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martedì 19 agosto 2025

L'ASSASSINO ABITA AL 21

1716_L'ASSASSINO ABITA AL 21 (L'assassin habite... au 21), Francia 1942. Regia di Henri-Georges Clouzot

Dopo le prime sceneggiature, Henri-Georges Clouzot aveva assaporato molto precocemente il gusto della direzione cinematografica, seppure unicamente per tre rifacimenti di film tedeschi destinati al mercato francese. In effetti Clouzot aveva affinato l’arte registica presso lo Studio Babelsberg di Potsdam e nella Germania del tempo aveva avuto modo di apprezzare il cinema di F. W. Murnau e Fritz Lang. I tre filmetti che risalgono ai primi degli anni 30 sono commediole che poco sembrano avere a che fare con la poetica che il regista francese manifesterà nel corso della carriera. Tuttavia, quando Clouzot comincerà a lavorare seriamente nell’ambito cinematografico, ai tempi dell’occupazione nazista di Parigi, per i romanzi da adattare per la Continental Films troviamo quelli di Stanislav-André Steeman, che possono fungere da sorta di ponte tra le prime esperienze «leggere» del regista e i temi che davvero gli staranno a cuore. Inizialmente Clouzot firmò solo la sceneggiatura, adattando il racconto I sei morti dello scrittore belga, per il film L’ultimo dei Sei [Le dernier des six, Georges Lacombe, 1941] ma per il successivo romanzo di Steeman, oltre alla scrittura, ottenne anche la prima vera regia: L’assassino abita al 21 [L’assassin habite… au 21, Henri-Georges Clouzot, 1942]. Se il primo è un interessante giallo reso piccante dai numeri di varietà, L’assassino abita al 21 prova un connubio più impegnativo con la stessa coppia di protagonisti che si muove in bilico tra commedia brillante e thriller. Al centro del racconto ci sono, infatti, l’ispettore Wenceslas Wens (Pierre Fresnay) e la sua compagna, la cantante e soubrette Mila Malou (Suzy Delair), personaggi già visti nel citato L’ultimo dei Sei. Purtroppo, nessuno dei due ha le caratteristiche per reggere la scena per un ruolo tanto delicato: si tratterebbe di essere credibili in un contesto serio, l’indagine poliziesca, tenendo sempre un occhio al piano leggero, sul modello del film L’Uomo ombra [The Thin Man, W. S. Van Dyke 1934]. 

Purtroppo, se Fresnay perde in modo netto il confronto con William Powell, molto peggio fa la Delair paragonata ad una diva come Myrna Loy. La Loy era, anche solo con la sua magnetica presenza, un valore aggiunto alla pellicola, l’attrice francese, al contrario, è una fonte continua di disturbo tanto per le indagini del personaggio del compagno, quanto per lo spettatore. Suzy Delair, probabilmente, neanche aveva la presenza scenica per reggere il ruolo di protagonista e in una situazione delicata come quella di una commedia sofisticata intinta nel giallo, naufraga completamente e mette a rischio l’intera operazione. Per fortuna, nonostante sia alla prima vera e propria regia in autonomia, Clouzot ha già la mano caldissima, su entrambi i versanti, e L’assassino abita al 21 è, in definitiva, più che piacevole. Nell’ambito dell’indagine sulle gesta del terribile monsieur Durand, si intravvede subito la capacità del regista francese di gestire la suspense e gli intrighi gialli, con un colpo di scena finale che risulta inaspettato, ben congeniato e abilmente messo in scena, al punto da sorprendere ancora oggi. Ma il film risulta totalmente spiazzante sul piano dei brillanti dialoghi, a tratti davvero audaci e piccanti, oltre che divertenti al limite dello spassoso. L’unico problema del film, come detto, è rappresentato dall’invadente presenza della Delair, tanto petulante quanto sostanzialmente priva di talento, che si fa ricordare per essere probabilmente la prima donna immortalata dal cinema a schiacciare i punti neri al compagno. A ciascuno i propri meriti.






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domenica 17 agosto 2025

L'ULTIMO DEI SEI

1715_L'ULTIMO DEI SEI (Le Dernier des Six), Francia 1941. Regia di Georges Lacombe

Tratto dal romanzo Le dernier des six di Stanislas-André Steeman e sceneggiato da Henri-Georges Clouzot, L’ultimo dei Sei è un intrigante noir con venature più leggere, diretto da George Lacombe. Il soggetto di Steeman si basa su uno spunto giallo astuto, del resto lo scrittore belga era un vero specialista, e Clouzot, nella sceneggiatura, ne valorizza ulteriormente il testo. Il tono del racconto non è del tutto omogeneo, nonostante l’argomento pesante sia ben rappresentato dal bianco e nero della pellicola, e ci sono delle incursioni di altro tenore che alleggeriscono l’atmosfera. Il protagonista, il commissario Wensceslas Voroboevitch detto Monsieur Wens (Pierre Fresnay), duetta con la compagna Mila Milou (Suzy Delair) portando saltuariamente il film nell’ambito della commedia brillante, per quanto nessuno dei due abbia il carisma necessario ad una simile operazione. Anche perché il corpo del racconto è piuttosto angosciante con il gruppo di amici, i «Sei» a cui si riferisce il titolo, che saranno presi di mira da un misterioso killer. L’incipit è sin da subito utile per capire la sottigliezza del racconto: vediamo questo gruppo di cinque amici in attesa del sesto, di ritorno evidentemente da un evento importante, importante per tutti loro. Dalla tensione emotiva diffusa, dal taglio del narrato, dal contesto ambientale, sembra di essere al cospetto di una gang malavitosa: in realtà sono tutti in attesa di quella che si rivelerà essere una cospicua vincita al gioco che li rende immediatamente ricchi. Forse per una solidarietà che nasce nella fortuna comune, una curiosa forma di assicurazione reciproca, gli amici scelgono di vincolare le loro sorti economiche a vicenda. Decidono quindi di separarsi dandosi appuntamento di lì a cinque anni, per fare il punto della situazione dei rispettivi investimenti. Si tratta, per la verità, di un passaggio narrativo un po’ contorto, ma nel complesso l’attenzione dello spettatore è ben distratta dalla tensione della scena, dai rimandi alle atmosfere noir e dalla sorpresa per la natura dell’attesa, una banale vincita e non qualcosa di illecito. 

Ma, come detto, questa è solo l’introduzione: il corpo del racconto verte sulla progressiva eliminazione dei vari componenti del gruppo che, passati i fatidici cinque anni, stanno ricongiungendosi come si erano accordati di fare. Il primo omicidio sembra una mezza fatalità, con la notizia che Namotte (Raymond Segard) sia stato gettato in fondo al mare durante il viaggio in nave verso il fatidico appuntamento che certo è angosciante, ma non dà più di tanto adito ad ulteriori preoccupazioni. Ma le cose cambiano quando la morte colpisce inesorabilmente Gernicot (Lucien Nat) quindi Tignol (Jean Tissier) e in seguito Gribbe (Georges Rollins) lasciando in vita per il finale i soli Senterre (André Luguet) e Perlonjour (Jean Chevrier). Ormai è chiaro: l’assassino è uno dei Sei che vuole eliminare gli altri cinque per tenere per sé tutto il bottino. Da un punto di vista logico narrativo, i due superstiti devono quindi spartirsi i ruoli di ultima vittima e omicida e oltretutto la loro contrapposizione è enfatizzata dalla rivalità amorosa per la bella Lolita (Michèle Alfa) e dalla differente condizione economica. A questo punto subentra un colpo di scena tutto sommato difficilmente prevedibile, che scombina le carte in tavola sorprendendo lo spettatore tenuto col fiato sospeso fino ad allora. L’ultimo dei Sei è, infatti, un film con una buona tensione, numeri di varietà che interrompono la trama misteriosa a parte: pare, tra l’altro, che il regista Georges Lacombe, si rifiutò di girare un’ulteriore scena in un musical-hall, finendo in disaccordo con lo studio di produzione, la Film Continental. Chissà, forse fu a causa di questa rottura contrattuale che il successivo «noir con venature leggere» tratto da Stanislas-André Steeman verrà affidato alla regia di Henri-Georges Clouzot. 




Michèle Alfa



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venerdì 15 agosto 2025

IL MANGIATORE DI PIETRE

1714_IL MANGIATORE DI PIETRE , Italia, Svizzera 2018. Regia di Nicola Bellucci 

Il mangiatore di pietre è una sorta di opera prima, in quanto è l’esordio nel cinema di finzione di Nicola Bellucci, in precedenza già montatore, direttore della fotografia e regista di apprezzati documentari. Di per sé questo non deve essere motivo di particolare indulgenza, nei confronti di presunte lacune o difetti del suo film, ma considerato le scelte anche coraggiose di Bellucci, si può sospendere il giudizio su ciò che lascia perplessi, almeno fino ad un’eventuale ulteriore prova del regista toscano, e apprezzare quanto di buono c’è ne Il mangiatore di pietre. Dice, a proposito del suo film, lo stesso Nicola Bellucci: “Sono state le forti sensazioni suscitate in me dalla lettura del romanzo di Davide Longo (autore dell’omonimo libro preso a soggetto, NdA) a convincermi di voler realizzare Il mangiatore di pietre. Nella storia del «mangiatore» si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che mi affascina e spaventa, e che da tempo volevo cinematograficamente raccontare, arrischiandomi in un territorio affascinante e pericoloso, quello tra romanzo di formazione e film di genere. Il confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa, sempre, ciò che è altro da sé è il luogo simbolico per eccellenza di questo film». [dal sito del Torino Film Festiva, pagina web https://www.torinofilmfest.org/it/36-torino-film-festival/film/il-mangiatore-di-pietre/36184/, visitata l’ultima volta il 7 agosto 2025]. È proprio il senso di indeterminatezza, di vaghezza, che traspare da Il mangiatore di pietre, l’elemento migliore del film di Bellucci. E quindi hanno probabilmente ragione i recensori che si trovano in rete, un po’ scettici nei confronti della struttura gialla dell’intrigo del racconto, che non sembra effettivamente irresistibile. Ed è vero che, soprattutto dopo la prima parte, con il paesaggio montano, grigio, freddo, molto evocativo, che legittima uno sviluppo più robusto del canovaccio di finzione, ci si ritrova poi per le mani una storia che effettivamente rischia di non decollare mai. 

Ma, forse, anche questa perenne stasi, questa sostanziale attesa per qualcosa che non si traduce in nulla di concreto –le indagini della commissario Sonja (Ursina Lardi), la corruzione del maresciallo Boerio (Leonardo Nigro), il ruolo della malavita e del boss Antonio (Peppe Servillo)– è parte di questa ambientazione sospesa. Un film irrisolto che fa di questo la propria cifra stilistica: è accettabile? Lo si è detto, a questo punto si può sospendere il giudizio su questo aspetto, in fondo non si devono avere per forza tutte le risposte, o almeno non subito. In ogni caso: il film ha certo dei pregi, ad esempio la prestazione di Luigi Lo Cascio nel ruolo di Cesare detto il Francese, il «passeur» protagonista, e del cast nel suo complesso. Ed è interessante anche come il racconto si relazioni a questa attività, il «passeur», sorta di traghettatore oltreconfine di clandestini, professione illegale e certamente discutibile in linea di principio. Sergio (Vincenzo Crea), che ci si improvvisa e alla domanda di Cesare sul perché si impicci in simili affari, risponde con una battuta ad effetto: “qualcuno lo deve pur fare”. Una frase da cinema, detta poi da uno sbarbatello alle prime armi, che suona quindi ulteriormente posticcia. Il traffico di esseri umani è sempre da condannare ma occorre anche mettersi nei panni dei migranti, che hanno esigenze e necessità così disperate e lontane anni luce dai regolamenti sanciti dai confini del nostro mondo. Nel caso specifico, poi, ci sono questi disperati immigrati dall’Africa, nascosti in una baita d’alta montagna, in attesa di essere condotti dal passeur incaricato oltreconfine, in Francia. Il problema è che il contrabbandiere in questione è Fausto (Emiliano Audisio), il figlioccio di Cesare, che è appena stato ucciso e sul suo omicidio verte la trama gialla del film. Intanto, però, i poveri migranti rischiano di morire di fame e di freddo. 

E qui subentra la coscienza di Sergio che, a differenza di quanto consigliatogli da Cesare, non chiama i carabinieri ma cerca di salvare questi poveri disgraziati, arrivando anche a rubare, per far loro qualcosa da mangiare. Evidentemente c’è la necessità di ribadire, da parte degli autori, che non è possibile restare dentro i confini della Legge. Diego chiede aiuto a Cesare, che conosce a menadito i passi alpini per farla in barba alle autorità di frontiera, ma il Francese non ne vuole sapere, è appena uscito di galera, era stato beccato ma non aveva tradito i suoi complici, e ora si trova coinvolto in un’altra bega, l’omicidio di Fausto, e tanto gli basta. La vicenda ha altri protagonisti, importanti per la soluzione del giallo, ma quello che conta è che poi, alla fin fine, Cesare darà retta a Sergio. Perché? Ma perché certi lavori qualcuno deve pur farli, che domande. È una motivazione sufficiente? Mah, difficile dirlo. C’è sempre qualcosa di sfuggente, ne Il mangiatore di pietre, come ad esempio nella scenografia, tanto che sembra un film ambientato negli anni 80 se non fosse per l’unica nota stonata rappresentata dagli smartphone. E, forse, è proprio in questa direzione che va cercata la soluzione al quesito che Cesare sottopone alla commissario sul perché la poliziotta non risponda mai al suo cellulare. La donna alla fine risponde al suo smartphone e il presunto mistero si squaglia come neve al sole. Un po’ come una vicenda che racconta di onore, forse malriposto, ma anche di altruismo e di coraggio, che poi si scopre abbia il suo centro in una banale questione di corna. Ma questa è la storia di un «passeur», una storia di confine. 





Ursina Lardi 





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mercoledì 13 agosto 2025

CAPCANA MERCENARILOR

1713_CAPCANA MERCENARILOR , Romania 1981. Regia di Sergiu Nicolaescu

L’aspetto più sorprendente, nel film Capcana Mercenarilor [t.l. La trappola dei mercenari] del prolifico regista Sergiu Nicolaescu, è legato alla matrice storica del film e a come, ancora nel 1918, in alcune remote lande della Romania resistesse una società di tipo medioevale. Stando alla didascalia introduttiva, i fatti narrati da Capcana Mercenarilor sono storici, sebbene siano stati leggermente romanzati e vi sia l’aggiunta di qualche personaggio inventato. Sull’attendibilità di Nicoaescu non dovrebbero esserci troppi dubbi, dal momento che, il regista, fu in seguito importante uomo politico, arrivando persino alla carica di senatore di Romania. In ogni caso, il Massacro di Belis fu effettivamente un grave episodio storicamente avvenuto l’8 novembre 1918 nella Transilvania. La Prima Guerra Mondiale non si era conclusa che già le varie regioni sottomesse all’Impero Austro Ungarico, ormai sconfitto, reclamavano la propria autonomia. La Transilvania era percorsa da differenti moti: c’era la volontà da parte della popolazione di origine rumena di unirsi con la propria madrepatria, ma la presenza ungherese, che aveva governato fino a quel momento, non era ovviamente dello stesso avviso. Pur con qualche comprensibile aggiustamento, la trama di Capcana Mercenarilor può servire per comprendere quanto successe in quei tragici giorni. I riferimenti agli ungheresi, nel film, sono piuttosto vaghi, in quanto, negli anni Ottanta in cui venne prodotto il film, i rispettivi paesi erano alleati sotto nel Patto di Varsavia e si era in piena Guerra Fredda. In ogni caso, nel racconto filmico il colonnello dell’esercito austro-ungarico barone von Görtz (interpretato da Gheorghe Cozorici), incarica il capitano Luca (Mircea Albulescu) di reclutare mercenari per una rappresaglia punitiva nei confronti degli abitanti di un villaggio, accusati ingiustamente di aver incendiato la falegnameria e la riserva di legname del locale castello. Su disposizione del colonnello, verranno uccise quasi cinquanta persone –uomini, donne o bambini indistintamente– una per ogni abitazione del villaggio. 

La notizia giunge al maggiore Andrej (interpretato dallo stesso regista Sergiu Nicolaescu) che organizza a sua volta un manipolo di incursori e si reca al castello per compiere giustizia. Su questa base, grosso modo attendibile storicamente, si intreccia una vicenda sentimentale imbastita nella sceneggiatura con la collaborazione dello stesso regista, vero mattatore del film. La moglie del colonnello, la contessa Ester (Violeta Andrei) ha una tresca con il capitano Luca ma, in passato, è stata amante del maggiore Andrej: adesso affoga i suoi dispiaceri nell’assenzio. Il castello di famiglia è un degno rappresentante delle roccaforti transilvane, il conte Dracula viveva da queste parti, e in qualche passaggio il film richiama questo tipo di suggestioni. In effetti, Nicolaescu forse esagera, perché Capcana mercenarilor, pur essendo sempre godibile, mette troppa carne al fuoco. Oltre all’apparato storico, si va dalle antiche citazioni, «venia nova peccata ciet», traducibile con «il peccato richiama nuovi peccati», che sprona i nobili a non perdonare i propri sudditi, ai tanti rimandi agli spaghetti western. Il richiamo con il cinema “di genere” italiano è funzionale, per quanto la musica dei film leoniani di Ennio Morricone, che riecheggia ogni tanto, lasci più perplessi che convinti, così come l’utilizzo di una carabina Winchester da parte del maggiore Andrej in luogo dell’arma in dotazione. Ma il regista vuole divertirsi e divertire, e lo fa ampiamente capire con i continui riferimenti al gioco delle carte e dei dadi, e, in definitiva, ci riesce anche. Importante per questo sono i variopinti personaggi, tra cui spicca la coppia di mercenari Frank (Amza Pellea) e “il Genovese” (Cornel Girbea). Si tratta di due figure davvero spassose, ma anche valide dal punto di vista dell’azione violenta, per cui in grado di reggere alla grande sia i toni “leggeri” che quelli più serrati. La cosa più interessante del film, unitamente al fondamento storico che è un buono spunto per approfondire gli avvenimenti, è proprio la loro evoluzione. I Nostri sono due individui davvero poco raccomandabili, capaci di cavare con la tenaglia un dente d’oro ad uno sprovveduto commilitone colto assopito durante la guardia. Opportunisti, scaltri, ubriaconi, dediti al gioco, violenti, quando si troveranno messi l’uno contro l’altro non esiteranno a scannarsi o imbrogliarsi. Eppure, nel momento davvero cruciale, entrambi riescono a cavar fuori dalle loro animacce nere un barlume di umanità che gli permetterà di scampare anche stavolta la pelle. Oltre che recuperare un minimo di dignità; che dire, due veri eroi. Perlomeno di cialtronesca simpatia.






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lunedì 11 agosto 2025

EROI PER CASO

1712_EROI PER CASO , Italia 2011. Regia di Alberto Sironi

E’ certamente un pregiudizio, ma accostare Flavio Insinna e Ambra Angiolini (più degli altri del cast) ad un tema delicato e sentito come la Grande Guerra, così, ad orecchio, sembra un azzardo oltre al lecito. Ma Alberto Sironi aveva dato già prova di avere uno speciale intuito, per questo genere di cose, quando aveva scelto Luca Zingaretti come protagonista della fortunata serie Tv Il commissario Montalbano. Pare, addirittura, che Andrea Camilleri, l’autore e creatore del personaggio in questione, non fosse affatto convinto della scelta tanto che sbottò: “Io lo avevo immaginato diverso, ho scritto un'altra cosa!". Come noto, proprio la figura del commissario ben impersonata da Zingaretti è uno dei punti di forza della produzione. E quando vediamo Eroi per caso, film televisivo in due puntate dedicato alla Prima Guerra Mondiale italiana, abbiamo un’ulteriore conferma in tal senso. Perché Insinna, nel ruolo di Cesare Magnozzi, fotografo romano arruolato nel regio esercito, se la cava in modo agevole e anche la Angiolini, a cui la storia regala la parte tragicamente eroica, fa altrettanto. Interessante, e probabilmente funzionale alla riuscita dell’interpretazione dell’Ambra nazionale, la scelta di affibbiarle un personaggio muto, forse ricordando come in Dobermann (1997, di Jan Kounen), Monica Bellucci aveva sciorinato un’interpretazione a suo modo memorabile con un ruolo nella simile condizione. Pare, infatti, che la corretta dizione della lingua italiana non sia tra le prerogative degli interpreti del belpaese; si pensa forse di sfruttare la genuinità della parlata fortemente accentata quando non dialettale ma si tratta di un elemento limitante nel momento in cui la Storia del cinema in Italia è stata forgiata dalla straordinaria abilità dei doppiatori della nostra tradizione. Vedere i nostri attori parlare come il vicino di casa, quando gli interpreti stranieri li abbiamo sempre sentiti scandire un italiano perfetto spesso si rivela un clamoroso autogol. Tuttavia in un contesto come quello della Grande Guerra l’inflessione dialettale è accettabile, ma probabilmente esagerare con le disparate provenienze avrebbe minato la credibilità del racconto. Nel quale abbiamo il Magnozzi che parla romano, Lulù la Belle (Serena Rossi) napoletano, mentre don Silvano (Neri Marcorè) e Piero Vanin (Michele Alhaique) se la cavano con un italiano senza particolari inflessioni e, nel complesso una volta contemplate le classiche comparse che fanno le battute nei dialetti del posto, l’equilibrio generale funziona. La questione linguistica non è secondaria, anzi, è uno dei presupposti alla funzionalità del racconto filmico: spesso la credibilità dei prodotti italiani è infatti minata proprio da dialoghi improbabili. Eroi per caso, pur non essendo certo un capolavoro e nemmeno un film degno di particolare segnalazione, funziona grazie al dosaggio di questi elementi. Insinna scorrazza per il film ma ha, tutto sommato, un certo garbo, una certa discrezione (si veda nelle avances al personaggio della Rossi); Marcorè tiene la barra dritta con professionalità e Alhaique è di supporto. Sul versante femminile la Angiolini lavora sottotraccia (non avendo i dialoghi che ne ostentino l’evidenza) ma proprio per questo risulta particolarmente convincente quando si guadagna i suoi spazi; bene anche la Rossi che gioca un po’ col suo ruolo in modo funzionale. La vicenda è solo un pretesto per vedere questi protagonisti inseriti in un contesto storico infarcito di personaggi giustamente (visto il tenore dell’opera) stereotipati. Il ritmo narrativo c’è e questo è certamente un altro elemento a favore di Sironi che, quindi, se la cava in modo egregio in un’operazione che, come detto forse per pregiudizio, sembrava davvero rischiosa. Ma onore al merito.    


Ambra Angiolini 




sabato 9 agosto 2025

LA BATTAGLIA DI VERDUN

1711_LA BATTAGLIA DI VERDUN (Le grandes battailles Verdun), Francia 1966. Regia di Daniel Costelle 

Premiato in patria con il premio Grand Prix de la Critique de télévision, Verdun, il documentario di Deniel Costelle, è un testo ricco di immagini di repertorio ed interviste a protagonisti dell’immane battaglia. Da un certo punto di vista, la battaglia di Verdun si presta meglio ad essere raccontata da un documentario piuttosto che da un prodotto di finzione: a vederla oggi si tratta di un’operazione talmente priva di senso che se fosse parto della mente di uno scrittore per il cinema rischierebbe di risultare poco credibile. Invece fu proprio per una serie di puntigli, che rispondevano ad una loro logica, per quanto contorta, che si mandarono al macello centinaia di migliaia di soldati. Pur in un contesto bellico, è infatti la cifra in termine di vite umane a rendere poco plausibili le scelte dei comandi militari: va bene l’importanza strategica e simbolica di Verdun, va bene il tentativo di fiaccare il morale dei nemici con un’azione di grande impatto emotivo, va anche bene il motto francese "Ils ne passeront pas!" (non passeranno) ma sull’altro piatto della bilancia il conto di sangue fu inaccettabile. Era per’altro proprio lo scopo tedesco: dissanguare la Francia e farlo a Verdun. Il regista Daniel Costelle mostra le terrificanti scene di battaglia inframezzate a testimonianze, anche tedesche, a prova di una più che accettabile ricerca di imparzialità. Non sono passati molti anni, poco più di cinquanta, e i reduci hanno impresso bene in mente quello che accadde. Le loro voci e il puntuale commento ci permettono di conoscere i luoghi del massacro, le dinamiche delle azioni, l’andamento di una battaglia che si protrasse per mesi e mesi. Immagini terribili pensando anche e soprattutto che si tratta di documenti, di immagini dalla credibilità storica: quando la realtà supera la più macabra fantasia.  


giovedì 7 agosto 2025

GUAI AI VINTI

1710_GUAI AI VINTI  , Italia 1954. Regia di Raffaello Matarazzo

Al culmine della popolarità dei suoi melodrammi, Raffaello Matarazzo affronta un tema spinoso come quello dell’aborto e utilizza l’ambientazione bellica della Prima Guerra Mondiale per enfatizzare ulteriormente i toni di un argomento già così estremo di suo. Da questo punto di vista si tratta di un’intuizione giusta del regista romano perché, in effetti, la guerra era un amplificatore potentissimo dei sentimenti e delle emozioni umane e in Guai ai vinti l’utilizzo che ne fa Matarazzo è estremamente efficace. Lo spunto specifico, in questo senso, è dato dalle violente razzie a cui si abbandonavano i soldati nei paesi occupati: la possibilità di sfogarsi contro donne e bambini inermi era una tentazione troppo appetibile per la bestialità che si manifestava nei militari. Si tratta quindi di una situazione particolarmente estrema e facilmente individuabile come esemplare. A conferma di ciò, chi c’era ai tempi molto successivi del film in questione (che è del 1954) durante il lungo dibattito sull’aborto (la legge 194 in proposito è del 1978, tre anni dopo vi furono due quesiti ai referendum abrogativi nel merito) si può ricordare come spesso veniva utilizzato l’esempio estremo di una gravidanza da violenza per suffragare la necessità di fornire legalmente alle donne interessate una soluzione alla loro condizione indesiderata. Al netto della questione morale in sé, che non è in oggetto, si può osservare come è abbastanza consueto l’utilizzo di un esempio estremo per dimostrare un concetto generale, avviene anche per altri casi, come per esempio la legittima difesa. Concettualmente non è molto logico: se si porta ad esempio un caso eccezionale (com’è una gravidanza da stupro) sarebbe normale ritenere la cosa l’eccezione. E, a questo punto, sarebbe quella che caso mai confermerebbe una regola di senso contrario più che giustificare il comportamento proposto per risolvere tale situazione. Insomma, dialetticamente, per assurdo, il fatto che per una gravidanza da violenza sia anche legittimo pensare all’aborto, questo non è un elemento tanto favorevole a rendere legale (e quindi normale, cioè nella norma di legge) la cosa. La grana grossa della polemica politica sulla scena italiana (e, ahimè, dell’opinione pubblica) non è però così fine e quindi i casi estremi, anche successivamente, sono sempre stati usati per dimostrare una qualche tesi per normalizzare una questione. Matarazzo che, al contrario è un autore dall’intelligenza sopraffina, fa esattamente l’opposto. Per promulgare la sua opinione sull’aborto, prende sì l’esempio peggiore che può esistere, ma per dimostrare che la risposta giusta è sempre l’amore. 

E, sempre senza entrare nella questione in sé, ma rimanendo attinenti alla prospettiva che traccia la logica, il teorema regge in modo ineccepibile. Vediamo come. Prima Guerra Mondiale, fronte italiano: gli austroungarici sfondano a Caporetto e le truppe imperiali penetrano nel territorio del regno. Luisa (Lea Padovani) con la figlioletta Mirella (Paola Quattrini) e la cognata Clara (Anna Maria Ferrero) non fanno in tempo a lasciare la lussuosa villa in cui vivono e vengono sorprese dai soldati nemici. Non saranno momenti sereni. Mirella perde la parola per lo shock mentre Luisa scopre, con orrore, di essere rimasta incinta. La donna è disperata per quello che ritiene il marchio dell’infamia, anche perché verrà facilmente additata come traditrice e compiacente col nemico mentre il marito combatteva per la patria. La ripugnanza per quello che cresce dentro di sé le è sempre più insopportabile e decide così di abortire. Naturalmente nel 1917 (e anche nel 1954, data di uscita del film) l’aborto era illegale ma all’occorrenza il sistema si trovava ed è in questo senso che la citata legge 194 del 1978 ha la sua ragion d’essere. Tornando alla costruzione della trama, Matarazzo (o Annie Vivanti, autrice del romanzo Vae victis da cui è tratto il film) non è ancora soddisfatto della drammaticità ottenuta: la successiva svolta è che, a fronte dell’aborto di Luisa, salta fuori che pure la più giovane Clara è rimasta incinta. La cosa eleva esponenzialmente la criticità della situazione: Clara non è sposata ed è sottinteso che sia vergine, inoltre, se Luisa avrebbe potuto in seguito giustificare in qualche modo la gravidanza (inventandosi una licenza del marito) questo era un escamotage a cui una donna nubile non avrebbe mai potuto ricorrere, nemmeno dopo anni. In ogni caso, il tema della verginità femminile, per l’Italia del secondo dopoguerra, era già un argomento di quelli pesanti; figuriamoci una maternità come quella descritta. Ad alimentare ulteriormente (è pur sempre un melò di Matarazzo) i toni c’è poi il contrasto tra le due donne che si trovano nella medesima situazione: già, perché Clara, con enorme disappunto di Luisa, decide di tenere il suo bambino. 

Lo scorno per la donna più matura è doppio, perché non solo la cognata si dimostra in grado di affrontare una simile prova senza lasciarsi prendere dall’odio ma, come detto, lo fa trovandosi in una condizione assolutamente peggiore. Interessante notare come la storia non regali agli uomini particolari moti di vanto, con le ottuse e superficiali parole di Franco (Pierre Cressoy) che non aiutano certo la fidanzata Clara ad affrontare la difficile situazione. Certo, peggio del giovane fanno quegli uomini che, radunati in branco, raschiano proprio il fondo del barile in fatto di malefica brutalità. In questi passaggi Matarazzo mette in pratica quanto anticipato dalla didascalia iniziale, che andava a specificare che il film non voleva essere un’accusa contro un nemico specifico (leggi, gli austriaci) e semmai vi poteva essere una critica alla violenza in quanto tale senza distinzione di origine. Una informazione resa superflua dallo sviluppo degli eventi visto che la belluina cattiveria della folla di italiani che, nel tragico finale, si scaglia contro Clara e il suo bambino, reo di essere figlio del nemico, è del tutto simile a quella animalesca dei soldati austriaci durante l’aggressione e lo stupro delle due donne protagoniste. Un’altra finezza narrativa del racconto è la posizione in cui viene, in un certo senso, relegata la Chiesa. Don Marzi (Gualtiero Tumiati) è in polemica con il dottor Bonechi (Camillo Pilotto) che si rivela essere possibilista circa l’intervento richiesto da Luisa. Il prete cerca di convincere la donna e il dottore a non intraprendere questa scelta ma il medico, in definitiva, ribadisce la volontà di fare fino in fondo quanto gli detta la propria coscienza. Indispettito, Don Marzi ribatte che a sua volta farà fino in fondo il suo dovere; che, gli ricorda la signora Bonechi (Isa Querio) è quello di pregare per queste povere anime martoriate dagli avvenimenti. La Chiesa non è quindi privata della sua importanza, come del resto la medicina: tutto viene però messo in secondo piano rispetto alla coscienza di ognuno. Anche Luisa, seppur la sua scelta è criticata per contrasto da quella opposta di Clara, è trattata con compassione dal racconto che cerca di interpretare, se non giustificare, la durezza d’animo che ormai si è impadronita della donna. E, tra l’altro, delle due sventurate è proprio la più anziana ad essere la figura principale, quella che impersona lo spettatore del film; o dovremmo dire la spettatrice, visto che lo stolto Franco si occupa in prima persona di portare sullo schermo la controparte maschile del pubblico. Uomini superficiali e ottusi, donne acide e incattivite, tutti vittime del più bieco pregiudizio: questa è la società secondo Matarazzo, una società corrotta che solo l’amore di un’anima innocente come Clara può salvare. Naturalmente a caro prezzo; e Matarazzo, almeno al cinema, intende farcelo pagare fino in fondo.  


  Anna Maria Ferrero 


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