Cairo, per la verità, ma solo dopo il colpo di scena finale. Già, perché, come detto, Moxey sorprende il pubblico con un ribaltamento della situazione più tipico di un giallo piuttosto che di un racconto bellico, finanche di natura spionistica. Ma, come anticipato, il colpo di scena rimette le cose a posto, piuttosto che sconvolgerle, perché è tutta l’impostazione della storia ad essere atipica. Infatti, pur essendo Foxhole in Cairo un film britannico ed avendo come protagonista ufficiale il Capitano inglese Robertson (James Robertson Justice), la prospettiva narrativa è vista perlopiù dalla parte dei tedeschi. 

A tenere maggiormente banco sono infatti le vicende delle spie tedesche John Eppler (Adrian Hoven) e Sandy (Neil McCallum) infiltrate al Cairo occupato dagli inglesi. A dar loro manforte la splendida danzatrice di cabaret Amina (la ballerina messicana Gloria Mestre che sfodera un paio di performance sul palco che lasciano senza fiato): la ragazza ha irretito un ufficiale inglese, il maggiore Wilson (Robert Urquhart) e per amore di John Eppler – playboy particolarmente a suo agio nei cabaret egiziani – lo seduce per sottrargli importanti informazioni militari. Prima di accettare di dare corda a Wilson, che la corteggiava assiduamente, Amina è perplessa, essendo innamorata di John; l’uomo fa quindi leva sul suo sentimento patriottico, vincendo così la sua riluttanza. E’ interessante questo passaggio perché, a parte definire meno rozzamente il carattere della ragazza, mette in rilievo l’aspetto politico della questione, con l’Egitto che ormai non sopportava più la pluridecennale e pesante ingerenza inglese. 

Quando John e Amina discutono tra loro di questi aspetti, tutto sembra di essere tranne che di fronte ad un film a basso costo bellico prodotto nel Regno Unito nel 1960. Ma naturalmente una storia di spionaggio è zeppa di trame e sottotrame: le due spie tedesche per comunicare con Rommel (Albert Lieven) utilizzano trasmissioni codificate via radio. Ma il comando del fieldmaresciallo è troppo lontano dal Cairo e per far da ponte-radio una pattuglia viene spedita in mezzo al deserto: utilizzando un codice ricavato giorno per giorno dal romanzo Rebecca, la prima moglie di Daphne du Maurier i tedeschi riescono a far trapelare le informazioni. Questo passaggio si segnala sia per la cura nella costruzione della sceneggiatura, sia per la presenza di un giovane Michael Caine in uno dei suoi primi ruoli, nella parte di uno dei due tedeschi di pattuglia. E poi ci sono gli inglesi, ovviamente, che non se ne stanno certo con le mani in mano: cruciale la collaborazione che il capitano Robertson ottiene dal controspionaggio ebraico, in cerca di appoggi per la futura creazione dello stato d’Israele. Come già visto grazie agli spettacoli di Amina, Foxhole in Cairo è un film che non si lascia sfuggire le possibilità sensuali che le storie spionistiche offrono ed è quindi Ivette (Fenella Fielding) a risolvere l’inghippo. La ragazza, spia israeliana, è assidua frequentatrice del night club dove si esibisce Amina e nota gli strani movimenti di John Eppler, troppo impegnato a fare il dongiovanni per accorgersi del pericolo. Ivette riesce a scoprire la tresca tra l’uomo e Amina ai danni del maggiore Wilson; interessante come la storia veda gli opposti schieramenti rispondersi per le rime: una femmina aveva fatto cadere l’ufficiale inglese, un’altra smaschera la spia tedesca. 

Per chiudere il cerchio, nel passaggio decisivo ci sarà anche uno scontro fisico tra le due belle ragazze che alzerà di nuovo i toni piccanti del film. I tedeschi vengono quindi beffati proprio quando stavano per farcela, e va detto che l’enfasi narrativa prima di questo trepida per il loro affannarsi a trasmettere in tempo le informazioni. Cosa resa difficoltosa dal fatto che la pattuglia nel deserto è stata scoperta e la stazione radio smantellata, mentre gli inglesi messi sulla pista giusta da Ivette incombono sulle spie tedesche intente nella trasmissione dei documenti sottratti a Wilson. In questo avvincente finale, quasi impercettibilmente la prospettiva del racconto cambia e ora si parteggia per Robertson che riesce ad arrivare in tempo, come detto. O no? Forse il comando di Rommel, che riceveva debolmente il segnale senza l’ausilio del ponte-radio, è riuscito ugualmente a decifrarne il messaggio. Poco male, ci rassicura Robertson, si tratta di false informazioni messe di proposito in mano a Wilson conoscendo le sue debolezze per l’alcol e le sottane. Qui il racconto si riallaccia anche alla Storia, con il riferimento alla futura e decisiva battaglia di Al Alamein, ma ormai Foxhole in Cario ha detto quello che doveva dire. Un buon film, con alcuni spunti interessanti e scelte di campo originali e per nulla scontate che, in ambito bellico – il genere fazioso per antonomasia – testimoniano l’attenzione del regista. Non una personalità spiccata dal punto di vista tecnico, la regia è solida e discreta, ma dallo sguardo complessivo non certo banale.        




Gloria Mestre 




Fenella Fielding 



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lunedì 26 giugno 2023

QUELLA NOSTRA ESTATE

1298_QUELLA NOSTRA ESTATE (Spencer's Mountain)Stati Uniti,1963; Regia di Delmer Daves.

Cominciato la carriera registica nel 1943 (con l’ottimo Destinazione Tokio), Delmer Daves passò poco meno di una decina d’anni dopo anche a produrre alcuni dei propri film. Non è certo un caso isolato, né ha Hollywood né altrove, e spesso indica soltanto la volontà di un autore di indirizzare, attraverso l’uso di capitali propri, la carriera verso temi a lui congeniali. Daves, che si era rivelato come uno dei massimi maestri del western classico, di questo genere produsse unicamente Rullo di Tamburi, un’opera che ci lasciava una considerazione finale sull’epopea della conquista del west. Ma che, soprattutto, andava simbolicamente a sancire la definitiva esclusione dei pellerossa (il sacrificio di Toby, la protagonista indiana, più che la fine del capo ribelle Capitan Jack) dalla nascente nazione americana. Successivamente Daves lavorò ad altri western, ma solo come regista, mentre come produttore si concentrò su opere legate a quei temi più contingenti agli imminenti anni Sessanta, la cui più nota è Scandalo al Sole (1959). Il melodramma, che già il regista aveva dimostrato di gradire infilandone spesso tracce nei suoi western, si stava infatti evolvendo in turgide storie sentimentali. La rigida e puritana istituzione famigliare tipicamente americana vacillava di fronte alla forza dirompente che il benessere del dopoguerra e tutti gli annessi e connessi si portavano in dote (l’emancipazione delle donne e dei giovani, la libertà sessuale, giusto per fare qualche esempio). Daves aveva quasi sempre avuto, anche nei suoi film più cupi, un fondo se non ottimista certamente morale. 

I drammoni sentimentali dell’inoltrato dopoguerra, di cui il citato Scandalo al sole non era che uno dei tanti titoli, rischiavano di dare un quadro un po’ poco edificante di come si era andata costituendo la nazione americana dopo la conquista del west. Va ricordata anche una certa convergenza temporale: la civilezzazione dell'ovest era stata consacrata dal cinema western proprio quando l’America aveva vinto la II Guerra Mondiale, affermandosi come superpotenza mondiale. Nell’enfasi trionfalistica della celebrazione del Sogno Americano, si erano forse sottovalutate le citate forze dirompenti di cui, con l’industrializzazione esponenziale, il paese avrebbe dovuto ora venire a patti: i drammi alla Tennessee Williams presentavano così il conto ad una società impreparata ad affrontare simili contestazioni, che cominciarono proprio dall’interno della più arcaica delle istituzioni americane, la famiglia. 

Ed è forse la necessità di bilanciare una simile ondata di inquietudine, che avrebbe poi comunque preso il sopravvento nella bolgia della contestazione della fine degli anni Sessanta, che Delmer Daves scrive, dirige e produce un’opera tanto particolare quanto Quella nostra estate. Un film che lascia davvero spiazzati, se preso in sé, perché davvero si capisce poco quale possa essere lo scopo della storia raccontata, a meno di non interpretarla come una sorta di risposta ad un fenomeno di cui provi a bilanciarne gli effetti. Di per sé, Quella nostra estate è un film che è una sorta di metafora dell’America, ma è soprattutto un tentativo di normalizzare: nel senso di voler stemperare le tensioni tra le parti, di lasciar coesistere le varie anime della comunità. In modo non del tutto riuscito, per la verità, perché gli aspetti che devono essere ricondotti alla norma, quegli effetti destabilizzanti il destino dell’America, si affacciano solamente alla vicenda, ma non ne sono una parte strutturale. Ed è questo il limite maggiore dell’opera: al centro è messa una vicenda tutto sommato normale, ma in un contesto stilizzato forse eccessivamente al punto da fornire un’impressione quasi straniante; mentre i fattori perturbatori sono addirittura marginalizzati. In questo modo è difficile che la storia prenda corpo e carburi. Il cuore della faccenda è che Clayboy (James MacArtghur), ragazzo di umili origini, meriterebbe di andare all’università, ma non ha i soldi per pagarsi gli studi: una vicenda del tutto convenzionale, anche (e specialmente) in America. 

Ma le note spiazzanti cominciano già con l’ambientazione: ci troviamo nello Wyoming, nell’enorme valle dove serpeggia il fiume Snake, accanto alla imponente catena dei Monti Gran Teton. In pratica i luoghi dove Daves aveva ambientato Rullo di Tamburi, il film in cui sanciva la fine del problema indiano, con l’estromissione dei nativi dalla nascente nazione. Una vallata, come appunto visto, priva ormai di ogni pericolo, sconfinata, pianeggiante e fertile, dove una sparpagliata ma corposa comunità si è insediata al seguito degli Spencer, la famiglia dei primi colonizzatori. Sparpagliata perché non c’è un vero nucleo cittadino, ma solide capanne isolate ben distanziate tra loro; corposa perché le famiglie sono arricchite da figli in gran quantità, ad esempio ben nove per ciascuna delle due generazione di Spencer che si vedono nel film. Grandi spazi, grandi distanze, grandi famiglie: la metafora dell’America. 
Ma Daves esagera con la visione simbolica: la zona sembra una tavola, le case in legno sembrano gli chalet di un villaggio turistico, l’erba quella di un prato inglese. Ci sono anche due chiese, per due congregazioni protestanti diverse, situate nella stessa area ma comunque ben distanziate. L’unica nota concreta è la cava, dove lavorano bene o male tutti gli abitanti della valle: quello è, forse, l’unico luogo attinente alla presenza umana credibile, fatto di macchinari ingombranti, cumuli di terra e detriti, enormi blocchi di pietra. Tuttavia la cava è semplicemente usata nella storia per ricordare che gli abitanti della zona sono poveri, in quanto semplici lavoratori perennemente a corto di denaro. Hanno ettari di terra ciascuno, ma non hanno quindi grandi possibilità finanziarie e, come detto, questo sembra essere il vero problema della storia. 


Perché l’idea che veicola
Quella nostra estate è che il Sogno Americano sia ad un nuovo punto di partenza ma, ad un giovane promettente, per poter andare nel mondo attendendosi che questo si faccia da parte, (come recita un motto citato nel film) occorre studiare, e per farlo servono i soldi. I soldi alla fine si troveranno, sia chiaro, perché l’opera è in evidente luce positiva. Ma non è che questo soggetto potesse reggere la trama di un film, anche perché Daves sembra voler dare una motivazione sociale al ruolo che, nel mondo, devono avere i nuovi americani. Che non abitano tutti in una società descritta dai torbidi drammoni che ancora furoreggiavano: l’America, cerca di convincerci Daves, è anche quella sonnolenta del villaggio vacanze mastodontico del suo Quella nostra estate. Per dar corpo alla sua metafora, il regista inserisce una serie di personaggi simbolo che, però, salvo rare eccezioni, rimarranno come semplici figure bidimensionali, senza avere peso nella storia e quindi inficiando la riuscita dell’opera. Il protagonista del film è Henry Fonda (Clay Spencer): primogenito dei nove fratelli della vigente dinastia degli Spencer, ha ripetuto l’impresa dei genitori in fatto di numero di prole (di cui citato Clayboy è a sua volta il primogenito). Lavora alla cava (come tutti), ha una grande casa (ma ne sta costruendo una migliore) è un uomo serio, volenteroso ma non religiosamente devoto. Inoltre apprezza tutti i vizi che gli sono possibili (perlomeno in quell’angolo di paradiso dove vive): impreca, beve, va a pesca, gioca a carte, e gli piace addirittura flirtare con la moglie anche davanti ai figli. 

Un tipico americano del suo tempo con la differenza che rivela chiaro e tondo anche i suoi comportamenti
sconvenienti invece che tenerseli per sé. Nel film viene citato, come esempio di americano modello, il presidente Lincoln: un ruolo che, al cinema, fu già di Henry Fonda (Alba di Gloria, di John Ford, 1939) e che, in un certo senso, l’attore è chiamato un po’ a rievocare, pur se ovviamente alla lontana. Fonda sa ovviamente il fatto suo e, nonostante l’operazione sia scivolosa, grosso modo la scena la regge. La moglie di Clay è Olivia, a cui Maureen O’Hara dona il solito temperamento scorbutico tipico dell’attrice, qui anche in chiave un po’ bigotta, sebbene se nel corso della storia vada addolcendosi. E’ la tipica colona americana: bella, forte, scontrosa, indomita, e fondamentalmente buona. Donald Crisp è il patriarca degli Spencer: fa grosso modo la stessa fine che in Come era verde la mia valle (regia di John Ford, 1941), e la stessa parte, ma vista in luce positiva, che aveva in L’uomo di Laramie (regia di Anthony Mann, 1955). Ma è già un personaggio sprecato nell’economia della storia tanto è marginale. Più importante, ma anche meno riuscita, la figura di Claris, la fidanzatina di Clayboy, il figlio di Clay interprete della missione di incarnare in nuovo sogno americano ipotizzato da Daves. Claris, figlia del padrone della cava, è ricca, torna dopo un anno passato in città dove si è emancipata oltre ad aver raggiunto il pregevole aspetto che le dona Mismy Farmer. Il suo comportamento ricorda, per restare in casa Daves, la Elizabeth Taylor del citato Un posto al sole, ma gli esempi di provocanti ragazze simili si sprecano nei film che, al regista, preme sconfessare. Perché Claris, scalpita e sprizza sensualità a mille, sembra volersi mangiare in un sol boccone il povero campagnolo Clayboy, ma poi si confessa una brava ragazza. Daves ce n’è aveva dato già la conferma nei titoli di testa: introducing Mismy Farmer ci dice che l’attrice è vergine, non avendo interpretato fino all’ora nessun ruolo. Sia come sia, la Farmer va fuori giri e non convince assolutamente in una parte, per altro, ai limiti del proibitivo. Comunque, il regista ammette la presenza di figure femminili che sfruttino in maniera equivoca i vantaggi dell’emancipazione. Ce ne mostra una, di queste Lolite, nascosta dietro una porta, ricattare ops, convincere il suo papy (l’attempato compagno) a non concedere agli Spencer il prestito mancante al raggiungimento della somma necessaria agli studi di Clayboy. I soldi sa bene lei come vanno spesi; per la rabbia, anche ingiustificata, ad onor del vero, di mamma Olivia. La ragazza, che in fondo fa quello che gli compete, cioè cerca di far valere le sue ragioni presso l’uomo con cui divide la vita, è un po’ una delle cartine tornasole della mancata riuscita del film. Non è negando i problemi, e nemmeno tenendo i personaggi potenzialmente più funzionali ad una storia nascosti dietro una pesante anta di legno, che si possono fare film convincenti.
Ma chi più di Delmer Daves, che infarcì con quei temi addirittura il western classico, avrebbe dovrebbe saperlo?




Maureen O'Hara 





Mismy Farmer 



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domenica 25 giugno 2023

IL SOSPETTO - LO SCENEGGIATO

1297_IL SOSPETTO - LO SCENEGGIATO . Italia,1972; Regia di Daniele D'Anza.

I romanzi di Friedrich Dürrenmatt non sono particolarmente noti eppure devono avere qualcosa di speciale, se nelle trasposizioni televisive dànno la possibilità agli interpreti di sciorinare prestazioni davvero memorabili. Era già successo con Il giudice e il suo boia, dove Paolo Stoppa e Glauco Mauri erano stati straordinari, e la stessa cosa succede, almeno in parte, anche ne Il sospetto – Lo sceneggiato. A proposito: la dicitura esplicativa ‘lo sceneggiato’ è forse inserita dalla Rai per differenziare l’opera dalla famosa pellicola Hitchcockiana, con cui il film televisivo di Daniele D’Anza niente a che da spartire. Il soggetto è, appunto, un romanzo di Dürrenmatt, sostanzialmente il seguito de Il giudice e il suo boia, per la precisione. Cosa che, ovviamente, vale anche nello sceneggiato dove troviamo ancora Paolo Stoppa nei panni del commissario Barlach, stavolta malato e ormai a fine carriera. Stoppa è sempre eccellente ma, almeno nella prima parte – proprio come il suo personaggio – arranca un po’, anche se, quando finalmente arriva a tu per tu con il rivale di turno, sfodera un bel passaggio pregno della sua sottile intelligenza. Per essere onesti, è tutto lo sceneggiato che, almeno nel primo episodio, fatica. Come detto Barlach è ricoverato mentre al commissariato è già stato sostituito: in ogni caso il racconto rimane sul letto d’ospedale del vecchio poliziotto. Ovvero non proprio il massimo in tema di azione e possibilità narrative. 

Il dottor Hungertobel (Ferruccio De Ceresa), suo amico che lo ha in cura, è un buon interlocutore ma niente di eccezionale; più interessanti gli scambi di vedute con Gulliver (Mario Carotenuto), ex prigioniero dei campi di concentramento nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Già perché la vicenda ruota intorno ad una fotografia, capitata casualmente sotto gli occhi di Barlach e di Hungertobel, in cui il dottore crede di riconoscere un vecchio compagno di studi. Con la nostra storia siamo in Svizzera e la foto in questione, al contrario, è stata scattata in Germania, durante l’ultima guerra, in un campo di concentramento dove il chirurgo immortalato nello scatto operava i prigionieri ebrei senza anestesia. Qui sorge il sospetto che dà il titolo al racconto: può davvero essere Emmerberger, il compagno di studi di Hungertobel, quello ritratto nella fotografia? La cosa non è di secondaria importanza, perché il dottor Emmerberger è in piena attività, con una lussuosa clinica a Zurigo a sua disposizione. E se fosse stato un criminale nazista, la cosa non poteva certo passare in cavalleria. Soprattutto se di mezzo c’era un osso duro come Barlach, da sempre ossessionato dal senso di Giustizia. 

Il racconto entra naturalmente nel vivo quando in scena si presenta l’antagonista di turno del commissario, interpretato da uno stratosferico Adolfo Celi. Sono ben pochi i cattivi, anche senza limitarsi ai soli prodotti televisivi, in grado di rivaleggiare con il suo dottor Emmerberger. Strepitosa la sua arringa, poco prima del tiepido finale positivo e consolatorio, con la quale sprona Barlach a dichiarare la sua fede, di qualunque fede in qualunque cosa si tratti. Il dottore ha infatti già scoperto il commissario e il suo investigare e lo ha condannato a morte: se però il poliziotto gli rivelerà, in tutta onestà intellettuale, di credere ciecamente in Dio, nella Giustizia, o in qualunque altra forma di ideale, Emmerberger è disposto a lasciarlo libero. Il dottore, in sostanza, accetta di stare dalla parte del torto; a patto che Barlach lo rassicuri di essere certo del suo essere nel giusto. Emmerberger non chiede prove: gli basta la parola, ma deve essere parola d’onore. Il dottore ha capito perfettamente che il vecchio commissario è un uomo serio ma con i suoi bravi dubbi esistenziali e non potrà mentire a cuor leggero, tradendo la sua integrità. Tuttavia si tratta di una scelta narrativa insolita e sorprendente. E poi Celi, in questo passaggio, si mangia Stoppa, lo sceneggiato e anche gli spettatori: è incontenibile nella sua lucida, fredda, ardente follia razionale. Un mostro di bravura per un passaggio da far tremare i polsi alle convinzioni di chiunque stia assistendo: è difficile credere come un testo simile sia potuto passare sulla televisione di stato. Come detto, il lieto fine che risolve la vicenda è del tutto non plausibile, quasi che D’Anza in regia abbia voluto sottolineare come alle parole di Emmerberger non vi fosse una replica adeguata e abbia preferito chiudere quasi in sordina. Che dire: Il sospetto – Lo sceneggiato non è certo un capolavoro ma la verve folle di Emmerberger è indimenticabile.
Adolfo Celi galattico.
 


Copertina 

venerdì 23 giugno 2023

LA CITTA' DEI MORTI

1296_LA CITTA' DEI MORTI (The City of the Dead). Regno Unito,1960; Regia di John Llewellyn Moxey.

Dalla metà degli anni Cinquanta in Gran Bretagna, grazie alla Hammer, il genere horror aveva ricevuto un nuovo slancio e, sempre da quelle parti, ben presto si fece strada un’agguerrita concorrente della gloriosa casa di produzione. Nel 1960 la Amicus, lo studio che rivaleggerà con la Hammer negli anni successivi, non era ancora stata creata, ma i due fondatori, Subotsky e Rosemberg, cominciano a muovere i primi passi nel campo dell’horror e sotto l’egida della Vulcan Film producono La città dei morti. Si tratta di un horror a basso costo molto convenzionale incentrato sullo storico fenomeno della stregoneria diffuso nei secoli scorsi nel New England degli Stati Uniti. La vicenda è ambientata nel presente ma, a quanto si apprende dal racconto, la maledizione della strega Elizabeth Selwyn (Patricia Jessel) avrebbe avuto effetto e sarebbe stata tenuta in auge dal XVII secolo da una setta di immortali adepti. Tra i quali spicca il professor Driscoll (interpretato nientemeno che da Christopher Lee, uno dei mostri sacri della Hammer), che ha il compito di introdurre il racconto vero e proprio dopo l’incipit del 1692 con il rogo della strega Selwyn. All’apparenza Driscoll sembra unicamente un insegnante che dà eccessivamente credito al lato fantastico e mistico della Storia americana: se la cosa affascina Nan Barlow (Venetia Stevenson), una sua intraprendente studentessa, lascia più scettici tanto il fratello Richard (Dennis Lotis) che il fidanzato Bill (Tom Naylor). 

In realtà non solo c’è sotto qualcosa ma quel qualcosa è anche estremamente pericoloso anche se, sul momento, la questione sembra solo la credibilità del sovrannaturale. Nan decide di partire per il New England per approfondire gli avvenimenti legati alla stregoneria del XVII secolo e su precise indicazioni del suo docente si reca a Whitewood. Lo sperduto paesino del Massachusetts era stato proprio il luogo dove era stata bruciata viva la strega Selwyn, quella del prologo, che troviamo viva e vegeta nei panni di Mrs Newless (naturalmente, ad interpretarla, sempre Patricia Jessel) la proprietaria dell’unica locanda del paese. La trappola è ormai scattata e, per la festa della Candelora, la giovane vittima è pronta per il sacrificio al culto delle streghe. 

Siamo circa a metà film e questo fatto, unitamente ad altri, potrebbe far nascere qualche sospetto nello spettatore più malizioso: anno 1960, genere horror, fotografia bianco e nero, protagonista femminile bionda che viene eliminata a metà racconto, congiunto della vittima che si mette alla sua ricerca insieme ad un altro personaggio femminile… Calma, a quanto riportano le cronache e considerato le tempistiche, è abbastanza arduo pensare che la produzione di Psyco, il capolavoro di Alfred Hitchcock, possa aver influenzato quella di La città dei morti. Coincidenze, a questo punto, a cui va aggiunta la similitudine del ritrovamento del cadavere rinsecchito, nel film di Hitch quello di mamma Bates, in questo quello della strega Selwyn una volta svanito il maleficio che la teneva in vita. In ogni caso, se Psyco è un film in cui la regia è una prova di estrema bravura, John Llewellyn Moxey, al suo esordio dietro alla macchina da presa, dirigendo La città dei morti si attiene ad una prestazione di ordinaria amministrazione. Il soggetto scritto da Milton Subotsky, uno dei due citati produttori, è un horror non particolarmente originale ma tutto sommato consapevole e ironico; Moxey, da parte sua, traduce in immagini senza sbavature ricorrendo ai classici cliché del genere. Il fantastico si è ormai affermato a tal punto da poter contrastare, almeno al suo interno, le moderne convinzioni per cui il fatto che gli scettici di inclinazione scientifica del film, Richard e Bill, vengano clamorosamente smentiti dai fatti risulta tranquillamente plausibile. La soluzione del finale, in linea con questa prospettiva del racconto, è di natura mistico religiosa ma è sempre da intendere nell’ambito della natura fantastica dell’opera. Proprio la coerenza, più formale che nella sostanza – del resto nell’horror, come in molti altri generi leggeri, la forma è sostanza – è l’aspetto migliore del film. Moxey, considerata anche la sua scarsa esperienza, dimostra di essere particolarmente abile nel gestire i passaggi critici e il concitato finale. Per essere un’opera prima, la sua regia per La città dei morti manca forse di brio e personalità, ma è solida e affidabile. E il film, sempre apprezzato dal pubblico, conserva intatto ancora oggi il fascino degli horror dell’epoca, ed è, a tutti gli effetti, un piccolo classico. Hai detto niente.   




Venetia Stevenson 




Patricia Jessel 


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