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martedì 26 aprile 2022

FUOCO NELLA STIVA

1008_FUOCO NELLA STIVA (Fire down below). Regno Unito, Stati Uniti, 1957;  Regia di Robert Parrish.

Sembra che la produzione mise pesantemente mani al lungometraggio e forse è anche per questo contributo esterno alla regia di Robert Parrish che, nel complesso, Fuoco nella stiva risulta un film con numerosi passaggi narrativi imprevedibili. Il film è un noir esotico, o forse un melodramma ambientato ai Caraibi, fatto sta che ci sono due amici per la pelle che fanno i contrabbandieri, Felix (Robert Mitchum) e Tony (Jack Lemmon) che devono trasportare Irena (nientemeno che Rita Hayworth) clandestinamente da una piccola isola dell’arcipelago ad un'altra. La donna è un ex profuga dall’Europa dell’est, che ora fa la mantenuta presso i danarosi amici che di volta in volta riesce ad agganciare. Ovviamente i due uomini si innamorano della fulgida signora: la Hayworth dimostra i suoi 39 anni, peraltro portati in modo sontuoso, e nel film viene sempre appellata appunto come signora, termine rispettoso ma che sembra evidenziare l’età della donna, e mai con un generico ma in fin dei conti più galante, ragazza. In effetti i due contrabbandieri non sono certo campioni di galanteria, in particolar modo Felix, davvero un buzzurro; ma non sarà questo il suo lato peggiore. Questo aspetto della trama rimanda al classico triangolo melodrammatico, con il debole (Tony) innamorato della donna che però ama il forte (Felix), il quale avverte la pericolosità della situazione e prova a resistere all’inevitabile sviluppo degli eventi. L’inserimento di una donna di malaffare, etichetta che Irena non prova nemmeno a togliersi di dosso, che conduce alla rovina l’eroe di turno (in questo caso i personaggi sono due) è un leitmotiv del genere noir, che inoltre ha nell’ambientazione esotica delle isole frequentate dai contrabbandieri di ogni genere, una delle sue abituali roccaforti. Proprio all’ambientazione Parrish dedica particolare cura, con le scene della danza tipica di Trinidad, il limbo, e con una turbolenta e coloratissima festa di martedì grasso, il tutto accompagnato da un efficace commento sonoro tra cui spicca la canzone dei titoli di testa Fire Down Below di Jeri Southern. 

Naturalmente il piatto forte della produzione è il cast, e se la Hayworth pare quasi un po’ stanca di recitare la femme fatale di turno, Mitchum ci regala senza sforzo un personaggio intimamente più cinico di quanto non reciti a farlo, e la candida esuberanza del giovane Lemmon si scontra con ossi troppo duri da mordere per la sua caratura. La trama di Fuoco nella stiva è articolata, come spesso accade quando il soggetto è tratto da un libro (il romanzo omonimo di Max Catto), ma tutto il peregrinare dei protagonisti si riduce al passaggio finale davvero di grande emozione e visivamente spettacolare: Tony è imprigionato dal crollo della stiva in una nave mercantile in procinto di esplodere e potrebbe salvarsi solo con l’amputazione delle gambe. Ma non intende finire la sua vita sulla sedia a rotelle; il dottore intervenuto, chiama quindi Felix e Irena per convincerlo. Il punto è che Tony in quella situazione c’è finito proprio per colpa di Felix che, non contento del tradimento, si è poi messo con Irena, a cui lo stesso Tony aveva poco prima chiesto di sposarlo. Il dottore funge anche da estremo confessore religioso, e sprona Tony a perdonare Felix: se ha scelto di morire, lo faccia almeno con l’animo in pace. Ma Tony non sente ragioni; Felix allora si propone di attendere con il vecchio amico l’esplosione della nave. A questo punto sarebbe un finale tragico e se, in questo modo non avremmo la coronazione della classica storia d’amore, si salverebbe perlomeno il sentimento d’amicizia, riscattato dal sacrificio volontario del personaggio di Mitchum. Ma la prima esplosione è solo parziale e il crollo seguente libera Tony dalle macerie, che può così essere portato in salvo dal compagno. Felix e Irena coronano quindi la loro storia d’amore, ma non è quello il finale della vicenda: piuttosto la mesta uscita di scena di Tony, che di fatto chiude il film.
Raramente si è visto un lieto fine così meschino. Perlomeno al cinema.  




Rita Hayworth








Galleria di manifesti












sabato 23 aprile 2022

WINTER ON FIRE: UKRAINE'S FIGHT FOR FREEDOM (a seguire L'UCRAINA NATA DA EUROMAIDAN)

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1007_WINTER ON FIRE: UKRAINE'S FIGHT FOR FREEDOM. Regno Unito, Ucraina, Stati Uniti, 2015;  Regia di Evgeny Afineevsky.

Dedicato alla Rivoluzione ucraina del 2014, Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom è un documentario di grande impatto visivo opera di Evgeny Afineevsky. Distribuito sulla piattaforma Netflix, il film è un prodotto notevole dal punto di vista formale: conserva i tratti brutali propri del soggetto, la rivolta nota come Euromaidan, ed è teso ed avvincente come un film d’azione bellica mainstream. Questo aspetto non è da sottovalutare perché, oltre ad avere un evidente lato positivo nella facilità di fruizione, presenta delle insidie. E se finissimo, trasportati dall’enfasi del racconto, per perdere la lucidità richiesta invece dal genere in questione? E se l’avesse già persa Afineevsky? Intanto, per cominciare, va ricordato che il documentario storico bellico declina in chiave cinematografica i tipici problemi dei resoconti dei reporter di guerra; vale a dire, è compito dello spettatore interrogarsi sulla veridicità di quanto mostrato. Questo proprio perché il documentario, in quanto tale, ha sempre un grado di presunzione di attendibilità che, al contrario, il cinema di finzione, in senso letterale, non si pone. Sin dalla lezione di Giovanni Verga e degli autori del Verismo che, nonostante i loro sforzi, non riuscirono mai, perché è impossibile, nell’intento di fornirci un quadro oggettivo di una determinata situazione, è chiaro che qualunque tipo di resoconto avremo di fronte sarà sempre una versione più o meno parziale dei fatti. Certo, questo è un concetto teorico ma serve ricordarselo sempre, quando ci si appresta a guardare qualcosa che, in modo più o meno diretto, abbia la pretesa di assurgere al rango di verità. Come opera, in sé, Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom, oltre alla citata cura formale, si presenta con il pedigree della Candidatura agli Oscar del 2016 nella sezione documentari, dopo essere stato premiato al festival di Toronto e acclamato in altre circostanze tra cui la Mostra di Venezia. L’impatto scenico sugli oltre tre mesi delle proteste di Euromaidan, garantito pare da una trentina di telecamere, lascia a bocca aperta: sembra di stare in piazza coi manifestanti. Uno dei testimoni intervistati racconta di un fatto specifico: ecco subito la ripresa video inerente; dovevano esserci strumenti di ripresa ovunque, verrebbe un po’ maliziosamente da pensare. Perché se non fosse che le immagini sono inequivocabilmente reali, si potrebbe intendere il filmato come una classica ricostruzione esplicativa tipica delle docufiction


Ma nemmeno ad Hollywood sarebbero in grado di riportare sullo schermo le inconcepibili immagini di cui è costituito Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom: nessun regista può infatti avere la pretesa di essere credibile mostrando uomini delle forze dell’ordine nell’atto di spaccare deliberatamente la testa a suon di mazzate a pacifici dimostranti. Eppure è proprio quello che si vede sullo schermo e che è, evidentemente, successo. Tra le altre cose, certo. Tuttavia, prima di porci qualunque legittimo e doveroso dubbio, vanno messe a referto alcuni elementi che emergono con forza dal documento filmico di Afineevsky. Innanzitutto va stigmatizzato il comportamento delle forze dell’ordine ucraine, Berkut in primis. I reparti antisommossa sono ripresi più volte nel vile atto di pestare a sangue, verrebbe da dire a morte, inermi corpi di manifestanti ormai stesi per terra. 

Ma questo è solo uno dei tanti passaggi difficili da digerire di cui i Berkut si resero protagonisti sulla scena delle proteste di Maidan. Tutto sommato meno efferate, almeno stando a Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom, le azioni della polizia e dei Titushki, reparti mercenari composti della peggior feccia che apprendiamo essere stati assoldati per compiere il lavoro sporco dal governo. E’ difficile pensare che il regista, per mostrare le riprese che inchiodano sullo schermo le tante responsabilità, troppe, delle forze dell’ordine, dalle violenze nella famosa piazza Indipendenza (Maidan Nezalezhnosti) a quelle del Parco Mariinsky, abbia scansato ogni comportamento dello stesso tenore dei manifestanti. Volendo, nel documentario è addirittura mostrato che i primi a fare uso delle molotov furono proprio i dimostranti, per altro nel momento in cui erano in una situazione critica a dir poco. Però l’impressione generale è comunque di una rappresentazione un po’ troppo tirata a cannone, per essere veritiera: una narrazione ottima per un programma televisivo, meno per una cronistoria reale, verrebbe da pensare. Eppure, nel complesso Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom, nonostante questa sospettosa retorica moderna di marca docufiction televisiva, appare come un resoconto purtroppo attendibile, e le scene delle teste che perdono sangue copiosamente, e in un caso addirittura quella che sembra materia celebrale, non è facile togliersele dagli occhi. Eppure qualche appunto, volendo, anzi, dovendo essere scrupolosi, va fatto. 


E’ corretto non intervistare sulla questione neppure una persona di idee filo governative o, se vogliamo dirla fuori dai denti, filo russa? E’ corretto non portare nemmeno una testimonianza da parte delle persone che il documentario accusa esplicitamente, governanti, ministri e capi delle forze dell’ordine? 
E’ corretto non sottolineare come il presidente democraticamente eletto Viktor Janukovyč era nel suo diritto, nel momento in cui scelse di non firmare il patto con gli europei e di accettare invece il finanziamento da Mosca? Casomai il documentario sottolinea come il premier ucraino avesse pubblicamente promesso il contrario ma non sarà certo la prima volta che un politico si rimangia la parola; noi, ad occidente, ci siamo forse troppo abituati per farci mente locale ma è così che funziona un mandato elettorale. 

E’ corretto far passare come legittimo che un governo possa essere messo in crisi dalle proteste di piazza e non secondo le normali procedure costituzionali? Un manifestante ad un certo punto afferma qualcosa del tipo: ‘Janukovyč ha vinto le elezioni ed era legittimamente al potere ma adesso il popolo non lo vuole più e si deve dimettere’. Qui sarebbe stato opportuno, da parte dell’autore del documentario, indicare piuttosto cosa prevede la Costituzione Ucraina, giusto per chiarezza e onestà intellettuale. Altrimenti le mappe che, in Winter on fire: Ukraine’s fight for freedom illustrano in modo esaustivo e lodevole la cronologia degli eventi della protesta, suonano ancora una volta di parte. Il confine tra Rivoluzione e Colpo di Stato, due differenti letture che sono state date ai fatti di Euromaidan, passa probabilmente da altri elementi della questione, ma anche questi aspetti finiscono per inquinare il quadro di Afineevsky. Certo, la legge del 16 gennaio è un pesantissimo elemento a favore dell’accusa alla malafede del presidente Janukovyč, perché sembra il nulla osta timbrato per i Berkut di avere libertà di azione di lì in avanti contro chiunque si ponesse sulla loro strada. 


Ma qualche tassello nella ricostruzione sembra mancare e l’escalation violenta è mostrata come unilaterale e questo ha poco senso pratico (leggi, credibile). Da un punto di vista cinematografico, legato al montaggio, c’è il passaggio in cui un ragazzino, una volta visto nell’incipit, ritorna poi verso la fine del documentario. In sostanza, almeno a livello tecnico, quello a cui assistiamo è quindi per lo più un flashback, uno sguardo sul passato. Come dire che, per quanto fresca, quella di Maidan è già Storia, probabilmente, ed è una scommessa facile da vincere per Afineevsky. Ma certamente non è un episodio benaugurante, visto il grado di violenza belluina diffuso. Quello che rimane di positivo è l’ingenuo e sincero entusiasmo di alcuni giovani ucraini e la loro voglia di Europa, un’idea che ricorda un po’ il sogno americano coltivato da tanti europei nel dopoguerra. Di negativo, come detto, la violenza estrema, ancora più sconcertante quando messa in campo dalle presunte forze dell’ordine per cui qualche dubbio sulla qualità dell’educazione morale diffusa tra la popolazione, da cui in fondo provengono gli agenti, è più che spontaneo. A chiudere, su tutti questi cupi avvenimenti, aleggia il ricordo dei rintocchi delle campane del Monastero di San Michele, tornate a suonare per l’occasione: era dal XIII secolo che non accadeva. All’epoca dovettero arrivare i Tataro Mongoli dalle steppe asiatiche, a portare morte e distruzione.
Adesso non è più necessario.



CRONACHE DALL'EST a cura di Antonio Gatti  

L'UCRAINA NATA DA EUROMAIDAN

Ai più ricchi, che erano considerati déi, si sacrificavano vittime umane, e qualcuno non esitava a offrire loro spontaneamente la propria vita, poiché in questo modo sperava, in una successiva reincarnazione, di tornare all'esistenza nella condizione di un ricco, o di un dio.
Rabbi Nachman, Storie e leggende chassidiche, a cura di Martin Buber.

"Oligarca" è un termine ai quali i media ci hanno ormai abituato fin troppo bene. Oligarca è un marchio infamante, uno stigma che indica corruzione, potentato economico irrispettoso di qualsiasi diritto, una ricchezza pantagruelica che sfocia nell'immoralità.
In occidente, la classe sociale corrispondente bada bene, ovviamente, a definirsi 'oligarca' ma ha coniato termini più rispettosi: magnate, imprenditore, VIP; non è circondata da disprezzo, ma cerca un rispetto quasi religioso: sono loro che attivano il futuro, vanno nello spazio, difendono la democrazia, danno lavoro.
Questa differenza ha origini storiche: i magnati occidentali hanno seguito, e orchestrato, la nascita e lo sviluppo della società capitalista, divenendone un tassello fondamentale. Nei paesi dell'ex URSS, al contrario, il capitalismo è stato introdotto per inerzia, come un liquido che ha riempito un contenitore che non poteva rimanere vuoto; nella spartizione disordinata che ne è seguita, spartizione delle enormi risorse energetiche, nucleari, alimentari, i vincitori, ovvero coloro che sono riusciti ad accaparrarsi di più, sono stati visti come usurpatori. L'ascesa di una classe di grandi proprietari e imprenditori non è stata letta, come in occidente, quale frutto di un lungo processo storico, ma semplicemente come l'illegittimo furto, da parte di una banda di ladri, di risorse appartenenti al popolo. 
Ed è proprio il contrasto tra il 'popolo' e gli 'oligarchi' a dominare gran parte della prospettiva ideologica ucraina, come rivela anche il nome del partito del presidente Volodymyr Zelensky: servitore del popolo, da porre in contrasto con coloro che al popolo si oppongono: gli oligarchi.

La protesta di Euromaidan non si capisce se non si legge anche in questa prospettiva: l'avvicinamento alla UE, l'abbattimento di simboli russi, l'occupazione degli edifici governativi e la cacciata del russofilo Viktor Janukovic sono altrettanti segnali della voglia di un cambiamento radicale, che modifichi le dinamiche sociali ucraine, un cambiamento che arrivi ad occidentalizzare le classi magnatizie ucraine, responsabilizzandole all'interno di una prospettiva nazionale che premi il merito e l'amor di patria più che il semplice accumulo di ricchezze visto con un misto di meravigliata invidia e di odio dalle classi inferiori. 
L'ascesa di Servitore del popolo e di Zelensky in particolare, è stata aiutata da una forte propaganda anti-oligarchica. Una volta diventato presidente, l'ex attore ha ingaggiato una politica che avrebbe dovuto essere il prologo di un cambiamento profondo.
Con la legge nr. 5600 si stabiliscono i criteri per definire a livello pubblico e ufficiale chi sia un 'oligarca': oligarca è colui che possiede beni per più di 85 milioni di dollari e che abbia un ruolo determinante in tre settori: economia, media e politica. In altre parole, questa legge condanna il fil rouge tra potere economico e potere politico, visto come la premessa di qualsiasi decadimento della vita pubblica e sociale. La qualifica non è una semplice etichetta infamante, ma una serie di decreti di ferro ne dovrebbero limitare le attività in tutti i campi sopra menzionati: nel settore economico non son più possibili per loro appalti pubblici; nel settore politico è severamente vietato ogni finanziamento ai partiti; nel settore dei media sono obbligati alla chiarezza più assoluta per quanto riguarda le loro attività, di qualsiasi genere.

Tuttavia, è possibile per un corpo respirare senza polmoni? E' pensabile trasformare una intera classe sociale che, peraltro, è stata il motore della società nell'arco degli ultimi trent'anni circa?
Davvero è credibile che il finanziamento privato ai partiti scomparisse con un colpo di bacchetta magica di un decreto presidenziale?
La società ucraina, anche dopo Euromaidan, rimane profondamente permeata dell'influenza degli oligarchi, siano essi etichettati con i criteri della legge 5600 o meno. 
Indicativo il caso di un'inchiesta di alcuni giornalisti tedeschi i quali, dopo le elezioni del 2019, indagarono sui finanziamenti a Servitore del Popolo: nessun oligarca ma un macellaio, un pensionato, un carcerato e altri personaggi anonimi. Non è difficile quindi, per chi ha in mano le redini del gioco, aggirare la legge nr. 5600 semplicemente delegando ad altri il finanziamento; non è difficile per chi possiede più di 85 milioni di dollari spostare i fondi all'estero e improvvisamente non corrispondere più, ai sensi della legge 5600, alla categoria di 'oligarca'.
Il sogno di Euromaidan è lungi dall'essere realizzato, ma sicuramente esiste una reazione popolare e anche politica allo strapotere degli oligarchi, difficile però da eliminare senza una lotta dura, lunga e irta di pericoli.
I due grandi nemici Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin hanno, in questo senso, il medesimo problema: quello di una categoria di magnati che trascende la classe politica e che, se sfidati apertamente, potrebbero reagire in maniera inaspettata e ostile. In quest'ottica, le sanzioni europee volte a danneggiare gli oligarchi russi hanno lo scopo di mettere questi ultimi contro Putin, nella consapevolezza che loro, più che i militari, potrebbero mollare il presidente causandone la caduta.
Tuttavia la guerra, finora, sembra aver compattato i rispettivi fronti, più che il contrario: in Ucraina, il pensiero per la sicurezza nazionale è l'arma con la quale Zelensky riesce a tenere buoni i suoi oligarchi; in Russia, i magnati vedono con interesse la possibilità di accaparrarsi di nuovi settori energetici e alimentari, nel caso che l'Ucraina ricada nuovamente sotto la sfera d'influenza russa.
Solo il tempo dirà se questa alleanza è destinata a durare o se le teste di Zelensky e Putin verranno offerte, come nel racconto di Rabbi Nachman dal quale abbiamo preso la citazione iniziale, come sacrificio ai ricchi, che erano considerati déi. 
Fonti: Scaglione Fulvio, Zelensky e il peso degli oligarchi, in Limes 2/2022


venerdì 22 aprile 2022

HAI SEMPRE MENTITO

1006_HAI SEMPRE MENTITO (A woman's secret). Stati Uniti, 1949;  Regia di Nicholas Ray.

In genere liquidato dalla critica e dallo stesso regista Nicholas Ray come opera di scarso valore nonché la peggiore della filmografia dell’autore americano, Hai sempre mentito ha in ogni caso più di qualche motivo di interesse. Il film fu imposto a Ray della produzione e il regista non si sforzò probabilmente più di tanto per realizzarlo. In effetti qualche debolezza la si avverte distintamente, guardando il film, ad esempio nelle interferenze all’indagine ad opera della moglie dell’ispettore della vicenda, la signora Fowler (Mary Phillips). C’è un ispettore di polizia, è quindi ovvio che siamo in tema di poliziesco, una vicenda giallo-noir ambientata nel mondo dello spettacolo. Protagonisti, un trio di attori in stato di grazia che sono appunto uno dei motivi per cui vale la pena guardare il film. Il triangolo sentimentale, che in questo caso non sfocia mai nel melodramma, è composto da due donne e un uomo: quest’ultimo è Luke Jordan (Melvyn Douglas), tizio che sta un po’ sopra le righe cercando di fare il simpatico e, in qualche caso, riuscendoci pure. Il vero confronto è però tra le due attrici: a Maureen O’Hara (e alla sua Marian) spetta il compito di portare la croce, a Gloria Grahame (nei panni di Susan Estrellita Caldwell), quello di illuminare la scena e prendersi gli onori. Oltre a far perdere la testa allo stesso Nicholas Ray che se ne innamorò sul set e la prese successivamente in moglie. La O’Hara era un’attrice già affermata mentre la Grahame un’emergente che si apprestava però ad attraversare un periodo d’oro della carriera, coronato da un Oscar e da una serie di interpretazioni sontuose. 

Grosso modo questi sono anche i ruoli che le due attrici interpretano in Hai sempre mentito: l’ambiente è quello della musica e Marian è una cantante che ha perso la voce e riversa il suo amore per l’arte canora insegnando e guidando la carriera di Susan, una sprovveduta provinciale aspirante artista giunta a New York per fare un provino (di danza). La O’Hara è costretta dal copione a ingoiare un po’ di rospi a fronte della verve e della freschezza della Grahame, che nella realtà ha tre anni in meno mentre nel film sembrano minimo una decina. L’attrice di origini irlandesi, oltre a quell’indomita vena battagliera che le sarà utile per reggere l’urto scenico nei ruoli che la vedranno a fianco di John Wayne, aveva però anche la capacità di sopportare stoicamente una china sfavorevole. Dal canto suo Gloria Grahame è impareggiabile nel giocare sulla doppia traccia, in questo caso tra l’ingenua ragazza che arriva da un paesino nella grande città e la femmina capace di carpire l’occasione al volo, quando non di costruirsela. Le sue battute nei dialoghi sono, come sempre, impagabili. Tuttavia va detto che le schermaglie tra le due attrici sono messe in secondo piano dall’ingombrante indagine che vede protagonista il bravo Jay C. Flippen, nel ruolo del citato ispettore Fowler, affiancato dallo zelante Luke amico della vittima tanto quanto dell’indagata. Il giallo, la ricerca della verità a proposito di un probabile omicidio/suicidio, non è neanche male ma in definitiva vale come bilancio finale l’esito della trama. Il delitto non si concretizza (Susan non muore) e quindi il tutto si risolve in un nulla di fatto. Certo, va messo a referto che Marian, che si autoaccusava di aver sparato all’amica, finalmente riesce a fare centro nel cuore di Luke. Ma sembra una vittoria per ritiro dell’avversario più che per meriti riconosciuti (soprattutto dall’uomo, che pare quasi accettare l’invito a cena della donna non avendo la trama altre eventualità). Dal canto suo Susan seppur non è morta, ha però perso Luke e si ritrova qualche guaio da risolvere. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che saprà cavarsi d’impaccio.
Diamine, è pur sempre Gloria Grahame.     






Gloria Grahame 







Maureen O'Hara 




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