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Visualizzazione post con etichetta Peplum. Mostra tutti i post
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mercoledì 27 gennaio 2021

REVAK, LO SCHIAVO DI CARTAGINE

734_REVAK, LO SCHIAVO DI CARTAGINE (The Barbarians). Stati Uniti, Italia1960. Regia di Rudolph Maté.

Il regista di Revak, lo schiavo di Cartagine è Rudolph Maté che nella storia del cinema ha un posto d’onore per la sua attività di direttore della fotografia piuttosto che dietro alla macchina da presa. Una cosa curiosa, a proposito di questo film epico, è che, tra le altre cose, difetta proprio nella resa fotografica delle immagini. Non che questo sia l’aspetto peggiore: il tasto più dolente è che Revak, lo schiavo di Cartagine sembra un mero prodotto alimentare, sbrigato senza troppa passione da parte del regista. Poi, vabbè, Maté conosce anche come si dirige un film e nel complesso stiracchia la sufficienza aggrappandosi all’interpretazione di Jack Palance e ad una discreta ricostruzione scenografica di sapore storico. Ma perfino Palance fatica, per la verità, a trovare il registro giusto forse perché è l’unico attore di un certo rilievo in una storiellina rapida e un po’ troppo semplice e, inoltre, non è attore così avvezzo ad interpretare il ruolo di eroe a 360 gradi. Sullo schermo l’artista di origini ucraine è in genere il villain di turno e anche in Revak, lo schiavo di Cartagine, quando deve dare sfogo alla sua collera regge alla grande. Sembra assai meno disinvolto quando assurge a leader della rivolta mentre appare persino perplesso nei numerosi passaggi romantici, forse troppo scontati per poter essere credibili anche all’attore stesso mentre li interpretava. Infatti Revak non fa nemmeno in tempo a sbarcare in catene nella città africana che Valeria (Deirdre Sullivan) e Cherata (Milly Vitale) gli mettono subito gli occhi addosso. Se per la prima la cosa è già plausibile, la ragazza è una schiava, la tresca con la seconda appare davvero troppo raffazzonata, visto che si tratta della principessa della città. In ogni caso, nonostante il fascino che Milly Vitale comunque riesce a conferire al personaggio, Revak si concede assai per poco tempo alla principessa e rimane fedele ai suoi propositi bellicosi di ribellione. Soprattutto rimane determinato a portare a termine la fatale vendetta contro Kainus (Guy Rolfe) che, per colmo di sfortuna, è addirittura il fratello di Cherata. Insomma, a conti fatti, uno dei passaggi migliori è il balletto delle damigelle di corte, un cliché dei peplum italiani (Revak è una coproduzione italo-statunitense) anche se nel complesso l’opera conserva quel fascino che hanno i film dell’epoca con ispirazioni storiche, siano esse più o meno credibili.   




  Milly Vitale



sabato 2 maggio 2020

LA VENERE DI CHERONEA

562_LA VENERE DI CHERONEA ; Italia 1957. Regia di Giorgio Venturini e Victor Turzanskij.

Mentre sul sito IMDB (Internet Movie Data Base) troviamo che la regia de La Venere di Cheronea è opera di Fernando Cerchio e Viktor Turžanskij , sui manifesti e locandine, accanto al nome del regista russo esule, troviamo quello di Giorgio Rivalta. Che poi era lo pseudonimo del produttore Giorgio Venturini: insomma, non c’è troppa chiarezza riguardo alla paternità del film anche se rimane certo l’apporto di Turžanskij. Diventa formalmente difficile valutare la regia di un’opera che già si presenta in modo così confuso, soprattutto perché poi, sullo schermo, una certa vaghezza artistica rimane a contraddistinguere questo La Venere di Cheronea. Peccato: considerato alcune premesse, il film avrebbe potuto essere di ben altro spessore rispetto a quello che è poi rimasto sulla pellicola. Intanto perché c’è Belinda Lee, ovviamente negli esigui panni della Venere in questione, che altri non è che una fantastica modella dell’epoca ellenica. Belinda era, insieme alla più celebre Diana Dors, la risposta britannica alle dive platinate americane e, in quel periodo, stava furoreggiando soprattutto in Italia. La sua carriera verrà stroncata pochi anni dopo, nel 1961, a causa di un incidente d’auto; nonostante gli oltre 30 film in sette anni, di cui una dozzina nel belpaese, il suo ricordo è comunque inferiore all’impatto che fa sullo schermo. La Venere di Cheronea è un peplum ambientato in epoca ellenica che, purtroppo, si riduce all’occasione di vederla scorazzare con un abito discinto sullo schermo, il che non è certo un male, sia chiaro. Però nelle premesse l’opera lasciava intendere che ci potesse essere qualcosa di più. 

Il protagonista maschile è Massimo Girotti nella parte di Prassitele, il famoso scultore dell’antichità e, in avvio, il film sembra poter esplorare il rapporto tra la bellezza e l’artista e, su un altro piano, tra l’arte e gli altri modi di approcciarsi alla vita. Il primo confronto è concretizzato nella difficoltà di Prassitele nel gestire la relazione con la modella Iride, il personaggio della Lee: invaghito dall’idea di bellezza che la ragazza incarna, è troppo occupato a reinterpretarla nella scultura per poterla corteggiare a dovere. Il rapporto rimane così platonico: il che, da un certo punto di vista, nobilita l’animo di Prassitele, che non era cioè solito approfittare delle occasioni artistiche o professionali. Ma questo comportamento lascia campo libero a Luciano, macedone ferito che viene ospitato e curato nella casa dello scultore. L’arrivo di Luciano, che è un soldato, mette a confronto gli ideali di pace universale, dettati dalla bellezza e che animano Prassitele, a quelli più prosaici del macedone. Il quale, pur essendo nemico, non è così denunziato dallo scultore ai soldati ateniesi; Prassitele è un artista, un uomo che insegue l’ideale della bellezza assoluta e che è contrario alle meschine beghe terrene. A differenza di Luciano che, da buon soldato, non perde tempo e approfitta dell’ospitalità per corteggiare spudoratamente e quindi conquistare il cuore della bellissima modella. Il film si trasforma quindi in un melò e l’entrata in campo dell’amore, inteso come viva passione, fa deragliare persino la moralità di Prassitele. 

Non è che il nobile sentimento venga dipinto in modo negativo ma piuttosto se ne sottolinea l’ingovernabilità, tanto che anche la pacifica villa dello scultore diventa un luogo dove si concretizzano l’odio e il tradimento. Va detto che, il film,  non riesce a reggere l’imbastitura orchestrata con un adeguato sviluppo narrativo. Emblematico, forse, di un certa trascuratezza generale è il fatto che le scene della battaglia finale tra Macedoni e Greci non siano nemmeno mostrate, passando direttamente ad una sorta di resa degli ellenici. Verso la conclusione la storia riprende vigore, soprattutto grazie ad Iride che, appreso della morte di Prassitele, è colta da sentimenti contrastanti, tra cui il rimorso per l’odio covato verso lo scultore, reo, ai suoi occhi, di aver tradito Luciano. 

Qui sarebbe stato necessario un po’ più di coraggio per finire il film dando alla figura della Venere di Cheronea una statura tragica ma la scelta sarà per un lieto fine di prammatica. E’ chiaro che l’happy ending è la scelta per il pubblico pagante, ma finisce per svilire anche il finale che invece aveva provato a riabilitare il film. Infatti Iride, nonostante abbia ritrovato Luciano, sembra volersi gettare dagli scogli: in questo si può leggere la conferma che, anche secondo gli autori, il lieto fine non è la conclusione opportuna. Iride incarna la figura di una dea materializzando, in carne e ossa, le pretese artistiche di Prassitele: un finale drammatico la eleverebbe al di sopra delle normali eroine di tanti finali melensi. Ma lieto fine sarà perché troppo spesso, a Cinecittà, non solo gli autori ma anche le dee dovevano piegarsi agli interessi del botteghino.  

    
Belinda Lee






domenica 12 aprile 2020

LA RIVOLTA DEI BARBARI

550_LA RIVOLTA DEI BARBARI ; Italia, 1964. Regia di Guido Malatesta.

Quando, nel dicembre del 1964, La rivolta dei barbari di Guido Malatesta esce nelle sale, Per un pugno di dollari di Sergio Leone, non solo è uscito da un pezzo, ma continua a riempire i cinema italiani. Qual è l’attinenza tra il mediocre film di Malatesta e il capolavoro di Leone? Che il primo è datato praticamente fuori tempo massimo, oltre a quel limite che si può proprio identificare con l'uscita del capostipite degli spaghetti western. Il peplum, genere a cui si ascrive diligentemente il film del regista nato a Gallarate, non gode abitualmente di grande considerazione ma, di fatto, nell’Italia del dopoguerra, preparò la strada a quel cinema che si fonda prevalentemente sull’azione avventurosa. Western, thriller, polizieschi: non solo i registi si fecero le ossa, ma tutto il movimento cinematografico in generale in Italia divenne industria anche grazie al peplum. E se questo un tempo forse poteva anche essere inteso in senso negativo, oggi sappiamo bene che non è affatto così, visto che dal cinema popolare si possono attingere interessanti riflessioni e spunti, oltre a molti film certamente godibili sul piano dell’intrattenimento. Il peplum, per una svariata serie di motivi che vanno dall’enorme numero di pellicole che venivano sfornate ad ogni stagione alla possibilità di riutilizzare gli stessi scenari per diversi film, permise una serializzazione che purtroppo, con l’andar del tempo, livellò la produzione eccessivamente verso la mediocrità. In questo senso La rivolta dei barbari può anche essere un ottimo esempio: il film non ha difetti vistosi ma non eccelle praticamente in nulla. La qualità migliore è probabilmente il ritmo narrativo, sostenuto dai numerosi scontri all’arma bianca tra legionari romani e barbari e anche tra gli stessi legionari e i pretoriani, in una sorta di derby romano. 


Importante, nell’economia della storia, anche la doppia traccia sentimentale, laddove lo charme dell’unica ‘star’ del cast Grazia Maria Spina (è Livia), nonostante qualche posa statica di troppo, straccia la sparuta concorrenza, compresa quella maschile. Questo nonostante Malatesta conosca bene il genere e sappia che nel peplum il fascino legato alla fisicità dell’eroe di turno sia anche più importante di quello della controparte femminile, si pensi al filone dei forzuti nel quale i protagonisti ostentano i loro possenti corpi. In effetti ciò lo si può notare anche ne La rivolta dei barbari, nelle gambe esibite da Roland Carey (nei panni del console Dario) o di Gabriele Antonini (Marco), che poco hanno però a che spartire con i vigorosi machi di altre pellicole di questo tipo. In fin della fiera, uno degli aspetti più curiosi di tutta quanta l’operazione è che, a parte una debolissima trama gialla, come luoghi comuni narrativi il film può benissimo essere paragonato ad un western: agguati, attacchi al convoglio, assalti alla fortificazione, frecce e lance che volano e uccidono, fino all’arrivano i nostri che chiude la questione. In pratica Malatesta e i suoi collaboratori, in attesa che la produzione adeguasse scenografie e costumi, si erano portati aventi con il canovaccio: gli spaghetti western avevano ormai preso il posto dei peplum.   


Grazia Maria Spina


      

domenica 1 marzo 2020

ANNIBALE

529_ANNIBALE ; Italia, 1959. Regia di Carlo Ludovico Bragaglia e Edgar G. Ulmer.

Il ruolo di Demetrio, ne La tunica (1953, regia di Henry Koster) e nel sequel I Gladiatori (1954, Delmer Daves), aveva conferito a Victor Mature lo status di icona del genere peplum. Per interpretare una figura mitica come Annibale, il condottiero cartaginese, venne così chiamato il possente attore statunitense. Niente da dire sulla sua prestazione: certamente sopra le righe, a partire dai capelli zuppi di brillantina che luccicano sullo schermo, ma pienamente nelle corde di un genere che certamente non può dirsi né discreto né attendibile storicamente. Certo, esistono peplum che si concedono meno licenze poetiche di questo Annibale di Bragaglia e Ulmer ma, i meriti di quest’opera risiedono altrove. Innanzitutto nel carisma un po’ pacchiano di Mature, che regge comunque la scena alla grande, nei colori della fotografia poco credibili ma apprezzabili per coerenza con il testo e nell’esoticità della vicenda narrata, con gli elefanti chiamati a superare le Alpi. Nella storia raccontata dal film, i cartaginesi guidati da Annibale, con elefanti al seguito, invadono infatti l’Italia superando la catena alpina, aprendosi la strada verso il sud. La questione amorosa tra il condottiero e Silvia (Rita Gam), figlia del senatore romano Quinto Fabio Massimo (Gabriele Ferzetti), incendia il lato sentimentale dell’opera, come da prassi del genere e getta un po’ in subbuglio le parti. Ma la storia non decolla praticamente mai. Insomma, pur con i giusti elementi a disposizione, nel suo complesso la pellicola non va oltre un mero svolgimento senza particolari acuti. Peccato.



Rita Gam




giovedì 2 gennaio 2020

LA FURIA DEI BARBARI

490_LA FURIA DEI BARBARI ; Italia, 1960. Regia di Guido Malatesta.

Il 1960 è l’anno che consacra il successo del genere peplum in Italia. Guido Malatesta ne sarà uno degli artefici con opere, per la verità, non di grande cabotaggio. A partire da questo La furia dei barbari, pellicola che si lascia certamente guardare e, volendo, anche con una certa curiosità; curiosità, forse legata, per assurdo (essendo un film storico), all’ambientazione rurale e fuori dalle località storicamente note. Ma c’è davvero troppa approssimazione: a partire dalla trama, alla caratterizzazione dei personaggi, alle scenografie, ai costumi, alle scene di massa. Tra gli interpreti, da ricordare Edmun Pordom (è Toryok) e Livio Lorenzon (è Kovo) i due barbari sulla cui rivalità regge la storia; sul fronte femminile da segnalare Rossana Podestà (Lianora) e Raffaella Pelloni, non ancora Carrà, (Maritza). Curioso anche come, presso questi barbari raccontati da Malatesta e dai suoi collaboratori, le donne si permettessero di contestare apertamente; non è dato sapere se la condizione femminile mostrata abbia qualche riscontro storico ma, in generale, l’idea che comunica il film non è certo di provata attendibilità. Tuttavia, almeno per quello che è mostrato sullo schermo, le donne si prendono un ulteriore punto a favore: il balletto coreografico (che, tra l’altro, sembra piuttosto inopportuno presso popolazioni barbare), è più interessante delle tante noiose battaglie. Insomma, un prodotto che ci è utile per capire quanto fosse in voga il genere al tempo: se c’era spazio perfino film modesti come questo La furia dei barbari, era davvero un periodo d’oro per il peplum all’italiana.  


Rossana Podestà




Raffaella Pelloni AKA Raffaella Carrà

  

martedì 24 settembre 2019

IL COLOSSO DI RODI

415_IL COLOSSO DI RODI; Italia, Spagna, Francia 1961Regia di Sergio Leone.

Il colosso di Rodi è un’opera che è divenuta oggetto di interesse in seguito al successo che il suo autore, Sergio Leone, ebbe coi successivi lungometraggi, a cominciare dai famosi spaghetti-western. In sé, il film, un peplum all’italiana, non è certo memorabile e si inserisce senza particolari evidenze nella produzione nazionale del genere. A livello narrativo, la storia ha una buona struttura, sebbene si dilunghi eccessivamente; visivamente l’opera è interlocutoria. Ci sono scene molto interessanti accostate ad altre meno efficaci e piuttosto dozzinali. Intanto, rispettando i canoni del genere, il film ha un fondamento storico, facendo riferimento alla civiltà di Rodi all’epoca del colosso, che era una delle sette meraviglie del mondo antico. E’ giusto ricordare che ai peplum non era certo richiesto un rigore storico: tuttavia Leone spara subito a raffica una serie di inesattezze, spesso completamente gratuite, quasi a voler delegittimare ogni pretesa anche solo vagamente attendibile del suo racconto. A posteriori, si può notare come alcuni degli elementi più interessanti de Il colosso di Rodi anticipino parte del lavoro che Leone farà per rinnovare il western. Il personaggio principale in Il colosso di Rodi, Dario (Ray Calhoun) è uno straniero, un simpatico perdigiorno che ha come unico interesse correre dietro alle sottane e riposarsi. E’ un eroe di Atene, sia chiaro; ma delle sue imprese ne parlano altri, mentre lui ripete spesso che si deve riposare. L’atteggiamento di cercare di togliersi dal centro della scena, mentre è conteso dalle parti in causa nella lotta, verrà poi ripreso per gli anti-eroi degli spaghetti western. Un discorso analogo, almeno parzialmente, si può fare per l’uso, nell’opera, della figura femminile. Qui le donne sono due, Diala (Lea Massari) e Mirte (Mabel Karr). 
La prima è bella, affascinante, ambigua; la cosa è resa figurativamente da Leone dal fatto che è spesso intenta a rimirarsi allo specchio. Personaggio simbolico e al tempo stesso di una buona resa scenica, tradisce l’eroe ma poi lo salva, a parziale riscatto della propria vita. Un modo importante di intendere la donna che, almeno in principio, sarà estraneo agli spaghetti western. Meno strutturato il personaggio di Mirte: è vero che alla fine riesce a conquistare Dario, ma sembra più che altro una figura di contorno. E questo è, invece, il tipico spazio concesso alla figura femminile in molti western all’italiana. Inoltre, anche il ruolo giocato dal terremoto che, di fatto, ristabilisce la pace a Rodi, ricorda il destino ai cui capricci saranno sottoposti molti dei personaggi dei successivi film di Sergio Leone. 

Ma, come detto, oltre a questi spunti personali, il regista romano rispetta, seppur in modo un po’ sbrigativo, i cliché del peplum italico: ci sono i muscoli esibiti, il balletto coreografico, le belve feroci, i duelli all’arma bianca, le catastrofi. Il cinema di genere vuole i suoi passaggi obbligati e Leone non si sottrae; ma è indubbio che, per quanto il film non sia certo un capolavoro, ci siano numerosi elementi da sottolineare per la consapevolezza del regista nel realizzarlo. Ad esempio, molto interessante è l’uso di un doppio registro, drammatico e umoristico, nel duello notturno in cui Dario si scontra con Peliocre (Georges Marchal) e i suoi fratelli; nell’altra stanza vediamo Lisippo (George Rigaud) dormire beato con i tappi nelle orecchie incurante del finimondo che gli accade accanto. C’è quindi un po’ di ironia diffusa, di cui questo è un esempio esplicito, mentre c’è forse anche un divertimento, da parte di Leone, nel prendere in giro un po’ il genere peplum, che era in effetti spesso enfatizzato ai limiti del ridicolo. Forse la resa un po’ sciatta, dimessa, degli eventi catastrofici è voluta dall’autore per sottolinearne l’artificiosità. 


Del resto, in una scena, viene anche mostrato un plastico dettagliato dell’isola di Rodi e dell’enorme statua, che appare un po’ fuori luogo rispetto al tempo del racconto; così come anche i complicati marchingegni dentro al colosso sembrano di natura tecnica più moderna. C’è forse un tentativo di mostrare i meccanismi della macchina cinema, dei suoi trucchi, coi modellini per le riprese panoramiche; in qual caso con una consapevolezza metalinguistica notevole da parte di un autore che era all’inizio della carriera. In ogni caso, in altre scene, come quelle sulla sommità del colosso, l’autore rivela senza alcun ombra di dubbio, una qualità registica sorprendente quando riesce a citare in modo convincente nientemeno che Hitchcock. L’omaggio più evidente è ad Intrigo internazionale (film del 1959) dove i personaggi si inseguono sulle facce dei presidenti del Monte Rushmore; ma può venire in mente anche Sabotatori (1942), sempre del grande Hitch, con le scene cruciali riprese sulla Statua della Libertà di New York. Insomma, un’opera non completamente compiuta, questo Il colosso di Rodi ma, come è facile a dirsi col senno di poi, dalla quale emerge già la stoffa dell’autore.  






Lea Massari



  

mercoledì 21 agosto 2019

AGORA

398_AGORA (Ágora), Spagna; 2009Regia di Alejandro Amenábar.

Film storico di produzione spagnola, Agora si presenta con una maestosità delle scene che non ha nulla da invidiare ad un prodotto hollywoodiano. E, se vogliamo, di un certo modo americano, anzi all’americana, di raccontare le storie presenta anche molte caratteristiche. Non che sia un grosso difetto, per carità, però romanzare eccessivamente i fatti storici nuoce sempre alla credibilità dell’operazione complessiva. Per intenderci: Agora è un buon film, appassionante, divertente, che fornisce anche qualche spunto di riflessione, senza dubbio. Viene però da chiedersi: se questi spunti fossero davvero validi, serviva davvero l’appoggio di una vicenda storica che poi non viene rispettata già per ammissione dello stesso autore tramite le didascalie? Sia come sia, Agora è ambientato ad Alessandria nel 400 dopo Cristo, ed è incentrato sulla vita di Ipazia (Rachel Weisz), filosofa dedita agli studi sull’astronomia e la matematica. Che una donna possedesse un simile prestigio scientifico in epoca tanto remota, è già un fatto su cui riflettere; così come è un elemento da considerare che, ad ucciderla con l’accusa di stregoneria, siano stati i parabolani, una setta di monaci cristiani. Quanto al resto, le lotte di potere tra il prefetto Oreste (Oscar Isaac) ed il vescovo Cirillo (Sammy Damir), gli scontri tra i cristiani, ebrei e pagani, e la presenza di schiavi come Davo (Max Minghella), sono tutti elementi interessanti di una società, quella alessandrina del tempo, con rimandi o echi addirittura nella nostra contemporaneità. Episodi storici come la presa della Biblioteca di Alessandria da parte dei cristiani, che ne distrussero i numerosi testi è un altro elemento di forte impatto narrativo ma anche simbolico. 
E, come detto, l’uccisione di Ipazia per mano cristiana, è motivo di riflessione che non passa certo inosservato. Con tutta questa carne al fuoco, il regista Alejandro Amenábar inserisce ulteriormente alcuni elementi di fantasia, che lasciano certamente perplessi. Non certo le trame sentimentali e i vari risvolti, utili allo scorrimento del testo, ma aspetti tecnici come deduzioni scientifiche ed astronomiche attribuite ad Ipazia che sembrano davvero azzardate, almeno allo spettatore comune. Ha senso ipotizzare che la filosofa possa aver avuto intuizioni in quell’ambito con un migliaio di anni di anticipo su scienziati che furono già a loro volta dei precursori secoli dopo? Certamente tutto è possibile, specie agli occhi dello spettatore ignorante, ma l’impressione è che in questo modo si svilisca l’importanza delle cose concrete, reali, credibili: Ipazia, personaggio storico la cui fama è giunta fino a noi dal 400 d.C., ha evidentemente fatto cose clamorose e storicamente documentate, che ne giustificano la eccezionale notorietà. In un contesto di ricostruzione storica, attribuirle scoperte di cui non si ha riscontro, solo per aumentarne il fascino in modo sensazionalistico, ottiene l’effetto contrario. 

Ma questo non fa che confermare, in fondo, quello che era un’impressione avvertibile guardando già i primi minuti di Agora che, sul momento, si poteva intimamente chetare pensandosi in errore. Perché il film di Amenábar ricorda quei fantasy, come certi episodi di Star Wars, che traggono a loro volta ispirazione dalle ambientazioni storico/mitologiche. Forse non è la radice comune a farceli sembrare simili e inducendoci in errore: è proprio vero che il riferimento di Agora è il fantasy, e quindi il richiamo alla Storia passi solo attraverso quel genere fantastico. In questo senso le  stralunate scelte narrative di Amenábar sono giustificabili, e ben si prestano ad una associazione con le immagini che inquadrano la Terra da altezze satellitari, o i paragoni metaforici con le operose formiche. Ma forse la scena chiave è quella che avviene nella biblioteca, con l’immagine che Amenábar ribalta sottosopra, per mostrarci un mondo che va alla rovescia se la religione che insegna la pace distrugge la cultura. O, anche, se nemmeno i film storici sono attendibili storicamente.


Rachel Weisz