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sabato 22 aprile 2023

IL BIANCO PASTORE DI RENNE

1261_IL BIANCO PASTORE DI RENNE (Valkoinen Peura). Finlandia, 1952; Regia di Eric Blomberg.

Spesso spacciato per horror, Il bianco pastore di renne è propriamente un film fantastico, anzi un film legendaire, per attenerci alla definizione del premio con cui al festival di Cannes l’opera venne premiata. In effetti il primo lungometraggio di Erik Blomberg non è che faccia tutta questa paura ma certo lascia a suo modo stupefatti. Per la storia, naturalmente – pare ispirata a vecchie leggende del popolo lappone – sebbene, in fondo, gli aspetti fantastici in sé siano la parte meno interessante dell’opera. Certo, non capita tutti i giorni di vedere una sorta di renna mannara ma la questione che trasforma la protagonista Pirita (Mirjami Kousmanen: favolosa, è proprio il caso di dirlo) in una strega mutaforma è abbastanza tipica delle storie dell’orrore. La donna, non si sa bene perché, si reca dallo sciamano e, in cambio della risoluzione dei propri problemi d’amore, viene trasformata in strega. Che problemi di cuore potesse avere una sventola come la Kousmanen non è dato sapere, ma forse a trubarla era solo il fatto che il marito Aslak (Kalervo Nissirla), commerciante di renne, si assentava per lungo tempo durante i trasferimenti dei branchi di animali. Tuttavia il racconto non si dilunga in nessun tentativo di spiegazione – e questo, trattandosi di una storia soprannaturale, è anche apprezzabile – e punta forte sugli scenari innevati di grande suggestività e sul magnetico fascino della Kousmanen. Il finale tragico – e non potrebbe essere diversamente – chiude una storia che, sebbene sia prevedibile, ha una sua indiscutibile efficacia. Merito anche della colonna sonora con i canti tipici oltre che della solida mano in regia di Blomberg, particolarmente abile nella resa fotografica degli scenari lapponi. La desolata landa finlandese abbondantemente innevata è forse la vera protagonista del racconto sebbene la fulgida Mirjami Kousmanen non tema confronti in tema di fascino. Un’opera interessante e di piacevole visione: un cinema semplice ed efficace, a suo modo insolito.   




Mirjami Kousmanen








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giovedì 20 aprile 2023

IWO JIMA - DESERTO DI FUOCO

1260_IWO JIMA - DESERTO DI FUOCO (Sands of Iwo Jima). Stati Uniti, 1949; Regia di Allan Dwan.

In oltre 400 film, Allan Dawn non riuscì sostanzialmente mai a centrare un’opera che sia considerata un capolavoro; tuttavia Iwo Jima, deserto di fuoco ebbe perlomeno un eccellente riscontro al botteghino oltre a permettere al protagonista John Wayne (nel ruolo del sergente Stryker) la candidatura al premio Oscar. In effetti il film di guerra del 1949 può essere considerato un valido esempio del cinema di Dawn: semplice ed efficace. Forse persino troppo semplice, per qualcuno, visto che la pellicola, effettivamente zeppa di cliché, venne a volte lei stessa definita ‘un enorme cliché’ anche nel suo essere un’evidente opera di smaccata propaganda. Il che, da un certo punto di vista, agevola la funzionalità del racconto, perché tutto quanto è oliato e lubrificato alla perfezione dalla retorica postbellica, scivolando via che è una bellezza. Per un racconto di grande drammaticità potrebbe sembrare oggi poco opportuno: ma è l’effetto patriottico inevitabilmente intrinseco alla vicenda unito alla sapiente capacità di Hollywood di rendere perfino la guerra uno spettacolo d’intrattenimento. Tra l’altro, va tenuto in conto il preciso momento storico di produzione del film, poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Dawn, proprio in ossequio all’attendibilità estetica del cinema americano, si premura di rendere il suo film formalmente credibile: l’utilizzo del bianco e nero permette, ad esempio, di utilizzare spezzoni delle storiche riprese video d’epoca che si inseriscono nel lungometraggio con buona coerenza visiva. L’attenzione ad alcuni dettagli, dalla sabbia nera di origine vulcanica di Iwo Jima alla famosa scena in cui viene issata la bandiera a stelle strisce sul monte Suribachi, è un altro elemento in tal senso. 

Così come il cameo dei tre superstiti del gruppo che finirono immortalati nella celeberrima fotografia di Joe Rosenthal – John Bradley, Rene Gagnon e Ira Hayes – sembra un omaggio della Produzione ai veri eroi di guerra che alimenti la vena patriottica dell’opera. Da parte sua John Wayne, nei panni di un burbero sergente dal cuore d’oro, lascia da parte certi aspetti meno limpidi del suo carattere attoriale che maestri come John Ford o Howard Hawks erano bravi a mettere in luce, per mostrare unicamente il suo lato eroico. Il Duke di Iwo Jima, deserto di fuoco è il perfetto esempio dell’eroe hollywoodiano, laddove il suo lato ‘meno tenero’ è evidentemente una forma di pudore virile facilmente intuibile da qualunque spettatore. Il sergente dai modi spicci e rozzi ma dall’animo gentile è uno cliché tra i più risaputi e solo la capacità spontanea e, a suo modo, ingenua di recitare di Wayne riesce a rendere Strike un personaggio credibile. 

Anche il rapporto con il soldato Conway (John Agar), è piuttosto semplice e risaputo: Stryker era stato sotto il comando del padre del ragazzo e nutriva grande ammirazione per il comandante Conway con il quale condivideva molte idee. Il soldato Conway contestava, al contrario, l’integralismo del padre e, di conseguenza, anche l’atteggiamento patriarcale di Stryker. La critica all’insofferenza giovanile che, in quei tardi anni Quaranta, cominciava a serpeggiare evidentemente in America, è fin troppo scoperta e solo la bravura degli attori unita alla capacità narrativa di Dawn, permette di soprassedere su questi elementi quasi banali e godersi la storia. Che di suo è molto coinvolgente, visto che si tratta di uno degli snodi bellici più importanti della Seconda Guerra Mondiale, perlomeno sulle sponde dell’Oceano Pacifico. Inoltre, come da manuale del cinema bellico, l’esperto regista si affida ad un gruppo di personaggi tutti ben tratteggiati che istaurano, con lo spettatore, un clima di empatia quasi famigliare. Ben presto impariamo a conoscere Randazzo (Wally Cassell), Thomas (Forrest Tucker), Bass (James Brown), Dunne (Artur Franz), con quest’ultimo nei panni di narratore, un altro cliché funzionale in questo tipo di racconti che Dawn non si lascia sfuggire. C’è anche una traccia sentimentale, con Conway che, in pochi minuti, conosce, si innamora e sposa la deliziosa Allison che Adele Mara riesce, anche in questo caso, a rendere tanto prevedibile – è bella, bionda, disponibile – quanto, all’interno di un film hollywoodiano, coerente. Insomma, anche volendo, è difficile non apprezzare Iwo Jima, deserto di fuoco: un film che andrebbe forse rigettato per intero, in virtù del suo essere un mix di propaganda post-bellica – e, quindi, in un certo senso, peggiore anche della propaganda bellica, che almeno ha la scusante dell’urgenza di una guerra da vincere – e già perfetto esempio della propaganda imperialista successiva. E rinunciare così al John Wayne più John Wayne della Storia del cinema? Ma nemmeno per sogno.      










Adele Mara




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martedì 18 aprile 2023

TUTTO TOTO' - IL GRANDE MAESTRO

1259_TUTTO TOTO' - IL GRANDE MAESTRO . Italia, 1967; Regia di Daniele D'Anza.

Dopo i due positivi primi episodi, la serie di film televisivi Tutto Totò segna un po’ il passo con il terzo appuntamento. Il grande maestro è divertente, sia chiaro; il Principe della Risata ne ha ancora e, sia Bruno Corbucci in sede di scrittura, sia Daniele D’Anza in regia, sono assolutamente professionali. Eppure si avverte una certa mancanza di brio, forse anche dettata dall’età e dalle condizioni di salute del comico napoletano. Il film verte sull’unione di due differenti plot narrativi, aggiustati alla bisogna dalla sceneggiatura di Corbucci e dallo stesso Totò. Nella prima fase, piuttosto prevedibile, siamo in casa Stonatelli dove Mardoccheo (Totò) è un aspirante compositore musicale che si crede incompreso, a cominciare dalla moglie (Giusi Raspani Dandolo) che non lo sopporta più. Le gag sono un poco scontate sebbene Totò riesca comunque a renderle digeribili. Nella seconda parte, quando Stonatelli si reca a Roccacannuccia per dirigere un concerto, la storia si fa un filo più vivace. Il piatto forte dell’intero film è costituito dall’equivoco per cui l’unica camera di passaggio del locale albergo, è affittata contemporaneamente a tre persone diverse. Insieme a Stonatelli, a cercare di dormire nel letto sistemato nell’atrio del hotel, troviamo Gennaro (Mario Castellani) e il febbricitante Ercole (Ernesto Calindri). Totò, Castellani e Calindri rappresentano un bel tris d’assi e in effetti le scenette sono gustose; ma nulla più. La presenza femminile di bell'aspetto non manca nemmeno stavolta, e con Totò come potrebbe?  Prima di chiudere, non rimane quindi che ricordare l'avvenente Valeria Fabrizi nel ruolo della cameriera, prevedibile ma indiscutibile punto a favore del film.        



Valeria Fabrizi 


Copertina alternativa

domenica 16 aprile 2023

SQUILLI AL TRAMONTO

1258_SQUILLI AL TRAMONTO (Bugles in the afternoon). Stati Uniti, 1952; Regia di Roy Rowland.

Gli anni Cinquanta rappresentano per il western una vera età dell’oro: questo era dovuto sia ai tanti capolavori che nobilitarono il genere in quel periodo, sia al significato che lo stesso genere assunse. L’onda potente della Golden Age western ebbe un effetto benefico un po’ su tutto il genere, tanto che opere come Squilli al tramonto di Roy Rowland, che per meriti propri potrebbe anche passare inosservata, riesce a fare una discreta figura. Merito della fotografia calda di Wilfrid M. Cline o della musica di Dimitri Tiomkin, e forse anche della regia discreta di Roy Roland, o magari più in generale della Produzione, fatto sta che, come confezione formale, Squilli al tramonto può essere considerato, se non un vero classico, almeno un B-Movie di lusso. Tra gli interpreti, i caratteristi Forrest Tucker, Barton McLane, James Millican, tra gli altri, garantiscono un valido supporto recitativo; Sheb Wooley è chiamato ad una sorta di cameo per impersonare nientemeno che il Generale Custer mentre è altresì interessante la presenza nel cast dell’attore nativo John War Eagle nel ruolo di Red Owl, il capo indiano. Meno lineare è la situazione dei tre protagonisti del triangolo amoroso che sorregge tutta quanta la vicenda, mettendo addirittura sullo sfondo una pagina storica del livello della battaglia del Little Big Horn, quella in cui morì Custer, per intenderci. Il protagonista principale è Ray Milland nel ruolo del Sergente Shafter. Milland non era propriamente un attore western; inoltre, pur avendo solo 45 anni – a quell'età ad Hollywood sei ancora un ragazzo – appare troppo imborghesito per il ruolo di corteggiatore di una giovane donna come Helena Carter negli eleganti panni di Josephine. La Carter, per quanto un filo troppo impettita, è una delle sorprese positive del film, per portamento elegante e presenza scenica. A chiudere il triangolo troviamo Hugh Marlowe a dar vita al villain della vicenda, il capitano Garnett: Marlowe non sembra però avere né la tempra per reggere il ruolo del cattivo, né la stoffa per fronteggiare Milland che, tra l’altro, oscilla tra l’aria borghese e un che di inquietante che mette abbastanza soggezione. La vicenda melodrammatica, in ogni caso, non carbura a dovere e questo non giova certo alla visione del film che tuttavia riesce a cavarsela ricorrendo ai classici cliché western. Che, si è detto, negli anni Cinquanta erano davvero trainanti. La questione narrativa verte sul fatto che tra Shafter e Garnett c’era della antica ruggine e ora che si sono ritrovati, i due non intendono affatto dimenticare il passato. Oltretutto la presenza di Josphine, contesa dai due rivali, alimenta l’ostilità reciproca. Le beghe tra la coppia di galletti mettono in secondo piano anche lo scontro con gli indiani che sarà fatale a Custer ma va detto che alcune belle scene di battaglia aiutano, e non poco, la visione. Alla fine tutto si aggiusta; a parte Custer e i suoi uomini che ci lasciano le penne; ma in Squilli al tramonto è poco più che un dettaglio.   



Helena Carter 




Gelleria di manifesti