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mercoledì 23 novembre 2022

STAZIONE CENTRALE

1167_STAZIONE CENTRALE (Bab el hadid). Egitto 1958;  Regia di Youssef Chahine.

Esempio tra i più importanti del cinema egiziano, Stazione Centrale fornisce uno spaccato folgorante sulla realtà del paese africano dell’epoca, i tardi anni Cinquanta. L’ambientazione, il film è interamente girato nella principale stazione dei treni del Cairo, l’atmosfera, la vita che vi si respira, sono tipicamente egiziane. Ma, da un punto di vista cinematografico, non mancano le influenze internazionali. Nell’impostazione, il neorealismo italiano è richiamato per l’umile ma vivace quotidianità con i protagonisti che si ingegnano come possono per riuscire a campare. Su questa base si innesta una traccia che si rifà al noir, o a certi crime movie con echi espressionisti, con il protagonista, lo zoppo Quinawi (interpretato dallo stesso regista Youssef Chahine) che passa da disperato compatito da tutti ad individuo minaccioso e pericoloso. L’interazione tra queste due anime del film è progressiva, visto che da subito, da quando vediamo la baracca di Quinawi adornata con decine di foto di ragazze discinte, si può intuire che il povero zoppo non ha soltanto problemi alla gamba. In caso contrario, in fondo appendere le foto non è mica un crimine, ci pensa il narratore del film, il giornalaio, a chiarire che il nostro protagonista è ossessionato in modo anomalo e malato dalle donne. Comunque, sul momento, possiamo senza sforzo condividere la compassione che un po’ tutti hanno per Quinawi; qualcuno lo prende anche in giro, del resto la storia è ambientata in una stazione dei treni e non in un convento di frati. La prima a non prenderlo troppo sul serio è la bella Hannuma (nientemeno che Hind Rostom, la Marylin Monroe d’Oriente); d’accordo, forse non sarà la prima in ordine di tempo ma certamente la sua opinione è quella più rilevante, dal momento che Quinawi se ne innamora presto. 

La scatenata ragazza, che vende bibite clandestinamente sui treni e ovunque si possa, è però già promessa sposa a Abu Siri (Farid Shawwqi), un fattorino con ambizioni sindacaliste. Il ritmo narrativo è indiavolato, sorretto dalle scorribande di Hannuma e delle sue compagne, che vengono vanamente inseguite dalle autorità che cercano di proibire l’abusivismo. Hind Rostom e le altre attrici, in queste scene, non lesinano a mostrare le proprie grazie e, se pensiamo alla situazione attuale in Egitto, certo fa specie osservare cosa si poteva vedere al cinema oltre mezzo secolo fa. Intanto Quinawi, anche per via dell’esuberante sensualità della ragazza, è sempre più preso da Hannuma e si dichiara: la giovane non gli ride in faccia, questo no, ma non è che lo prenda troppo sul serio. 

L’uomo ci rimane male di brutto e la trama noir, a questo punto, prende il sopravvento. C’è un passaggio tremendo, a questo punto: Hannuma scorge Quinawi che la fissa in modo sinistro, senza proferire verbo; la ragazza gli offre una bibita, per cercare di stemperare la tensione. L’uomo alla fine accetta il rinfresco ma non sembra aver smesso i suoi bellicosi, eccessivamente bellicosi, propositi. Ora, grazie anche ad un lavoro in sede di sceneggiatura costruito con impegno, la trama ci porta a sfiorare la tragedia, poi il lieto fine si ricompone. Non per Quinawi però; l’aspetta il manicomio. Lo sguardo di Chahine sul proprio paese è anche critico, se guardiamo i tentativi da parte di chi detiene il privilegio di impedire le rivendicazioni sociali, o se consideriamo le difficoltà a far quadrare i conti del popolo, che deve arrangiarsi con l’abusivismo. Però c’è l’evidente speranza che la vitalità della gente – incarnata meglio da Hannuna anche rispetto al maschio alfa della storia, Abu Siri – possa essere la soluzione per far evolvere positivamente il paese. Ad oggi, dobbiamo dire che era una speranza vana.   







 
Hind Rostom









Galleria di manifesti 







lunedì 21 novembre 2022

DARK WATERS

1166_DARK WATERS (Siraa Fil-Mina). Egitto 1956;  Regia di Youssef Chahine.

Capolavoro del cinema in assoluto e di quello egiziano in particolare, Dark Waters di Youssef Chahine è un melodramma a tinte, come già si intuisce dal titolo, assai fosche. Per restare appunto al titolo, le acque scure in cui si muove la storia sono quelle di Alessandria d’Egitto, nella quale un giovanissimo Omar Sharif dà corpo a Ragab, uno tra i peggiori protagonisti di un film che il cinema ricordi. Che detta così non sembra troppo promettente, per la nostra storia, visto che in genere parte del fascino di un film deriva appunto dai suoi interpreti principali. Ma al cinema, in Egitto, nel 1956, ovvero in quel periodo che va dalla caduta della monarchia nel 1952 alla nazionalizzazione dell’industria cinematografica nel 1966, si respirava evidentemente un’aria di libertà che si riflette ancora oggi nelle opere di quel tempo. La cosa non deve essere sottovalutata, ovvero l’analisi dei film egiziani in seno alla propria cinematografia, in quanto i Misr Studios contribuirono a rendere quella sul Nilo la terza industria della settima arte a livello mondiale, dietro soltanto Hollywood e Bombay ma davanti a Cinecittà e Pinewood. In quel fortunato clima creativo, Chahine si può quindi permettere un personaggio che, fatto ritorno a casa dopo tre anni da marinaio in giro per il mondo, si dimostra irragionevole, geloso, bigotto, irascibile e, sopra ogni cosa, violento in modo spropositato, arrivando addirittura a minacciare di morte ripetutamente. A fare le spese del suo caratteraccio è in prima istanza la vivace fidanzata, Hamidah (Faten Hamama); forse il marinaio sbarca col piede sbagliato, scherziamoci pure su, ma quando la ragazza si mette a ballare per la gioia di aver riabbracciato l’uomo che ama, si prende una violenta strigliata. 

Già nei bruschi modi con cui Ragab la maltratta solo per il suo esibirsi in pubblico, si evidenzia lo scarso rispetto per la figura femminile che in Egitto era – verrebbe da dire ‘anche allora’ – radicato. Ma quello è niente rispetto alla furia che prende al giovane quando scopre che Mamdouh (Ahmed Ramzy), facoltoso giovanotto la cui famiglia possiede l’importante azienda portuale, insidia sentimentalmente Hamidah. Mamdouh, per quanto approfitti della condizione di agiato figlio di papà passando il tempo a girare in motoscafo invece di dirigere i lavori, non è un soggetto cattivo, anzi. Il suo interesse per Hamidah è sincero e, in ogni caso, quando vede che la ragazza è legata al fidanzato, prova a giocare sì le sue carte ma in modo pulito. In regia, intanto, Youssef Chahinefu intreccia questo focoso melodramma con la pista sociale, con gli operai del porto sobillati contro Mamdouh dal vecchio direttore dei lavori (Tawfik El Deken) invidioso della nomina del rampollo di casa nel ruolo di manager al suo posto. Intanto Regab si fa sempre più rabbioso. 

L’ira che lo acceca è in qualche modo da attribuire alla sua scarsa lungimiranza, ad una saggezza davvero ai minimi termini, all’invidia per la ricchezza del rivale e ovviamente alla gelosia scatenata dalla vivacità di Hamidah. Visto l’ascendente che il giovane gode presso i lavoratori portuali, i cospiratori alimentano ulteriormente la sua rabbia canalizzandola al contempo per i propri fini. In preda alla follia e mezzo ubriaco, Regab vuole uccidere ora Hamidah ora Mamdouh, mentre nell’intricato ma ben costruito castello narrativo a farci le spese sarà il saggio capo dei lavoratori, omicidio di cui viene incolpato Mamdouh. 

Qui, Chahine cala tutti gli assi melodrammatici che ha in mano, per cui salta perfino fuori che Regab è fratellastro di Mamdouh, il che sul momento esaspera ancora dipiù gli animi, visto che il nostro protagonista fa conoscenza con quel genitore che lo ha misconosciuto per tutti quegli anni. La situazione è particolarmente intricata e lo spettatore, in qualche momento, ha quasi paura che Regab – che si è reso odioso peggiorando la sua condizione ogni minuto del lungometraggio – possa in qualche modo cavarsela, magari convolando a nozze con l’amata, visto che Hamidah, nonostante i lividi e le paure, ancora lo ama. In quei frangenti, si potrebbe pensare che l’unico modo per salvare moralmente Reagab, sia un suo sacrificio finale. Chahine non è così estremo ma riesce comunque a far magistralmente quadrare il cerchio: il sacrificio quasi fatale lo compie Mamdouh ma va riconosciuto che, quasi miracolosamente, Regab rinsavisce. Salva il rivale e si imbarca di nuovo, ammettendo sostanzialmente di non meritarsi il lieto fine. E’ Mamdouh, appoggiato dai suoi genitori, a spingere Hamidah a seguire il proprio cuore. La scena in cui la ragazza arriva correndo all’impazzata sulla spianata del porto, minuscola nell’ampia panoramica sullo schermo, chiamando disperata il suo uomo, è da pelle d’oca, nonostante ci si renda conto, con innegabile rammarico, che Regab stia per essere riabilitato dal racconto in tempo per il lieto fine. Il giovane, sul momento, non sente la voce di Hamidah, assordato dai fischi della nave ormai in partenza; poi finalmente se ne accorge e si tuffa nelle acque scure del porto. Hamidah, non resta a guardarlo ma, coraggiosamente, si tuffa anche lei e, dopo averlo abbracciato tra le onde spumeggianti, le rifila un amorevole cazzotto sulla testa. Comunque troppo lieve.  




 
Faten Hamama




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sabato 19 novembre 2022

THE DEVIL OF THE DESERT

1165_THE DEVIL OF THE DESERT (Shaytan al Sahra). Egitto 1954;  Regia di Youssef Chahine.

Considerato il film d’esordio di Omar Sharif, The Devil of the Desert è un bel film d’avventura che il regista egiziano Youssef Chahine contamina con le tematiche sociali e i toni da melodramma. Presso una tribù di beduini del deserto, il giovane Essan (Omar Sharif), figlio del saggio del villaggio, passa la vita spassandosela con la bella zingara Shaden (Lola Sedki) piuttosto di preoccuparsi delle angherie a cui sottopone la sua gente il despota Zubaid (Abel Ghani Kamar). La protesta, di cui Essan si disinteressa, ha esiti tragici e, solo a quel punto, il giovane decide di entrare in azione. Chahine, in una trama fin lì tutto sommato canonica dei film d’avventura, come da protocollo inserisce anche l’elemento comico rappresentato dalla spalla di Essan. Intanto, con l’incontro tra questi e la bella Dalal (Maryam Fakhruddin) si complica la relazione tra il protagonista e Shaden e prende corpo la trama melodrammatica. La scintilla tra Essan e Dalal scocca subito, finanche l’uomo, che per cautela sta operando a volto coperto, non si esponga neanche sentimentalmente in maniera subito esplicita. Tuttavia l’attrazione tra i due è evidente e alla fine se ne accorge anche la bella zingara che non vuole però mollare la presa tanto facilmente. Da un certo punto di vista anche comprensibilmente, visto che Essan non esita a coinvolgerla nel suo piano d’azione contro il tiranno Zubaid. Divertente, in questo frangente, lo scontro fisico tra le due rivali che se le danno di santa ragione. Al di là di questo stuzzicante intermezzo, la situazione melodrammatica è però ormai chiusa. Vistasi senza alcuna speranza, dal momento che il cuore dell'uomo che ama è ormai definitivamente della rivale, Shaden tradisce Essan ostacolando un poco i piani di rivolta. Ma è solo un intoppo, un escamotage narrativo per vivacizzare le scene d’azione finali e avere il pretesto per far fuori la bella zingara. E questo lascia, per la verità, un po’ di amaro in bocca: certo Shaden non è che si sia dimostrata poi questa grande persona, non accettando la sconfitta sentimentale, però qualche recriminazione le era anche legittima. Osservando il canonico lieto fine, con Essan e Dalal che sorridono felici, sorge spontaneo un moto di solidarietà alla memoria della bella zingara, non il migliore personaggio del film ma certo il più bruciante di vita.   






 
Maryam Fakhruddin



Lola Sedki


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