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mercoledì 24 luglio 2019

HOTEL RWANDA

384_HOTEL RWANDA . Canada, Regno Unito, Italia, Sudafrica 2004Regia di Terry George.

Una delle peculiarità che rendono il cinema non solo utile, ma indispensabile, è certamente legata alla sua potenza evocativa. Ma, se volete farvi un’idea di un determinato evento che sia documentata, statistica, fermamente attendibile, non guardate un film: leggete un saggio, un testo che ponga la rigorosa fedeltà ai fatti come suo cardine principale. Vi farete un quadro della situazione, probabilmente lucido anche se un po’ astratto e, se l’autore è sufficientemente obiettivo, abbastanza simile alla realtà degli avvenimenti. Poi, però, per comprendere meglio l’impatto emotivo e soprattutto umano del resoconto di cui avete letto, se c’è un film come Hotel Rwanda che è inerente, guardatelo, perché occhi e orecchie daranno impulsi a cervello e cuore, e vi faranno quasi vivere gli eventi di persona. Perché fa una leggera differenza: le persone non sono numeri scritti nero su bianco sulle pagine di un libro. Hotel Rwanda di Terry George è un’esperienza devastante, sia per l’abilità del regista ma, soprattutto, perché quello che si vede è probabilmente molto simile a quanto realmente accaduto. Le immagini delle violenze, il sangue, i corpi dei morti… ma, forse più di ogni altra cosa, l’angoscia dei poveri profughi, abbandonati vigliaccamente dai caschi blu e in generale da tutto il mondo occidentale, per usare una definizione del colonnello Oliver (Nick Nolte): l’orrore aggredisce presto lo spettatore per non mollarlo sostanzialmente più. Nel finale, l’eroico Paul Rusesabagina (Don Cheadle) ci lascia con un moto ottimista, ma è difficile credergli. Certo, il regista Terry George avrà voluto dare una speranza, soprattutto alle popolazioni locali, per provare a lasciarsi alle spalle i rancori e l’odio tra le varie etnie. 
E, a questo proposito, arriviamo a quello che forse è il passaggio più sconvolgente, sebbene appena accennato nel film di George che, comunque, è difficile da accettare come vero. Se non fosse che ha un fondamento storico. Pare, infatti, che il razzismo reciproco tra le due etnie più diffuse in Rwanda, gli Hutu e i Tutsi, responsabile del terribile genocidio che viene mostrato nel film, sia stato deliberatamente alimentato dai colonizzatori europei. I belgi, osservando alcune differenti caratteristiche fisiche tra i vari ceppi etnici, stabilirono, in modo del tutto infondato, che i Tutsi, più alti e snelli e con viso e naso più affilati, avessero una parentela con il ceppo caucasico. Da questo presupposto trassero come conseguenza l’intrinseca superiorità di questa etnia rispetto alle altre. 

Vennero quindi affidati ai Tutsi tutti gli incarichi di prestigio, a dispetto degli Hutu che, in quanto puri e semplici africani, dovevano occupare un gradino inferiore della scala sociale. Il vecchio motto divide et impera era stato adattato in chiave razzista dai belgi ma, se questo aveva permesso probabilmente un controllo più agevole per gli scopi colonialisti del paese europeo, aveva al contempo seminato un odio che, nel corso degli anni, sarebbe affiorato a più riprese in modo feroce. Il genocidio del 1994, di cui si parla nel film Hotel Rwanda, non è, infatti, stato l’unico e sangue innocente è stato versato da entrambe le parti in diverse occasioni. Pur se l’Africa, da un punto di vista bellico, potrebbe essere un continente in fermento anche per una sua natura, diciamo così, effervescente, le responsabilità nefaste della colonizzazione sono evidenti e lampanti. Se, guardando Hotel Rwanda, appare chiaro che il mondo occidentale abbia delle colpe specifiche nel genocidio del 1994, dobbiamo riconoscere che è una situazione comune a tanti altri eventi e paesi del continente nero o dei paesi che subirono la colonizzazione.
E, quindi, ricordiamocelo, anche quando guardiamo un telegiornale.




Sophie Okonedo




lunedì 22 luglio 2019

LUCI DELLA RIBALTA

383_LUCI DELLA RIBALTA (Limelight). Stati Uniti 1952Regia di Charlie Chaplin.

Charlie Chaplin venne condannato per presunte attività antiamericane, all’epoca del maccartismo, nel settembre del 1952, proprio poco prima del debutto nelle sale di un capolavoro assoluto come Luci della ribalta. Che, a conti fatti, rimane nella storia come una sorta di suo congedo da Hollywood; che poi è un tema che ben si sposa con la filosofia del film. Chaplin in Luci delle ribalta è Clavero, un vecchio comico, ormai fuori dal giro e anche fuori moda; incontra la bella e giovane ballerina Terry (Claire Bloom), in profonda crisi esistenziale. Nella volontà solidale di aiutare la ragazza, Calvero riuscirà sia a dare fiducia in se stessa alla giovane, sia a trovare in se la forza per ritornare sulla breccia. Il tema sentimentale dell’opera, con l’amore devoto colmo di gratitudine della giovane verso il proprio mentore assai più anziano, è stemperato a dovere dalla classe e dalla grazia del maestro in cabina di regia. Chaplin si appoggia poi sulla propria qualità di musicista, e con uno strepitoso e celeberrimo motivo (premio Oscar postumo nel 1973) riesce a mantenere alta l’emozione sospesa, senza farla mai traboccare nel sentimentalismo. C’è il tempo anche per l’ultimo saluto insieme al grande antagonista dei tempi andati, Buster Keaton, con il quale mette in scena una gustosa gag vecchio stile.
Che dire: chapeau!



Claire Bloom





sabato 20 luglio 2019

VIAGGIO NELLA LUNA

382_VIAGGIO NELLA LUNA (Le voyage dans la Lune). Francia 1902Regia di Georges Méliès.

Cinquant’anni fa l’uomo mise piede sulla Luna; era il 20 luglio 1969. Una missione, quella di Neil Armstrong e dei suoi compagni di equipaggio dell’Apollo 11, fantastica. Per trovare qualcosa di analogo, al cinema, qualcosa che provi a smentire il famoso detto a volte la realtà supera la fantasia, dobbiamo andare indietro fino alle origini della settima arte. Era il 1902 e, vicino a Parigi, venne girato Viaggio nella Luna, da quel geniaccio di George Méliès. Il film è ispirato da opere di autentici maestri della fantascienza, quali Julies Verne e H.G. Wells: nello specifico, rispettivamente i romanzi Dalla Terra alla Luna e I primi uomini sulla Luna. Ma è soprattutto il talento istrionico di Méliès a rendere Viaggio nella Luna un capolavoro: la sua inventiva, la sua conoscenza dei trucchi teatrali da combinare magistralmente con le possibilità della nuova arte cinematografica, permise all’autore francese un risultato notevole. Il film è composto da 17 quadri, ma non si tratta di una statica rappresentazione. A parte i trucchi teatrali, con le scenografie che possono essere spostate durante la ripresa, al sesto quadro, quello giustamente più famoso, Méliès impiega alcuni artifizi prettamente cinematografici. Già la scena è introdotta da una dissolvenza tra le immagini, che a teatro non si poteva certo vedere, ma è poi con il montaggio che l’autore trasforma la Luna dipinta, che avvicinandosi si ingrandisce sempre più, nel famoso volto lunare; nell’occhio del quale finisce poi la navicella dei nostri bizzarri astronomi (impiegati in quel viaggio in luogo dei moderni astronauti). 

Perché il tono della storia, se non si era capito, è divertito, essendo Viaggio nella Luna una sorta di farsa cinematografica. Méliès, che già conosceva le dinamiche teatrali, sapeva che, per vincere la diffidenza dello spettatore scettico, bastava metterla sul ridere; a quel punto, convinto anche il pubblico meno incline alle storie fantastiche, poteva poi dar sfoggio alla sua grande fantasia. Viaggio nella Luna fu infatti un successo mondiale, considerato il primo film a conoscere un’accoglienza su scala planetaria. Oltre alla perfetta commistione tra impostazione teatrale, (la scansione a quadri rimanda alle scenografie del palco), e innovazioni tecniche di natura cinematografica, la storia raccontata ha una sua armonia, cosa non così scontata al cinema dell’epoca, e vanta alcuni passaggi clamorosamente belli. Ad esempio, oltre alla Luna colpita nell’occhio, la grotta coi funghi o lo scontro con i Seleniti, presi a colpi di fatali ombrellate dai nostri pioneristici rappresentanti.
Insomma, un film bellissimo per una storia fantastica; come quella di Neil Armstrong. 





giovedì 18 luglio 2019

CARRIE - LO SGUARDO DI SATANA

381_CARRIE - LO SGUARDO DI SATANA (Carrie). Stati Uniti 1976Regia di Brian De Palma.

Prima trasposizione cinematografica di un libro di Stephen King, Carrie – Lo sguardo di Satana di Brian De Palma è uno dei migliori esempi di valorizzazione sullo schermo di un’opera dello scrittore nato nel Maine. Curiosamente, Carrie, è anche il primo lavoro pubblicato dallo scrittore e, vedendo il risultato della versione cinematografica, era lecito attendersi un avvenire radioso per il futuro re del terrore letterario anche in questo ambito. In realtà, al di là dell’impatto mediatico ed economico, non saranno poi molti i risultati davvero memorabili di opere kinghiane sullo schermo: e raramente in esse il regista di turno riuscirà a valorizzare il testo mettendoci qualcosa di suo senza tradirne lo spirito alla base. Brian De Palma invece ci riesce: in Carrie – Lo sguardo di Satana rimane ben visibile l’impronta dello scrittore, ma certamente il forte accento della macchina da presa del regista italoamericano è una firma indelebile sul lavoro ultimato. A Stephen King possiamo ricondurre tutta l’impostazione della vicenda: l’emarginazione della giovane protagonista isolata dai suoi coetanei e la religione come influsso negativo e costrittivo per lo sviluppo della sua personalità. A ciò, naturalmente, King aggiunge il carico dei poteri telecinetici di Carrie, per alimentare l’enfasi della storia, da buon scrittore dell’orrore. L’importanza di stabilire le responsabilità complessive del film non è solo un vezzo curioso: Stephen King è un tale monumento nella cultura horror che non può essere relegato unicamente ad autore del soggetto alla base del trattamento per la riduzione cinematografica, anche perché la sua prosa evoca immagini in modo così considerevole da sembrare lei stessa già una sceneggiatura. 
Ma in questo caso De Palma ha una regia autorevole, personale, se vogliamo in qualche accenno anche eccessiva e forse un filo autocompiaciuta (l’uso degli split-screen nel finale, la scena del ragazzo in bicicletta che slalomeggia tra la fila di alberi, la panoramica circolare insistita nella scena del ballo) ma, alzando i toni del suo lavoro, il regista lo armonizza con la matrice del racconto. Carrie – Lo sguardo di Satana è un film horror e, per evidenziarlo, De Palma ricorre ai trucchi del mestiere, non solo alla regia ma, ad esempio, anche alla musica di Pino Donaggio, in qualche passaggio riecheggiante addirittura le quattro note di violino prese da Psyco di Alfred Hitchcock. 

Non è l’unico omaggio a questo film del maestro del brivido, visto che la scuola frequentata dagli studenti di Carrie – Lo sguardo di Satana è il Bates High, con evidente riferimento a Norman Bates, il protagonista della celebre opera di Hitch. Ma non si tratta di citazioni estemporanee e nemmeno semplici omaggi alla bravura del genio inglese: a Psyco, alla simbolica architettura intrinseca al Bates Motel e alla casa, ai rapporti con la madre oppressiva, alle conseguenti difficoltà di relazionarsi per i figli, al ruolo della religione e all’idea di sessualità legata alla cultura puritana dell’America, a tutta questa strutturata impostazione, De Palma si appoggia cogliendo i punti in comune col libro ed enfatizzandoli con la sua messa in scena. Spesso, in caso di riduzione da libro a film si ha l’impressione di occasione mancata, di risultato non del tutto centrato. Questo, principalmente, perché se il libro ha un forte potere evocativo può sfruttare l’immaginazione del lettore, il che lo pone praticamente senza alcun limite. L’immagine sullo schermo, e lo schermo stesso, sono invece limiti entro i quali il regista interpreta e fissa il racconto, e non necessariamente la sua immaginazione può avere gli stessi riferimenti, la stessa intensità o lo stesso gusto valevoli per tutti gli spettatori. 


Questo processo, che non a caso si definisce riduzione, è ancora più rischioso con l’horror, perché è noto che la paura maggiore nell’animo umano è legata al buio e quindi all’ignoto, ovvero ciò che ancora non si vede, che pare evidente sia meno complesso raccontare che mostrare. E’ chiaro che il cinema ha le sue contromosse rispetto alla letteratura, tra le quali cruciale è la colonna sonora, a cui De Palma infatti delega particolare importanza. Ma è anche con la regia, con la capacità attraverso l’uso delle inquadrature, delle sequenze, del fondamentale ruolo del montaggio, che un racconto filmico può ribaltare a suo vantaggio gli intrinseci rischi di un adattamento da un romanzo e, grazie alla sua classe, il regista nato a Newark compie pienamente l’impresa. 
Come altre volte in De Palma lo schema narrativo presenta un ripetuto raddoppio: la scena iniziale, con la scoperta del sangue durante la doccia, vede soccombere Carrie sotto la pioggia di assorbenti delle compagne; nel finale, dopo la doccia di sangue destinata alla protagonista, saranno le altre ad essere distrutte dalla pioggia di elementi scatenata da questa. Una scena riflessa nel suo ribaltare gli esiti, e del resto allo specchio ci sono altre due scene, quella in casa, dove alle spalle di Carrie è riflesso un Cristo, e quella in palestra, in cui Miss Collins (Betty Buckley) invita la ragazza a guardarsi; è forse non un caso che è nel primo passaggio che si manifestano i fenomeni paranormali che manderanno in frantumi lo specchio stesso. 

Questo dualismo è un po’ diffuso in tutta la struttura narrativa, dalla favola di Cenerentola, vero e proprio sogno ad occhi aperti che si trasforma in un incubo, alla ragazza che appunto da principessa diventa una strega, all’osceno crocefisso che anticipa la fine della madre Margaret (Piper Laurie, inquietante nella sua sciatteria), alle due coppie di ragazzi, una positiva e l’altra negativa. Del resto De Palma è un regista molto attento a dare una composizione narrativa alle sue opere, che certamente ne rimangono marchiate in modo evidente. Tuttavia non va assolutamente sottovalutata l’importanza della recitazione: nessuno, per primo proprio De Palma, credeva in Sissy Spacek per il ruolo di Carrie. 

Eppure è proprio la sua capacità di trasformarsi, da timida e imbranata ragazzina ad autentico diavolo vendicatore, a rendere il suo personaggio uno dei più memorabili della storia del cinema horror. Il finale apocalittico è uno dei passaggi più folgoranti ed intensi che si siano mai visti e, al di là dell’innegabile efficacia della regia, degli effetti speciali, della musica, e di tutti questi aspetti tecnici, è proprio lo sguardo allucinato della Spacek, con gli occhi azzurrissimi che brillano nella figura completamente lordata di sangue, a risultare la vera arma vincente. Il finale è davvero drammatico e travolgente e non sembra lasciare molte speranze: in pratica Carrie spazza via tutti e l’unica che si salva, Sue (Amy Irving), non ne esce certo indenne. 
Anche se i problemi del controfinale, più strettamente legati alle dinamiche del genere che vuole una chiusura destabilizzante anche quando tutto sembra ormai terminato, potrebbero più che altro essere connessi a questa pratica narrativa. Certamente significativa è invece la generale ecatombe: una società nella quale prospera il puritanesimo deviato e una malsana idea di religione (il blasfemo Cristo con gli occhi diabolici) non è conciliabile con la diffusa ‘emancipazione’ troppo spesso vuota e superficiale. Il mix è letale e il risultato profetizzato da De Palma è il collasso (sia dell’istituto ma ancor più esplicito della casa). In un simile contesto risultano vani anche gli sforzi delle persone più coscienziose, come Miss Collins, l’insegnante che si dimostra solidale con Carrie, o la citata Sue che le cede il ragazzo per il ballo di fine corso per aiutarla ad inserirsi. 
Anzi, la situazione è talmente compromessa che anche questi atteggiamenti, ovvero la combine tra Sue e Tommy (William Katt), con quest’ultimo convinto dalla fidanzata ad invitare Carrie, risultano decisivi nella riuscita del progetto ai danni dell’ingenua ragazza. Chris (Nancy Allen), punita per aver bullizzato Carrie, con l’aiuto di Billy (John Tavolta), vuole vendicarsi contro la poveretta, ma ci riuscirà solo grazie ai tentativi di Miss Collins, Sue e Tommy di coinvolgere questa nella vita sociale. Come si vede, anche da questa rapida sinossi, il ruolo delle figure femminili in questo racconto è centrale: Carrie è la protagonista; la madre è colpevole della sua mancata capacità di inserimento, mentre il padre è del tutto assente; sono le ragazze a prenderla in giro, l’unico maschio che fa concretamente qualcosa di simile è il bambino con la bicicletta; tra le compagne, la nemica giurata è Chris mentre Sue prova a diventare solidale con lei. Anche tra le coppie il ruolo trainante è sempre quello femminile: detto del padre assente, tra i docenti, Miss Collins è una figura positiva, il direttore dell’istituto più che esserlo negativa è distratto (manco si ricorda il nome corretto, chiamando ripetutamente Cassie la protagonista); evidente poi la supremazia femminile tra le coppie di giovani, laddove Sue convince facilmente Tommy ad invitare Carrie al ballo nella coppia positiva, mentre in quella negativa Chris plagia Billy per aiutarla nel suo piano.


Spesso Brian De Palma è stato accusato di essere un autore misogino: anche in Carrie – Lo sguardo di Satana si potrebbe cogliere, soprattutto nelle parole della madre della protagonista, il marchio diabolico impresso sulla donna, debole, corrotta, punita da Dio con la sofferenza delle mestruazioni e del parto. Ma si tratta di un’idea malsana, e mostrata chiaramente come tale, mutuata da un errata e deviata interpretazione della religione. Al contrario il testo, con il parallelo tra l’acquisizione di consapevolezza per i poteri soprannaturali di Carrie e la sua maturazione sessuale, propone una valorizzazione del ruolo della donna, tanto che il termine miracolo, ricercato in biblioteca dal ragazza per comprendere la natura delle manifestazioni telecinetiche, ben si adatta anche al fenomeno della maternità (e di riflesso, del mestruo). L’emarginazione subita da Carrie per il suo essere diversa, perdente, inferiore, quando invece è supernaturale, diviene così una metafora per mostrare la condizione sociale della donna, marchiata dal disprezzo proprio per quelle sue peculiarità che ne sono invece il valore inestimabile. Del resto, se la rappresentazione femminile nel film è diversificata (Miss Collins e Sue ruoli positivi, Chris negativo, le altre meno schierate), gli uomini fanno tutti una figura marginale. Il padre assente, il direttore dell’istituto distratto, Tommy quantomeno superficiale nel flirtare con Carrie approfittando della circostanza, Billy assoggettato dal desiderio sessuale: insomma, si potrebbe ben dire che Carrie – Lo sguardo di Satana sia un film femminista.
Di sicuro è un capolavoro.






Amy Irving


Sissy Spacek





martedì 16 luglio 2019

AGNESE DI DIO

380_AGNESE DI DIO (Agnes of God). Stati Uniti 1985Regia di Norman Jewison.

Un film irrisolto, questo Agnese di Dio; irrisolto come giallo (sebbene non sia certo un film di genere), ma anche come opera in sé stessa. Forse che il regista, l'onesto Norman Jewison, che ricordiamo per l'ottimo La calda notte dell'ispettore Tibbs, si sia trovato, alla fin fine, nelle stesse condizioni di una delle sue tre protagoniste, ovvero nell'incapacità di affrontare la situazione.
Il piatto di questa storia era di quelli forti: una suora di un convento rimane in cinta (e già questo è un elemento abbastanza torbido); ma mai come il fatto che il bambino venga ucciso al momento del parto. In scena ci sono tre donne: Agnese (Meg Tilly) l'ingenua suora rimasta in cinta, contesa tra la Madre Superiora (una tostissima Anne Bancroft) e la dottoressa Martha Livingston (una Jane Fonda un po' stereotipata sulla sua stessa abituale icona).
Il conflitto tra fede e ragione viene sviluppato dal regista nell'ottica razionale: lo si capisce anche visivamente, ai muri e alle inferriate del convento la dottoressa risponde con un ufficio che domina la città e la cui vista è aperta sull'orizzonte. Nondimeno, c'è una certa commiserazione verso l'ordine religioso e, di riflesso, per tutta la religione, nell'immagine in cui le suore giocano come bambine; quasi a sottolinearne l'immaturità che poi è anche all'origine della vicenda giallo/torbida. Per contro, Martha ostenta la sigaretta accesa, forse immedesimandosi nella figura del detective alla Humphrey Bogart (nel film, le viene anche fatto notare il suo investigare fuori ruolo); ma forse il fumare è visto, nel caso in modo assai superficiale, come simbolo di emancipazione. 
Al di là di queste goffaggini, l'impostazione che viene data alla vicenda sembra chiara, con la dottoressa Livingston che cerca di fare luce mentre nel convento, e più in generale nelle istituzioni, si cerca di evitare lo scandalo. In questo senso il finale lascia abbastanza perplessi perché, più che altro, sembra che non si sia voluto assestare il colpo di grazia dopo aver lavorato ai fianchi l'avversario per tutto il match. Che Jewison, dopo aver scagliato il sasso, ritiri ora la mano? La stessa dottoressa protagonista, nel finale, appare incerta, titubante: in un commento fuori campo, nel finale, ci dice che di tutta questa vicenda, essa spera di portare con sé qualcosa della dolcissima Agnese. E' la speranza che può avere lo spettatore per questo film, per quanto  piuttosto vana.





Meg Tilly



Anne Bancroft


Jane Fonda