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venerdì 28 luglio 2023

TUTTO TOTO' - LA SCOMMESSA

1319_TUTTO TOTO' - LA SCOMMESSA . Italia1967; Regia di Daniele D'Anza.

Un Totò timido e impacciato con le donne è perlomeno una novità che permette di far guadagnare qualche punto in tema di curiosità al quinto episodio della serie di film televisivi Tutto Totò. Daniele D’Anza cura la discreta regia, su un soggetto dello stesso Antonio De Curtis – vero nome di Totò – in collaborazione con Bruno Corbucci che, a quanto risulta, è del tutto originale e non ripropone qualcosa della sterminata carriera del Principe della Risata. In effetti Oberdan, il personaggio interpretato da Toto’ in questo La scommessa, è un ruolo atipico per il comico napoletano e pare quindi logico che le gag di cui si rende protagonista siano state da inventare di sana pianta o quasi e non riprese dalle sue opere di avanspettacolo o da qualche film, come d’abitudine per questi sceneggiati. Salta subito all’occhio la timidezza di Oberdan, che viene fatto oggetto di scherno dalle colleghe di lavoro nell’ufficio in cui lavora. Tra queste vale la pena segnalare Ivy Holzer anche se, dal punto di vista della presenza scenica femminile, il film è dominato da Luisella Boni nel ruolo della signora Bianca. La donna è la moglie di Giulio Cesare (Mario Pisu), avvocato nel cui studio Oberdan è il tuttofare: vedendo quanto questi è imbranato con il gentil sesso, i due coniugi decidono di fare una scommessa, quella del titolo, alle spalle del povero impiegato. Giulio Cesare sostiene che nemmeno Bianca, donna bellissima, riuscirebbe a far uscire di casa per una cena galante Oberdan; naturalmente la moglie accetta la sfida. Oberdan e il suo confessarsi signorino, i duetti con Walter Chiari, nel ruolo di sé stesso, e Mario Castellani, in quelli del maître, sono considerati i punti di forza del racconto. Una recitazione un po’ più curata – Castellani a parte, mentre perfino Totò non è del tutto convincente – avrebbe comunque giovato. 

Luisella Boni 

Ivy Holzer 

mercoledì 26 luglio 2023

URLATORI ALLA SBARRA

1318_URLATORI ALLA SBARRA . Italia, 1960; Regia di Lucio Fulci.

L’anno successivo a I ragazzi del Juke-Box, Lucio Fulci rincara la dose di irriverenza polemica con Urlatori alla sbarra dove dà pienamente voce alla protesta del movimento musicale giovanile italiano. La formula scelta da Fulci riprende e rilancia il discorso del primo musicarello del cinema italiano, il suo citato precedente in materia: i contenuti narrativi, già scarsi ne I ragazzi del Juke-Box, sono ulteriormente rarefatti e si lascia ancora più spazio alle canzoni. Sono ben ventuno i pezzi che sorreggono il film che, diversamente, non avrebbe praticamente alcun sostegno. La sferzante satira di Fulci, aiutato in sede di scrittura da Pietro Vivarelli, Vittorio Vighi e Giovanni Addessi, è sguinzagliata a briglia sciolta e prende di mira i benpensanti italiani, soprattutto una certa frangia politica avvezza a predicare bene e razzolare male, badando in prima istanza ai propri interessi e al quieto vivere. Della protesta giovanile è, in qualche modo, apprezzata la spontaneità, sebbene sia evidenziato come venga abilmente pilotata dal mercato, nello specifico un’azienda produttrice di Blue Jeans interessata unicamente al profitto. La cosa è resa esplicita dal timore manifestato per la presenza di jeans prodotti nel Caucaso alla Festa dell’Unità di Gallarate, che potrebbe minacciarne il monopolio. E la scena nel finale, con Giommarelli (Mario Carotenuto) bacchettato dai senatori del suo partito che sfoggiano i jeans, è un ulteriore amara previsione degli autori: la classe dirigente della società, quando coglierà l’opportunità di ricavarci un profitto, smetterà di ostacolare i contestatori e ne assumerà usi e costumi. 

La presenza di Carotenuto, nella parte del dirigente bacchettone, unita a quella di Elke Sommer in quelli di sua figlia che si batte sull’altra sponda, è un palese rimando a I ragazzi del Juke-box – la Sommer ha il nome del personaggio perfino identico, Julia – quasi a rimarcare che la trama è volutamente trascurata. Tra le canzoni, la parte del leone, soprattutto rivedendo il film oggi, spetta a Adriano Celentano: il molleggiato spara a raffica Il tuo bacio è come un Rock, Rock Matto, Nikita Rock, Impazzivo per te e Blue Jeans Rock, suonate con vigore e notevole presenza scenica. Molto bene anche un’irriconoscibile Mina, capelli corti e look molto sixty: Vorrei saper perché, Nessuno, Whisky e la celeberrima Tintarella di luna, mentre Chet Baker condisce la sua ironica partecipazione con la splendida Arrivederci. I Brutos in mezzo ad un gregge di pecore tengono fede al proprio nome con una spassosa interpretazione di Io e Brivido blu e anche Gianni Meccia la mette sul ridere con la sua Soldati delicati. A Joe Sentieri, che tra le altre canta Milioni di scintille, viene dato grande spazio dal punto di vista musicale, ma sembra oggi più datato così come Brunetta e la sua Precipito. Non deve sorprendere che suoni più attuale, almeno in chiave ironica, Carina di Corrado Lojacono, un pezzo di grande successo degli anni Cinquanta, che nel film è probabilmente inserita, al contrario, come residuato di musica d’altri tempi. Ma è il rischio che si prende quando ci si schiera per partito preso, sposando una teoria in toto. Un rischio che Fulci, che dirige il suo film gettandocisi a capofitto e correndo come un matto, si prende per intero. Ma che, tutto sommato, paga.    




Elke Sommer 






Mina 


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lunedì 24 luglio 2023

LE TRE SCIMMIE

1317_LE TRE SCIMMIE (Üç maymun)Turchia, Francia, Italia, 2008; Regia di Nury Bilge Ceylan.

L’Antonioni turco è l’ingombrante paragone che ha accompagnato il regista Nuri Bilg Ceylan al Festival di Cannes del 2008, dove Le tre scimmie si guadagnò la Palma d’oro per la miglior regia. E, guarda caso, il punto iniziale dell’analisi del suo film finisce per essere quasi sempre se il riferimento al grande regista italiano sia legittimo. Il dubbio sollevato è che il lavoro di Ceylan sia piuttosto un po’ di maniera, che il cineasta turco ricerchi l’approvazione della critica con una messa in scena affidata a riprese spesso fisse e monotone nel tentativo di darsi un tono autoriale. Può essere, tuttavia Le tre scimmie, con le sue immagini sudaticce, i colori caldi e pastosi, la diffusa indolenza visiva, un suo fascino ce l’ha. Visivamente non è un brutto film, Le tre scimmie, e anche il presunto schematismo della trama, con la richiesta che qualcuno paghi un crimine al posto di un altro dietro compenso di denaro che si ripete all’inizio e alla fine del racconto, è meccanismo narrativo legittimo e buono come un altro. Eppure qualcosa effettivamente manca, a Le tre scimmie, per potersi dire un film davvero riuscito, convincente. Le tre scimmie del titolo sono tanto quelle del motto illustrato in cui una non vede, l’altra non sente e la terza non parla, quanto i tre personaggi della famiglia al centro del racconto. Il padre, Eyüp (Yavuz Bingöl) è l’autista di un politico; Hacer (Hatice Aslan) è la sua non più giovanissima ma bella moglie e il giovinastro Ismail (Ahmet Rifat Şungar) l’inconcludente figlio: a loro modo, nell’arco del film, faranno, in un certo senso, voto di omertà proprio come le scimmiette. 

A dare il là alla storia è Servet (Ercan Kesal), l’uomo per il quale abitualmente Eyüp lavora: durante una notte in cui il politico è al volante, investe qualcuno che rimane sull’asfalto senza vita. Ma le elezioni incombono e Servet non può assumersi una simile responsabilità, la sua carriera politica ne uscirebbe distrutta. Ecco quindi la proposta indecente che il brillante individuo sottopone a Eyüp: sei il mio autista, prendi tu la colpa, fatti un anno scarso di galera e ne esci con un bel gruzzolo in cambio. Eyüp, manco a dirlo, accetta, che la sua famiglia non naviga certo nell’oro. Ma la condizione economica, concettualmente, è una giustificazione debole, sia chiaro. Questo è l’incipit della storia, al che la situazione legittima la messa in scena stagnante di Ceylan che, di maniera o meno, ha però un valido pretesto narrativo alla base. Eyüp è al fresco, e non può far altro che aspettare la fine della pena; Ismail, che non ne combina una giusta, non vede l’ora che arrivino i soldi che il padre riceverà in cambio della galera, per dare un impulso ai suoi affari. Niente di che, sia chiaro: vuole fare l’autista per i bambini della scuola, ripercorrendo quindi le orme del padre, e anche questo indica che la storia non fa che tornare sui propri passi. In ogni caso gli serve un’auto, per fare ciò; ma perché aspettare la fine della pena? 

Servet potrebbe sganciare un anticipo, in fondo lui ha beneficiato subito dell’affare. Per la verità, pare di no; sembra proprio che la campagna elettorale sia andata male quindi tutto sto beneficio non c’è stato. Comunque queste cose a Ismail non interessano, a lui interessano solo i soldi. E frequentare gente brutta mentre aspetta di metterci le mani sopra. Così una sera torna a casa malconcio, pestato a sangue e Hacer, che fin lì l’aveva spronato a darsi una svegliata, si lascia sopraffare dal cuore di mamma. Andrà lei da Servet a batter cassa; ma senza dirlo a Eyüp che, visto che sta pagando di persona standosene in gabbia, gradirebbe certamente gestire lui le gratificazioni economiche conseguenti. Ovvio che Servet non è che faccia i salti di gioia nel vedere la moglie del suo autista: deve pagare un favore da cui non ha ricavato quanto sperato e con Eyüp ancora dietro le sbarre si era probabilmente illuso di rimandare la chiusura della questione. Sul momento liquida la donna, poi però la guarda meglio e rivede i suoi conti: Hacer è una bella donna, in ogni caso il debito lo deve pagare ma farlo ora, con l’autista fuori gioco, potrebbe avere dei risvolti piacevoli. 

Hacer, dopo un certo riverenziale imbarazzo, ci prende gusto, anche troppo secondo gli intendimenti di Servet. Perché l’uomo, da buon politico, intende solamente sfruttare al meglio l’occasione e non certo impelagarsi in una torbida storia sentimentale di tradimenti. Un personaggio squallido, certamente; ma non l’unico della vicenda, anzi. Ed è qui che il film di Ceylan perde la sua partita, non tanto per le pretese autoriali più o meno degnamente supportate dalla qualità del suo film. Le tre scimmie non è un film memorabile perché non c’è nessun personaggio che sia umanamente degno di nota. In effetti il regista ne dev’essere consapevole, se ha scelto un titolo in cui paragona i suoi protagonisti ai simpatici animaletti della storiella metaforica. Riassumendo: Eyüp, nell’accettare di pagare per un crimine non suo, si mette moralmente sul piano di chi quel crimine l’ha commesso, Servet. Non ha caso, nel finale, proverà a rifilare la patata bollente causata dal figlio ad uno più disperato di lui, in una ripetizione dell’insano gesto, pagare qualcuno per evitare di assumersi le proprie responsabilità, che non lascia alcun presagio ottimistico. Hacer sembra una brava donna, ma solo perché è inquadrata in un sistema che non gli concede libertà; casalinga, moglie, madre. 

Ma appena le capita una mezza tentazione, perde completamente la testa come una ragazzina. Il peggiore del mazzo è comunque Ismail che, alle carenze morali ereditate dai genitori, assomma una sfacciataggine e una mancanza del minimo senso di responsabilità e di rispetto, assolutamente disarmanti. Sullo schermo il momento peggiore gli spetta di diritto ed è quando schiaffeggia sua madre perché ne ha scoperto la tresca con Servet. In un piccolo gesto, una mancanza di rispetto molteplice: nei confronti di sua madre, di una donna, di una persona più anziana di lui oltre che di qualcuno che, se ha sbagliato, lo ha fatto anche e soprattutto in conseguenza delle sue insistenze. Se invece prendiamo come valore assoluto del gesto in sé, ovviamente, l’assassinio di cui si rende protagonista supera di gran lunga la vigliaccheria dell’omicidio stradale commesso da Servet in apertura. Lui riesce ad essere il peggiore per distacco in un quadro che non offre nessun appiglio positivo. D’accordo che al cinema oggi si trovano abitualmente storie senza eroi tutti d’un pezzo, e ci mancherebbe, ma almeno l’ombra di umanità capita di intravvederla. E, a proposito di ombre, può venire il dubbio che il fantasma del fratellino di Ismail, morto ancora bambino, quando appare a Eyüp, voglia spronarlo a cercare nel passato l’umanità da tempo perduta. E forse per questo che l’uomo trova in qualche modo la maniera di perdonare la moglie dopo che, in una delle sue visioni, la donna si era buttata da un ponte. Senso di colpa: toh! un barlume d’umanità. L’unico nel film. Peccato sia venuto ad uno spettro.  


Hatice Aslan 





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sabato 22 luglio 2023

CHI VUOLE UCCIDERE MISS DOUGLAS?

1316_CHI VUOLE UCCIDERE MISS DOUGLAS? (The Seduction)Stati Uniti,1982; Regia di David Schmoeller. 

La bellissima protagonista, Jamie Douglas (Morgan Fairchild al massimo splendore), entra nella sua camera completamente assorta nella lettura di una missiva e comincia a spogliarsi. Chi vuol uccidere miss Douglas? – titolo italiano un po’ fuorviante per il bel film di David Schmoeller – è già arrivato circa a metà del suo percorso; Derek (un untuoso Andrew Stevens) è lo stalker di Jamie e si è furtivamente introdotto nell’abitazione della sua vittima, ed ora è nascosto nell’armadio. Sul tavolo da trucco ha lasciato un significativo ricordo: un carillon che aveva regalato alla ragazza, e che lei aveva gettato via rompendolo, con inserita una foto di Jamie, dopo averne strappato via l’immagine del fidanzato. Derek vuole godersi il momento in cui Jamie troverà il carillon, scoprendo che il suo molestatore è stato lì, nella sua camera da letto. Anche se, stando alla citata Sindrome di De Clerambault, più che uno stalker, il ragazzo si ritiene uno spasimante che miss Douglas lascia semplicemente sospirare un po’ troppo prima di concedersi. In ogni caso è convinto che, una volta rotto il ghiaccio, Jamie non potrà che accettare di buon grado il fatto che siano fatti uno per l’altra. Intanto la bella annunciatrice televisiva continua a spogliarsi, tiene gli occhi sulla lettera e non si accorge del regalo di Derek posato sul tavolo della specchiera. Come accennato, la Fairchild nel 1981 era la perfezione fatta bellezza, e il povero Derek chiuso nell’armadio ha il suo bel daffare per resistere allo spettacolo. 

Quando ecco che Jamie si avvicina all’anta e Derek si schiaccia contro la parete della cabina armadio per non essere visto, letteralmente terrorizzato. Chi vuol uccidere miss Douglas? è del 1982 e non è certo la prima volta che sullo schermo viene mostrata la natura debole di chi poi finisce per ricorrere alla violenza però nel film di Schmoeller queste dinamiche emotive sono visibili in modo esemplare. Merito di Andrew Stevens, che fornisce uno stalker viscido ma, a suo modo, si potrebbe quasi dire sincero; ma la funzionalità del film si fonda soprattutto sulla prestazione di Morgan Fairchild, all’epoca addirittura nominata ai Golden Raspberry Awards come peggior attrice e peggior nuova stella. In realtà Morgan è semplicemente perfetta e non solo dal punto di vista anatomico. Anzi, un po’ a sorpresa, se l’attrice se la cava con disinvoltura nelle scene in cui deve interpretare la ragazza bella e di successo – come accennato è un’annunciatrice del telegiornale e vive nel suo mondo da favola tipico di Hollywood Hills – è quando viene presa di mira dal molestatore che fornisce una prestazione super. Dapprima cerca di dissuadere con gentilezza Derek, poi si fa sempre più decisa ma, contemporaneamente, comincia a venirle qualche dubbio su come scoraggiare l’impertinente corteggiatore. Il fidanzato Brandon (Michael Sarrazin), perde invece ragionevolmente in fretta la pazienza, a fronte delle continue insistenze di Derek; ma Jamie non vuole ricorrere alla violenza, sebbene si mostri sempre più turbata. Il clima di tensione si alza, si arriva alla citata scena con l’intrusione dello stalker in casa della Douglas che finisce con una lezione a suon di cazzotti di Brandon nei confronti di Derek. 

Che, peraltro, non si scoraggia, anzi. Con Jamie sempre più sotto pressione, il fidanzato giornalista si rivolge all’amico Maxwell (Vince Edwards), un ufficiale di polizia. Il quale, però, non può fare molto, visto che, all’atto pratico, Derek ha fatto ben poco di illegale, al di là della violazione di domicilio. Prima di perdere a sua volta la pazienza, ma nei confronti di Brandon che insiste per avere protezione per Jamie, Maxwell consiglia comunque l’amico di procurarsi un’arma da fuoco. Questo passaggio sembra, in effetti, un tantino forte ma la storia si sofferma a spiegare meglio il punto di vista del poliziotto: non è una legittimazione ad andarsene in giro armati, in sostanza, ma l’unica soluzione a fronte di una violenza dilagante che le forze dell’ordine, per loro natura, non possono più contenere. Il che è certo un punto di vista discutibile, in quanto la violenza è sempre da condannare, ma, va riconosciuto, le argomentazioni di Maxwell non sono campate per aria. Nel complesso la questione non è affrontata grossolanamente o con superficialità, perché c’è anche l’atteggiamento della Douglas che, dall’alto della sua patinata esistenza, si proclama assolutamente contraria ad ogni forma di reazione violenta agli attacchi del molestatore. La Fairchild finora ha viaggiato ancora sul velluto: l’espressione di non volersi abbassare al livello di un violento, rende bene l’immagine di una donna che vive un’esistenza d’orata e può, in un certo senso, permettersi idee condivisibili ma un filo utopistiche. 

In seguito, quando il gioco si fa davvero duro, l’aspetto elegante e raffinato di Morgan è perfetto per incarnare la vittima ideale di uno stupratore e, in effetti, le prime reazioni di miss Douglas rispettano il cliché della damsel in distress. Ma, a più riprese, e con sempre maggior vigore, Jamie tira fuori un nerbo insospettabile, che la Fairchild è strepitosa nel rendere sullo schermo – alla faccia di qualunque giudice dei razzie awards – e il film sale ulteriormente di tono. Seppure si sia ormai capito che Derek abbia una posizione di debolezza, enfatizzata dall’impotenza del giovane quando Jamie provocatoriamente lo sprona ad andare fino in fondo, la pericolosità dello stalker, legata proprio a questa sua debolezza interiore, non viene affatto sminuita. Sarà solo il puntuale intervento di Julie (Wendy Smith), ragazza infatuata di Derek, a chiudere il conto al molestatore con il fucile a canne mozze usato in precedenza dalla Douglas. 

Proprio la Fairchild, che imbraccia l’arma da fuoco con risolutezza, è uno dei passaggi topici del film; quasi quanto la scena in cui ribalta il suo violentatore nel letto e lo mette a mal partito. Chi vuol uccidere miss Douglas? è un buon thriller, e sicuramente non è, come invece lo accolse la critica al tempo, unicamente l’occasione per vedere le grazie senza veli di Morgan Fairchild. Certo, Morgan si spoglia, fa il bagno nuda, si pettina più volte i vaporosi platinati capelli e tutte quante queste cose in genere sottolineate in senso negativo. Ma nel film non sono solo un pretesto per convincere il pubblico a pagare il biglietto ma parte del tema affrontato. Perché la verità è che il messaggio erotico legato alla bellezza aveva raggiunto, negli anni Settanta, già livelli altissimi, e il desiderio che ne derivava poteva dar luogo con sempre maggior frequenza a fenomeni come le molestie, gli approcci pesanti quando non direttamente la violenza dello stupro. 

Non che in epoche passate non ci fossero tali problemi, sia chiaro; soltanto che ora spesso saltava fuori la questione, utilizzata come attenuante quando non come giustificazione della violenza, della provocazione legata all’ostentazione di messaggi erotici attraverso l’uso di abiti succinti e cose di questo genere. Il film di Schmoeller, che mette in posizione vulnerabile una donna che fa del suo bell’aspetto il suo biglietto da visita anche professionale, ben fotografa questa possibile deriva. Quello che emerge è però che non ci sono alibi che reggano: anche un personaggio pubblico che ostenta la sua bellezza e sfrutta, mettiamola così, a suo vantaggio il desiderio che questa veicola, ha i suoi diritti privati e il fatto che possa risultare eccitante non giustifica nessuna molestia. E se questo riguarda una donna dall’aspetto sempre curatissimo come Morgan Fairchild, figuriamoci tutti gli altri possibili scenari. Il film non è che abbia la pretesa di fornire una soluzione, ma c’è perlomeno una cosa che sorprende positivamente. E non è legata all’uso per difesa delle armi da fuoco, che nel film è abbastanza controversa e tirata in ballo prevalentemente a scopi narrativi; quello che stupisce in Chi vuole uccidere miss Douglas? è la vigorosa reazione della protagonista. Nelle riflessioni che il bel personaggio interpretato dalla meravigliosa Morgan, medita tra sé e sé, appare chiaro che farsi valere non è tanto un diritto delle donne, quanto un dovere di ognuno. E il fatto che a risolvere la questione sia Julie, ne è l’ulteriore conferma: tutti dobbiamo combattere la violenza, anche chi non la subisce direttamente. 



Morgan Fairchild 

















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