Translate

venerdì 21 giugno 2024

FURIA

1501_FURIA (Fury). Stati Uniti 1936; Regia di Fritz Lang.

Approdato negli Stati Uniti nel 1934, Fritz Lang, tramite David O. Selznick aveva firmato un contratto con la MGM: l’accordo prevedeva la regia di un film più l’opzione per eventuali ulteriori realizzazioni. L’ingaggio da parte dello Studio del leone ruggente sembrava di buon auspicio per la carriera di Lang in America, dal momento che la MGM era considerata la casa cinematografica più illustre del tempo. Le cose sembrano procedere in modo spedito: il primo giugno 1934 Lang e Selznick si incontrarono a Londra, dove fu firmato il contratto; cinque giorni dopo il regista austriaco era a bordo di una nave alla volta degli States. La traversata oceanica tra Cherbourg e New York, durò sei giorni, a bordo, insieme a Lang, c’era anche George Cukor, anch’egli ingaggiato da Selznick. Ricorda, a tal proposito il «regista delle donne»: “Lang avrebbe potuto essere un diplomatico. Assumeva un atteggiamento molto formale e distinto. Aveva uno humor tutto proprio e una particolare visione della vita. Suscitava incredibile rispetto e un’impressione di autorevolezza”. [Autori vari, Fritz Lang - America, Roma, Edizioni Carte Segrete, 1990, pagina 67]. Caratteristiche valide per qualcuno che emigrasse negli Stati Uniti d’America? Vedremo.
Lang non era arrivato nel Nuovo Continente che da pochi giorni, che Selznick cambiò idea sull’opportunità di realizzare il film che stava progettando insieme al regista. Il 22 giugno il vulcanico produttore ufficializzò la rinuncia: come si vede, a strettissimo giro di posta. Per comprendere come sia possibile che un cineasta arguto come Selznick vada a prelevare in Europa un regista come Fritz Lang promettendogli di fare un film per poi cambiare idea nell’arco di una ventina di giorni, è forse utile ricordare che, in quel fatidico 1934, esattamente il 13 giugno, entrò in vigore un emendamento del famigerato Codice Hays, che istituì la PCA, Production Code Administration, senza il cui certificato i film non sarebbero potuti approdare nelle sale a partire dal primo luglio. Il primo film a subire gli effetti del Production Code –che era quindi un codice auto-impostosi da Hollywood al fine di evitare noie con la censura – fu Tarzan e la compagna [
Tarzan and his mate, 1934, di Cedric Gibbons] per via delle scene di nudo della controfigura dell’attrice protagonista Maureen O’Sullivan. <http://en.wikipedia.org/wiki/Hays_Code visitata l’ultima volta il 13 giugno 2024>.
In quel particolare frangente, in cui la PCA non era ancora operativa, Selznick si rivolse direttamente a Will H. Hays per chiedere consiglio riguardo al suo progetto con Lang. Ciò che preoccupava il produttore era il tema del film, nel quale un gruppo sovversivo arrivava a rovesciare il governo. Il 18 giugno, Hays rispose così a Selznick: “
A seguito della nostra conversazione relativa al film preso in considerazione per il signor Fritz Lang: il signor Pettijohn è tornato da Washington e vi allego il suo memorandum originale dell’ufficio che mi riporta il suo colloquio con il Dipartimento di Giustizia su questo argomento. É mio giudizio ragionato, con il quale il signor Pettijohn è d’accordo, che in ogni circostanza non sarebbe saggio procedere con il film contemplato e me ne raccomando”. Selznick non poté che convenire: “Caro generale Hays, ho ricevuto una lettera da Charlie Pettijohn che afferma la violenta obiezione del Dipartimento di Giustizia all’idea del film suggerito dal signor Fritz Lang e a Voi sottoposto attraverso la mia proposta. Mi rammarico enormemente che non ci sia altra strada se non quella di abbandonare l’idea, anche se penso che avremmo potuto svolgere un vero servizio pubblico”. <http://starsandletters.blogspot.com/2014/06/selznick-abandons-fritz-lang-project.html visitata l’ultima volta il 13 giugno 2024>. Sebbene cerchi di salvare in parte la faccia, è evidente che Selznick scarichi abbastanza rapidamente Lang, sottolineando come l’idea del film fosse del regista quando, dal momento che era stato da pochissimi giorni ingaggiato, è più che probabile che il produttore ne condividesse lo spunto. Tra le note di curiosità si può segnalare che Selznick si rivolga a Hays con l’appellativo di «generale», forse in quanto questi era stato Direttore Generale delle Poste degli Stati Uniti, mentre il citato Charlie Pettijohn era il Consigliere Generale dell’MPPDA, la Motion Picture Producers and Distributors of America, l’organizzazione guidata appunto dallo stesso Hays attraverso l’applicazione del noto codice di autocensura. Come detto, di lì a poco sarebbe entrata in vigore la PCA affidata a Joseph Breen, che inasprì pesantemente l’autocensura e il cui avvallo divenne vincolante per ottenere il visto di distribuzione: il clima, effettivamente, non era quindi dei migliori. In questo contesto, forse presentarsi da Hays con una proposta che aveva visto la “violenta obiezione” addirittura del Dipartimento di Giustizia del paese non era certo stata una mossa tempestiva. Per capire: Pettijohn faceva parte dell’entourage del Presidente Frank Delano Roosevelt, e il Dipartimento di Giustizia, in quel periodo, era in febbrile attività anche mettendo sotto osservazione il mondo del cinema. I crime movie del tempo esaltavano le imprese dei gangster, mentre i poliziotti, al loro inseguimento, dovevano fermarsi ogni volta che questi fuorilegge passavano un confine di Stato, facendoci ben poca figura. Se, per combattere direttamente il crimine, l’amministrazione Roosevelt intendeva riorganizzare il braccio armato del Dipartimento di Giustizia, ovvero quell’istituzione di polizia federale che, dal 1935, prenderà il nome di FBI, sul piano prettamente propagandistico Hays e soprattutto Breen si diedero da fare per contrastare il dilagante fenomeno di romantica ammirazione per Dillinger e compagni che il cinema aveva fin lì suscitato.
Il cineasta intellettuale, che, arrivando dalla Germania nazista con un atteggiamento che “suscitava incredibile rispetto e un’impressione di autorevolezza”, proponendo un film che ipotizzava movimenti sovversivi negli Stati Uniti, non si guadagnò certo il favore dell’ambiente.
Il progetto originale era quindi scartato; in ogni caso, il contratto c’era e un film andava realizzato. Mentre Lang ne approfittava per guardarsi un po’ in giro, in cerca di ispirazione, nel mese di settembre di quel 1934 la SS Morro Castle, un transatlantico americano in rotta da Cuba a New York, prese fuoco e s’incagliò, causando la morte di oltre cento persone. Con l’aiuto di Oliver H. B. Garret, il regista non padroneggiava ancora la lingua inglese, Lang mise giù una sceneggiatura, Hell Afload [
t. l. L’inferno galleggiante], anche nota come The journey [t. l. Il viaggio]. Stando alle parole dello stesso regista, sul momento l’idea sembrava potesse funzionare: “A Selznick piacque molto, alla vigilia di Natale; dopo tre giorni era la cosa più disgustosa che avesse mai letto”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 17]. Successivamente sviluppò Passport to Hell [t.l. Passaporto per l’Inferno], un trattamento da un racconto di James Warner Bellah, uno scrittore di pulp-fiction che sottolinea l’approccio di Lang all’America. Il regista dichiarò che imparò molto, nei suoi primi mesi negli Stati Uniti, dalla letteratura popolare e dai fumetti, che gli furono utili per comprendere la differente natura del paese che l’ospitava rispetto alla patria natìa. In ogni caso nemmeno questo progetto andò in porto come del resto anche l’interessante aggiornamento della vicenda del Dottor Jekyll e Mister Hyde, The Man behind You [t. l. L’uomo dietro di te], una sorta di studio sulla personalità schizofrenica. Niente da fare; ricorda, in proposito, Lang: “per un anno, non mi fu data l’opportunità di fare niente, e così cercai di imparare il più possibile dalla vita americana” [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 17].
Alla MGM erano però scontenti e uno dei dirigenti dello Studio, Eddie Mannix, parlò con il regista paventandogli l’ipotesi di essere licenziato. Lang ottenne però un’ultima chance: gli fu consegnata Mob Rule [
t. l. La legge della folla], una scaletta di quattro pagine con quello che sarebbe divenuto il soggetto di Furia [Fury], scritta da Norman Krasna, e gli fu affiancato un collaboratore, Bartlett Cormack, dal momento che il regista non era ancora autosufficiente con l’inglese. Tuttavia Lang si aiutava molto, nel lavoro di stesura, collezionando ritagli di giornale da cui trarre ispirazioni e spunti; utilizzando i quotidiani americani, era quindi in grado di interpretare a dovere la vita di un paese anche se lo conosceva poco. Tuttavia, nel momento di cominciare la stesura definitiva della sceneggiatura, il regista nato a Vienna dimostrò di non aver ancora colto l’essenza della cultura americana. Secondo la primissima versione di Furia, il protagonista, Joe Wilson, poi interpretato da Spencer Tracy, era un avvocato. Questo, secondo quanto racconta Lang nel fondamentale libro intervista a Peter Bogdanovich, avrebbe permesso a Joe Wilson di potersi esprimere meglio, di poter spiegare in modo più esauriente, i propri pensieri. Conoscendo Fritz Lang, viene da supporre che la svolta rabbiosa che intraprende l’uomo, una volta scampato al linciaggio, avesse a quel punto una forza maggiore, un’importanza più clamorosa, se a farla fosse stato un uomo di legge. Joseph L. Mankiewicz, al tempo neo produttore della MGM, spiegò al regista venuto dall’Europa che in America, il protagonista doveva essere «Joe Doe», Jane nel caso fosse una donna: qualcuno del popolo. E fu convincente, tanto che Lang pensò che questo era un segno della democrazia; il che era vero, naturalmente, dal momento che la forza rivoluzionaria del cinema americano era appunto quest’approccio popolare. É però innegabile che immaginare un distinto avvocato nei panni del Wilson divenuto brutalmente belluino, al punto da voler ardentemente veder finire sulla forca tutti i 22 individui che avevano preso parte al linciaggio, avrebbe dato ancora più forza al concetto. Argutamente, Paul M. Jensen nel suo The cinema of Fritz Lang notò come Furia, il primo film americano di Lang, avesse la struttura della sua opera forse più importante del periodo tedesco, almeno dal punto di vista culturale, I Nibelunghi, [Die Nibelungen: Siegfried + Die Nibelungen: Kriemhilds Rache,1924]. In questo caso, Joe, il protagonista è prima la vittima Sigfrido e, nella seconda parte, la vendicatrice Crimilde, confermando però i progressi psicologici già manifestati in M – Il mostro di Dusseldorf [M, 1931]. Joe, infatti, è personaggio moderno, non è completamente buono o cattivo, ma muta, nel corso della vicenda, si evolve sia in chiave positiva che negativa. Rispetto ai suoi formidabili sviluppi successivi, all’interno del cinema americano, Lang in Furia conserva qualche aspetto di troppo del suo bagaglio tedesco, in particolare il ricorso ad un simbolismo un po’ stucchevole. In seguito, lo stesso autore riconoscerà questo limite, in questa sua opera: “In Germania usavamo molto i simboli. Un simbolo deve spiegare qualcosa. Per esempio ne I Nibelunghi i due amanti sono seduti sotto una pianta in fiore (…) E così, dopo che se ne sono andati dal giardino, lei guarda l’albero dalla finestra, e improvvisamente vede questi fiori dissolversi e comparire un teschio. Questo è un simbolo per mostrare un pericolo incombente, un oscuro presagio. In Furia c’era una scena in cui mostravo il diffondersi di un pettegolezzo: una donna inizia a parlare, poi un’altra e un’altra ancora – dopo di che facevo una dissolvenza su alcune galline, che facevano lo stesso rumore. Lo stesso produttore che mi aveva parlato di Joe Doe (quindi probabilmente Mankiewicz, NdA) disse: «Fritz, agli americani non piacciono i simboli. Non sono così stupidi da non capire senza». E aveva ragione. Non so se l’ho tagliata o meno – ma aveva assolutamente ragione. Tutti sanno cosa fanno le donne pettegole”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagine 27 e 28]. La scena è rimasta e, se è vero che crea un effetto ridondante, insistendo su un concetto già evidente, è anche vero che inserisce una vena ironica –il paragone tra le donne e le galline– e che, quindi, gratuita del tutto non è. Un aspetto non secondario: in sé Furia non è particolarmente «leggero», c’è un po’ di accorato romanticismo nella prima parte, che serve, per altro, a preparare il «terreno» alla svolta drammatica. Ma quel paragone ironico evidenzia come la situazione degeneri, e gli abitanti di Strand si trasformino in una folla inferocita, in seguito ad un meccanismo messo in moto superficialmente, senza riflettere. Senza cattiveria, nel senso di piena consapevolezza, ma con una superficialità tale che rende difficile non condividere il risentimento che Joe non riuscirà mai a vincere del tutto nei loro confronti. Racconta, sempre Lang nell’intervista con Bogdanovich, che la MGM non gradì affatto Furia. Addirittura Eddie Bendix, il dirigente che gli aveva affidato l’incarico per il film, lo accusò di aver cambiato qualcosa rispetto alla sceneggiatura. Come detto, il regista non se la cavava ancora così bene con l’inglese e, quindi, la cosa non era molto probabile; in ogni caso, su consiglio dello stesso Lang, vi fu un rigoroso controllo, copione alla mano, della pellicola. Nel frattempo, l’autore viennese venne “messo in castigo” con un’umiliazione pubblica che, nel 1965, oltre trent’anni dopo, sembrava ancora far male al regista di Metropolis. Il verdetto di Bendix fu emblematico: “Sì, hai ragione c’è (attinenza alla sceneggiatura, NdA) ma SEMBRA una cosa diversa sullo schermo!”. [Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, Parma, Pratiche Editrice, 1988, pagina 32
]. Quello che avvertirono Bendix e gli altri dirigenti della MGM era l’essenza del cinema di Fritz Lang: in Furia, faticava ancora un po’, a trovare la giusta quadra all’interno del cinema americano, ma era già presente in forma cristallina. In seguito questa capacità del maestro troverà la sua massima espressione nei noir degli anni Quaranta e Cinquanta, ma Furia ne era già un sublime esempio. La storia di vendetta personale era un classico di Hollywood, e la morale era sempre che la vendetta non portava alcun beneficio, per chi la metteva in atto. Che è, in sostanza, la stessa conclusione che si può trarre da Furia, beninteso, come aveva dovuto ammettere a denti stretti persino Bendix. Quello che cambiava, era il rigore della messa in scena che contrastava l’emotività della storia, mantenendola viva e pulsante, ardente: in genere, i registi, dopo aver infiammato gli animi con qualche passaggio focoso, prendevano le distanze dalla violenza, in modo da condannarla. Lo spettatore seguiva ipocritamente questo percorso, prima facendosi prendere dall’enfasi e poi, nel finale, se non accusando il comportamento violento di turno, assai più spesso cancellando tutto con un colpo di spugna e celebrando idealmente il lieto fine insieme ai protagonisti. Lang non era tipo da sconti. Era, per sua stessa ammissione, un perfezionista, una persona meticolosa nel lavoro, e lo era anche dal punto di vista morale ed è proprio qui, nella sua statura etica, che risiede la sua grandezza. Per questo arrivò a dire, a proposito di Furia, che odiò il bacio finale, che rendeva sdolcinata e priva di rigore morale tutta quanta la storia. Joe non si meritava, almeno non così in fretta, di convolare con la sua bella Katherine (Sylvia Sidney), non dopo quello che aveva fatto nella seconda metà del film. In effetti, nel discorso finale, Lang fa precisare a Joe che dovrà pagare per il suo inganno alla corte del tribunale e alla collettività, nonostante lo stesso autore, è esplicitamente evidente, condivida il rancore che l’uomo prova nei confronti di quegli individui che, solo qualche tempo prima, avevano provato a mandarlo arrosto. È questa la forza del cinema di Fritz Lang: Joe non dimentica coloro i quali lo volevano linciare, e nemmeno li perdona. Il perdono non è, come il cinema e con esso tutta quanta la nostra cultura recente ha insegnato, un voltar pagina e pensare ad altro. Il perdono è una conquista dura e faticosa e non è qualcosa che ci verrà concesso, ma che dovremo meritare. Non è, quindi, compito di Joe, perdonare i suoi linciatori: essi dovranno fare i contri con la propria coscienza, e in questo senso ci sono le parole di Katherine a chiarire il punto di vista del regista. Se Joe non deve marcire nel rancore, e peggio ancora nella vendetta, è perché così facendo perde sé stesso e, in effetti, per buona parte del film, quando la brutale voglia di rivalsa lo pervade, egli è ufficialmente perfino morto. La capacità di Lang, quella che sfugge agli uomini della MGM, è di mantenere vivi questi sentimenti potenti, la rabbia di Joe o l’angoscia degli abitanti di Strand, che non sfociano mai in banali finali consolatori. Non si può convivere pacificamente con sé stessi dopo aver linciato un uomo: nemmeno se questo è scampato e se dovesse perdonarti. Bisogna certamente imparare a convivere coi propri demoni, e cercare di soffocarli, come spiega bene Joe, nel finale, rivolgendosi ai ventidue che tentarono di linciarlo: non si vendica ma neppure può perdonare così, con un nonnulla, una cosa di una tale gravità. Perfino dimenticare è impossibile ma proverà ad andare oltre. Se questi disgraziati riusciranno a far pace con la propria coscienza, non è affar suo ma loro: loro sono i rimorsi, e loro deve essere il percorso di redenzione. Ad Hollywood, il pragmatismo americano non aveva tempo per questi sofismi e, in genere, un lieto fine riusciva a lenire tutti i problemi, comprese le coscienze del pubblico nel caso l’opera avesse avuto una qualche forma catartica – cosa per niente infrequente con il cinema. Quello che Lang riuscì subito a cogliere del cinema americano è la responsabilità individuale del protagonista: Joe è un brav’uomo, diventa una belva in seguito ad un’ingiustizia ma saprà, finanche con l’aiuto di Katherine, fermarsi prima di commettere l’irreparabile. La vita è una questione di scelte e, per alcune di esse, non c’è poi tutto questo margine: e questo è meglio tenerlo bene a mente.            

mercoledì 19 giugno 2024

eXistenZ

1500_eXistenZ . Canada, Regno Unito 1999; Regia di David Cronenberg.

Abitualmente, la natura metalinguistica dei film di David Cronenberg, è suggerita già dai titoli di testa; questo avviene anche in eXistenZ, per la verità. L’ammaliante musica di Howard Shore avvolge le ipnotiche immagini: stratificate su differenti piani e di diverso grado di trasparenza, lasciano intuire origini e temi differenti, senza che se ne riesca ad afferrare il disegno complessivo. Tuttavia, eXistenZ segna una differenza perché Cronenberg utilizza già il titolo –meglio, la grafia del titolo– per dare le prime coordinate. In realtà c’era già stato M. Butterfly [1993] nel quale la emme maiuscola seguita dal punto, oltre che inusuale, poteva far intendere una sorta di abbreviazione di «madame» –da Madama Butterfly, l’opera di Giacomo Puccini che aveva ispirato il film– ma anche rimandare al simbolo che indica «male», maschio. Qui, però, il regista canadese si spinge oltre, perché il racconto filmico si apre proprio con la spiegazione di come si debba scrivere eXistenZ, senza maiuscola iniziale ma con la seconda e l’ultima lettera ad avere questa caratteristica. Nella ricostruzione esaudiente che Gianni Canova ne dà nel «Castoro» dedicato al Canadese [Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro Cinema n.161, Milano, Editrice Il Castoro, Marzo 2007, pagina 107] possiamo notare come l’assenza di iniziale maiuscola sottragga eXistenZ dalle tipiche consuetudini, la cui natura deriva dalle regole grammaticali. La maiuscola, abitualmente, segna l’inizio di una nuova frase o i nomi propri: quindi il film di Cronenberg dichiara sin dal titolo di non avere un inizio chiaro, cosa poi certificata dalla vicenda narrata, e nemmeno assurge a qualcosa di definito e definibile, non essendo un comune appellativo. Di contro, la X e la Z, le lettere sottolineate dal carattere maiuscolo nel titolo, sono due delle tre coordinate del sistema tridimensionale: l’incognita X e la variante Z; mancando però la Y, sarà impossibile stabilire con certezza il senso del messaggio. In modo un po’ inquietante, se il titolo sembra indicare una storia senza inizio, la zeta maiuscola con cui termina eXistenZ pone l’accento sulla fine: da un autore in un certo senso ossessionato dal concetto di morte, la cosa pare quasi naturale. In ogni caso, interpretandola in senso metalinguistico –terreno proprio tanto di Cronenberg che di eXistenZ– si avrebbe poi, a fine visione del film, la conferma che, procedendo all’inverso, nell’epilogo si trovi quello stratagemma narrativo che potrebbe dare logica al racconto. Tuttavia, il regista canadese, seppur ami rispettare i canoni del cinema «di genere» –e, quindi, in una storia distopica di fantascienza sulla realtà virtuale, dove vale un po’ tutto, la coerenza interna al racconto va almeno salvaguardata– non pone certo sui vincoli logici della sceneggiatura il suo interesse. Sia quel che sia, quel che il regista ricercò, non convinse tuttavia il pubblico. Il motivo dello scarso successo del film è in parte da ricercare nell’estetica personale di Cronenberg, forse troppo legata agli effetti speciali artigianali, quando al tempo impazzavano già simulazioni grafiche assai più spinte, ma, soprattutto, all’incapacità dello spettatore di coglierne l’inquietante messaggio. Che, insistendo nell’ambito metalinguistico, è esattamente il tema del film. Cioè, a prima vista, dal momento che eXistenZ, nella storia narrata dal film, è un gioco di realtà virtuale, può sembrare, e certo in parte è, che quest’ultima sia l’argomento portante del lungometraggio. La realtà virtuale era già da tempo un fulcro di interesse collettivo, ma, da questo punto di vista, il 1999 fu lo snodo cruciale: lo sviluppo delle nuove tecnologie unite al fatidico avvento del 2000, per decenni utilizzato come sinonimo di futuro fantascientifico, rendeva l’ultimo anno del millennio [in realtà era il penultimo, ma venne universalmente inteso come ultimo] uno svincolo inevitabile, sia esso come ambientazione, si veda Strange Days [1995, regia di Kathryn Bygelow], sia esso come anno di uscita nelle sale, e l’esempio più eclatante è probabilmente Matrix [The Matrix, 1999, regia dei fratelli Wachowski]. Parlando di realtà virtuale, è normale attendersi una grande attenzione all’aspetto visivo di questi testi e, in effetti, quelli citati, come molti altri dello stesso tipo, sfruttarono a dovere la Computer Grafica e gli effetti speciali, al tempo già sufficientemente evoluti, per fornire una confezione formale accattivante. Matrix, a conti fatti, è ancora oggi invidiabile in tal senso. Cronenberg non è però così interessato a convincere i suoi spettatori che la realtà virtuale del suo film sia credibile; casomai è interessato a farci dubitare della realtà in cui abitualmente viviamo, e, lavorando in questo senso, può lasciare spiazzato –tanto per cambiare– il pubblico. In effetti eXistenZ, come accennato, al botteghino fu un flop clamoroso, e questo nonostante il regista fosse già famoso, avesse un pubblico di fedelissimi e trattasse un tema, come visto, quanto mai attuale. D’altra parte eXistenZ proseguiva nella serie di quei film ben poco concilianti con il pubblico, iniziata con Inseparabili [Dead Ringers, 1988], proseguita fino a Crash [1996] e rinnovata quindi ulteriormente. La particolare estetica, non sempre credibilissima e spesso biologicamente surreale, deve probabilmente essere frutto del gusto dell’autore nato a Toronto ma in questo caso aveva una ragion d’essere più razionale. Secondo Marshall McLuhan –il celebre sociologo canadese a cui Cronenberg ha spesso fatto riferimento, in particolare in Videodrome [1982]– sosteneva che le invenzioni tecnologiche avessero, di fatto, esteso in modo esponenziale la nostra capacità percettiva e, quindi, alterato in maniera, perlomeno concettuale, la nostra stessa biologia. La creazione di quel «villaggio globale» di cui il sociologo canadese parlava come risultato dell’evoluzione dei media elettronici – radio, televisione – con la possibilità di condivisione istantanea su tutto il globo tramite l’uso dei satelliti, unita alla capacità potenziata di percepire notizie ed informazioni da parte dell’individuo, anticipava, di fatto, le caratteristiche dei giochi di simulazione basati sulla realtà virtuale. I social media porteranno poi questi aspetti al limite dell’immaginabile ma, tornando alle scelte registiche di Cronenberg a proposito di eXistenZ, diventa più chiaro il perché l’autore abbia una poetica visiva così «biologica» e assai meno «tecnologica». In effetti, computer, monitor, schermi, ologrammi, sono accessori tipici dei film di fantascienza e sorprende che in eXistenZ non ve ne sia traccia. Questo perché Cronenberg è sì interessato ai «media» –del resto «il medium è il messaggio», per restare su McLuhan– ma nel senso appunto del «messaggio», del contenuto. Quindi, per rappresentare al meglio quell’enorme organismo integrato che è la nostra società, più che mettere in scena gli strumenti che lo rendono tale, il regista preferisce dare una visione cinematografica dell’idea: la «nuova carne», ovvero, i «game pod» di eXistenZ.    
Del resto, Cronenberg non è mai stato tanto interessato a certi canoni estetici del cinema, non lo era con gli horror degli inizi e non lo è nemmeno nel caso di questa fantascienza distopica. È, a suo modo, assai più essenziale e razionale: gli preme la realtà, quella vera, non quella virtuale. Certo è clamoroso che, per analizzarla, utilizzi ancora una volta un cinema metalinguistico, in questo caso, poi, addirittura ultra-metalinguistico. Un cinema, l’arte che riflette la realtà, che parla di una realtà artificiale ma che ha come obiettivo non tanto queste forme di finzione, ma il mondo reale. Il concetto è: se, nel film, non si riesce a distinguere il vero dal falso, nonostante sia tutto palesemente fasullo, posticcio, allora vuol dire siamo abituati a credere –e a vivere– in una realtà non molto dissimile. Come protagonisti del suo film, basato su una sceneggiatura dello stesso regista, Cronenberg prende non a caso dei giocatori di videogiochi: è opinione diffusa che tra i ludopatici della realtà virtuale più o meno spinta, si rischi una sorta di dipendenza ma non solo. Il pericolo maggiore è, per essere gentili, il «narcisistico torpore» di cui parlava ancora Marshall McLuhan; le lusinghe dei giochi elettronici, la competizione che innescano, con gli altri utenti ma anche e soprattutto con sé stessi, nell’autocompiacimento nel divenire totalmente integrato con il mondo virtuale creatosi, erano, nel 1999, già evidenti. In realtà non si trattava affatto di una novità, e non basta scomodare i videodipendenti degli anni Ottanta perché McLuhan trovò quell’efficace definizione a proposito di tecnologie assai più antiche, come, ad esempio, la stampa a caratteri mobili. Se McLuhan ci vedeva lunghissimo e Cronenberg almeno lungo, anche un orbo potrebbe accorgersi che, oggi, nel 2024, gli smartphone e i social network hanno calato tutti quanti nel citato «narcisistico torpore» in un modo finora sconosciuto. È di questo che parla eXistenZ, di questo istupidimento che avvolge tutto e tutti e che non ci permette di comprendere se siamo di fronte alla realtà o ad una sua simulazione. I protagonisti del film non lo capiscono e nemmeno gli spettatori riuscirono ad orientarsi; questi ultimi cercarono all’interno del film quegli ancoraggi per gustarsi la storia –qualcosa di simile alle lusinghe dei media tecnologici avviene anche per i fruitori di cinema, che fanno quasi gara a comprendere meglio un film– e, non trovandoli, rimasero delusi. Essendo un testo metalinguistico nel senso profondo del termine, questi rimandi andavano cercati fuori dalla realtà cinematografica di eXistenZ. Il film, non a caso, si chiama esattamente come il mondo virtuale al centro del racconto, anche se poi, nel finale, si scopre che in realtà ci si trovava all’interno di un altro gioco, transCendenZ, e questo serve a descrivere la sorta di scatole cinesi che è il lungometraggio, di cui la nostra quotidianità è quella successiva, la scatola più grande.
Pur se evidenziando una criticità nella situazione, Cronenberg non fornisce una tesi, una condanna, alle nuove tendenze, o almeno non esplicita e dichiarata. Pare che l’ispirazione per il film venne data al regista canadese da un’intervista a Salman Rushdie, autore dei Versetti satanici che gli costarono la fatwa islamica, una sorta di condanna a morte. Secondo il regista, Rushdie, con il suo libro, aveva messo in discussione la realtà consolidata della tradizione islamica e, per poterla ripristinare, le autorità religiose iraniane ritennero la sua eliminazione fisica l’unica soluzione. Cronenberg trovò, probabilmente, un’analogia tra la sua condizione e quella di Rushdie: anche al suo ultimo cinema veniva imputata la colpa di allontanarsi dalla realtà accettata, comprensibile, i suoi film recenti, Il pasto nudo [
Naked lunch, 1992] e Crash sopra ogni altro esempio. Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh) oltre che la protagonista del film, è la creatrice di eXistenZ, il gioco virtuale, e, praticamente in apertura del racconto, subisce un attentato al grido di “Morte al demone Allegra Geller!”. A volerla morta sono i «realisti» che l’accusano di aver destabilizzato la realtà creando universi virtuali; in pratica, si tratta di una difesa di un mondo, quello ritenuto reale, dall’ingerenza del virtuale o, volendo aggiornare i termini, dell’IA, l’Intelligenza Artificiale. Cronenberg, come detto, forse ci vede una possibile similitudine tra il suo cinema e il resto della normale produzione, e, volendo, anche all’interno della sua stessa filmografia, essendo la sua poetica divenuta via via sempre più ermetica, anche per il suo stesso pubblico. Nel parapiglia successivo all’attentato, dove Allegra rimane ferita, Ted Pikul (Jude Law), l’addetto al marketing dell’Antenna Research, la società produttrice di eXistenZ, l’aiuta a dileguarsi. Ted Pikul ha il ruolo proprio dello spettatore: colto e istruito, è in pratica del tutto impreparato a qualsiasi situazione lo veda coinvolto. In sostanza, l’«idiota tecnologico» di McLuhan, ultra-specializzato nel proprio campo ma incapace, proprio per questo, di cogliere con uno sguardo critico ciò che lo circonda. Egli, infatti, non ha ancora la «bioporta», orifizio artificiale praticato alla base della schiena dove i giocatori devono inserire il cordone che li collega al «game pod», la consolle biotecnologica necessaria per accedere a eXistenZ. Nonostante lavori per un’azienda produttrice di questi nuovi passatempi tecnologici, è restio a queste forme di condivisione estrema che necessitano i giochi come eXistenZ. Lo stesso atteggiamento di diffidenza che, di lì a pochi anni, avrebbero manifestato quelle persone che, oggi, vengono definite appartenenti alle generazioni «boomer» o «X», nei confronti dei social media come Facebook et similia. Un atteggiamento non del tutto da biasimare, in realtà, considerato le conseguenze che provocano questi media sulle persone, evidenziati, con una certa ironia, dai loop in cui cadono spesso i personaggi del gioco. Questi inceppamenti vanno sbloccati da un richiamo forte al contesto in cui si trovano, e sono, da una parte una metafora dei nostri cliché comportamentali indotti dalle nuove tecnologie, dall’altra espressione dal sottile umorismo che, rispetto al suo solito, Cronenberg dispensa maggiormente nel film. Che, in modo un po’ sornione, si può percepire anche nelle scene, dal sapore vagamente sessuale, relative alle citate bioporte. Gli incastri narrativi della storia sono costruiti con mestiere da Cronenberg, che si preoccupa poi che la resa visiva sullo schermo risulti costantemente artificiale, anche negli scenari più realistici. I passaggi da un piano del racconto all’altro, tra la realtà e il gioco, non sono evidenziati da alcun espediente di montaggio cinematografico, risultando quindi indistinguibili e confondendo tutti i livelli narrativi. La cosa è, in un certo senso, proposta anche sotto il profilo etico: il gioco ha passaggi chiave prestabiliti per potersi svolgere correttamente, questo a discapito del libero arbitrio in senso assoluto dei personaggi. Che è poi la stessa situazione, osserva Allegra, che si ha nella realtà. Questo punto è illuminante, e illustra in modo implacabile l’illusione di libera scelta della nostra quotidianità. In pratica, è come se Cronenberg rigirasse la frittata. Accusato di snaturare il realismo della sua arte, il regista dimostra come non vi siano sostanziali differenze tra i suoi onirici mondi e il nostro abituale contesto. Uscendo dal cinema, come fanno Allegra e Ted dalla chiesa, nel finale, potremmo –o dovremmo?– infatti ritrovarci anche noi a chiederci: “siamo ancora nel gioco?”.


lunedì 17 giugno 2024

L'UOMO CHE HO UCCISO

1499_L'UOMO CHE HO UCCISO (Broken Lullaby). Stati Uniti,  1932; Regia di Ernst Lubitsch.

In genere poco considerato nella filmografia del grande Ernst Lubitsch, L’uomo che ho ucciso è, al contrario, un piccolo gioiello. Certo, non è una di quelle commedie sofisticate che hanno reso celebre il maestro nato a Berlino ma, se per avere conferma dell’artistica paternità dell’opera, si cercasse il famoso Lubitsch’s touch (il tocco di Lubitsch, la sua firma caratteristica) lo si troverà immancabilmente anche ne L’uomo che ho ucciso. Ma andiamo con ordine perché al regista bastano dieci minuti per ribaltare completamente la tipica prospettiva non solo del cinema di guerra ma del concetto stesso di guerra. Il film comincia significativamente all’anniversario della fine della guerra, il giorno della pace, celebrata con manifestazioni di stampo bellico: truppe inquadrate in marcia sotto l’Arco di Trionfo, a Parigi, salve di cannone sparate a go go, il tutto in pompa magna e senza alcun rispetto per i mutilati di un ospedale scossi dai rumori che ricordano il conflitto finito da poco. Poi ci si trasferisce in chiesa, per una celebrazione degli eventi più sobria e religiosa. La regia di Lubitsch indugia sui particolari che denunciano apertamente la marzialità dei presenti anche in questa intima occasione: le spade allineate, gli stivali lucidi, la presenza delle pistole al fianco degli ufficiali. E poi, quando la funzione è finita, l’ordine e la disciplina dei presenti ricorda un rompete le righe di un plotone d’eccellenza. I militari, anche in tempo di pace e perfino in chiesa, sono e rimangono militari. Ora la chiesa è vuota; anzi no. C’è un disperato che si inginocchia tra le panche a tal punto che si scorgono solo le mani giunte. E’ Paul Renard (Phillips Holmes), l’unico che sembra essere davvero turbato nel profondo, nella coscienza. Certo, anche gli altri potranno essere rimasti scossi, dalla violenza della guerra, da quanto vissuto e provato. Ma Lubitsch, tramite Paul, ci mostra come sarebbe logico si comportasse un uomo davvero colpito nella propria anima. 

Il giovane, infatti, vuole confessare il suo crimine, l’aver ucciso un uomo. Il prete accetta ben volentieri di confessare il giovanotto e, quando scopre che si tratta di un’uccisione sul campo di battaglia, cerca di tranquillizzarlo. “Hai fatto solo il tuo dovere”: ascoltando queste parole, per altro abbastanza scontate, questa volta proviamo anche noi un brivido. Perfino il prete, il ministro di Dio, si è lasciato convincere dalla propaganda bellica che il fatto di uccidere sia una cosa legittima. Ma non lo è, non lo è mai e se ci si macchia di un crimine come la deliberata uccisione di un altro essere umano dovremmo patire i tormenti di Paul. Il quale nella vita borghese è però un musicista, un artista, e forse per questo riesce ad inquadrare la cosa nella giusta prospettiva. Cosa che sembra non così agevole per il sacerdote, che cerca ancora di sminuire il fatto: e infatti non sarà lui a dare la risposta che Paul cerca coi suoi interrogativi. Il giovane la troverà piuttosto in un affresco sul muro della chiesa. E’ l’arte, il verbo; alla religione, rappresentata dal prete, non rimane che accodarsi una volta che l’uomo si è placato avendo trovato la via che cercava. Lubitsch, e qui possiamo notare uno dei suoi tocchi, non infierisce sul sacerdote e, svelatone l’inadeguatezza, lo congeda in modo indulgente. 

Ispirato dalla compassione del volto della Madonna ritratto sull’affresco, una compassione che le permise di perdonare gli assassini del figlio, Paul decide così di andare dalla madre del soldato tedesco che ha ucciso al fronte, per chiederle perdono. Naturalmente la trama, che ha una solidissima base essendo un dramma teatrale poi adattato al cinema da Ernest Vajda e Samson Raphaelson, ha tutti gli snodi e gli intrecci per portare Paul direttamente alla casa di Valter, il giovane che aveva ammazzato in guerra. Il punto è: Paul vuole confessare alla donna (e ai suoi famigliari) di essere l’assassino del figlio e chiederle perdono. In coscienza, quello che dovrebbero fare tutte le persone che hanno ucciso qualcuno; anche i soldati, anche durante le guerre. Non ci sono attenuanti sufficienti per scontarsi questa penitenza: andare a chiedere perdono alla madre di colui che hai ucciso. Lubitsch, quindi, riesce a mostrare l’enormità della tragedia della guerra non andando a indagare sui grandi numeri, ma concentrandosi sul particolare, sul caso singolo, perché già il caso singolo è un’enormità. Il rapporto con quello che è successo nel complesso, il caso singolo moltiplicato per tutti i casi di una guerra come la Grande Guerra, il maestro lascia che siano gli spettatori a farlo. Ma, e qui sta il Lubitsch’s touch, Paul non riuscirà nella sua confessione. 

Dopo la brusca accoglienza avuta dal padre di Valter, il dottor Holderlin (Lionell Barrymore), Paul è ben accettato dalla madre (Luise Carter) e dalla fidanzata ‘vedova’ del giovane, Elsa (Nancy Carroll). La ragazza ha infatti visto Paul portare fiori sulla tomba di Valter e si genera un equivoco in quanto le donne pensano che il francese sia un amico parigino del loro caduto. Lì per lì Paul non trova il coraggio di smentirle anche perché, a quel punto, il dottor Holderlin cambia atteggiamento prendendolo in simpatia. Addirittura, il dottore, inizialmente mostrato come colmo d’odio per quei francesi che gli avevano ucciso il figlio, sarà protagonista di un’arringa in cui accuserà i vecchi compagni della birreria, rei di essere corresponsabili, come lui, della guerra, con il loro ottuso odio verso lo straniero. Intanto Paul soffre perché vorrebbe confessare ma ogni minuto che passa l’equivoco si ingigantisce e la cosa diventa sempre più difficile. Ormai è di casa, presso gli Holderlin: i vecchi hanno trovato un nuovo figlio, Elsa quasi un nuovo fidanzato. Qui, narrativamente, per consuetudine, è previsto che il bubbone esploda, che Paul riveli il vero stato delle cose e poi si cerchi di far accettare ai personaggi la situazione. Con un’enorme amarezza per il dottore e la moglie, che si troverebbero in casa colui che ne ha ucciso il figlio; una situazione non semplice nemmeno per Elsa. Ma Lubitsch, autore abituato a frizzanti commedie piene di belle donnine, sa che è proprio ad una ragazza delle sue, la esile e bella Elsa, a cui si può chiedere un enorme sacrificio con la certezza che l’operazione abbia successo. Così il Lubitsch’s touch si concretizza nello sfasamento tra la verità assoluta (Paul ha ucciso Valter) e la verità d’intenti (Paul che si reca fino in Germania per confessare il delitto). E proprio in quella sospensione tra le due verità, una sospensione resa possibile e alimentata da una parte dalla coscienza del giovane francese (il viaggio fino in Germania) e dall’altra dalla determinazione di Elsa (ad impedirgli di confessare il fatto agli Hordelin per non ferirli, sopportando lei sola la conoscenza del tragico segreto di Paul), c’è tutta la magia del cinema del grande maestro. Oltre che una lezione da mandare a memoria.   


Nancy Carroll 




Galleria 










sabato 15 giugno 2024

CAPITAN CONAN

1498_CAPITAN CONAN (Capitaine Conan). Francia, 1996; Regia di Bertrand Tavernier.

“Un cane lupo non è un lupo”. E’ facile citare la battuta del protagonista, il Capitan Conan (Philippe Torreton) del titolo, per inquadrare la questione posta dalla notevole opera di Bertrand Tavernier. Del resto, se si è visto qualche film western, si può avere già una buona preparazione per comprendere bene il senso di quelle parole. Non che Capitan Conan sia ambientato alla frontiera americana, sia chiaro; ci troviamo sul fronte macedone, confine bulgaro nella Prima Guerra Mondiale, nel 1918, alla resa dei conti. Qui, più che in altri posti, e proprio come nel Territorio Indiano del secolo precedente o nelle turbolente città senza legge del Far West, c’è da sbrigare tanto lavoro sporco. Nei Balcani si combatte sotto la cintura da secoli e, per chiudere la questione a gente così indurita dalle avversità, occorrono veri lupi, non cani lupo, per tornare alla frase citata in apertura. E Conan e il suo reparto di pendagli da forca sono proprio quello che serve. Uomini duri, spietati, cattivi, quando c’è da combattere. Non tutti, ma qualcuno di loro, come Conan, ha un suo personale codice d’onore, una sua coerenza. Ecco, se, come a Tavernier, è la mancanza di coerenza, è l’ambiguità di fondo, è l’opportunismo viscido a dare più fastidio dell’avere una natura violenta, allora si è sulla buona strada per comprendere Capitan Conan. Perché i modi raffinati ed eleganti degli ufficiali, degni rappresentanti della cultura della belle époque di inizio secolo, stridono in maniera insopportabile con le bieche azioni richieste e pretese da Conan e dagli sgherri arruolati nella sua truppa. La cosa peggiore di un tragico evento come la Grande Guerra è che fu provocato e alimentato da persone che vivevano in punta di forchetta, disprezzando quel popolo che mandarono al macello deliberatamente per i propri fini. Non furono i lupi come Conan, a creare la guerra; loro vi sguazzarono, questo è vero, ma semplicemente perché era nella loro natura. La coerenza del capitano francese si evince quando riesce a comprendere la codardia del soldato Erlane (Pierre Val): non si può accusare un vigliacco di comportarsi da vigliacco. 

E’ sommai chi lo comanda che ha la responsabilità di gestire la sua vigliaccheria. Infatti Conan risolve sbrigativamente la questione Erlane, alla sua maniera. Una questione che si trascinava da tempo, avendo il soldato una madre molto influente (Catherine Rich) che faceva pressioni per scagionare il figlio. Il capitano lo spinge invece con forza in mezzo alla battaglia, il soldato Erlane muore fronte al nemico e l’onore è salvo. Cambia forse poco, per la madre e per lo stesso ragazzo; cambia invece per gli alti ufficiali, che possono gloriarsi di un nuovo valoroso caduto in battaglia. Per Conan è successo quello che può succedere in guerra; forse, se fosse dipeso da lui, Erlane non ce lo avrebbe voluto, in battaglia. Ma piuttosto di farlo finire fucilato per una colpa non sua (la sua natura), meglio fargli affrontare il nemico. La linearità con cui Conan risolve questo tema, rispetto agli altri più omologati ufficiali della storia, evidenzia come la crudeltà della guerra metta non solo le regole della vita civile, ma anche quelle militari, in crisi. Il tenente De Scève (Bernard Le Coq) è lo stereotipo del buon ufficiale; valido, fin che le cose scorrono sui binari prestabiliti, non è in grado di comprendere la fragilità di un suo soldato e, con la sua stolta supponenza, lo mette in condizione di sbagliare. Ha ragione Conan, i morti causati dalla viltà di Erlane pesano maggiormente sulla coscienza del suo superiore. 

Anche se questo non lo si trova scritto nel Codice di Diritto Militare che dànno da studiare al tenente Norbert (Samuel Le Bihan). Norbert è un bravo ufficiale, tutt’altro che ottuso ma anzi desideroso di comprendere; in sostanza l’opposto di De Scève. Ma è proprio lui ad andare maggiormente in difficoltà, quando la natura violenta di Conan e dei suoi uomini comincia a diventare scomoda e il comando lo incarica di indagare sulla loro condotta nelle fasi successive all’armistizio. La rapina al palazzo del ghiaccio, di cui alcuni uomini di Conan sono fortemente indiziati, è brutale anche nei confronti delle donne presenti: nonostante ciò, il capitano difende i suoi soldati. Risulta però già evidente come la loro natura non sia conciliabile con la vita civile e, nell’amaro finale, ci sarà un’ulteriore conferma. Norbert, che ha combattuto a fianco di Conan, si trova dunque di fronte all’incoerenza della situazione: questi uomini sono belve, è vero, ma la loro ferocia, la ferocia che distingue il guerriero dal soldato, ha permesso di vincere la guerra. E’ stata usata dagli eleganti e puntuali ufficiali del comando per vincerla, la guerra, ma adesso questi modi diventavano inaccettabili. Non c’è posto per i lupi, in una società civile, e questo lo si vede nella triste scena finale, dove Conan, non più arso dallo spirito della battaglia, è un relitto in preda alla cirrosi. Ma vale lo stesso discorso fatto per Erlane, non si può condannare un lupo perché si comporta come un lupo. Quelli che si possono e si devono condannare, sono quelli che si spacciano per uomini civilizzati, mangiando in ricche tavole imbandite e in perfetto orario ma la cui anima è una fogna oscura.   




Catherine Rich 


Galleria 



giovedì 13 giugno 2024

PORCA VACCA

1497_PORCA VACCA . Italia, 1982; Regia di Pasquale Festa Campanile.

Un elemento narrativo forte e funzionale com’è la Grande Guerra per l’Italia, con gli innumerevoli rimandi che propone, sembra l’ideale per mettere in luce una situazione già presente nel nostro cinema ma forse in genere meno evidente. Perché la commedia all’italiana negli anni 80 era ormai sostanzialmente già naufragata, per il vizio tutto italiano di lavorare sempre al risparmio, anche in termini artistici e di ingegno narrativo. Ma in Porca vacca di Pasquale Festa Campanile la cosa risulta ancora più lampante. Cioè, anche senza scomodare La Grande Guerra di Mario Monicelli del 1959 (anche se il film di Campanile ricorda forse più Uomini Contro del 1970, di Francesco Rosi) è evidente che Porca vacca riesca a cavarsela per il classico rotto della cuffia. Per carità, Renato Pozzetto (nel film è Primo Baffo) è divertente e la sua deriva surreale gli scusa abbondantemente le défaillance interpretative mentre niente da obiettare su Aldo Maccione (Tomo Secondo), ottima spalla. Già da un’attrice come Laura Antonelli (Marianna), visto il suo status di star del nostrano cinema, ci si dovrebbe aspettare qualcosa in più, ma certo la sua partecipazione non è insufficiente, questo no. Però, un testo che intavola una buona trama melodrammatica (il triangolo Primo Baffo-Marianna-Tomo Secondo) e che verte su una sfilza di tradimenti, in primis della donna, ma che si conclude con uno straordinario sacrificio eroico di questa, legittimava altre aspettative. Non un filmetto per farsi quattro risate e sbirciare le grazie dell’Antonelli, insomma. Campanile è regista esperto, è stato valente sceneggiatore e, infatti, sia come messa in scena, sia come dialoghi (spassosi alcuni scambi di battute) e perfino come intreccio, Porca vacca è un film solido. Eppure qualcosa manca, anche se non è facile scorgere questa lacuna nelle capacità di questi artisti, interpreti, regista e collaboratori. Sembra piuttosto una libera volontà a non puntare in alto; a non ritenersi credibili nel mettere in scena una grande storia, come un racconto sulla Grande Guerra imporrebbe. Si può naturalmente fare un film come quelli della saga del Pierino di Alvaro Vitali e ambientarlo nel fronte italiano della Prima Guerra Mondiale, è ovvio, ma non è cosa troppo saggia, da un punto di vista narrativo. Perché nel 1982 l’eco emotivo di quel conflitto era ben lungi dall’essere superato sulle nostre sponde e un’operazione del genere lasciava (e lascia) un senso di inadeguatezza. Non è una questione di umorismo, perché si può e si deve (se si è in grado) ridere e scherzare su tutto, su qualsiasi argomento; ma certi argomenti richiedono una cura realizzativa adeguata. 

Non si fa un film sciatto sulla Grande Guerra. D’accordo, Porca vacca non è un film sciatto, ma qualche scivolone di troppo e una mancanza generale di mordente si fanno sentire, quasi che l’operazione sia stata condotta con un certo malcelato disimpegno, come d’abitudine per il nostro cinema. E la cosa che fa più male, nel vedere il cinema italiano volare sempre così basso, è che gli autori erano consapevoli della situazione, lo sapevano. Lo sapeva, Campanile, come fare un film come si deve, adeguato: è evidente la cosa, ad esempio quando, in uno dei tanti begli intermezzi musicali, fa cantare a Pozzetto Addio Padre e Madre addio proprio dopo la demenziale messa in scena di Ciondolo d’oro, quest’ultima davvero da scompisciarsi. Il contrasto tra il tenore delle due canzoni d’epoca è messo bene in evidenza da Pozzetto, davvero bravo, e dalla platea dei malandati soldati dell’ospedale di guerra. Dopo il brano in chiave umoristica, la voce dell’interprete lombardo in Addio Padre e Madre addio si fa commovente, ben assecondata dalle pennellate della regia di Campanile (l’ufficiale che si alza subito e se ne va), in una scena da pelle d’oca che può rivaleggiare con quella finale di Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick, nientemeno. E’ questo l’amaro in bocca che rimane, a fronte di tante di queste italiche produzioni degli anni ottanta: potevano essere capolavori ma si nascosero dentro filmetti usa e getta che cercavano il favore del pubblico mostrando qualche nudità gratuita. Come se il cinema fosse unicamente il pretesto per vedere un paio di tette quando per quello, in quegli anni, c’era già la maledetta televisione del tempo, vero flagello culturale di cui paghiamo oggi amaramente il pegno a livello sociale. E quel cinema, il nostro cinema popolare, anziché ergersi a baluardo contro l’imbarbarimento, lo assecondò. E questa è la sua colpa più grave.  





Laura Antonelli 




Galleria 


martedì 11 giugno 2024

QUARANTAMILA CAVALIERI

1496_QUARANTAMILA CAVALIERI (Forty Thousand Horsemen). Australia, 1940; Regia di Charles Chauvel.

Fumettone più propagandistico che storico, Quarantamila cavalieri è un film godibile ed avvincente. Nel 1940 l’Australia era ormai impegnata nella Seconda Guerra Mondiale ma, per questo conflitto, sull’isola non si era ripetuto l’entusiasmo che si era verificato in occasione della Grande Guerra. Con un occhio al botteghino e uno al patriottismo che spronasse i giovani ad una maggior partecipazione, gli autori Charles Chauvel, Elsa Chauvel e E.V. Timms, imbastirono una storia romantico avventurosa calibrata in modo mirabile. Il canovaccio che sorregge Quarantamila cavalieri fila infatti come una palla sul bigliardo e il solo Charles Chauvel, in sede di regia, si occupò poi di trasformala nel film campione d’incassi dell’epoca. Protagonista della pellicola è, stando ai manifesti, Grant Taylor nei panni di Red Gallagher, un soldato della Cavalleria Leggera Australiana, un corpo militare che vantava alcune caratteristiche peculiari: si trattava, infatti, di un reparto della Fanteria e non della Cavalleria. Infatti, durante le cariche, tra i momenti di maggior spicco del film di Chauvel, si può notare che i militari non facessero ricorso all’uso di spade o lance ma usassero il fucile con la baionetta innestata, proprio come veri fanti. Questi dettagli lievemente documentaristici sono importanti perché sorreggono con la loro costante presenza il racconto mantenendolo sempre narrativamente credibile. I riferimenti agli episodi storici, inoltre, scadenzano la vicenda, funzionando a dovere nello stesso senso: così assistiamo alla marcia verso l’oasi di Ogratina, alla Battaglia di Romani, alla Battaglia di Gaza e, per concludere, alla Battaglia di Beersheba. La campagna del Sinai e della Palestina sono così mostrate in modo spettacolare, grazie alla scenografica partecipazione delle Cavalleria Leggera Australiana oltre che dagli spettacolari panorami desertici e dall’utilizzo, forse un po’ strumentale ma efficace, dei pittoreschi nemici. I cattivi della storia, infatti, sono gli spietati tedeschi, dalle nere uniformi e sempre accigliati, e i loro alleati turchi, meno inquietanti ma tratteggiati in modo ugualmente grossolano. 

Non si tratta di una critica al film, sia chiaro, visto il tenore di un’opera che spinge il pedale sulla facilità di fruizione e, quindi, necessita che i cattivi di turno facciano i cattivi senza troppi fronzoli. Viene il sospetto, per la verità, che agli elementi in questione la cosa venne, anche sotto il profilo storico, particolarmente bene. Tuttavia non si può pretendere un approccio strutturato delle ragioni o avente profondità nel valutare le parti in causa, quando il testo si presenta, a partire sin da subito, come un sano e onesto film di parte. Lo si è detto, Quarantamila cavalieri è un’opera di propaganda, in questo ben supportata, oltre che dal narrato, dalla messa in scena evocativa, dai citati scenari esotici, dalla musica trascinante (con particolare merito alla canzone Waltzing Matilda, cantata dai soldati a cavallo e vero tema musicale del film), oltre che dalle esaltanti cariche dei cavalieri davvero coinvolgenti. Ci sono anche dei siparietti comici o quantomeno leggeri di cui si occupano gli amici di Red, Larry (Pat Twohill) e Jim (Chips Rafferty), ad esempio con il gioco delle monete truccate con cui imbrogliano spudoratamente gli abitanti locali. Gli australiani sono infatti tratteggiati nella loro vera natura piuttosto schietta, come si evince dal linguaggio particolarmente colorito per l’epoca. Pare che un giovanissimo Clint Eastwood si fosse recato con i genitori a vedere il film, quando uscì in America. La famiglia Eastwood, al sentire i soldati australiani esclamare senza alcun ritegno damn! o hell!, imprecazioni all’epoca non così comuni al cinema, uscì presto dalla sala. 

Il buon Clint ritornò successivamente da solo, certo per gustarsi, oltre al colorito linguaggio, anche la sana avventura contenuta nell’opera. O forse anche lui fu ghermito dal carisma della vera protagonista del film, la fulgida Betty Bryant nei panni di Juliette, la francesina che flirta con Red. Questi, interpretato da quel Grant Taylor che abbiano detto essere la star di cartello dell’opera, è in realtà surclassato dalla presenza scenica della Bryant e del suo personaggio. Una cosa di cui dovevano essere consapevoli anche gli autori del soggetto, visto che Juliette, nel racconto, cava un paio di volte il militare dai guai, rovesciando il cliché che vede il cavaliere salvare la damigella. Nel farlo, spesso Juliette si camuffa per sembrare un ragazzo (cosa su cui scherza pure con Red), in un modo che, se vogliamo, interpreta lo spirito del film. Ovvero, il travestimento della ragazza è abbastanza riuscito per farci ritenere che sia credibile nel film, ma non è certo in grado di ingannare lo spettatore, visto che lascia ben apprezzabili le grazie anatomiche della giovane. Insomma, dopo l’ottima interpretazione e la superba presenza scenica, rimane un unico rammarico a proposito di Betty Bryant in Quarantamila cavalieri: durante il tour promozionale del film si innamorò e sposò uno dei manager della MGM e la sua carriera ebbe sostanzialmente termine. E dire che il regista del film Charles Chauvel era convinto di aver lanciato l’Errol Flynn in gonnella!



Betty Bryant





Galleria