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sabato 20 novembre 2021

THE WATER DIVINER

929_THE WATER DIVINER. Australia, Stati Uniti, Turchia, 2014; Regia di Russell Crowe.

Alla sua prima esperienza come regista, Russell Crowe va sul sicuro e, come soggetto, prende una storia forte, di grande valenza sotto tutti gli aspetti. The water diviner racconta infatti di un padre che, nel 1919, parte dall’Australia per andare in Turchia a cercare i resti dei suoi tre figli, tutti morti lo stesso giorno nella tragica Battaglia di Gallipoli. Oltre all’enorme carico emotivo per la questione famigliare del protagonista, Joshua Connor (interpretato dallo stesso Crowe), c’è anche quello che riguarda quei drammatici avvenimenti legati alla sciagurata spedizione alleata durante la Prima Guerra Mondiale. Tra l'altro, ad enfatizzare ulteriormente, c’è la  ricorrenza quasi centenaria, visto che gli scontri in questione risalgono al 1915 e, comunque, nel 2014 si celebrano (se si può dire in questo modo) i cento anni dall’inizio della Grande Guerra. Contestualizzazioni a parte, abbiamo quindi un padre e tre figli morti in guerra: ma la storia raccontata nel film non risparmia allo spettatore alcuna emozione sul fronte privato del protagonista, visto che la moglie di Connor, Eliza (Jaqueline McKenzie) si suicida per il dolore. Assicuratosi una buona struttura emotiva per la sua storia, Crowe, che da stella hollywoodiana dimostra di conoscere bene le leggi dello star system, organizza un cast coi controfiocchi, perlomeno adeguato al film che deve imbastire. Infatti, se gli attori che interpretano i turchi sono funzionali (Yılmaz Erdoğan è il maggiore Hasan e Cem Ylmaz è Jamal, il suo fido braccio destro) è sorprendente, se si pensa al tipo di storia in questione, il comparto femminile. Una bellissima ed elegantissima Olga Kurylenko è Ayshe, che intesserà una traccia sentimentale neanche troppo sotterranea con Connor; ma nel cast, quasi solo con funzione decorativa, si segnalano due assoluti esempi di bellezza australiana quali Isabel Lucas e Megan Gale. 

La storia è ruffiana, politicamente corretta e sentita al punto giusto, la regia è d’ordinanza, ma comunque da cinema mainstream, la fotografia è calda come si conviene ad un film che si divide, non in parti uguali, tra Australia e Turchia, terre comunque assolate. E’ un film che emoziona, niente da dire; che racconta di una tragedia, e quando lo fa, con le scene di guerra, pesta anche durissimo. Crowe è però un marpione e, sotto sotto, oltre a lasciarci con una speranza, si ritaglia un lieto fine zuccherosissimo, come ironicamente e consapevolmente ci fa notare nel finale. Tutto ciò può anche bastare per fare di The water diviner un bel film, emozionante e coinvolgente. Ma le cose veramente interessanti sono altre. Innanzitutto, il titolo fa riferimento alla capacità di Connor di trovare l’acqua nella desertica campagna australiana con l’uso delle classiche bacchettine di legno. Una capacità che aiuterà l’uomo a localizzare, precisamente, il punto in cui si trovano due dei suoi tre figli su un campo di battaglia enorme e cosparso di cadaveri ormai decomposti. 

Il colonnello Hilton (Jai Courtney) rende esplicita la domanda che ogni spettatore si era già fatto quando Connor aveva trovato l’acqua nella sua tenuta in Australia: come ha fatto? La rabdomanzia non è riconosciuta a livello scientifico, quindi la domanda è lecita. Ma Crowe non si premura affatto di darci una risposta e questo, in un’opera formalmente confezionata come un tipico prodotto cinematografico internazionale, è strano. In realtà, forse c’è qualcosa che può aiutarci a capire, sebbene non sembri il tipo di soluzione che ci si potrebbe aspettare in questo contesto. Perché c’è un’altra cosa che lascia spiazzati, in The water diviner, ed è una serie di passaggi che il montaggio cinematografico scombina mettendoli fuori sequenza, quando Connor arriva a Gallipoli, all’hotel di Ayshe. Sotto una luce eccessivamente giallognola, la cronologia degli eventi non viene rispettata; sono passaggi per nulla importanti, ai fini della storia, se non fosse che è il momento a suo modo fatale dell’incontro tra Connor e Ayshe. 

Ma, anche per questo loro essere secondari, salta all’occhio che nel loro scorrere ci siano delle anomalie narrative: sono in pratica una serie di salti temporali, ora aventi ora indietro, in una storia che prevede già un flasback predominante che riguarda il ricordo degli eventi bellici. Tecnicamente hanno un effetto disturbante perché non se ne comprende il motivo: ma la vicenda ci costringe, volenti o nolenti, ad andare oltre, perché poi la storia procede ed entra nel vivo. Ecco, forse lo sforzo che ci è richiesto per accantonare questi dubbi, queste perplessità, a fronte di un film che, in quegli attimi, non rispetta le convenzioni narrative e le nostre abituali convinzioni, è della stessa natura di quello richiesto alle persone coinvolte dai lutti della guerra. D’altra parte poi il senso di quei passaggi scombinati siamo benissimo capaci di assembrarlo da noi, mettendo mentalmente i frammenti al posto giusto. Così come sembra anche chiaro cosa, almeno metaforicamente, aiuti Connor a trovare i resti dei suoi figli: l’amore di padre. Insomma, bisogna essere capaci di guardare oltre, di non ostinarsi a cercare una risposta tra quelle che abbiamo già nel nostro bagaglio di conoscenze, smettere di incaponirsi su dettagli fuorvianti, solo perché non rispondono alla nostra idea preventiva. Provare semmai a fidarsi dell’altro, anche se ci può sembrare una risposta difficile da capire, come la lingua turca per un australiano, e ignota, come una città di un'altra cultura e di un’altra religione. Ed oscura come una tazzina di caffè. 


Olga Kurylenko





 Megan Gale



Isabel Lucas


giovedì 18 novembre 2021

CEUX DE 14: EP. 6 LA DERNIERE ATTAQUE

928_CEUX DE 14: EP. 6 LA DERNIERE ATTAQUE. Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky. 

L’episodio conclusivo di Ceux de 14, intitolato La dernière attaque (l’ultimo attacco) raccoglie i frutti delle precedenti puntate, giustificando il lirismo nel finale dove si lascia intendere che il protagonista, il tenente Genevoix (Théo Frillet), rimanga ucciso. Nella realtà il militare francese venne soltanto gravemente ferito, come è anche intuibile dal fatto che è sua la voce narrante e, in ogni caso, la serie Ceux de 14 è tratta dall’omonima raccolta di racconti dello stesso Maurice Genevoix. Tuttavia è una sorta di piccolo bluff che si può benissimo concedere al regista Schatzky perché la morte del protagonista, a conflitto tutt’altro che finito, rende perfettamente l’idea di quanto fosse davvero grande, anche in termini di durata nel tempo, la Grande Guerra. Ma Ceux de 14, con il suo estenuante resoconto sulla battaglia di Les Éparges, riesce soprattutto a veicolare quanto fossero infiniti gli scontri della guerra di trincea. Nello specifico, la battaglia di Les Éparges si protrasse per quasi due mesi; due mesi con gli eserciti a contendersi un’insignificante (almeno per gli occhi del profano) cresta che dominava la piana di Woëvre. Ovviamente, nell’ottica militare la posizione era strategica ma non da un punto di vista, diciamo così, esteticamente evidente; e poi il risultato di questo accanimento per una postazione determinante per il controllo dell’area ma non così difendibile in sé stessa, dava luogo ad una serie di ribaltamenti delle sorti degli scontri che rendevano poco comprensibili gli avvenimenti. 

Questo per di più nel contesto di una guerra di trincea, dove la maggioranza degli assalti veniva respinta, alimentando l’impressione di trovarsi in una situazione senza sbocchi anche da questo versante. Pur nel dramma delle morti, e in questo episodio cadono, tra gli altri, il tenente Porchon (Félicien Juttner), Quelo (Come Levin), Biloray (Alexandre Carrière), oltre al protagonista nel finale, non manca la stoccata ironica agli alti papaveri della guerra. Già in precedenza il racconto aveva irriso un colonnello, preso a rappresentante della logica bellica e, proprio nell’episodio cruciale, Schatzky si ripete anche in modo più amaramente ironico. Un generale (Patrick Raynal) sta celebrando in pompa magna la presa della cresta di Eparges e ha appena annunciato che si tratta di un’impresa che passerà alla Storia per l’eternità, che ecco giungere un corriere a richiamare in prima linea il reparto del tenente Genevoix perché i tedeschi hanno contrattaccato riprendendosi l’altura contesa. Una scena gustosamente umoristica, ideale suggello del racconto prima del tragico epilogo. Umoristica, certo, sebbene l’opprimente clima della Prima Guerra Mondiale, ben interpretato sia dagli episodi del racconto che dalla musica che ci ha accompagnato facendosi via via sempre più lirica, arrivati a questo punto non ci concede che una mezza smorfia.

martedì 16 novembre 2021

BRAVERY UNDER FIRE

927_BRAVERY UNDER FIRE. Irlanda, 2018; Regia di Campbell Miller.

Docudrama che racconta la storia di padre Willie Doyle SJ (Brian Milligan), religioso cattolico che si arruolò volontario nella 16° divisione irlandese durante la Prima Guerra Mondiale, Bravery Under Fire è, pur se non troppo accattivante da un punto di vista narrativo, un testo molto interessante. L’opera di Campbell Miller, che alterna ricostruzioni filmate ad interviste o immagini d’epoca, mette l’accento su aspetti che troppo spesso, nella normale narrativa cinematografica, hanno uno spazio relativo. Certo, il soldato sofferente e morente si è visto in centinaia di film bellici e facilmente è inteso come simbolo di tutti i morti in guerra. Ma Bravery Under Fire sottolinea come questo aspetto sia enormemente il più importante, rispetto a qualunque altro argomento inerente alla guerra: di fronte alla morte, all’atroce sofferenza deliberatamente inflitta in serie, con una sorta di catena di montaggio che produce cadaveri e dolore, tutti gli altri temi dovrebbero scomparire. Certo, ci sono le ragioni degli uni e degli altri da analizzare, anche perché sono le cause (in effetti parola impropria, in realtà sono solo pretesti) e quindi vanno comprese per poter evitare che si ripresentino generando nuovi conflitti. Per far questo, a livello narrativo, si derubrica la sofferenza e la morte seminate dalla guerra per poter concentrarci su altri aspetti che sembrano più utili all’analisi. In realtà, e Bravery Under Fire e l’opera di Padre Doyle sono lì a testimoniarlo, la sofferenza che scaturisce da un conflitto è una tragedia superiore ad ogni altra cosa e solo comprendendo questo si potrebbe sperare di non ricascarci ancora. Il tema religioso, Padre Doyle era un gesuita, è anch’esso affrontato dal film con un certo spessore, anche per via della contingente crisi del cattolicesimo in Irlanda. Comprensibile, visto che è così un po’ in tutto il mondo per il cristianesimo in generale e non solo per i cattolici: attenendoci allo specifico, ovvero all’opera di Padre Doyle al fronte, c’è poco da dire se non che molto spesso l’attività di quei preti e sacerdoti, che con fede e coraggio si impegnarono in prima linea, nel corso della Storia è stata davvero encomiabile. Scegliendo un po’ a caso tra i tanti impressionanti passaggi tra la sofferenza dei feriti al fronte, si possono ricordare il soldato che stava soffocando per via di quella maschera antigas che era anche quella che lo teneva in vita o il soldato tedesco gravemente ferito che, una volta catturato, chiede al sacerdote di scrivere alla sua famiglia. Il primo ci ricorda l’assurdità della guerra, il secondo che condividiamo tutti le medesime preoccupazioni. 



domenica 14 novembre 2021

CEUX DE 14: EP. 5 LA MORT DE PRES

926_CEUX DE 14: EP. 5 LA MORT DE PRES. Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.

La mort de près (la morte da vicino) recita significativamente il titolo della penultima puntata de Ceux de 14 e, non a caso, l’episodio si apre con un tentativo di diserzione: Biloray (Alexandre Carrière) viene sorpreso dalla truppa a nascondersi nel fieno e solo l’intervento del tenente Genevoix (Théo Frillet) lo risparmia dall’ira dei commilitoni. E’ il 18 marzo 1915 e i francesi sferrano il secondo attacco alla cresta di Éparges.  Sul fronte le cose non si mettono troppo bene e il 106° è costretto a rimanere rintanato sotto i colpi dell’artiglieria mandando su tutte le furie il comando che lo vorrebbe all’arrembaggio. L’inaspettato atto eroico di Cerfeuil (Benoit Tachoires), che esce sotto il fuoco nemico per sistemare la linea telefonica, si chiude, ancora più sorprendentemente, con la sua morte una volta rientrati nelle retrovie. Il momento toccante degli uomini del 106° che, al suo improvvisato capezzale, leggono nel buio della notte l’ultima lettera che Cerfeuil aveva scritto e non ancora spedito, amplifica l’amarezza. L’uomo aveva appena ricevuto la notizia dalla moglie di una nuova nascita nella già numerosissima famiglia e si apprestava a tornare in licenza: la gioia dell’evento gli aveva fatto passare la paura e si diceva sicuro di poter riabbracciare presto la consorte. Il momento intimo non è che il preambolo ad una pausa ben più corposa dall’attività bellica, visto che è giunta al reparto una compagnia teatrale per dare un po’ di conforto ai soldati. Per il tenente Genevoix il conforto è duplice visto che tra le attrici figurano Yvonne (Marie-Ange Casta) e Idalie (Esther Comar); per lasciare un minimo di campo alla traccia sentimentale tra il protagonista dell’opera e la sua ragazza, a quest’ultima viene opportunamente presentato il tenente Porchon (Félicien Juttner).

venerdì 12 novembre 2021

SGT. STUBBY: AN AMERICAN HERO

925_SGT. STUBBY: AN AMERICAN HERO Stati Uniti, 2018; Regia di Richard Lanni.

Se si pensa all’idea di un film di animazione, e quindi tradizionalmente rivolto ai più piccoli, che abbia come sfondo la Prima Guerra Mondiale, uno degli eventi più influenti della Storia contemporanea, non si può che condividere la scelta di Richard Lanni, regista di Sgt. Stubby: an american hero. Pare che guardando alcuni documentari trasmessi in occasione del centenario della Grande Guerra, Lanni si imbatté in questa assurda storia di un cane randagio, un American Bull Terrier o qualcosa del genere, che, dagli Stati Uniti, era finito addirittura al fronte in Europa. Lì si era distinto come bravo soldato a tal punto da meritarsi il grado di sergente sul campo di battaglia e, in seguito, anche la decorazione militare. Con queste premesse, adattando la vicenda al tenore adeguato di un film per ragazzi come abitualmente sono intesi quelli di animazione, poteva uscire qualcosa di veramente buono, si disse il nostro Lanni. Il botteghino segnerà, in realtà, un clamoroso flop, al punto che in alcuni paesi, Italia compresa, non ci si prenderà nemmeno la briga di distribuire il film. Peccato, certo, ma qualche responsabilità da parte degli autori per questo insuccesso è forse riscontrabile già ad una sommaria analisi. La strategia narrativa alla base era quella di inserire una serie di gradevoli personaggi più o meno di fantasia, fermo restando alcuni dettagli che rispettano con sufficiente rigore un tema serio come quello della Prima Guerra Mondiale, e quindi spingere forte sul pedale della naturale simpatia istantanea del cane protagonista per centrale appieno il bersaglio. 

Da un punto di vista tecnico la Computer Grafica asseconda in modo professionale le ambizioni del regista: il giovane soldato Conroy, i suoi commilitoni Schroeder e Olsen, il corpulento francese Gaston, sono valide spalle per la travolgente performance di Stubby, il protagonista della storia. L’animazione esalta la vivace vitalità del cane che si prende l’intera storia travolgendo con la sua simpatia chiunque gli capiti di fronte, sia nello schermo che fuori. Però, (purtroppo prima o poi c’è da arrivare al però) in fondo Sgt. Stubby: an american hero, per quanto si possa considerare un passatempo piacevole, lascia appunto qualche perplessità di troppo nello spettatore, e questo al di là dei riscontri al box office. 

Il film, come prevedibile essendo rivolto ad un pubblico di giovani, evita ogni deriva polemica contro la guerra, ed è una scelta anche comprensibile. Ma, il finale, con la sottolineatura dell’assurdità di combattere fino al preciso scadere dell’ora dell’armistizio, le undici dell’undici novembre (l’undicesimo mese dell’anno) è forse già un indizio che il tema sia un po’ troppo complesso per essere semplificato in una storia che non abbia connotati polemici. In fondo, combattere fino allo scadere era certamente una cosa poco logica ma forse non più di tanto rispetto al combattere quella guerra, specie per gli americani, in senso assoluto. Tuttavia questo passaggio sembra inserito per dare un po’ di pathos alla vicenda, visto che proprio in quell’ultimo assalto Olsen, uno dei protagonisti, perde la vita. La cosa è mostrata con discrezione, visto che del ragazzo non se ne trova più traccia e si desume della sua dipartita dal buco nel suo elmo ritrovato da Stubby: scelta fatta per non inserire scene troppo traumatizzanti che, in sé, si può anche dire ragionevole. Ma, volendo, è un’altra soluzione incoerente nel momento in cui si è deciso di ambientare il film durante il primo conflitto mondiale. Tuttavia il vero problema che mina la funzionalità di Sgt. Stubby: an american hero è che manca un cattivo di spessore: una storia semplificata, come è quella di Lanni rispetto alla realtà storica, necessita almeno di qualcuno (o qualcosa) che si prenda in carico la negatività, il Male, con cui i nostri personaggi facciano i conti. In ossequio alla patria e ai caduti della Grande Guerra, il racconto narra di come ‘fare il proprio dovere’ sia necessario; in sostanza, si accetta la guerra come facente parte del dovere di ciascuno. Poi però ci si lamenta se ci si chiede di farlo fino alla fine e già la cosa mostra quindi qualche debolezza, almeno in linea di principio. Che è comunque meno rilevante dell’altro aspetto poco convincente dell’opera. 

L’idea di stilizzare le scene di ricostruzione degli eventi bellici è ottima di suo e anche funzionale agli equilibrismi degli autori perché evita una raffigurazione troppo diretta del nemico, i crucchi, i bosch, insomma i tedeschi ma prima o poi questi finiscono per comparire anche nel racconto vero e proprio. Lo stratagemma narrativo di Lanni per risolvere questo suo problema, ovvero evitare di mostrare in volto i nemici, ha ragion d’essere all’inizio, durante gli attacchi col gas velenoso ma, successivamente, vedere sempre i tedeschi con la maschera antigas anche quando non necessario rivela semmai le difficoltà del lungometraggio. 

Si cerca, cioè, di raccontare un fatto storico complesso, con ragioni e torti da una parte e dall’altra e, per semplificare il discorso e renderlo più accessibile, si dividono invece gli schieramenti in buoni e cattivi. Poi, per evitare di offendere i tedeschi, si evita il più possibile di mostrarli inserendo, tra l’altro, un personaggio, Schroeder, convintamente yankee ma germanico di origine, forse per dimostrare, finendo su un terreno narrativamente assai scivoloso, come i tedeschi possano essere buoni una volta americanizzati. Qui si sfiora l’autogoal, perché la rivendicazione del ragazzo in questione di essere americano, di fatto rinnegando con vigore la propria origine tedesca, potrebbe offrire il fianco a strumentalizzazioni di parte. Vero è che la verve straripante di Stubby relega tutto quanto questo sullo sfondo e quello a cui assistiamo, in buona sostanza, è un campionario di espressioni e scorribande del simpatico cagnone. Ma questi aspetti è come se covassero dentro al racconto che, così sviluppato, non riesce a cogliere pienamente nel segno. Insomma, buone le intenzioni in origine ma la solita e diffusissima paura di offendere narrativamente qualcuno è, per assurdo, assai più castrante del consueto in un film come Sgt. Stubby: an american hero a cui manca, in definitiva, un cattivo che dia un po’ di nerbo alla storia.




mercoledì 10 novembre 2021

LE COLLIER ROUGE

924_LE COLLIER ROUGE Francia, Belgio, 2018; Regia di Jean Becker.

Tipico gioiello della scuola francese (nello specifico, l'opera è franco/belga) colpevolmente ignorato in Italia, Le collier rouge è un film girato con rara perizia narrativa da Jean Becker. La sua regia è discreta, funzionale, eppure il film ha una confezione formalmente adeguata al testo, che è il vero punto forte dell’opera. Il racconto, pur mostrandosi come un dramma sulla Prima Guerra Mondiale e i suoi risvolti, si dipana come una storia misteriosa, con colpi di scena narrativi degni del miglior giallo. Non manca, anzi è uno dei fulcri della vicenda, la storia d’amore i cui passaggi sentimentali sono però sagacemente stemperati con la funzionale presenza del cane, altro perno attorno al quale ruota il racconto. Il titolo del film, che rimane incomprensibile fino al colpo di scena finale, fa riferimento proprio al cane senza nome che si è appostato fuori dalla prigione militare in un piccolo paesino francese. Dentro è rinchiuso Morlac (Nicolas Duvauchelle), suo padrone (o meglio, compagno della sua padrona) in attesa di giudizio per oltraggio alla patria. Di quella guerra mondiale finita da poco, Morlac era però un soldato decorato sul campo di battaglia con la Legion d’onore; giudicarlo non era quindi cosa da prendere alla leggera. Il comandante Lantier (François Cluzet, bravissimo) arriva appositamente per studiare il caso e prendere una decisione nel merito, se condannare o meno l’imputato. Le indagini del vecchio ufficiale scavano sia nella vita privata di un recalcitrante a collaborare Morlac, sia nella sua esperienza in prima linea durante la guerra. 
Il cane, a questo punto, non sembra poi un elemento così essenziale nel racconto: d’accordo, c’è l’aspetto bizzarro del fatto che seguì Morlac in guerra, diventando a sua volta una sorta di combattente francese, ma pare più che altro un elemento coreografico. Come detto, Le collier rouge ha la costruzione narrativa di un giallo e, infatti, proprio sul più bello, il cane ci sorprende determinando la svolta cruciale nel racconto in flashback di Morlac. Fronte orientale, i russi sono affiancati ai francesi fronteggiando i bulgari; tra i primi serpeggiano i moti rivoluzionari che finiscono per contagiare non solo gli alleati ma addirittura anche i nemici. Si decide quindi di dare il via ad una sorta di insurrezione internazionale nel nome della fratellanza dei popoli: all’ora stabilita, tutti e tre gli schieramenti escono dalle trincee per cantare insieme. 

Il cane, che fino a quel momento aveva combattuto chi proveniva dalla trincea opposta, fraintende la situazione e scatena il finimondo: a Morlac verrà attribuito il merito, e la decorazione, per la gloriosa offensiva in campo aperto. Se il soldato, in un primo momento prende in odio il suo animale che per aver mandato in malora i suoi progetti pacifisti, in seguito si rende conto che, in fondo, il cane aveva fatto solo il suo dovere di soldato, ed era quindi lui ha meritarsi quella Legion d’onore che avevano erroneamente affibbiato a lui. I politici, gli alti ufficiali, vogliono semplicemente bestie per fare le loro inutili guerre e il comportamento adeguato del cane ai loro dettami ne era la prova: grazie all’abilità narrativa di Becker, questi aspetti metaforici del racconto non vengono sviliti una volti esposti esplicitamente, dalle parole di Morlac, che li sputa in faccia a Lantier senza mezzi termini. Il comandante, però, non è solo un uomo saggio e comprensivo ma possiede soprattutto il fiuto del detective e comprende che questa spiegazione, per quanto funzionale, non basta a giustificare il comportamento di Morlac. Per la verità, questa graffiante zampata funziona egregiamente come riflessione sulla guerra ma ha una logica maggiore al di qua dello schermo. Dentro al racconto, a Morlac, in fondo, Lantier chiede unicamente di dare una minima pezza giustificativa al suo gesto irriguardoso senza la quale la condanna sarebbe inevitabile. Ma Morlac non cede. Almeno finché non saltano fuori, e qui ritorna l’abilità di giallista di Becker, alcuni risvolti, rivelati con precisa tempistica, della storia sentimentale che pian piano emerge e si intreccia alle indagini. 
Protagonista è la splendida Sophie Verbeeck nei panni di Valentine, la citata padrona del cane: la capacità di dosare la sua presenza e in generale quella delle beghe amorose, peraltro, come detto, cruciali nella risoluzione della storia, è un altro aspetto che depone a favore de Le collier rouge. Il film di Becker non diviene mai un drammone sentimentale e nemmeno scivola nella favola animalista vista la presenza del simpatico cagnolone. Le collier rouge è un superbo film che racconta come, alle volte, dietro a forti prese di posizione ci siano unicamente motivi strettamente personali e si ricorra all’ideologia, alla fede politica o ad altri temi altisonanti, arrivando per questo a pagare sulla propria pelle, pur di nascondere la verità. E non sempre c’è un cane che, con il suo sincero abbaiare, come nel finale de Le collier rouge, possa aiutarci. 





Sophie Verbeeck




lunedì 8 novembre 2021

RIN TIN TIN

923_RIN TIN TIN (Finding Rin Tin Tin)Stati Uniti, Bulgaria, 2007; Regia di Danny Lerner.

Nella storia del cinema, Rin Tin Tin è stato una delle maggiori celebrità canine, insieme a Lassie, ma va specificato che nell’arco degli anni ad interpretarne il ruolo furono chiamati diversi soggetti, sebbene nei primi tempi di linea parentale. Al netto di queste precisazioni, il personaggio del pastore tedesco più celebre del grande schermo interpretò svariate avventure di fantasia, tuttavia esiste una curiosa storia sul capostipite di questa dinastia. Intanto va detto che Rin Tin Tin era il reale nome del cane che, trovato cucciolo in Francia, durante la Prima Guerra Mondiale, venne portato negli Stati Uniti dove, grazie ad alcune fortunate coincidenze, finì per diventare un attore di Hollywood. Il successo del simpatico cane durò dagli anni venti fin quasi agli anni settanta del secolo scorso, anche se alla televisione le repliche proseguirono ancora per qualche tempo. Ma, sostanzialmente, la stella di Rin Tin Tin finì poi per affievolirsi. Almeno fino al 2007, quando la storia vera del pastore tedesco servì da solido spunto per Rin Tin Tin, film per ragazzini che ci riporta a certe storiche produzioni Disney degli anni sessanta, per la regia di Danny Lerner. L’opera, per la verità, non è particolarmente degna di nota, anche se per passare una serata coi propri figli, ma solo se sono sotto i dieci anni, può svolgere dignitosamente il suo compito. Pur con le tantissime licenze poetiche, rispetto ai reali fatti a cui si ispira, l’aspetto più interessante della produzione è proprio la vicenda del cucciolo trovato durante la Grande Guerra dal soldato americano, Lee Duncan (nel film Tyler Jensen). Nella storia raccontata dal film, Rinty, questo il soprannome del cane, non viene portato subito in America ma rimane nel reparto di Duncan dove finisce per divenire l’esuberante mascotte. In coppia col piccolo Jaques (Ivan Rankov) si rende protagonista di una serie di gag slapstick ai danni di Johnson (Steven O’Donnell), il grosso e losco cuoco del presidio. Non si tratta certo di esempi di umorismo particolarmente memorabili ma sostanzialmente si sfrutta la comicità nel veder umanizzato il comportamento del cane o, in alternativa, si fa continuo ricorso alla deriva scatologica (che ricorda quella di molti spaghetti western), che ha sempre un effetto ilare sul pubblico infantile sebbene sia uno stratagemma davvero di grana grossa. Flatulenze varie a parte, memorabile la scena in cui Rinty fa la pipì dentro la tazzina dove Johnson beve il liquore con le prevedibili disgustose conseguenze. Insomma, si può tranquillamente sostenere che Rin Tin Tin sia un film del tutto superfluo, per le qualità intrinseca all’operazione, ma non se consideriamo il piacere di rivedere ancora scorrazzare per lo schermo il simpatico cagnolone. 




Michal Yannai