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giovedì 8 dicembre 2022

LA DONNA CHE NON SI DEVE AMARE

1178_LA DONNA CHE NON SI DEVE AMARE (Waterloo Bridge)Stati Uniti 1931; Regia di James Whale.

Capolavoro in parte messo in ombra dal successivo remake del 1940, La donna che non si deve amare confermò il talento dell’eccezionale James Whale, regista che in quello stesso 1931 dirigerà nientemeno che il mitico Frankenstein con Boris Karloff. Al tempo Whale aveva una solida esperienza teatrale mentre al cinema aveva sorpreso con l’esordio autonomo in regia nell’ottimo Journey’s End (1930), ma alla sua breva ma solida reputazione nella settima arte contribuivano anche le collaborazioni per i dialoghi de Gli angeli dell’inferno (1930, di Howard Hughes) e The love doctor (1929, di Melville W. Brown). Insomma, pur se agli inizi della carriera, Whale aveva già dato ad intendere di quale pasta fosse fatto e La donna che non si deve amare confermò a pieno titolo le qualità del regista. Dramma amarissimo, dalla struttura circolare che conferma ogni impossibilità di fuga dal proprio fato per la protagonista, il film si basa su una pièce teatrale, Waterloo Bridge (che poi è anche il titolo originale) di Robert E. Sherwood, gestita con sapienza dal regista nato in Inghilterra che, come detto, aveva grande esperienza con il palcoscenico. Per altro, la trasposizione cinematografica, seppur si può intravvedere qualche fondale dipinto, è ineccepibile per qualità della messa in scena e, manco a dirlo, per i formidabili dialoghi, oltre che per le eccellenti prestazioni attoriali. Al centro della scena, una strepitosa Mae Clarke nel ruolo di Myra, ex ballerina e ora prostituta in quel di Londra. 

Mentre esercita la professione, passeggiando sul ponte di Waterloo, si trova nel bel mezzo di un attacco degli Zeppelin, i temibili dirigibili tedeschi che bombardarono Londra durante la Prima Guerra Mondiale. C’è quindi da correre velocemente nei rifugi ma la nostra fanciulla si scontra con una vecchina (Rita Carlyle) a cui nel trambusto è caduto il cesto con le patate: l’anziana non ne vuole sapere di lasciare le sue patate e così Myra si affretta ad aiutarla. In quel momento sopraggiunge anche Roy (Douglass Montgomery), un giovane soldato che, dopo qualche legittimo tentativo di farle sloggiare da un posto tanto pericoloso, aiuta le due donne nel recupero dei tuberi. Notevoli, e di marca prettamente teatrale, gli scambi di battute, con il sarcasmo di Myra e gli inserimenti di umorismo bizzarro della vecchia, a stemperare l’evidente e prevedibile svolta romantica della storia. Roy, infatti, si innamora seduta stante di Myra a cui Mae Clarke forniva un personale fisico di prim’ordine; oltre a questo, l’attrice, pur non avendo il viso di una bellezza accecante, poteva offrire una capacità espressiva assolutamente magnetica. E in La donna che non si deva amare Mae è stratosferica. Sin da subito lascia intendere la sua capacità di ottenere facilmente, ma con la giusta nonchalance, quello che vuole sfruttando il physique du rôle. Come, ad esempio, era riuscita a farsi regalare da un corteggiatore il collo di pelliccia quando era ballerina; abilità con cui si farà regalare un vestito anche da Roy in seguito. 

Ma il personaggio è combattuto, perché un’onesta coscienza le si agita dentro: dalla citata scena sul ponte, in cui mette a repentaglio la vita per aiutare la vecchina, alla svolta radicale quando decide di non accettare l’aiuto economico di Roy. E anche successivamente, nella sincera confessione alla madre del ragazzo (Enid Bennett) o anche alla schermaglia con un cliente che cerca di abbordarla proprio quando questa è in preda ai rimorsi: la Clarke tratteggia con sospesa e sublime classe recitativa un personaggio tragico e indimenticabile. Nel cast, assolutamente da segnalare la presenza di Frederick Kerr nel ruolo del patrigno di Roy, un vecchio ufficiale in pensione mezzo storno e un po’ rimbambito: ma tra le tante battute divertenti di cui si rende protagonista, emerge mirabilmente un’insospettabile sagacia che dimostra l’eccellente qualità di un testo che si tiene sempre in bilico. Il patrigno ci fa o ci è? E Myra è sincera o è solo strategia a lungo termine? E Roy è davvero così ingenuo? E via di questo passo la maggior parte dei personaggi lascia sempre almeno un dubbio sulla sua natura. A proposito di personaggi, all’appello manca ancora da citare la fugace ma significativa presenza di Bette Davies: l’istrionica attrice era al suo terzo film e, in seguito, confessò di aver voluto con tutte le sue forze il ruolo di Myra. L’avrebbe potuto interpretare, si disse convinta. E si può forse contraddire una simile diva? Ci basta una puntualizzazione. Avrebbe potuto, certo; ben difficilmente al livello di Mae Clarke.    




  Mae Clarke 






Bette Davis 





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mercoledì 7 dicembre 2022

THE FLYING FOOL

1177_THE FLYING FOOL Stati Uniti 1929; Regia di Tay Garnett.

Quando, in The flying fool, Marie Prevost intona If i had my way (‘se avessi fatto a modo mio’), sembra quasi fare il consapevole punto della situazione sulla sua carriera, desolatamente avviata al tramonto. Ai tempi, l’attrice non aveva probabilmente del tutto superato i travagli della sua vita privata e la depressione stavolta la spinse a sfogarsi sul cibo (in precedenza si era rifugiata nel consumo smodato di alcool), con un nuovo conseguente aumento di peso. Ormai la siluette della Prevost era bel lontana da quella che aveva oltre dieci anni prima, quando faceva parte delle Sennet Bathing Beauties, bellezze al bagno scelte evidentemente in virtù di una spiccata avvenenza fisica. Tuttavia, seppur il declino della diva viene fatto coincidere con il 1928 (con il film The racket, regia di Lewis Milestone, ultimo suo ruolo da protagonista), per The flying fool Marie riuscì a fornire ancora una prestazione accettabile che, tutto sommato, è una delle note più interessanti del film. Il lungometraggio di Tay Garnett, effettivamente, ogni tanto lascia perlomeno perplessi ma è evidente che con il sonoro regista e addetti ai lavori non fossero del tutto a proprio agio. Le scene di acrobazia aerea, si comincia con una battaglia durante la Prima Guerra Mondiale, sono tra le migliori, pur non facendo certo scuola in materia. William Boyd è Bill Taylor, l’asso dei cieli che, una volta finita la guerra, cerca di proteggere il fratello Jimmy (Russell Gleason) dalle grinfie di Pat (Marie Prevost), ragazza su cui nutre qualche perplessità. Per far questo decide di frequentare la giovane soubrette, per stabilire se sia un tipo raccomandabile, finendo ovviamente per innamorarsene. C’è una vena comica già nelle premesse di questa storia d’amore ma l’ironia ha anche una sua specifica traccia, con la rivalità tra Bill e Tom (Tom O’Brien), compagni di squadriglia sia in guerra che nella successiva attività acrobatica aerea. I cazzotti che si scambiano puntualmente dopo ogni volo scandiscono il racconto filmico regalando un po’ di buonumore che certo non guasta. L’ironia è presente anche nel primo incontro tra Pat, che sta esibendosi nella citata canzone tema del film, If i had my way, e Bill che, in qualità di avventore, si unisce al canto indispettendo notevolmente la cantante. Questi intermezzi umoristici non sono poi di gran livello, va riconosciuto, ma consentono alla vicenda di andare in porto meno faticosamente di quanto potrebbe essere prevedibile visto lo scarso fascino generale dell’operazione. In definitiva l’unica che mostra una verve sopra la media è Marie, soprattutto nell’esecuzione canora: tutto sommato in The flying fool aveva ancora qualche riflesso della star che era stata. 



Marie Prevost 




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martedì 6 dicembre 2022

SETTIMO CIELO

1176_SETTIMO CIELO (Seventh Heaven)Stati Uniti 1927; Regia di Frank Borzage.

Vero caposaldo cinematografico, Settimo Cielo di Frank Borzage è giustamente ricordato per i tanti titoli d’onore meritatamente conquistati e per le caratteristiche tecniche e artistiche che ne fanno un’autentica pietra miliare. Borzage vinse nella categoria miglior regia, alla prima edizione degli Oscar, nel 1929, così come Janet Gaynor si aggiudicò la statuetta come miglior attrice protagonista mentre Benjamin Glazer quella alla miglior sceneggiatura non originale. Un tripudio, per Settimo Cielo, che fu la pellicola con il maggior numero di nomination a quella storica prima edizione, contando anche quella al miglior film per la 20th Century Fox e alla miglior scenografia a Harry Oliver.  Tra gli aspetti tecnici, effettivamente, la scenografia è davvero notevole, con un’ambientazione che ammanta tutta quanta la storia con qualcosa di magico che riprende sontuosamente il senso fatato che, in un certo senso, gli autori conferiscono al racconto. La vicenda ha una sorta di sviluppo verticale, in quel di Parigi ai tempi della Prima Guerra Mondiale: si comincia nelle fogne cittadine e si termina al settimo piano di una sgangherata palazzina. Effettivamente i nostri protagonisti non sono certo benestanti: lei, Diane (la Gaynor) è una povera giovane maltrattata dalla sorella e costretta a vivere di espedienti; lui, Chico (Charles Farrell) un giovane marcantonio che lavora appunto nelle fogne. Della loro ascesa verso il paradiso, attraverso un’unione apparentemente improbabile, lei esile e minuta, lui alto e robusto, racconta appunto il film. 

E la scala per raggiungere l’appartamento di lui, quello citato al settimo piano, è un capolavoro di tecnica cinematografica, una scena resa magistralmente da una serie di espedienti tecnici per far salire lo spettatore tutto d’un fiato, apparentemente senza stacchi della ripresa. Ma, rimanendo nell’ambito tecnico, va sottolineata la fotografia, di Ernest Palmer e Joseph A. Valentine, un bianco e nero che esalta la narrazione. Inoltre, pur essendo girato come film muto, per Settimo Cielo fu uno dei primi, e tutto sommato pochi, lungometraggi dove venne utilizzata la tecnica Movietone, che consentiva di aggiungere una pista sonora preregistrata alla pellicola. In sostanza il lungometraggio venne accompagnato da una traccia musicale ed alcuni effetti sonori, ad esempio il fischio che segnava l’uscita dalle trincee per andare all’assalto, in una delle scene dal fronte della Grande Guerra. Per i dialoghi, si rimase alle classiche didascalie su fotogramma, la classica tecnica del cinema muto. E, un’altra delle sorprese positive di questo capolavoro, nonostante questo evidente limite (un eccesso di uso dei pannelli didascalici finirebbe per intralciare il ritmo narrativo), i dialoghi sono notevoli, addirittura eccellenti nella prima mezz’ora di racconto. Per la verità l’inizio sembra una comica, con Chico e il suo amico Sewer Rat (letteralmente, Ratto di Fogna, interpretato da George E. Stone) a lavorare nelle fogne e a pizzicarsi con Gobin (David Butler) che, in qualità di netturbino, è visto dai due come un privilegiato. 

Intanto la povera Diane è alle prese con le violente angherie della sorella Nana (Gladys Brockwell) che la prende a frustate senza pietà. La povera Diane fugge in strada ma la sorella la raggiunge con l’intenzione apparente di accopparla. Dal tombino delle fogne emerge manco fosse un supereroe Chico che salva l’esile ragazza e senza troppi complimenti, minacciandola cioè di buttarla nel tunnel maleodorante, riconduce Nana a più miti consigli. La megera se ne va mestamente mentre Diane rimane sul selciato della strada: l’aitante giovane, dopo averle salvato la vita, la redarguisce pesantemente per la sua mancanza di coraggio. Poi si siede accanto alla vecchia auto di Boul (Albert Gran) un vecchio mendicante e, con l’amico Rat, si organizza una frugale cena. Diane è lasciata in disparte, a terra, sulla strada. La cosa sembra disturbare Chico che torna a rimproverarla: “Non restare lì impalata come un pesce morto. Ci rovini la festa!”. 

Poi, intavola una discussione polemica su temi religiosi con il buon Boul che, peraltro, non sembra darsi troppo pensiero dei crucci dell’amico. Chico però lo incalza: “é il buon Dio che stava permettendo che questa ragazza venisse strangolata per la strada? E che ha fatto me quello che sono? E questo?” interroga infine l’amico indicando Rat. Come a dire, possibile che Dio combini certi sgorbi? La risposta di Boul è serafica: “beh, facciamo tutti degli errori.” Curioso come poi il racconto smentisca le parole dei due amici visto che Ratto di Fogna sul fronte saprà farsi valere, salvando la vita a Chico. Tuttavia questo avverrà solo in seguito. Intanto la discussione non è a ancora finito con Chico che non demorde e attacca un altro divertente sermone per giustificare il suo ateismo: “La religione per me è finita. Ho dato a Dio due possibilità. Ho messo cinque franchi nella più bella chiesa di Parigi per dei ceri. Ho chiesto a Dio di farmi uscire dalle fogne, di fare di me un netturbino. Lo ha fatto? E gli ho dato un’altra possibilità, altri cinque franchi. Ho pregato per una certa biondina. E tutto quello che Dio mi da è questa creatura.” Al sentire quest’ultimo passaggio, la povera Diane si raccoglie ancora di più: ora è davvero uno scricciolo. Chico, però, non se ne cura: “I miei dieci franchi sono andati in fumo. E’ per questo sono ateo. Dio mi deve dieci franchi.” La povera Diane, già demoralizzata da un’esistenza atroce, ora senza un posto dove andare, vilipesa pure dal suo salvatore approfitta di un attimo di distrazione generale per prendere il coltello di Chico per farla finita. 

Il giovane interviene nuovamente ma, ancora, non ha parole di conforto per la povera ragazza: “Con il MIO coltello! E’ il colmo!” Insomma, Chico è un vero buzzurro e, prima di compiere il primo passo verso un comportamento un minimo degno di una persona civile, incappa nell’ennesima gaffe: “Non sei così male.” Dice per consolare la ragazza che, come conseguenza, pare risollevarsi un poco. “Sai, mi fai pena” chiude goffamente però l’uomo. Ma, perlomeno, quest’ultima infelice uscita sarà la prima di cui Chico si renderà conto di quanto fosse inopportuna. Il tema religioso, per quanto non certo approfondito, è l’argomento principale, come del resto esplicitato sin dal titolo dell’opera. La risalita sociale di Chico, che dalle fogne passa a pulire la strada, è amplificata dalla sintonia di coppia di Diane e Chico, prima davvero ai minimi termini e in conclusione effettivamente in una condizione paradisiaca. La presenza di un religioso, padre Chevillon (Emile Chautard) è fondamentale nello sviluppo della storia: è lui che permette con la sua raccomandazione a Chico di divenire netturbino, e che riconcilia in parte il giovane stolto con il Signore. La capacità di cambiare opinione, non solo nei riguardi dell’Altissimo ma anche nella considerazione di Diane, è invece tutta farina del ragazzo che, conferma l’opinione di padre Chevillon, convinto sin da subito che dietro le spacconate di Chico ci fosse un’anima nobile. Il film si risolve come storia molto romantica e strappalacrime, con un lieto fine che rincuora gli spettatori e rinfranca anche l’istituzione religiosa. Ma il percorso per arrivarci non è così zuccherato: dei dialoghi sopra le righe di Chico s’è detto, come anche delle frustate di Nana a Diane ma su questa vale la pena un piccolo approfondimento. Le scene di violenza tra le sorelle sono almeno tre, oltre alla frustata con tentativo di omicidio annesso, c’è poi il confronto con gli zii in cui Nana torce con sadismo il braccio a Diane. L’ultima scena di questo tenore, comincerà con Nana all’attacco armata di frusta ma vedrà la rivalsa della sorella minore che, facendo tesoro degli insegnamenti di Chico, metterà a mal partito la sua aguzzina. Le scene sono particolarmente brutali e violente ma non gratuite, così come le scene sentimentali del resto. E sono proprio queste scene enfatiche, la vera forza del racconto. Quello che rende Settimo Cielo un capolavoro è, infatti, che tutte queste scene, per quanto eccessive in un verso o nell’altro, grondano vita. 




Janet Gaynor 




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lunedì 5 dicembre 2022

RETICOLATI

1175_RETICOLATI (Barbed Wire)Stati Uniti 1927; Regia di Rowland V. Lee.

Dopo L’ultimo addio (sempre del1927, regia di Mauritz Stiller), la grande star del cinema muto Pola Negri, nei panni di Mona Moreau, si trova ancora alle prese con la Prima Guerra Mondiale. Reticolati è infatti un film ambientato in una fattoria francese trasformata in prigione di guerra per i tedeschi catturati sul fronte occidentale. Il tema dell’opera è molto interessante e, pur essendo un film bellico, quello del regista Rowland V. Lee indaga su argomenti più insoliti degli scontri in prima linea. Nell’obiettivo della sua macchina da presa ci sono i sentimenti, l’amor di patria che colma inizialmente i cuori ma che lascia ben presto il posto all’odio e al rancore per il nemico. Su questo terreno Pola Negri è insuperabile: la sua recitazione enfatizzata, necessaria ai tempi del muto, stilizza i moti emotivi sul volto, in particolare grazie agli straordinari occhi, per una rappresentazione di grande effetto scenico. Pola è una vera star, all’epoca era all’apice della carriera e, dall’alto della sua classe (pur nelle vesti di un’umile contadina) trascina il lungometraggio sorreggendolo praticamente da sola per quasi tutta la durata. Oskar (Clive Brook), il prigioniero tedesco con cui andrà ad intessere un’inaspettata storia d’amore, è un’ottima spalla. Serio e granitico, offre la sponda adeguata per mettere in risalto il talento e il carisma dell’attrice polacca. La storia è tesa, parte della fattoria dei Moreau è stata confiscata per farne il recinto dei prigionieri (da cui il titolo del film) e Mona deve continuare a lavorare per donare il raccolto alla patria. Il padre è anziano, il fratello André è partito per il fronte e allora, ad aiutare la donna nei lavori in fattoria, sono impiegati i prigionieri. 

Mona già ha in odio l’invasore tedesco e quando giunge la notizia della morte di André diventa sempre più torva. Il clima del racconto non sembra certo lasciar presagire una storia d’amore, nonostante la prestanza di Oskar; la contadina francese ha sempre un diavolo per capello. Ad alleggerire il tenore della storia, che sembra davvero senza sbocchi, ci pensa il prigioniero Hans (Clyde Cook) sorta di saltimbanco che si prende l’impegno di far sorridere Mona, perdendo tutti i suoi strumenti musicali nelle scommesse sull’argomento che puntualmente gli si ritorcono contro. Nonostante sembrino mancare i presupposti, il regista Rowland V. Lee fa un buon lavoro sfruttando a dovere le qualità interpretative della Negri a cui basta un mezzo sguardo per lasciar intendere che stia soppesando Oskar non solo come manovale. Così, le cose cominciano a cambiare poco a poco e poi, con un paio di opportuni scossoni narrativi (un prigioniero tedesco malato che muore e soprattutto un tentativo di aggressione di un militare francese alla ragazza, protetta da Oskar), ecco la storia d’amore incendiarsi all’improvviso. Ovviamente, che un prigioniero tedesco metta le mani su un militare francese non è cosa da poco e così Oskar finisce a processo per essere prevedibilmente fucilato. Nonostante l’uomo sia sotto questa pesante accusa, non fa però cenno al fatto che il suo intervento fosse motivato dal tentativo di aggressione subita da Mona, per non coinvolgerla. 

Ci pensa la ragazza a scagionare il prigioniero, provocando di conseguenza lo sdegno dell’intera comunità contadina: difendere un tedesco a discapito di un connazionale! E’ qui che il film ha una bella impennata qualitativa: ora, nonostante il racconto sia visto in ottica francese, la miseria morale che si è impossessata del paesino transalpino è mostrata senza sconti. In questo diventa fondamentale la scelta di un cast ben congeniato: da Claude Gillingwater nel ruolo dell’indurito padre di Mona (a causa della morte del figlio André), a Gustav von Seyffertitz in quelli di Corlet, accigliato spasimante rifiutato dalla ragazza, alle megere del villaggio, siamo di fronte ad una galleria di personaggi che sembrano pubblicizzare una nuova santa inquisizione. L’odio e il rancore della guerra sembrano però innestarsi su sentimenti di ostilità pregressi, come il sentirsi respinto che Corlet ha provato sulla sua pelle o un’invidiosa insofferenza che forse anima le bucoliche donnone al cospetto della bellezza di Mona. 

Le disgrazie della guerra diventano quindi il volano per un odio già presente nella società e non solo quella francese perché la madre di Oskar, per lettera, si premura di avvisare il figlio che una sua eventuale unione con una nemica francese la farà morire di crepacuore, anche a guerra finita. Perché, nonostante il conflitto sia ormai terminato, si continua a morire, come in effetti accade a Jean, padre della ragazza, che non regge all’idea di un genero tedesco: insomma, tutto sembra andare per il peggio. Mona e Oskar non hanno più un posto, non li vogliono in Germania, ma dal paesello francese devono sloggiare. Poi, ecco il magistrale colpo di scena: André, il fratello di Mona, non è morto come si credeva, ma è sopravvissuto, anche se cieco. Eppure, nonostante sia ora privo della vista (e, simbolicamente, proprio per questo) egli è in grado di sentire quello che gli altri, accecati dall’odio, non riescono a vedere. Oskar è un brav’uomo, un soldato valoroso come lui, ha combattuto al fronte con onore, merita rispetto: la meschinità della gente del villaggio è così messa impietosamente in luce dall’atteggiamento leale e sincero di André.
Ah, manca un dettaglio: con un ultimo numero acrobatico, Hans riesce a far ridere Mona (ora divenuta più serena) e si può riappropriare di tutti i suoi strumenti musicali persi nelle precedenti scommesse. Perché alla Hollywood del tempo, anche in un plumbeo dramma d’amore a sfondo bellico, l’aspetto leggero aveva ugual dignità narrativa degli altri elementi e tutte le trame e sottotrame, anche se secondarie, venivano chiuse.
Grande cinema.



Pola Negri 






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