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mercoledì 3 aprile 2024

COMPANY K

1462_COMPANY K . Stati Uniti 2004; Regia di Robert Clem.

Alla base di questo film diretto da Robert Clem, c’è l’omonimo romanzo di William March, uno scrittore veterano e decorato della Prima Guerra Mondiale, il cui vero nome era Campbell. Tuttavia il protagonista di Company K, che è un testo fortemente autobiografico, viene chiamato Joseph Delaney (Ari Fliakos), volontario che si aggregò nel corpo dei Marines americani. Delaney e i cuoi commilitoni della Compagnia K, vennero poi spediti a combattere in Francia, da Verdun alla battaglia di Blanc Mont Ridge, dove il protagonista ottenne le citate decorazioni, come possiamo apprendere dai titoli di coda del film di Clem. Film che è una riflessione contro la guerra che si lascia apprezzare per la sincerità del testo pur non essendo, come opera filmica in sé, un lavoro di livello particolarmente elevato. Dalla regia, all’ambientazione, fino alle prestazioni attoriali, sono molti i rilievi che, volendo, si possono muovere a Company K ma, è palese, sin da subito, che non siamo di fronte ad un’opera mainstream e, quindi, un certo grado di clemenza è legittimo. In ogni caso, sebbene ci sia qualche riferimento a battaglie o eventi storici, la prospettiva di sguardo che conserva Clem è quella del soldato semplice, il private, sebbene non manchino i “paragrafi” dedicati a sergenti o sottotenenti. Il racconto filmico è, in effetti, scandito da didascalie che mettono l’accento ora su questo ora su quel personaggio della storia. Quello che preme agli autori, a March e di riflesso a Clem, è raccontare la guerra dal punto di vista di questi personaggi, di chi la subisce e ne subisce l’assurdità, piuttosto di chi prenda le decisioni strategiche. Ma, anche in questo caso, dopo aver trovato la linea generale che caratterizza l’opera, dobbiamo rilevare qualche eccezione, ad esempio nel passaggio in cui il tenente Smith (Lee Rosen), un novellino appena arrivato in prima linea, manda i suoi uomini incoscientemente incontro alla morte, nonostante il parere contrario del sergente Prado (Matt Seidman). I suoi tormenti, in seguito a questa scellerata decisione, fanno parte di un segmento intimistico/allucinante del film, che lascia, onestamente, un filo perplessi. Dall’apparizione di Gesù Cristo in trincea, al soldato Carter (Steve Cuiffo) che sogna di uccidere proprio il tenente Smith: o l’ha davvero infilzato con la sua baionetta? Carter era sfinito, non aveva chiuso occhio per giorni ma il tenente dimostrava ancora la sua noncuranza nei confronti dei suoi uomini: gli aveva quindi comandato di accompagnarlo in quest’ultima uscita di pattuglia. Ora Carter se lo trovava lì, davanti alla lama della baionetta, in un luogo isolato, proprio colui era anche il responsabile della morte dei suoi compagni di reparto nell’episodio citato. 

Il soldato, sfinito, non era propriamente lucido, o forse lo era anche troppo, fatto sta che la tentazione era irresistibile. Quando il private si risveglia sulla sua brandina, il dubbio che aleggia su come possano essere andate le cose, non è affatto male, anche se, bisogna ammetterlo, sarebbe servito un po’ di “manico” in regia per valorizzarlo al meglio. Al di là del fatto che questa escursione onirica è comunque importante, nell’economia del film, rivelando lo stato allucinato in cui versavano i soldati, il momento davvero cruciale è quello in cui vengono uccisi i prigionieri tedeschi. Anche la fine del soldato Geils (James Knight) freddato quasi in principio dal sergente Pig Iron Riggin (Daniel Stewart Sherman), per la sua codardia durante uno dei folli assalti tipici della Grande Guerra, è scioccante, è vero. Ma, per assurdo, neanche più di tanto. Pig Iron, nonostante nell’epilogo, ambientato anni dopo, si mostri cameratesco e sorridente, non riesce proprio ad essere simpatico, non dopo quel mortale colpo di pistola al povero soldato Geils. Tuttavia si tratta di una decisione presa durante un delirante attacco, sotto il martellante fuoco tedesco e, nella distorta ottica militare, anche allineata alla filosofia bellica: la codardia di fronte al nemico era punibile con la corte marziale. Il sergente avrebbe semplicemente abbreviato i tempi, diciamo così. Assai diversa la posizione del capitano Matlock (Rik Alan Walter) che rivela la sua bieca natura in un passaggio narrativo ben costruito anche a livello filmico da Clem. Sono appena stati catturati alcuni tedeschi e il giovane ufficiale, mentre li guarda da una finestra di una baracca in legno, osserva come sarebbe più semplice farli fuori con una mitragliatrice e togliersi il pensiero. Il sergente Dunning (Terry Serpico) è seduto sul tavolo, nella baracca, mentre si accende una sigaretta, e ride alla battuta del superiore, rispondendo con un ironicamente rispettoso “Signorsì”. Ma il capitano non è per niente ironico, e prosegue il suo allucinante discorso. Il sergente e gli altri soldati presenti, sentendo le parole dell’ufficiale e cominciando a comprenderne i reali intenti, si raddrizzano, quasi a portarsi sull’attenti. Dunning è ora in piedi, guarda attonito gli altri mentre il capitano ripete la domanda: “Ha capito, sergente?” Il sottoufficiale ora risponde con maggiore rigore e disciplina, i suoi marziali “signorsì” diventano anche un modo per prendere le distanze dall’aberrante decisione del suo superiore. 

Qualcuno tra la truppa, troverà poi il modo di giustificare la decisione del capitano, di uccidere i prigionieri a sangue freddo, tirando in ballo i giornali e una presunta tattica dei tedeschi che farebbero volontariamente catturare i propri soldati al nemico, per poi avere una forma di forza infiltrata oltre le linee avversarie. Ma la cosa suona posticcia mentre più credibile è la scena dell’eccidio, anche perché raccontata da una persona presente sul fatto, da uno dei soldati. Nel racconto, come detto, il narratore è il private Delany che impersona lo scrittore William March che, al secolo, era William Edward Campbell: già questa frammentazione della personalità, seppure dettata da esigenze letterarie, ci dice della propensione alla coralità narrativa dell’autore del testo, una propensione raccolta e conservata poi dal regista del film Clem. Una citazione, all’inizio della pellicola, ci avverte che, dopo aver osservato tanti compagni affrontare le atrocità della guerra, l’autore si è reso conto che nessuno le recepisce allo stesso modo e che nessuno ne rimane immune. Quello che si può dire, e si può dire con certezza e a maggior ragione dopo aver vissuto le diverse esperienze di differenti persone raccontate, a suo modo, mirabilmente in Company K, è che la guerra sia un orrore da evitare a qualunque costo.     



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lunedì 1 aprile 2024

HEDD WYN

1461_HEDD WYN . Regno Unito 1992; Regia di Paul Turner.

Basato sulla vita del poeta gallese Ellis Humphrey Evans (Huw Garmon), Hedd Wyn (nome d’arte del nostro protagonista) è un film che riesce a bilanciare efficacemente la vena lirica del paesaggio natale del protagonista e le note più aspre e stridenti della Prima Guerra Mondiale. Il film, infatti, si apre con l’assenza di Ellis alla premiazione con la Black Chair che finalmente il nostro aveva vinto come miglior poeta bardo al Festival di Eisteddfod: Ellis non c’è perché è morto sul campo di battaglia di Passchendaele. Alla fine, infatti, gli inglesi ce l’avevano fatta e, volenti o nolenti, il poeta gallese si era dovuto arruolare. Ellis, nello specifico, non aveva nulla contro la guerra in questione, nemmeno a favore, per la verità; tuttavia riteneva di non essere in grado di uccidere un uomo e, soprattutto, di non volerlo fare. Se in prima istanza il buon gallese aveva potuto glissare alla chiamata alle armi, con massimo scorno del fratellino Bob (Ceri Cunnington) poi, man mano che la guerra proseguiva e l’esercito aveva sempre più bisogno di uomini, l’efficace propaganda britannica (vera e propria specialità del paese d’Albione), aveva scatenato una pressione via via sempre più insostenibile. A cominciare dalla fidanzata storica di Ellis, la prosperosa Lizzie (Sue Roderick) che decideva di lasciarlo per un aitante giovanotto in uniforme, accusandolo di non volersi arruolare per non assumersi le proprie responsabilità (motivo che, guarda caso, secondo la donna coincideva alle ragioni per cui non l’aveva ancora sposata). Ma Ellis, che il romanticismo lo conosceva bene, in fondo era un poeta, si era consolato presto con Jini (Judith Humphreys) mentre era riuscito a contenere dentro i confini di una semplice amicizia quella con la giovane Mary Catherine Hughes (Nia Dryhurst); insomma il letterato, seppure aiutasse ben poco alla fattoria nei lavori fisici, non se ne stava con le mani in mano. Al paese la cosa era accettata ma, in Inghilterra, la pensavano diversamente: gli Evans erano una famiglia numerosa e dovevano contribuire alle necessità della patria. Convocato col padre dalle autorità per il reclutamento, con il fratello minorenne che scalpitava per arruolarsi, Ellis viene sostanzialmente messo spalle al muro. Più che paura o scrupoli morali, Ellis aveva però una differente preoccupazione: la Black Chair gli sarebbe sfuggita anche quell’anno, a meno di non terminare il poema sotto le armi. A sorpresa, il suo lavoro, un testo in una lingua incomprensibile (il gallese) alla censura militare e che venne subito sospettato di essere scritto in codice per ragioni di spionaggio, alla fine otteneva il lasciapassare e poteva essere inviato a Eisteddfod, andando a vincere il primo premio. La stessa cosa non capiterà al suo autore, che rimarrà invece sul campo di battaglia in Belgio. Per quanto possa sembrare anche strano, la censura militare britannica era meno ottusa di quanto non fosse spietata la guerra. 





domenica 31 marzo 2024

GUERRA SPORCA

1460_GUERRA SPORCA (Passchendaele). Canada 2008; Regia di Paul Gross.

Intitolato nella versione italiana Guerra Sporca, il secondo lungometraggio di Paul Gross aveva nell’uscita originale un nome più complicato da pronunciare o ricordare, almeno per noi italiani, ma perlomeno più significativo. Passchendaele fa infatti riferimento alla località belga teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale e che vide coinvolte le truppe canadesi. Gross è infatti un artista proveniente dallo sterminato paese norda mericano e, con il suo Passchendaele, cerca di rimediare ad una sostanziale mancanza nel panorama cinematografico: non c’era, in effetti, un testo filmico di rilievo internazionale che certificasse, anche in questo ambito, il contributo canadese alla Grande Guerra. Non è quindi un compito secondario quello che si accolla Gross: e, da un punto di vista delle pretese artistiche, questo gli va riconosciuto. La storia sembra buona, la regia rispetta i canoni convenzionali del cinema mainstream (anche se forse c’è qualche volo troppo esagerato tra i soldati colpiti dalle esplosioni); insomma, da per quel che concerne la confezione comunque ci siamo. Si diceva della bontà della storia: l’intreccio è elaborato, c’è una traccia sentimentale che si intreccia bene con le dinamiche belliche ma, ad un certo punto, sembra quasi che si esageri. E li il terreno comincia a diventare pericoloso, anche perché Gross non ha la mano registica di un grande autore, mentre la storia che ha imbastito, a quel punto, la richiederebbe. Il protagonista, Michael Dunne (interpretato dallo stesso Gross) è un veterano canadese ferito e decorato a cui viene risparmiato il ritorno al fronte, per sfruttarne l’ascendente in fase di reclutamento tra i giovani abitanti dell’Alberta. In realtà l’uomo, una volta guarito fisicamente, è rimasto comunque tormentato dal rimorso: in una delle sequenze più riuscite dell’intero film, Dunne ha infatti ucciso deliberatamente, ficcandogli la baionetta in piena fronte, un nemico inerme, un giovanissimo tedesco. Mentre è in convalescenza all’ospedale militare in Canada si innamora della sua infermiera, Sarah (Caroline Dhavernas), che è di origine tedesca. 

Questo dettaglio non è secondario: pare infatti che il padre della giovane abbia scelto di combattere per la patria natia e questo crea problemi anche al fratello minore David (Joe Dinicol). David, per poter continuare ad essere accettato dalla comunità, ed ambire a frequentare la sua ragazza, decide così di arruolarsi; sua sorella Sarah accusa di ciò l’incolpevole Dunne che, per amore, si farà assegnare allo stesso reparto di David per proteggerlo. In tutto questo garbuglio di storie sentimentali Dunne ha il tempo di inimicarsi con l’ufficiale del campo di arruolamento che l’accusava di non voler tornare al fronte per codardia. La storia ha già quindi un forte tenore emotivo e, quando ci si ritrova al fronte, subisce una decisa impennata. Con un passaggio decisamente eccessivo quando i tedeschi crocefiggono il povero David col filo spinato fuori dalla loro trincea. L’intreccio di trame è notevole, anche per via dell’evidente simbolismo delle situazioni; Gross è bravo a dipanarle tutte quante, in modo anche convincente. Ad esempio c’è un risvolto che riguarda la fama dei soldati tedeschi che si diceva avessero già messo in croce altri prigionieri; nel corso del film Dunne insiste più volte nello smentire questa diceria ma poi ne trova la più tragica conferma. Vero è che il comandante tedesco, quando capisce che Dunne si lancia in una missione suicida per recuperare il povero David, lo lascia fare e anzi lo aiuta a togliere il soldato dall’improvvisata croce. All’interno di un passaggio prettamente narrativo è reso con una certa efficacia il proverbiale spirito guerriero alemanno, terribile coi nemici ma anche rispettoso dell’onore dell’avversario. Il tema portante della scena è, comunque, la croce, evidente simbolo di sacrificio e, ben presto, si capirà che se anche Dunne potrà sopravvivere al Calvario della terra di nessuno nella missione per salvare David, il suo destino è ormai segnato. 

Pur se non ci sono errori, questa svolta narrativa è molto ingombrante; e non aiutano le coincidenze che, in questa fase, alimentano la sensazione di trovarci di fronte ad una enfatizzazione della realtà. (Volendo ben vedere la stessa già citata che si avverte quando i soldati vengono proiettati lontano da uno scoppio d’artiglieria). Prima Dunne rincontra Sarah nell’ospedale da campo in Belgio e poi ritrova anche l’ufficiale del centro di reclutamento che gliela aveva giurata: sono forzature anche plausibili, da un punto di vista realistico, ma che appesantiscono il fardello emotivo del racconto. Come detto, a questo punto sarebbe forse occorsa una regia più abile nel gestire questi flussi sentimentali e altri interpreti, capaci di catalizzare meglio la tensione sulle loro spalle sgravandola dal testo. Invece Dunne e il suo cast sono bravi attori, ma si trovano di fronte ad un finale strappalacrime che, nel caso non dovesse riuscire nell’impresa di commuovere lo spettatore, finirà inevitabilmente per fargli storcere il naso. Ed è un rischio notevole, essendo Guerra Sporca un film bellico, evidentemente. In ogni caso, nel complesso l’operazione è positiva e se ci sono questi limiti è solo perché Gross ha rischiato il tutto per tutto e non era certo semplice portare a casa l’intera posta. Ma coraggioso il tentativo e nemmeno male, in definitiva, il risultato.   




Caroline Dhavernas 

Meredith Bailey


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venerdì 29 marzo 2024

FRAULEIN DOKTOR

1459_FRAULEIN DOKTOR . Italia, Jugoslavia 1969; Regia di Alberto Lattuada.

C’è subito qualcosa che non quadra, come una nota stonata, in Fräulein Doktor di Alberto Lattuada: si tratta di un film bellico introdotto da titoli di testa tipicamente psichedelici come era in voga negli anni sessanta per i film di genere. La cosa che lascia spiazzati non è tanto l’inascoltabile cacofonia che li accompagna, quanto che a comporla sia stato chiamato Ennio Morricone, musicista che all’epoca aveva già alle spalle gli splendidi temi degli spaghetti western di Sergio Leone. Per quale motivo chiamare un simile autore, se poi gli si chiede di comporre una musica tanto dissonante? Come detto, c’è qualcosa di storto. Sia come sia, poi la storia comincia: e Fräulein Doktor sembra davvero un film di genere, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale. La protagonista è ispirata ad un personaggio storico, Fräulein Doktor appunto, una spia tedesca: e il film di Lattuada sembra appunto una storia di spionaggio bellico. Questo inizio conferma l’impressione grafica dei titoli di testa dal vago sapore pop e, in effetti, il clima della vicenda ricorda un po’ i film della spia più in auge in quei tempi, James Bond. E’ noto che le spie rischino la pelle se vengono scoperte eppure la situazione è tutt’altro che truce: ci sono finte esecuzioni, finti tradimenti e contro-tradimenti, insomma sembra un’interpretazione piuttosto leggera della questione bellica. E poi, quando il gioco si fa duro, Fräulein Doktor, interpretata da una splendida Suzy Kendall, si mette in moto e, per uccidere Lord Kitchener, affonda addirittura l’intera HSM Hampshire, una nave con tutto il suo equipaggio. Una strage, a ben vedere; eppure l’atmosfera non si infiamma più di tanto, forse perché Lattuada pare stemperare i toni con una messa in scena posticcia dei momenti più drammatici dell’affondamento. Certo, rimane il dubbio che l’artificiosità di questi passaggi sia da imputare ai limiti produttivi ma, in altre situazioni, sarà proprio la resa scenica a costituire il valore aggiunto di Fräulein Doktor. Tuttavia la fase iniziale sembra più che altro un onesto film di genere, con qualche valido spunto storico e una strizzata d’occhio alla contemporaneità nello stile proposto. A questo punto c’è un inserto in flashback che risulta un po’ estraneo al clima del racconto: entra in scena la sontuosa Capucine negli eleganti panni della dottoressa Saforet. 

Qui il riferimento storico è davvero stravolto, in quanto non pare proprio credibile (nemmeno in un film) che la formula di un gas tanto importante, come l’iprite, il gas velenoso detto mostarda, fosse tenuta in un'unica copia su un taccuino a casa della dottoressa Saforet. Lattuada è forse distratto, interessato a stuzzicare un po’ il pubblico, inserendo qualche dettaglio pruriginoso in cui né la Kendall né tantomeno Capucine possono però trarre grandi vantaggi: la loro bellezza vale ben oltre le scenette pseudo-lesbo di questa fase del lungometraggio. Archiviata la questione Soforet con un colpo di pistola, Fräulein Doktor si mette all’opera per la successiva operazione. Deve ghermire le informazioni sulla dislocazione delle riserve della prima linea alleata mentre il comando tedesco prepara l’utilizzo del gas venefico la cui formula è stata rubata dalla affascinante spia. Attraverso una complicata operazione, in puro stile film d’azione, il tenente Ruppert (Giancarlo Giannini) e altri ufficiali tedeschi si infiltrano nel comando belga e procurano l’esatta ubicazione delle truppe di riserva nemiche. Il successivo fuoco d’artiglieria tedesco non colpirà le trincee alleate ma i rincalzi, privando il nemico della possibilità di avere rinforzi in caso di necessità. La scena dell’incursione spionistica è calibrata magistralmente da Lattuada che adopera i classici cliché, come il montaggio alternato, per alimentare la tensione. 

La condotta spietata di Ruppert, che fredda il compagno una volta che questi è stato scoperto, mantiene il clima del racconto in pieno genere bellico, confermando i classici topoi narrativi, come ad esempio quello del soldato tedesco senza sentimenti. Il che era un luogo comune con evidenti fondamenti concreti storici ma l’utilizzo che ne fa Lattuada sembra unicamente legato alle consuetudini narrative. Il film, insomma continua il suo scorrere come onesto film bellico: l’inizio leggero, la parentesi erotica e adesso un po’ di adrenalina. Ci sarebbe da essere mediamente soddisfatti per un prodotto di genere condotto in porto in modo un po’ discontinuo ma godibile. Se non fosse che Lattuada ha in serbo il traumatizzante passaggio che trasforma Fräulein Doktor in opera a suo modo memorabile. Con il vento a favore, alla fine del bombardamento d’artiglieria, i tedeschi aprono le bombole con l’iprite, il famigerato gas mostarda. Da questo momento il lungometraggio ha un’impennata dal punto di vista scenico: le immagini del gas tossico sono già molto inquietanti ma quando le dense nuvole giallastre raggiungono la frontiera alleata si scatena l’orrore. Gli effetti dell’iprite non sono probabilmente così rapidi come mostrato nel film ma furono comunque terribili e, per essere unicamente una rappresentazione, Fräulein Doktor rende perfettamente l’idea di quale tragedia venne combinata. Ma non siamo ancora all’apice drammatica che la messa in scena di Lattuada raggiunge nel film: quando il gas comincia a diradarsi le truppe imperiali indossano maschere e tute per proteggersi e passano all’offensiva. 

L’incedere della cavalleria, con soldati e cavalli completamente bardati, sembra l’inesorabile avanzata di creature disumanizzate che sbucano dalla nebbia di un lugubre passato medioevale. Nella scenografia desolata, l’angosciante ed efficace musica di Morricone rende queste brevi scene tra le più inquietanti che si siano mai viste sul grande schermo. La guerra mostra così il suo vero aspetto, quello più truce; tuttavia questo non pare turbare la sensibilità di Fräulein Doktor. Nella sua indifferenza la donna sottovaluta però l’ostinazione del suo acerrimo nemico, il colonnello Foreman (Kenneth More). Sul filo di lana la spia tedesca è smascherata: a nulla le è valso l’appoggio di Mayer (James Booth) agente del servizio segreto tedesco passato al nemico. Mayer era implicato in un intricato gioco di tradimenti da cui era uscito ovviamente perdente, visto che Fräulein Doktor era in assoluto la migliore del lotto. Tuttavia subiva il fascino della donna e, per favorirla, aveva cercato di sviare le indagini di Foreman; nel finale i nodi erano venuti al pettine. E’ qui che Mayer, l’uomo senza dignità, reo di ripetuti cambi di casacca, ha un moto di passione e non esita ad uccidere gli inglesi, ora suoi alleati, pur di proteggere la donna che ama. E’ una manovra disperata nella quale lo stesso Mayer perde la vita: Fräulein Doktor non riesce a fermare i soldati tedeschi per tempo. La donna è spiazzata; è la prima volta, nel film, che qualcuno ha preso una decisione importante non per convenienza o ubbidendo ad un ordine. E’ un modo di comportarsi che scuote finalmente Fräulein Doktor che, ormai in salvo, in realtà si rende conto di essere perduta. La guerra non è ancora finita ma, almeno adesso, si comincia a comprenderne la gravità. La musica di Morricone, sui titoli di coda, stavolta è perfettamente intonata.



Suzie Kendall



 Capucine 



Silvia Monti 


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mercoledì 27 marzo 2024

1917

1458_1917 . Regno Unito, Stati Uniti 2019; Regia di Sam Mendes.

Si dice che il montaggio sia la vera anima del cinema: è attraverso il lavoro di taglia e incolla nella sala di montaggio che il film prende il suo ritmo ma, più che altro, prende vita. Questo in linea generale. Poi ci sono i geni come Alfred Hitchcock che, nel loro approcciarsi alla Settima Arte, provano volutamente ad andare contro le consuetudini, usando poi i risultati anticonvenzionali in modo consapevole per un preciso scopo. Come in Rope - Nodo alla gola, film del 1948 girato con dieci lunghi piano-sequenza poi assemblati in modo da sembrare un’unica lunga ripresa. L’assenza degli stacchi, tra una ripresa e l’altra, tra un primo piano e un campo medio, toglieva fiato alla narrazione, come da un film che si intitola Nodo alla gola è lecito attendersi. Sam Mendes, talentuoso regista inglese, conosce evidentemente Hitchcock e il suo cinema e se ne serve, come spunto d’ispirazione, per costruire 1917, uno splendido film girato come fosse composto da due lunghissimi piani-sequenza, interrotti unicamente dal momento in cui il protagonista, il caporale Schofield (George MacKay) perde i sensi. Tecnicamente il risultato è ottenuto anche in questo caso assemblando una serie di lunghe e complicatissime (da girare) riprese. In ogni caso il risultato finale è stupefacente; oltre a lasciare letteralmente senza fiato. Un risultato magistrale, 1917 è un capolavoro assoluto, ottenuto contravvenendo una delle regole comuni del cinema, l’uso sapiente del montaggio. Naturalmente anche in 1917 c’è il montaggio, per assemblare i lunghi piano-sequenza, ma limitato nella quantità e, in ogni caso, la sua funzione è quella di nascondersi, essere invisibile. Non sarà l’unico caso in cui Mendes ribalta le consuetudini del cinema classico, del resto l’epoca classica, se così si può definire, è finita da un pezzo; eppure il regista inglese riuscirà, proprio manipolando gli stilemi consueti, a fare un film classico. Cosa che, di questi tempi, è assai difficile da vedere sugli schermi. La cosa che ci dice che 1917 è un film classico è principalmente l’estrema funzionalità in rapporto all’apparente semplicità complessiva; a partire dalla trama, ad esempio: i caporali Schofield e Blake (Dean-Charles Chapman) devono avvisare il colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) di non lanciarsi all’attacco col Secondo Battaglione dei Devonshire Regiment; finirebbero in una trappola dei tedeschi. 

Ovviamente ci sono una serie di implicazioni: il fratello del caporale Blake è un tenente (Richard Madden) nel citato Secondo Battaglione e il comando ritiene che questo possa essere uno sprone per i due caporali affinché si prodighino al massimo per portare a termine la missione. Per arrivare a destinazione i nostri due eroi dovranno passare attraverso la terra di nessuno, la striscia che divideva le due trincee. Un’area irta di reticolati, tempestata da profondi ed insidiosi crateri da esplosioni, che spesso intrappolavano i soldati che sprofondavano nei fondali fangosi. In questa prima fase non ci sarebbe però stato il pericolo del fuoco nemico, visto che i tedeschi avevano abbandonato la loro trincea, arretrando su una precedente posizione. Questa manovra richiama alla mente quella che i tedeschi fecero nel febbraio/marzo del 1917 e nota come Operazione Alberich. Mendes è ancora una volta un po’ spiazzante perché, in un film che si presenta come molto realistico, manca infatti il montaggio, (ovvero il trucco principale del cinema, che ricordiamo è l’arte della finzione per eccellenza), inserisce una data sbagliata. La didascalia iniziale recita infatti 6 Aprile 1917: quindi non un giorno a caso, ma quello in cui gli Stati Uniti entrano in guerra. Uno sbaglio voluto, insomma. Un po’ come non usare il montaggio per realizzare un film di genere, come quello bellico che, è risaputo, dagli strumenti abituali del cinema trae abitualmente la sua forza. Perché 1917 non è un film sperimentale, è un film di guerra. Ma, e qui sta la grandezza di Sam Mendes, è anche un film storico, con l’anno usato come titolo e quella ricostruzione minuziosa che ci proietta indietro di più di un secolo, in un preciso momento in cui si stava facendo la Storia. E Mendes sa, da gran cineasta, che il cinema è l’arte della finzione che, proprio attraverso la sua non-pretesa di attendibilità storica, può riuscire, per assurdo, ad arrivare alla verità. L’arte è infatti sempre verità e 1917, pur con la sua data sbagliata e i suoi stratagemmi per camuffare i pochi tagli, lo è più di un documentario che pretenda di essere rigoroso ma che mai potrà eliminare il punto di vista di chi lo realizza. 

L’inghippo delle date, in 1917, si inserisce coerentemente nella strategia dell’opera che abbiamo visto fin qui: fare un film avvincente senza l’uso dello strumento più consono allo scopo (il montaggio); dare l’idea di un racconto realistico utilizzando tutta una serie di trucchi per dissimulare i tagli; fare un opera classica mentre se ne sta facendo una quasi sperimentale e, come detto, essere storicamente attendibile inserendo riferimenti temporali inesatti. Il fulcro di tutta questa manovra è quello che sempre Hitchcock definiva MacGuffin: il pretesto narrativo. In questo caso è il messaggio del comando al colonnello Mackenzie; narrativamente si tratta davvero di un pretesto, visto che non c’è nessun mistero, infatti, che lo riguarda. E’ un banale contrordine. Il punto è che deve essere portato in fretta attraversando una serie di pericoli: una volta passati oltre alla citata terra di nessuno, i nostri dovranno entrare nella trincea nemica, che ora dovrebbe essere abbandonata, e tagliare per un’area che i tedeschi si pensa abbiano lasciato libera nella loro Ritirata Strategica. Se lo spunto richiama ovviamente Gli anni spezzati (1981 regia di Peter Weir), la messa in scena passa dal film di guerra tradizionale al games-movie, con un fortissimo debito, nelle scene dopo il black-out di Schofield, alle scenografie dei videogames. I riferimenti cinematografici sono naturalmente numerosi, anche perché gli elementi in gioco sono quelli e quindi il rischio è quello di cogliere rimandi che poi sono solo coincidenze. Non è però frutto del caso, sebbene sia costruito per sembrarlo, il meccanismo narrativo legato alla borraccia con il latte. Fattoria abbandonata: Schofield sta mettendo il latte di un secchio nella borraccia. Proprio a questo punto c’è l’episodio dell’aereo abbattuto che culmina con la morte di Blake. A questo proposito, un altro ribaltamento delle convenzioni: i due umili fanti inglesi aiutano il nobile cavaliere dell’aria tedesco, che li ringrazia con una letale coltellata nella pancia di Blake. In quell’inferno che è 1917 persino il latte, uno dei simboli della vita, sembra quindi essere divenuto messaggero di morte. 

Ma ancora una volta non è così: la bambina trovata, che non è figlia della ragazza francese, altro elemento in qualche modo discordante, riceverà quel latte dal caporale Schofield e potrà sopravvivere. Al cinema, l’ottimismo, lo sguardo positivo verso il futuro, è legato alle vicende sentimentali che spesso trovano poi simbolicamente concretezza nei figli. In 1917 quasi non ci sono donne, la ragazza francese  non ha infatti il tempo per combinare molto, da un punto di vista narrativo, visto che Schofield ha una fretta dannata. E l’unica bambina della storia non è figlia di un qualcuno del film ma è probabilmente orfana. Eppure con le cure della ragazza che non sa nemmeno che nome abbia, e il latte della borraccia di Schofield, la bimba potrà sopravvivere. Anche questo passaggio narrativo arriva ad una soluzione opposta a quella che gli indizi presentavano: la bambina che dorme nel cassetto del comò è una sorta di lieto fine che, in linea con lo spirito anticonvenzionale ma al contempo classico del film, Mendes non piazza al termine del suo racconto. Il film, in effetti, non ha uno sviluppo lineare e questa è un’altra bella contraddizione visto che segue pedestremente il cammino di Schofield e Blake prima e del solo Schofield poi. 

L’idea di un lungo e unico piano sequenza potrebbe essere intesa come un’unica linea narrativa: il massimo della linearità, insomma. Invece, proprio da un punto di vista narrativo, il seguire unicamente le gesta del singolo protagonista ci isola dal contesto, costringendo anche noi ad un percorso non in linea con gli avvenimenti, ma attraverso essi. La cosa è resa graficamente dalla notevole scena in cui Schofield corre parallelamente alla trincea intralciando, e scontrandosi anche due volte, coi soldati del Secondo Battaglione che si stavano lanciando all’assalto proprio in quel momento. Il che significa che il caporale è arrivato tardi e i britannici stanno cadendo nella trappola tedesca ma, ovviamente, in un film contradditorio come 1917 non sarà del tutto così. Il messaggio alla fine arriva al colonnello Mackenzie che però non vuole sentire ragioni e cerca di ignorarlo; troppe volte le indecisioni del comando hanno vanificato sforzi e risultati pagati col sangue di troppi soldati. Ma Schofield insiste in modo ossessivo: il colonnello deve leggere il messaggio. Perché, e qui c’è il fulcro del film di Mendes, quello che c’è nel messaggio questa volta conta eccome, e fa la differenza. Non c’è più tempo per i MacGuffin di hitchcockiana memoria, non ci serve un pretesto narrativo. Ci serve sapere e ricordare che la guerra è la cosa peggiore che possa capitare. E in 1917, che è il messaggio scritto dal nonno del regista, nei suoi racconti sulla Grande Guerra, e che Mendes si incarica di consegnarci, c’è scritto proprio questo. Speriamo sia arrivato in tempo.     





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