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martedì 19 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: IMPOSTORE

1051_IL FASCINO DELL'INSOLITO: IMPOSTORE. Italia, 1981; Regia di Andrea e Antonio Frazzi.

In Italia, ma forse anche nel mondo, fino ai primi anni Ottanta Philip K. Dick era uno scrittore relativamente conosciuto. Certo, tra gli appassionati di fantascienza era più che apprezzato ma si andava poco oltre. Poi, nel 1982, Ridley Scott decide di adattare per il cinema Il cacciatore di androidi, il romanzo che sullo schermo diventerà Blade Runner e la fantascienza non sarà più quella di una volta. Inevitabilmente anche il geniale autore dello spunto alla base, l’utilizzo della fantascienza per aggiornare la più antica tra le domande ovvero quella sul senso e sulla natura dell’uomo, divenne famoso presso il grande pubblico. Ma nel 1981, ai tempi della seconda stagione de Il fascino dell’insolito - Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza la mitica serie antologica Rai dedicata al fantastico, l’idea di dedicare uno dei film a Dick è da considerare un merito a prescindere. Prima di tutto per la qualità dell’autore e secondariamente per il fatto di portare a conoscenza del pubblico italiano la sua indispensabile poetica. Di cui Impostore – racconto che si può trovare nella bibbia della fantascienza, ovvero l’antologia Le meraviglie del possibile – è già uno scintillante esempio. Certo, il racconto non ha la struttura di un romanzo ma anche per questo riesce forse in una maggiore efficacia istantanea. Nel genere fantastico, che comprende una gamma che va dai racconti dell’orrore a quelli fantascientifici, il racconto breve è stato forse la forma più efficace, finanche è chiaro che i romanzi di almeno un centinaio di pagine soddisfino maggiormente la fame del lettore. 

Ma la forma del racconto, un’idea ficcante attorno alla quale imbastire giusto lo stretto necessario di uno sbrigativo narrato, fu per certi versi insuperabile. Come detto Impostore ne è un perfetto esempio. Il punto cruciale sembra essere: come farà Spence Olham a dimostrare di non essere il robot alieno che si è sostituito al vero Spence Olham con fini bellico terroristici? C’è una guerra, in corso, tra gli Estraspaziali e i terrestri, e pare che gli alieni siano riusciti ad infiltrare sul nostro pianeta un loro automa sotto mentite spoglie per provocare una devastante esplosione. A differenza che in un romanzo, questi aspetti sono trattati in modo rapido, da Dick, che si affida alla generica familiarità dei suoi lettori con le questioni fantascientifiche. In questo modo il racconto perde forse un po’ di corpo ma ne guadagna in perforante efficacia. Nell’adattamento dei gemelli Frazzi, nel complesso positivo, la sbrigatività del racconto diventa uno stile minimalista industriale dal sapore teatrale non proprio convincentissimo, per la verità, ma apprezzabile se non altro per l’ingegno creativo. A salvare decisamente la produzione è, per altro, Adalberto Maria Merli, nei panni di Spence Olham, convincentissimo; meno efficaci gli altri interpreti del cast. Tuttavia, considerato che lo schermo resta incentrato prevalentemente sul Merli, il racconto tiene botta: l’attore trasuda tutta la sincera convinzione del suo personaggio di essere vittima di un clamoroso errore. E il suo è un lavoro notevole, oltreché ambiguo. Perché, anche se oggi sembra quasi banale dirlo – certo non lo sarebbe stato nel 1953, anno di uscita del racconto, e nemmeno nel 1981, anno di trasmissione del film: il punto non è affatto come fosse riuscito quello Spence Olham a dimostrare di non essere il robot. 




    

Elisabetta Carta 



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domenica 17 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA CASA DELLA FOLLIA

1050_IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA CASA DELLA FOLLIA. Italia, 1981; Regia di Biagio Proietti.

Dopo la falsa partenza con l’episodio d’esordio della seconda stagione, la serie antologica Il fascino dell’insolito. Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza cambia decisamente passo. Innanzitutto va detto che alla base del film televisivo adattato da Biagio Proietti, aiutato nella sceneggiatura da Diana Crispo, c’è il racconto di quello che forse è il migliore scrittore del XX secolo. Richard Matheson, per quanto sia noto solo tra gli appassionati di letteratura fantastica o fantascientifica, è probabilmente l’autore che meglio ha colto, soprattutto con largo anticipo sul resto del mondo, le angosce e gli incubi che si nascondevano nella società del benessere proprio al suo apice, durante il boom economico del secondo dopoguerra. A Matheson non servono antichi castelli, polverose dimore, scricchiolii sinistri e nemmeno l’oscurità della notte gli è indispensabile: La casa folle – fulminante racconto tratto dall’antologia Terzo da sole – per quanto possiamo capire dal testo è una normale abitazione. Nell’interpretazione che ne danno gli autori italiani è un appartamento dal design moderno, con ampi spazi, vetrate; solo il bagno, con quel bianco e nero ossessivo, può destare qualche perplessità, a prima vista. La presenza di tre grandi volti alle finestre, due sono una sorta di bassorilievi antichi e il terzo un dipinto in stile futurista, rende peraltro meno rassicurante anche lo stesso appartamento. Su questa base già un po’ inquietante, gli autori lavorano sodo con la colonna sonora: si comincia forte con Run like hell dei Pink Floyd, poi subentrano gli stranianti suoni del didjeridoo e le incalzanti musiche di Gianni Mola. 

Proietti insiste molto sulla musica, nel suo adattamento: ovviamente nel racconto non ce n’è traccia ma la prosa di Matheson, per quanto sia un flusso di immagini chiare e nitide magicamente evocate dallo scrittore, non è poi così semplice da replicare su uno schermo. Nel complesso, le scelte per La casa della follia sono funzionali allo scopo di ricreare la paranoica situazione del protagonista, vittima della sua stessa rabbia collerica. Luigi Pistilli è Chris Neal, scrittore fallito e docente non di ruolo che sta vedendo la sua vita andare a rotoli; a subire le conseguenze della frustrazione dell’uomo è sua moglie Sally, nei panni della quale troviamo la superba Olga Karlatos. Gli attori sono di rango e riescono ad interpretare bene i rispettivi ruoli: Chris ha i nervi ormai a pezzi e Sally è esausta di una vita con un uomo che sfoga il suo rancore per i fallimenti contro qualunque cosa gli capiti a tiro, lei stessa per prima. 

Quello della violenza sulla moglie è un tema solo sfiorato, dal racconto come dal film, perché non è il fulcro del discorso: Chris se la prende con Sally così come se la prende con la macchina da scrivere, col tappetino, con l’armadietto o qualunque altra cosa gli finisca sottomano. Ovviamente gli scatti d’ira dell’uomo sono legati ai costanti inciampi che gli occorrono, questi dovuti al crescente nervosismo che ne alimenta la goffaggine; un meccanismo che, in misura auspicabilmente minore, chiunque, tra gli abitanti del mondo moderno, sottoposti costantemente alla pressione della vita quotidiana, conosce benissimo. Ma cosa genera questa pressione? Qui Matheson rivela la sua genialità perché in uno sbrigativo racconto fantastico chiarisce qual è il vero odierno punto dolente dell’umanità: la differenza tra le proprie ambizioni e i risultati conseguiti. 

La società del benessere, per alimentare i consumi e quindi la sua stessa sopravvivenza, pone costantemente nuovi modelli sostanzialmente irraggiungibili per il comune individuo, che così rimarrà sempre attivo nella vana ricerca di conseguirli. Il che rende la collettività iper-produttiva, e visto che alla ricchezza generata è legato il benessere diffuso dal dopoguerra, lo scopo sembrerebbe raggiunto. Se non fosse che c’è un lato oscuro, e non solo legato a coloro i quali falliscono concretamente, che si potrebbero definire gli effetti collaterali inevitabili del meccanismo. Il problema è assai più vasto, perché riguarda tutti, anche i personaggi di successo: perché anche i migliori finiscono per aggiornare, alzandoli, i propri obiettivi, nell’ottica di migliorarsi, e questo finirà per creare in misura piccola o grande, insoddisfazione e frustrazione. 

Chris, infatti, non è un uomo di successo, questo no, d’altra parte è protagonista di una situazione limite, che serve per imbastire il racconto paradossale che lo vede protagonista. Ma, se lo si guarda in modo analitico, non avrebbe di che lamentarsi: vive in una bella casa, ha una moglie bella (nel libro genericamente bella, nel film splendida come la Karlatos) oltre che buona e fedele, e un lavoro; precario, d’accordo, ma che proprio per questo gli permette di avere il tempo per dedicarsi alla scrittura. I problemi nascono dal fatto che Chris aveva l’ambizione di essere famoso, di divenire qualcuno di immortale nella letteratura. Lo scorrere inesorabile del tempo è un’inevitabile aggravante, dal momento che, man mano che gli anni passano e il successo non arriva, mette sempre più pressione inasprendo la situazione. Di più: la figura dell’amico Morton (Renato Mori), affermato studioso che ha tra l’altro elaborato una curiosa teoria sul fatto che l’ambiente venga influenzato negativamente dallo stato d’animo di lo abita, introduce anche l’aspetto della competitività, altro tarlo del nostro vivere quotidiano. Morton, infatti, ha avuto quel successo tanto agognato da Chris che, al contrario, non è riuscito ad affermarsi. L’invidia nei confronti dell’amico alimenta ulteriormente la frustrazione dell’uomo che finisce per autodistruggersi, nell’evolversi della vicenda in modo ovviamente romanzato ma il concetto è quello. Un’analisi che il film di Proietti riesce a cogliere e che rappresenta in modo lampante la natura della principale causa dei più disparati problemi quotidiani del nostro tempo, molti dei quali hanno origine proprio nell’insoddisfazione che alberga in ognuno di noi. Detto che è ingiusto ricercare ossessivamente le differenze tra il testo all’origine e la sua trasposizione sullo schermo, c’è un passaggio che nel film manca e che è tipico di Matheson. 

Sia chiaro, il lavoro di Proietti è buono e coglie lo spirito del racconto, questo è un merito che al film va assolutamente riconosciuto. Però lo scrittore americano aveva la capacità di sorprendere il lettore anche quando la sua narrativa sembrava aver preso tutt’altra dinamica. Nella spirale senza alcuna via di uscita in cui ci conduce Matheson non ci sono sbocchi, non ce ne possono essere e questo elimina, in linea teorica, l’eventualità di una sorpresa. Eppure, grazie alla superba prosa, lo scrittore riusciva anche in quelle situazioni a piazzare la sua zampata: quando Chris ritorna a casa, dopo che ha passato tutta la mattinata a scuola a pensare alla moglie che lo lasciava, che abbandonava la loro abitazione, ritrovarcela ad aspettarlo è un vero choc. Ovviamente l’uomo è contentissimo, in cuor suo ma, come al solito in Matheson, materialmente farà l’opposto di ciò che desidera, scacciando Sally senza alcuna compassione. Questo, nel computo del risultato finale, aumenta esponenzialmente lo sprofondamento del protagonista, come se di fatto, la spirale distruttiva in cui è avvolto, dopo questa sospensione – il ripresentarsi della moglie che gli offre l’ultima ancora di salvezza –riprendesse dieci spire più sotto, annullando ogni eventuale speranza di riconciliazione futura tra i due coniugi. Anche nel film di Proietti Sally ha un comportamento un po’ incerto ma senza riuscire ad imprimere quella svolta che si trova nelle pagine di Matheson. Poco male, come film La casa della follia rimane comunque un’opera assolutamente lodevole.




Olga Karlatos 



venerdì 15 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA STRADA AL CHIARO DI LUNA

1049_IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA STRADA AL CHIARO DI LUNA . Italia, 1981; Regia di Massimo Manuelli.

Nel 1980 Il fascino dell’insolito. Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza non era stata certo questo grande successo di pubblico; i cinque episodi, nel complesso, avevano però dimostrato la validità dell’idea alla base. Un’antologia di film per la televisione che andasse ad esplorare il fantastico, genere poco diffuso in Italia e che, al contrario, nei paesi anglosassoni era florido e ricchissimo di spunti interessanti. Inoltre, la dimensione prevista per i film televisivi, in genere un’ora scarsa, era l’ideale per trasportare sullo schermo i racconti brevi, che della narrativa fantastica erano forse l’espressione migliore. Visti questi aspetti indubbiamente meritori, nel 1981 si replica. L’esigua carrellata prevista per questa seconda stagione, solo tre episodi, parte però col piede sbagliato. Il testo all’origine è il racconto La strada illuminata dalla luna di Ambrose Bierce ma l’adattamento frutto della sceneggiatura di Franco Ferrini e della regia di Massimo Manuelli non riesce a coglierne il senso. Da un punto di vista formale ne La strada al chiaro di luna si nota una maggior ambizione del progetto della serie: il rimando ai gloriosi sceneggiati Rai, che il bianco e nero della prima stagione ricordava, viene accantonato e il riferimento televisivo è ora prettamente contemporaneo. Nel complesso, la confezione è comunque valida: bene gli interpreti, Mario Valdemarin (è Simone), ha una presenza scenica notevole come anche Eva Axén (Giulia). In mancanza di una narrazione consapevole, la musica jazzata di Nicola Bernardini e Giovanni Nebbiosi si incarica di sorreggere il film, riuscendo in qualche modo a far quadrare il cerchio. 

Un altro spunto che, se vogliamo, cerca di innalzare l’asticella dell’attenzione, è il fugace nudo integrale della Axén, audace nel contesto televisivo Rai dell’epoca ma che pare peraltro gratuito. Il punto è che, nel cercare di cogliere lo spirito inquieto di Bierce, gli autori italiani eccedono nell’operazione di rarefazione della trama per cui diventa difficile intuire subito la logica di alcuni passaggi del racconto. Simone, col suo atteggiamento inspiegabile, non sembra propriamente un marito geloso, come era nel racconto; il che potrebbe anche essere una legittima variazione sul tema, se non fosse che in questo modo il suo comportamento diventa privo di logica, come si evince dall’interrogatorio del commissario (Rodolfo Traversa). Le tante telefonate mute che l’uomo fa alla moglie, il giorno dell’omicidio, non sembrano giustificare l’idea di un suo tentativo di controllo sulla condotta della donna. Ci fosse stato un amante con Giulia, lui come avrebbe potuto capirlo? E quando ritorna a casa prima del previsto, nella dinamica della scena cruciale, tutto avviene velocemente, con Simone che vede qualcuno uscire dalla sua abitazione di soppiatto e decide quindi di strangolare la moglie. Effettivamente, l’uomo trasale quando il commissario gli rivela che c’era un ladro in casa, la sera dell’omicidio della moglie. Lui l’aveva visto di sicuro ma evidentemente lo aveva scambiato per l’amante della donna. Nel racconto di Bierce è una cosa lampante, l’omicidio avviene per gelosia. Nel film di Ferrini e Manuelli bisogna fare uno sforzo, per cercare di capirlo; e questo, in un racconto che in quella fase è più giallo che fantastico, non è che sia il massimo. Quest’ultima sponda viene esplorata nella scena dell’avvistamento del fantasma, un passaggio oggettivamente arduo da tradurre in immagini e il risultato modesto è quindi comprensibile. Insomma, la serie prova a fare uno scarto in avanti, lasciandosi alle spalle l’eccessivo apparentamento con gli sceneggiati d’un tempo per avvicinarsi ai moderni film televisivi, ma il risultato de La strada al chiaro di luna è purtroppo deludente. 


   Eva Axén


giovedì 14 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: MIRIAM

1048_IL FASCINO DELL'INSOLITO: MIRIAM . Italia, 1980; Regia di Biagio Proietti. 

Si potrebbe invocare la difficoltà del testo di Truman Capote all’origine, un veloce racconto, per giustificare preventivamente l’impressione di inadeguatezza, di disagio, che traspare dalla riduzione televisiva di Biagio Proietti di Miriam. Invece, occorre fare una sorta di passo indietro ed accorgersi di quanto è salutare la banale scomodità del quinto film della serie Il fascino dell’insolito - Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza con cui si chiude la prima stagione. Era l’alba degli anni Ottanta, il decennio degli anni di piombo faticava a lasciar spazio a quello del vuoto pneumatico che, almeno in Italia, vedrà la TV di Berlusconi forgiare le nuove generazioni: se una cosa i due periodi storici avevano in comune, era che il tempo per riflettere scarseggiava in tutte e due gli ambiti. Forse perché pensare mette tristezza. Proietti, per il suo intimo e interessante film, ci riporta all’origine della società del benessere, l’America del dopoguerra. Come detto il soggetto è di Truman Capote, la musica che accompagna il film è il jazz di Glen Miller (Moonlight Serenate) e dei Mills Brothers (After You, Don’t be a Baby baby), le immagini dei titoli di testa sono ispirate ai quadri di Edward Hopper. La devastante solitudine in cui regna Miriam (Luisa Rossi, spaesata) è esattamente la nostra, sebbene ai tempi si cercasse di dimenticarlo affannandosi in un modo o nell’altro, a protestare in una piazza degli anni Settanta o divertendosi nella Milano da bere di una nota pubblicità del decennio successivo. Oggi ci proviamo coi social network.    



Luisa Rossi 



Claudia Vegliante 


Margherita Sestito 


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mercoledì 13 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: VEGLIA AL MORTO

1047_IL FASCINO DELL'INSOLITO: VEGLIA AL MORTO . Italia, 1980; Regia di Mario Chiari.

All’interno della serie RAI Il fascino dell’insolito. Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza, antologia di film televisivi dedicata al fantastico, è il turno di Ambrose Bierce. Meno noto di altri scrittori americani dediti al genere gotico come Edgar Allan Poe o H.P. Lovecraft, Bierce era comunque un narratore eccellente. Va dato quindi grande merito alla nostrana tv nazionale di portare una validissima interpretazione sullo schermo di uno dei suoi racconti, Veglia al morto. L’opera di riduzione televisiva è affidata a Biagio Proietti (sceneggiatura) e Mario Chiari (regia) e si presenta non certo semplice: il cinico racconto è giocato tutto sull’immaginazione del lettore, che deve figurarsi la scena di un personaggio che, per scommessa, rimarrà per tutta la notte chiuso a chiave in un lugubre locale con un cadavere. Gli autori italiani apportano qualche modifica, ad esempio la salma è stesa su un tavolo da bigliardo e non su un banale tavolo da cucina, forse per avere la possibilità di inserire qualche elemento narrativo, la stecca brandita da Jarette (Bruno Corazzari) o la palla numerata che arriva rotolando, in un racconto stringato ai minimi termini. E vincono la loro partita con la tipica ambientazione spoglia degli sceneggiati Rai che sempre mantennero vivida la loro matrice teatrale, in questo caso con un sapiente uso delle ombre che incombono copiose sullo schermo. Tra gli interpreti spicca Alessandro Sperli (il professor Helberson), bravissimo per tutta la durata del film ma addirittura magnetico quando racconta del collezionista di serpenti. Veglia al morto è suadente ed ipnotico e mantiene intatto l’approccio disilluso e scettico di Bierce che era sempre pronto a smascherare la sicumera dell’uomo moderno nei confronti della morte. Gli autori italiani ci aggiungono una sorta di correzione morale, con il personaggio di Lynn (Fiorenza Marchegiani), inesistente nel racconto, che mette una pezza all’impunità prevista da Bierce per i tre sconsiderati protagonisti. Probabilmente si tratta di una necessità del mezzo televisivo, per far sì che il film possa essere accettato nel palinsesto senza troppi patemi: considerato che la ragazza rinchiude i tre sciagurati gettando la chiave in un tombino, si può approvare anche l’inedito epilogo.   





Fiorenza Marchegiani

lunedì 11 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: PICCOLO ASSASSINO

1046_IL FASCINO DELL'INSOLITO: PICCOLO ASSASSINO . Italia, 1980; Regia di Stefano Calanchi.

Dopo i due episodi dedicati ad uno scrittore classico del gotico ottocentesco come Montague Rhodes James, la serie antologica Il fascino dell’insolito. Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza prende spunto da uno dei massimi esponenti del genere fantastico del XX secolo, Ray Bradbury. Il piccolo assassino, il racconto del geniale autore americano, è tutto sommato rispettato, nell’impostazione generale e in molti dettagli narrativi. Ma è soprattutto lo spiazzante pretesto da cui era partito Bradbury, che era già sorprendente pur in un ambito in genere tollerante come quello letterario, che lascia esterrefatti una volta messo su uno schermo della tv di stato in un paese cattolico e tradizionalista come l’Italia dei primissimi anni Ottanta. Il neonato, quello che è universalmente riconosciuto come la massima espressione dell’innocenza più pura, nel racconto di Bradbury e nel film di Stefano Calanchi, autore di sceneggiatura e regia, diviene una inquietante minaccia. Anzi, di più: un vero e proprio killer, visto che nel racconto il pupo fa fuori i genitori mentre nel film elimina anche Paola (Edda Di Benedetto), l’amica di famiglia. Va detto che l’idea, pur se stuzzicante, non era poi troppo funzionale già nel racconto. Cioè, Bradbury, che è un vero asso, tiene insieme il racconto in scioltezza, mettendo in rilievo gli aspetti inquietanti che contraddistinguono la primissima infanzia del genere umano. In effetti, per un neonato, la nascita deve essere un bel trauma: trovarsi a passare dal grembo materno al nostro, a confronto, ben poco accogliente mondo certamente non deve essere indolore. 

Un suo certo risentimento, verso la madre che nel partorirlo in buona sostanza lo ha espulso, è però fuori dal nostro comune modo di pensare, eppure lo scrittore americano è molto bravo ad insinuare il dubbio. Sulla messa in pratica degli omicidi, da parte di un bambino di soli sei mesi, giovano a Bradbury le possibilità della letteratura, che permette a chi scrive di condurre con molto più agio la danza rispetto ad altre forme artistiche più esplicite. Calanchi è bravo anche lui, perché si affida perlopiù al fuoricampo e se nel caso dei presunti movimenti del neonato questo era anche prevedibile, il regista opera con lo stesso sistema anche con gli alunni, che sono sempre bambini, della classe di Davide (Gianfranco De Grassi). Il padre del bambino è nel film infatti divenuto un maestro, molto ben voluto dalla classe con cui non si limita ad un formale insegnamento ma intrattiene anche momenti di svago. Il clima delle lezioni è quindi decisamente famigliare il che simbolicamente raddoppia la situazione di casa, dove per la verità le angosce della moglie Alice (Imma Piro) mantengono la tensione costantemente ben al di sopra della soglia limite per un nucleo domestico. Tuttavia anche nella classe la scelta tutta registica di inquadrare solo il maestro, sempre sorridente e ben disposto, mentre l’intera classe è tenuta rigorosamente fuori campo, crea una situazione di disagio. Tutta questa parte è assente nel racconto ed è quindi farina del sacco di Calanchi e va detto che è forse la parte più interessante del film, sebbene va anche precisato che si integra in modo convincente con l’assunto di base di Bradbury. Per la verità anche il finale, quando si concretizzano le assurde paure di Alice e il bambino, lasciato senza nome nel film come nel racconto, si rivela essere una sorta di serial killer, non è affatto male.
Ma alla fine ci abbiamo davvero creduto che è stato il neonato?    


Imma Piro 


Edda Di Benedetto 

sabato 9 luglio 2022

IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA STANZA NUMERO 13

1045_IL FASCINO DELL'INSOLITO: LA STANZA NUMERO 13 . Italia, 1980; Regia di Paolo Poeti.

Per il secondo episodio della serie antologica Il fascino dell’insolito. Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza il secondo canale RAI ci propone La stanza numero13, tratto come il precedente da Montague Rhodes James. La sceneggiatura di Emanuele Vacchetto e la regia di Paolo Poeti introducono notevoli variazioni rispetto al racconto originario dello scrittore inglese: in principio la più evidente è l’ambientazione, da un paese della Danimarca ad uno della Campania, in Italia. Ma anche la natura del fatto insolito, tipico della narrativa di James, cambia: qui c’è bisogno di un pretesto sentimentale, il rimpianto per una storia d’amore sfumata tra il protagonista, il professore (Tino Scotti) e Assunta (Carmen Scivittaro). La ragazza era la figlia del locandiere dove il professore, allora studente, aveva soggiornato: una volta partito il ragazzo se n’era scordato e la giovane era morta, forse proprio per il dolore di un amore perduto. Cinquant’anni dopo, l’uomo, ormai anziano, si ripresenta alla locanda, ora gestita dal fratello di Assunta (Franco Angrisano); a questi due personaggi si aggiunge il maestro (Gino Maringola), per una serie di scenette vagamente umoristiche. Si ricordi che Scotti era un comico affermato e, probabilmente, questa deriva umoristica, nell’idea degli autori, doveva ricreare il velato humor britannico con cui James alleggeriva la sua prosa. Se la malinconia di Scotti è tutto sommato apprezzabile, sembra assai meno adatto al tenore del racconto l’umorismo di Maringola, che sembra lui stesso un personaggio di quella smorfia napoletana a cui si dedica con tanta passione. Come detto il film, al di là dello spunto della camera mancante che si palesa solo di notte, è abbastanza distante dalla narrativa di James, anche perché non ha mai quel cambio di passo che nel racconto si concretizza per poi dissolversi quasi subito. In effetti lo spirito di Montague Rhodes James non è per niente facile da catturare con una rappresentazione sullo schermo: la scelta degli stilemi dello sceneggiato tradizionale RAI sembra comunque funzionale anche stavolta. Quello che vanifica un po’ gli sforzi sono forse, più che i troppi elementi cambiati, quelli aggiunti. Quelle motivazioni un po’ grossolane – il rimpianto per un amore non coltivato – a Rhodes James non servivano, nella sua prosa l’origine dell’orrore non viene necessariamente svelata. Ne La stanza numero 13, ad esempio, la pergamena ritrovata che doveva svelare l’arcano, non viene decifrata, nonostante il protagonista si rivelasse essere un paleografo, uno studioso di scritti antichi. E l’incapacità di reggere a questa incognita che ci lascia sempre la poetica di Montague Rhodes James, che nel film si manifesta con l’inserimento di un banale pretesto, è il limite maggiore dell’adattamento di Vacchetto e Poeti.




Carmen Scivittaro