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domenica 25 agosto 2019

STEREO

400_STEREO ; Canada, 1969Regia di David Cronenberg.

Oggi, forse, la politica degli autori, la corrente di critica cinematografica nata in Francia negli anni cinquanta, è spesso usata a sproposito o altrimenti considerata superata. Ma ci sono ancora casi in cui è utile, come strumento, per capire meglio l’opera di un regista; o forse questo è solo un pretesto per apprezzare opere minori, ancora grezze ed immature, di quegli autori che in seguito manifesteranno in modo compiuto la propria arte. E’ chiaro, insomma, che Stereo, bizzarro e spiazzante lungometraggio d’esordio di David Cronenberg, può interessare unicamente coloro i quali avranno apprezzato i lavori, spesso capolavori, del maestro canadese. Stereo è però un film piuttosto anticonvenzionale, si può definire al massimo un film d’avanguardia se non proprio un film sperimentale, e lo spettatore comune può restare facilmente basito e annoiato di fronte alle immagini che scorrono sullo schermo. Cosa che succederà anche in seguito, con alcuni film di Cronenberg, e quindi anche in questo senso Stereo si presenta come parte integrante della poetica dell’autore e nient’affatto come corpo estraneo ad essa. Perché la cosa più evidente nell’opera prima del regista (al netto dei cortometraggi in 16 mm) è che ci sono molti elementi che l’autore organizzerà in modo più comprensibile nei suoi successivi lavori. Il problema principale di Stereo è che Cronenberg, già padrone in modo notevole della capacità di messa in scena o di aspetti prettamente tecnici del cinema, non ha la piena consapevolezza del meccanismo della comunicazione autore-pubblico. Non a caso, forse, il tema del racconto è la telepatia, ovvero la capacità di intendersi in modo completo senza bisogno di meccanismi artificiali come il linguaggio, che di fatto è eliminato dal film. 

Stereo, infatti, non prevede l’uso di dialoghi, i protagonisti non parlano mai, e il sonoro del film è affidato a voci fuoricampo che descrivono la natura delle teorie e  degli esperimenti condotti nella struttura, l’Accademia Canadese della Ricerca Erotica, dove è ambientata la vicenda. Già da questi primi elementi si può scorgere la genialità del giovanissimo autore: da un limite, la rumorosità della cinepresa a noleggio, l’idea di separare la traccia video da quella audio (da qui il titolo dell’opera, Stereo), che seguono percorsi diversi ma che contribuiscono a rendere il quadro completo. Che, come si accennava prima, rimane troppo poco intellegibile per lo spettatore comune: Cronenberg arriverà, nella sua ascesa professionale, fino ai fasti di Hollywood (La Mosca, 1986), per comprendere pienamente il meccanismo della comunicazione del media cinema, e forse solo successivamente la sua arte si potrà dire pienamente consapevole. Perché l’idea su cui si sviluppa Stereo, checché se ne dica, è ottima e potrebbe essere ancora oggi una valida trama per una storia fantascientifica. In un istituto di ricerche vengono isolati una manciata di giovani elementi con facoltà telepatiche che non dovranno mai far ricorso all’uso della parola tra loro ma comunicare mediante la telepatia, accentuata da macchinari o sostanze chimiche. 


Questo nell’ottica di comprendere quanto le infrastrutture culturali, l’idea di famiglia, le differenze di ruoli sessuali, possano incidere nella realizzazione di ognuno e, di riflesso, nello sviluppo della società. Le teorie del dottor Luther Stringfellow, alla base del centro di studi, ricorrono alla leva dell’attrazione sessuale per giustificare la necessità di andare oltre i criteri di famiglia e del canonico ruolo del sesso stesso. Del resto è stato quello stesso strumento, ovvero l’idea che il sesso serva principalmente alla riproduzione, ad erigere l’eterosessualità come unica condizione accettabile e la famiglia come risultato dei rapporti conseguenti. Il personaggio principale del film è Ronald Mlodzik, icona gay canadese ed effettivamente personaggio stravagante nonché di fattezze vagamente effeminate. Il suo stile medioevale, nel contesto della struttura minimalista dell’istituto, ne rincara l’effetto straniante e potenzialmente affascinante in quanto altro, diverso


Il suo arrivo scombussola gli equilibri, ed è proprio in un ambito come quello dell’istituto scientifico del film, dove non si fa ricorso alla parola ma i pensieri (e i desideri) sono condivisi dagli individui in gioco, che si potrà valutare che ruolo abitualmente hanno la cultura e l’educazione nel mortificare le vere ambizioni o le volontà profonde di ognuno. Alla fine il risultato dell’esperimento sfugge però di mano ai ricercatori che decidono così di separare i soggetti: ma è troppo tardi, in seguito a questo, due di loro si suicidano. Nel finale, vediamo la ragazza bionda rincontrarsi nel corridoio dell’istituto con il giovane aitante, quello con cui sembrava avere più feeling; lui la scaccia in malo modo. Sono soggetti dotati di facoltà telepatiche e sono quindi in contatto tra loro; lui sa qualcosa che noi, che non possiamo leggere la mente altrui, non sappiamo.

La ragazza abbandonata dall’uomo, si avvolge in un mantello nero come quello fin lì usato da Ronald. Sono forse questi, i risultati rischiosi degli esperimenti dell’istituto? La personalità, o parte di essa, di alcuni soggetti si è trasferita da un corpo all’altro, con il catastrofico risultato di indurre al suicidio due di loro? E’ stata forse la ragazza bionda ad indurre al suicidio i compagni, e per questo l’uomo l’ha maltrattata? Questo non spiegherebbe il particolare del mantello. Allora è più probabile che sia stata la personalità di Ronald a pervadere l’involucro fisico della donna, per arrivare a giacere con l’aitante amante di lei.


Come si vede, comunque la si guardi, la struttura narrativa alla base di Stereo non è affatto banale e anzi presenta molti spunti interessanti. Il punto dolente è che, come in parte esplicitato già dal titolo di natura metalinguistica, il film di Cronenberg non si relaziona allo spettatore in qualità di canonico spettatore, ma lo tratta come fosse una parte in causa dell’opera. Noi siamo come i ricercatori che osservano gli sviluppi all’interno dell’istituto, con la difficoltà che ci troviamo in un ambiente fortemente alieno, oggi potremmo dire fortemente caratterizzato dalla sensibilità dell’autore. Un po’ come se ci trovassimo, noi stessi, con una sorta di azione telepatica, nella testa di Cronenberg. 

E’ questo, in fondo, il vero motivo che rende Stereo un film a suo modo fondamentale, pur coi limiti citati: c’è il primo, problematico fin che si vuole, tentativo dell’autore di integrarsi con il suo pubblico. L’errore di Cronenberg è non rendersi conto che per lo spettatore è impossibile compiere su due piedi l’operazione richiesta; per questo, per apprezzare l’autore canadese, è indispensabile rispolverare la politique des auteurs, perché i suoi intenti artistici sono molto elevati e richiedono tempo e costanza. In seguito, Cronenberg per parlare della sua arte, farà l’esempio della presa elettrica: ci sono tantissimi tipi di spine e non tutte sono compatibili con la tua presa. 
L’arte è la capacità di rendere la tua presa accessibile a tutte le spine. Come si vede, un intendimento opposto a quello che l’autore aveva messo in piedi con Stereo, dove lo spettatore è catapultato nell’universo croneneberghiano senza nemmeno gli strumenti del cinema di genere per orientarsi un minimo, come invece accade, ad esempio nei primi suoi film horror. Tuttavia dal punto di vista visivo, la purezza delle inquadrature geometriche, l’uso di stratagemmi raffinati come il fermo-immagine che simula una sorta di ralenti, evidenziano già il talento tecnico di un autore che darà il suo meglio quando smetterà i panni di esploratore cinematografico in luogo di quelli di artista di primo livello.



venerdì 23 agosto 2019

RAPPORTI PREFABBRICATI

399_RAPPORTI PREFABBRICATI (Panelkapcsolat); Ungheria 1982Regia di Bela Tarr.

Primo film del regista ungherese Béla Tarr girato con attori professionisti, Rapporti prefabbricati si presenta, formalmente, come un’opera più canonica e meno sperimentale rispetto ai precedenti. Il ritorno al bianco e nero, dopo la parentesi del secondo film L’outsider, sembra essere anch’essa una scelta autoriale, così come il ricorso a veri attori per realizzare un’opera meno spontanea e più artificiosa, nel senso di più cinematografica, e quindi anche più universale. Ora, guardando il suo film, non lo si ringrazia più per averci fornito un quadro desolante della realtà ungherese di fine secolo, ma ci si rende conto che i profondi disagi della famiglia mostrata nella pellicola, non ci sono poi così alieni. L’opera riprende lo stile documentaristico dei lavori degli esordi, e insiste nei primissimi piani, nei dialoghi colloquiali, tra un uomo (Ròbert Koltai) e sua moglie (Judit Pogàny) in apatica e disperata crisi coniugale. Dopo un incipit sulle case dormitorio, sulle cui finestre si affacciano volti perlopiù di bambini, il film si apre con la scena di Robert che arriva a casa per lasciarla definitivamente, mandando nello sconcerto la moglie. Da qui in poi parte un lungo flashback, che mostra i trascorsi precedenti al traumatico distacco dell’uomo: la perdurante crisi interna alla coppia, la donna che si lamenta della condizione di casalinga con due figli, l’uomo che pensa al football, alla televisione, e soprattutto alla birra. 
Certo, l’ambientazione, lo stile di vita, le ambizioni consumistiche (l’automobile) sono diverse dalle nostre, anche riferite allo stesso periodo storico, ma soltanto nella portata: il concetto è lo stesso, si ricerca nei miglioramenti delle condizioni materiali, una risposta ai problemi di convivenza e sopravvivenza. E, come da noi, anche nell’Ungheria di Tarr è la donna a soffrire maggiormente il disagio della coppia, mentre l’uomo per questo problema trova più facilmente la scappatoia, spesso ammantata anche di buone intenzioni. Come rappresenta la proposta di lasciare l’intero stipendio raddoppiato alla moglie, a patto di potersene andare un paio d’anni lontano dalla prigione famigliare. Drammatica, e anche in questo caso onestamente veritiera anche per i nostri lidi, è poi la questione legata ai figli, dove i bambini sono visti più che altro come un impiccio, un impegno troppo gravoso per le misere forze di una coppia di adulti fondamentalmente immaturi. 
A fronte di una situazione tanto disperata, i nostri cercano, in qualche caso, anche di spassarsela un poco, ad una festa dove si possa ballare; ma se questo è possibile per l'uomo, anche grazie all’aiuto dell’alcool, la moglie rimane invece in costante stato di insoddisfazione e sofferenza. Insoddisfazione da parte di lei, mancanza di stimoli da parte di lui, i due moti arrivano fino al letto coniugale, sancendo la definitiva crisi anche affettiva della coppia. Si ritorna quindi al punto di partenza, con la chiusura del flashback, e con Ròbert che rientra a casa per fare la valigia e andarsene, forse per sempre, forse per quei due anni di lavoro all’estero. Qui c’è però un passaggio decisivo: perché la scena apparentemente è la stessa, ma in realtà è differente. 
Il che ci pone di fronte ad alcuni dubbi, che confermano la matrice prettamente cinematografica dell’operato di Tarr in quest’occasione. Perché girare la stessa scena in modo diverso? Che non sia, forse, la stessa scena? Che non si tratti, quindi, di un flashback, ma di una situazione che si ripete nel tempo, a dimostrare, ulteriormente, la mancanza di via di fuga dalla situazione della coppia? In ogni caso, il finale ci mostra i due acquistare una lavatrice. Una piccola speranza, un piccolo progresso, un lieve compromesso: lui è andato all’estero, ma coi soldi, anziché l’auto, hanno deciso di comprare un elettrodomestico d’aiuto nelle faccende di casa. La rinuncia all’agognata automobile si deduce dal ritorno a casa a bordo del cassone del mezzo che consegnerà la lavatrice; unito al ritorno a casa, e all’acquisto stesso della macchina per lavare, sono il prezzo della pace armata accettata dalla donna. Ma di sentimenti umani, in quel tragitto sul cassone del camion, con la coppia chiusa in un severo silenzio, non se ne vedono ancora.


Judit Pogàny



mercoledì 21 agosto 2019

AGORA

398_AGORA (Ágora), Spagna; 2009Regia di Alejandro Amenábar.

Film storico di produzione spagnola, Agora si presenta con una maestosità delle scene che non ha nulla da invidiare ad un prodotto hollywoodiano. E, se vogliamo, di un certo modo americano, anzi all’americana, di raccontare le storie presenta anche molte caratteristiche. Non che sia un grosso difetto, per carità, però romanzare eccessivamente i fatti storici nuoce sempre alla credibilità dell’operazione complessiva. Per intenderci: Agora è un buon film, appassionante, divertente, che fornisce anche qualche spunto di riflessione, senza dubbio. Viene però da chiedersi: se questi spunti fossero davvero validi, serviva davvero l’appoggio di una vicenda storica che poi non viene rispettata già per ammissione dello stesso autore tramite le didascalie? Sia come sia, Agora è ambientato ad Alessandria nel 400 dopo Cristo, ed è incentrato sulla vita di Ipazia (Rachel Weisz), filosofa dedita agli studi sull’astronomia e la matematica. Che una donna possedesse un simile prestigio scientifico in epoca tanto remota, è già un fatto su cui riflettere; così come è un elemento da considerare che, ad ucciderla con l’accusa di stregoneria, siano stati i parabolani, una setta di monaci cristiani. Quanto al resto, le lotte di potere tra il prefetto Oreste (Oscar Isaac) ed il vescovo Cirillo (Sammy Damir), gli scontri tra i cristiani, ebrei e pagani, e la presenza di schiavi come Davo (Max Minghella), sono tutti elementi interessanti di una società, quella alessandrina del tempo, con rimandi o echi addirittura nella nostra contemporaneità. Episodi storici come la presa della Biblioteca di Alessandria da parte dei cristiani, che ne distrussero i numerosi testi è un altro elemento di forte impatto narrativo ma anche simbolico. 
E, come detto, l’uccisione di Ipazia per mano cristiana, è motivo di riflessione che non passa certo inosservato. Con tutta questa carne al fuoco, il regista Alejandro Amenábar inserisce ulteriormente alcuni elementi di fantasia, che lasciano certamente perplessi. Non certo le trame sentimentali e i vari risvolti, utili allo scorrimento del testo, ma aspetti tecnici come deduzioni scientifiche ed astronomiche attribuite ad Ipazia che sembrano davvero azzardate, almeno allo spettatore comune. Ha senso ipotizzare che la filosofa possa aver avuto intuizioni in quell’ambito con un migliaio di anni di anticipo su scienziati che furono già a loro volta dei precursori secoli dopo? Certamente tutto è possibile, specie agli occhi dello spettatore ignorante, ma l’impressione è che in questo modo si svilisca l’importanza delle cose concrete, reali, credibili: Ipazia, personaggio storico la cui fama è giunta fino a noi dal 400 d.C., ha evidentemente fatto cose clamorose e storicamente documentate, che ne giustificano la eccezionale notorietà. In un contesto di ricostruzione storica, attribuirle scoperte di cui non si ha riscontro, solo per aumentarne il fascino in modo sensazionalistico, ottiene l’effetto contrario. 

Ma questo non fa che confermare, in fondo, quello che era un’impressione avvertibile guardando già i primi minuti di Agora che, sul momento, si poteva intimamente chetare pensandosi in errore. Perché il film di Amenábar ricorda quei fantasy, come certi episodi di Star Wars, che traggono a loro volta ispirazione dalle ambientazioni storico/mitologiche. Forse non è la radice comune a farceli sembrare simili e inducendoci in errore: è proprio vero che il riferimento di Agora è il fantasy, e quindi il richiamo alla Storia passi solo attraverso quel genere fantastico. In questo senso le  stralunate scelte narrative di Amenábar sono giustificabili, e ben si prestano ad una associazione con le immagini che inquadrano la Terra da altezze satellitari, o i paragoni metaforici con le operose formiche. Ma forse la scena chiave è quella che avviene nella biblioteca, con l’immagine che Amenábar ribalta sottosopra, per mostrarci un mondo che va alla rovescia se la religione che insegna la pace distrugge la cultura. O, anche, se nemmeno i film storici sono attendibili storicamente.


Rachel Weisz



lunedì 19 agosto 2019

IL DISORDINE

397_IL DISORDINE , Italia, Francia; 1962Regia di Franco Brusati.

L’incipit di Il disordine di Franco Brusati è sorprendente: arriva un auto in una lussuosa villa, ne scende Susan Strasberg (Isabella) snella ed elegante; intanto Alida Valli (madre di Isabella), si agita intorno al letto del marito (nel film Curd Jürgens). La macchina da presa che segue la ragazza sulla splendida scalinata e si insinua negli ampi spazi della sontuosa villa, l’efficace bianco e nero delle immagini: la regia si avverte e sembra preannunciare una storia avvincente, un classico dramma a tinte forti, visto i primi toni che sembrano accesi sin da subito. Ma è una clamorosa falsa partenza; il protagonista di questo film non è il vecchio allettato, e nemmeno la moglie interpretata dalla diva italiana, come neppure la bella figlia o l’altro figlio, Carlo (Sami Frey). No, il centro della scena in realtà è vuoto, per così dire, ma ad aggirarsi quasi continuamente per tutto il film è Mario (Renato Salvadori), inizialmente figura di contorno (è un semplice cameriere a chiamata), che si ritaglia, nel corso del lungometraggio, uno spazio che si snoda tra alcune delle varie storie raccontate da Brusati. Una teoria narrativa piuttosto curiosa e un po’ caotica, ma d’altra parte il film si intitola Il disordine e a quello, evidentemente, aspira il regista come idea formale della sua opera. Sotto accusa è il modello borghese, imperante nella Milano del boom economico, ma il film lascia più che altro sospesi i suoi motivi di perplessità circa la società italiana. Si diceva del presunto protagonista: presunto, perché Mario non partecipa a tutte le varie vicende raccontate; in quel caso, ci sarebbe almeno una sorta di ordine nella scaletta di Brusati. 
Il protagonista del suo film sarebbe il personaggio comune a tutte le diverse sottotrame, in alcuni casi in veste di protagonista, in altri di comparsa; ma non è così. In ossequio al titolo ed, evidentemente, al suo intendimento, il regista evita una matrice comune per tutti i risvolti dell’opera, per cui anche il personaggio di Mario, che come si è detto prende spesso il centro della scena, in alcuni segmenti del lungometraggio rimane estraneo. Ma quello del protagonista è solo un aspetto, si potrebbe quasi dire un pretesto di analisi, nel senso che permette di cristallizzare in breve l’impressione scomposta dell’opera nel suo complesso. 
Se era questo quello a cui ambiva Brusati, certamente c’è riuscito: Il disordine lascia lo spettatore con una sensazione di spaesamento, di mancanza. E’ mancata la storia, sono mancati i protagonisti; e quello che succede appare perlopiù fuori luogo e anche ingiusto, forse anche senza una ragione (che Brusati non si premura certo di chiarire). E’ un problema se la coppia di giovani eterosessuali non si ricompone, ma lo fa quella omo? E’ giusto che il prete dia tutti i soldi alla vecchia madre di Mario, lasciando le altre povere donne nella miseria? E lo stesso falso prete non sembrava certo un modello di rettitudine, visto che permetteva la prostituzione nella sua casa: ma quando vediamo le ruspe abbattergliela, possiamo dirci soddisfatti?
Questi interrogativi lasciati sospesi, se è vero che le domande sono spesso più interessanti delle risposte, sono una testimonianza del valore de Il disordine.




Alida Valli



Susan Strasberg



Antonella Lualdi





sabato 17 agosto 2019

METTENDO I PANTALONI A FILIPPO

396_METTENDO I PANTALONI A FILIPPO (Putting pants on Philip ), Stati Uniti 1927Regia di Clyde Bruckman.


Quello che pare essere il primo film girato da Stanlio e Ollio in coppia, (sebbene non ancora in forma di duo ufficiale), narra dell’arrivo di Filippo, un giovane scozzese (Stanlio) in America, a casa dello zio (Ollio.) In questa sorta di esordio Stan è in forma stratosferica e Ollio fatica a reggere la scena. Il nipote Filippo è infatti assatanato dalle donne, e quando ne vede una che lo intriga (leggi 'gonna al ginocchio e scarpe col tacco') spicca un salto alzando le gambe a forbice (una avanti e l’altra indietro) e poi parte all’inseguimento. Prima che Ollio possa mettergli i calzoni, lo scatenato Stanlio perderà le mutande, facendo svenire un paio di donne accorse per lo spettacolo. Già, perché tutta la città accorre a flotte quando vede Stanlio all’opera nella sua caccia alle eleganti ragazze americane.
Un esordio col botto, insomma.   













giovedì 15 agosto 2019

Q - IL SERPENTE ALATO

395_Q - IL SERPENTE ALATO (Q - The Winged Serpent), Stati Uniti 1982Regia di Larry Cohen.

Salito alla ribalta, perlomeno del genere horror, con Baby Killer del 1974, Larry Cohen è un regista abitualmente guardato con generica benevolenza dai fan del cinema del terrore. Gli si riconosce una indiscussa passione per il genere e una volontà, per la verità non sempre assecondata dai risultati, di dare una matrice sociologica alle sue opere. Nel caso di Q – Il Serpente Alato questo aspetto sembra essere assente, vertendo, la fantascientifica storia, su una questione di riti, reincarnazioni e evocazioni di divinità e demoni aztechi, che si concretizzano nel terribile mostro che scorazza per i cieli di Manhattan. In realtà, al netto della trama incentrata su questa sorta di drago che si nutre dei malcapitati frequentatori delle sommità dei grattacieli della Grande Mela, Cohen riesce ad infilare anche in questo film le sue perplessità sulla società americana. Il protagonista Jimmi Quinn (Michael Moriarty) è il classico pavido, vigliacco, opportunista che andrebbe preso a sberle dalla mattina alla sera ma, nel corso della racconto filmico, il regista riuscirà comunque a cavarci qualcosa di buono. Naturalmente sullo schermo il merito va diviso tra la fidanzata Joan (Candy Clark) e il tenente Sheperd (David Carradine), un  poliziotto meno ottuso degli altri. Questi aspetti possono sembrare marginali, in un film come Q – Il Serpente Alato, ma in realtà sostengono l’interesse per la storia, che invece fatica un po’ sotto il profilo della credibilità. Non che il fatto di vedere una specie di dinosauro alato nella New York di fine anni settata possa creare questo problema allo spettatore di un film di genere fantastico, ma ci sono almeno due aspetti che lasciano un po’ a desiderare in questo senso. 
Il primo è di carattere morfologico e riguarda appunto il mostro protagonista del film. In teoria l’ispirazione per il cosiddetto serpente alato è Quetzalcotl (la cui lettera iniziale è anche presente nel titolo del film), una divinità azteca, precisamente il serpente piumato. Il mostro che si libra nei cieli del film di Cohen è però abbastanza diverso dalle note raffigurazioni del dio centramericano, in genere illustrato come un serpente dotato di piume e penne (da cui il nome originale). La versione cinematografica del mostro è invece una sorta di dinosauro, che potrebbe essere legittimata dalla lontana parentela tra questi animali e i serpenti. Il punto è che la terribile creatura in questione ha quattro zampe e due ali, e questo lo rende un ibrido poco compatibile con le normali nozioni di biologia di base. Al massimo ci si può vedere una parentela con il drago, essere mitologico e sostanzialmente svincolato dai criteri naturalistici. 
Però, a questo punto, le sospensioni richieste alla credulità dello spettatore cominciano ad essere troppe: dobbiamo credere alla divinità azteca e dobbiamo credere al rito che la evoca, attingendo tutto ciò dalle culture centroamericane; e contemporaneamente dobbiamo credere che il dinosauro che si libra nell’aria sia una sorta di drago volante, concetto proveniente invece da un altro immaginario. Praticamente si tratta di un ibrido con elementi presi da tre sfere della nostra conoscenza: civiltà perdute (l’origine dal dio azteco), scienza e natura (l’aspetto da dinosauro), miti e leggende (vola come un drago). Un filo esagerato, forse. Se poi ci mettiamo, e questo è il secondo aspetto che mina la credibilità del film, gli aspetti speciali eccessivamente ostentati per il loro grado di plausibilità, abbiamo reso l’idea del perché Q – Il Serpente Alato sia un film che goda di fama peggiore di quanto non meriti.  






Candy Clark