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sabato 20 novembre 2021
THE WATER DIVINER
giovedì 18 novembre 2021
CEUX DE 14: EP. 6 LA DERNIERE ATTAQUE
928_CEUX DE 14: EP. 6 LA DERNIERE ATTAQUE. Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.
L’episodio conclusivo di Ceux de 14, intitolato La dernière attaque (l’ultimo attacco) raccoglie i frutti delle precedenti puntate, giustificando il lirismo nel finale dove si lascia intendere che il protagonista, il tenente Genevoix (Théo Frillet), rimanga ucciso. Nella realtà il militare francese venne soltanto gravemente ferito, come è anche intuibile dal fatto che è sua la voce narrante e, in ogni caso, la serie Ceux de 14 è tratta dall’omonima raccolta di racconti dello stesso Maurice Genevoix. Tuttavia è una sorta di piccolo bluff che si può benissimo concedere al regista Schatzky perché la morte del protagonista, a conflitto tutt’altro che finito, rende perfettamente l’idea di quanto fosse davvero grande, anche in termini di durata nel tempo, la Grande Guerra. Ma Ceux de 14, con il suo estenuante resoconto sulla battaglia di Les Éparges, riesce soprattutto a veicolare quanto fossero infiniti gli scontri della guerra di trincea. Nello specifico, la battaglia di Les Éparges si protrasse per quasi due mesi; due mesi con gli eserciti a contendersi un’insignificante (almeno per gli occhi del profano) cresta che dominava la piana di Woëvre. Ovviamente, nell’ottica militare la posizione era strategica ma non da un punto di vista, diciamo così, esteticamente evidente; e poi il risultato di questo accanimento per una postazione determinante per il controllo dell’area ma non così difendibile in sé stessa, dava luogo ad una serie di ribaltamenti delle sorti degli scontri che rendevano poco comprensibili gli avvenimenti.
Questo per di più nel contesto di una guerra di trincea, dove la maggioranza degli assalti veniva respinta, alimentando l’impressione di trovarsi in una situazione senza sbocchi anche da questo versante. Pur nel dramma delle morti, e in questo episodio cadono, tra gli altri, il tenente Porchon (Félicien Juttner), Quelo (Come Levin), Biloray (Alexandre Carrière), oltre al protagonista nel finale, non manca la stoccata ironica agli alti papaveri della guerra. Già in precedenza il racconto aveva irriso un colonnello, preso a rappresentante della logica bellica e, proprio nell’episodio cruciale, Schatzky si ripete anche in modo più amaramente ironico. Un generale (Patrick Raynal) sta celebrando in pompa magna la presa della cresta di Eparges e ha appena annunciato che si tratta di un’impresa che passerà alla Storia per l’eternità, che ecco giungere un corriere a richiamare in prima linea il reparto del tenente Genevoix perché i tedeschi hanno contrattaccato riprendendosi l’altura contesa. Una scena gustosamente umoristica, ideale suggello del racconto prima del tragico epilogo. Umoristica, certo, sebbene l’opprimente clima della Prima Guerra Mondiale, ben interpretato sia dagli episodi del racconto che dalla musica che ci ha accompagnato facendosi via via sempre più lirica, arrivati a questo punto non ci concede che una mezza smorfia.
martedì 16 novembre 2021
BRAVERY UNDER FIRE
927_BRAVERY UNDER FIRE. Irlanda, 2018; Regia di Campbell Miller.
Docudrama che racconta la storia di padre Willie Doyle
SJ (Brian Milligan), religioso cattolico che si arruolò volontario nella 16°
divisione irlandese durante la Prima Guerra Mondiale, Bravery Under Fire
è, pur se non troppo accattivante da un punto di vista narrativo, un testo
molto interessante. L’opera di Campbell Miller, che alterna ricostruzioni
filmate ad interviste o immagini d’epoca, mette l’accento su aspetti che troppo
spesso, nella normale narrativa cinematografica, hanno uno spazio relativo.
Certo, il soldato sofferente e morente si è visto in centinaia di film bellici
e facilmente è inteso come simbolo di tutti i morti in guerra. Ma Bravery
Under Fire sottolinea come questo aspetto sia enormemente il più
importante, rispetto a qualunque altro argomento inerente alla guerra: di
fronte alla morte, all’atroce sofferenza deliberatamente inflitta in serie, con
una sorta di catena di montaggio che produce cadaveri e dolore, tutti gli altri
temi dovrebbero scomparire. Certo, ci sono le ragioni degli uni e degli altri
da analizzare, anche perché sono le cause (in effetti parola impropria,
in realtà sono solo pretesti) e quindi vanno comprese per poter evitare che si
ripresentino generando nuovi conflitti. Per far questo, a livello narrativo,
si derubrica la sofferenza e la morte seminate dalla guerra per poter
concentrarci su altri aspetti che sembrano più utili all’analisi. In realtà, e Bravery
Under Fire e l’opera di Padre Doyle sono lì a testimoniarlo, la sofferenza
che scaturisce da un conflitto è una tragedia superiore ad ogni altra cosa e
solo comprendendo questo si potrebbe sperare di non ricascarci ancora. Il tema
religioso, Padre Doyle era un gesuita, è anch’esso affrontato dal film con un
certo spessore, anche per via della contingente crisi del cattolicesimo in
Irlanda. Comprensibile, visto che è così un po’ in tutto il mondo per il
cristianesimo in generale e non solo per i cattolici: attenendoci allo
specifico, ovvero all’opera di Padre Doyle al fronte, c’è poco da dire se non
che molto spesso l’attività di quei preti e sacerdoti, che con fede e coraggio
si impegnarono in prima linea, nel corso della Storia è stata davvero
encomiabile. Scegliendo un po’ a caso tra i tanti impressionanti passaggi tra
la sofferenza dei feriti al fronte, si possono ricordare il soldato che stava
soffocando per via di quella maschera antigas che era anche quella che lo
teneva in vita o il soldato tedesco gravemente ferito che, una volta catturato,
chiede al sacerdote di scrivere alla sua famiglia. Il primo ci ricorda
l’assurdità della guerra, il secondo che condividiamo tutti le medesime
preoccupazioni.
domenica 14 novembre 2021
CEUX DE 14: EP. 5 LA MORT DE PRES
926_CEUX DE 14: EP. 5 LA MORT DE PRES. Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.
La mort de près (la morte da vicino) recita significativamente il titolo della penultima puntata de Ceux de 14 e, non a caso, l’episodio si apre con un tentativo di diserzione: Biloray (Alexandre Carrière) viene sorpreso dalla truppa a nascondersi nel fieno e solo l’intervento del tenente Genevoix (Théo Frillet) lo risparmia dall’ira dei commilitoni. E’ il 18 marzo 1915 e i francesi sferrano il secondo attacco alla cresta di Éparges. Sul fronte le cose non si mettono troppo bene e il 106° è costretto a rimanere rintanato sotto i colpi dell’artiglieria mandando su tutte le furie il comando che lo vorrebbe all’arrembaggio. L’inaspettato atto eroico di Cerfeuil (Benoit Tachoires), che esce sotto il fuoco nemico per sistemare la linea telefonica, si chiude, ancora più sorprendentemente, con la sua morte una volta rientrati nelle retrovie. Il momento toccante degli uomini del 106° che, al suo improvvisato capezzale, leggono nel buio della notte l’ultima lettera che Cerfeuil aveva scritto e non ancora spedito, amplifica l’amarezza. L’uomo aveva appena ricevuto la notizia dalla moglie di una nuova nascita nella già numerosissima famiglia e si apprestava a tornare in licenza: la gioia dell’evento gli aveva fatto passare la paura e si diceva sicuro di poter riabbracciare presto la consorte. Il momento intimo non è che il preambolo ad una pausa ben più corposa dall’attività bellica, visto che è giunta al reparto una compagnia teatrale per dare un po’ di conforto ai soldati. Per il tenente Genevoix il conforto è duplice visto che tra le attrici figurano Yvonne (Marie-Ange Casta) e Idalie (Esther Comar); per lasciare un minimo di campo alla traccia sentimentale tra il protagonista dell’opera e la sua ragazza, a quest’ultima viene opportunamente presentato il tenente Porchon (Félicien Juttner).
venerdì 12 novembre 2021
SGT. STUBBY: AN AMERICAN HERO
925_SGT. STUBBY: AN AMERICAN HERO . Stati Uniti, 2018; Regia di Richard Lanni.
Se si pensa all’idea di un film di animazione, e quindi tradizionalmente rivolto ai più piccoli, che abbia come sfondo la Prima Guerra Mondiale, uno degli eventi più influenti della Storia contemporanea, non si può che condividere la scelta di Richard Lanni, regista di Sgt. Stubby: an american hero. Pare che guardando alcuni documentari trasmessi in occasione del centenario della Grande Guerra, Lanni si imbatté in questa assurda storia di un cane randagio, un American Bull Terrier o qualcosa del genere, che, dagli Stati Uniti, era finito addirittura al fronte in Europa. Lì si era distinto come bravo soldato a tal punto da meritarsi il grado di sergente sul campo di battaglia e, in seguito, anche la decorazione militare. Con queste premesse, adattando la vicenda al tenore adeguato di un film per ragazzi come abitualmente sono intesi quelli di animazione, poteva uscire qualcosa di veramente buono, si disse il nostro Lanni. Il botteghino segnerà, in realtà, un clamoroso flop, al punto che in alcuni paesi, Italia compresa, non ci si prenderà nemmeno la briga di distribuire il film. Peccato, certo, ma qualche responsabilità da parte degli autori per questo insuccesso è forse riscontrabile già ad una sommaria analisi. La strategia narrativa alla base era quella di inserire una serie di gradevoli personaggi più o meno di fantasia, fermo restando alcuni dettagli che rispettano con sufficiente rigore un tema serio come quello della Prima Guerra Mondiale, e quindi spingere forte sul pedale della naturale simpatia istantanea del cane protagonista per centrale appieno il bersaglio.
Da un punto di vista tecnico la Computer Grafica asseconda in modo professionale le ambizioni del regista: il giovane soldato Conroy, i suoi commilitoni Schroeder e Olsen, il corpulento francese Gaston, sono valide spalle per la travolgente performance di Stubby, il protagonista della storia. L’animazione esalta la vivace vitalità del cane che si prende l’intera storia travolgendo con la sua simpatia chiunque gli capiti di fronte, sia nello schermo che fuori. Però, (purtroppo prima o poi c’è da arrivare al però) in fondo Sgt. Stubby: an american hero, per quanto si possa considerare un passatempo piacevole, lascia appunto qualche perplessità di troppo nello spettatore, e questo al di là dei riscontri al box office.
Il film, come prevedibile essendo rivolto ad un pubblico di giovani, evita ogni deriva polemica contro la guerra, ed è una scelta anche comprensibile. Ma, il finale, con la sottolineatura dell’assurdità di combattere fino al preciso scadere dell’ora dell’armistizio, le undici dell’undici novembre (l’undicesimo mese dell’anno) è forse già un indizio che il tema sia un po’ troppo complesso per essere semplificato in una storia che non abbia connotati polemici. In fondo, combattere fino allo scadere era certamente una cosa poco logica ma forse non più di tanto rispetto al combattere quella guerra, specie per gli americani, in senso assoluto. Tuttavia questo passaggio sembra inserito per dare un po’ di pathos alla vicenda, visto che proprio in quell’ultimo assalto Olsen, uno dei protagonisti, perde la vita. La cosa è mostrata con discrezione, visto che del ragazzo non se ne trova più traccia e si desume della sua dipartita dal buco nel suo elmo ritrovato da Stubby: scelta fatta per non inserire scene troppo traumatizzanti che, in sé, si può anche dire ragionevole. Ma, volendo, è un’altra soluzione incoerente nel momento in cui si è deciso di ambientare il film durante il primo conflitto mondiale. Tuttavia il vero problema che mina la funzionalità di Sgt. Stubby: an american hero è che manca un cattivo di spessore: una storia semplificata, come è quella di Lanni rispetto alla realtà storica, necessita almeno di qualcuno (o qualcosa) che si prenda in carico la negatività, il Male, con cui i nostri personaggi facciano i conti. In ossequio alla patria e ai caduti della Grande Guerra, il racconto narra di come ‘fare il proprio dovere’ sia necessario; in sostanza, si accetta la guerra come facente parte del dovere di ciascuno. Poi però ci si lamenta se ci si chiede di farlo fino alla fine e già la cosa mostra quindi qualche debolezza, almeno in linea di principio. Che è comunque meno rilevante dell’altro aspetto poco convincente dell’opera.
L’idea di stilizzare le scene di ricostruzione degli eventi bellici è ottima di suo e anche funzionale agli equilibrismi degli autori perché evita una raffigurazione troppo diretta del nemico, i crucchi, i bosch, insomma i tedeschi ma prima o poi questi finiscono per comparire anche nel racconto vero e proprio. Lo stratagemma narrativo di Lanni per risolvere questo suo problema, ovvero evitare di mostrare in volto i nemici, ha ragion d’essere all’inizio, durante gli attacchi col gas velenoso ma, successivamente, vedere sempre i tedeschi con la maschera antigas anche quando non necessario rivela semmai le difficoltà del lungometraggio.
Si cerca, cioè, di raccontare un fatto storico complesso, con ragioni e torti da una parte e dall’altra e, per semplificare il discorso e renderlo più accessibile, si dividono invece gli schieramenti in buoni e cattivi. Poi, per evitare di offendere i tedeschi, si evita il più possibile di mostrarli inserendo, tra l’altro, un personaggio, Schroeder, convintamente yankee ma germanico di origine, forse per dimostrare, finendo su un terreno narrativamente assai scivoloso, come i tedeschi possano essere buoni una volta americanizzati. Qui si sfiora l’autogoal, perché la rivendicazione del ragazzo in questione di essere americano, di fatto rinnegando con vigore la propria origine tedesca, potrebbe offrire il fianco a strumentalizzazioni di parte. Vero è che la verve straripante di Stubby relega tutto quanto questo sullo sfondo e quello a cui assistiamo, in buona sostanza, è un campionario di espressioni e scorribande del simpatico cagnone. Ma questi aspetti è come se covassero dentro al racconto che, così sviluppato, non riesce a cogliere pienamente nel segno. Insomma, buone le intenzioni in origine ma la solita e diffusissima paura di offendere narrativamente qualcuno è, per assurdo, assai più castrante del consueto in un film come Sgt. Stubby: an american hero a cui manca, in definitiva, un cattivo che dia un po’ di nerbo alla storia.
mercoledì 10 novembre 2021
LE COLLIER ROUGE
924_LE COLLIER ROUGE . Francia, Belgio, 2018; Regia di Jean Becker.
lunedì 8 novembre 2021
RIN TIN TIN
923_RIN TIN TIN (Finding Rin Tin Tin). Stati Uniti, Bulgaria, 2007; Regia di Danny Lerner.
Nella storia del cinema, Rin Tin Tin è stato una delle
maggiori celebrità canine, insieme a Lassie, ma va specificato che nell’arco
degli anni ad interpretarne il ruolo furono chiamati diversi soggetti, sebbene nei
primi tempi di linea parentale. Al netto di queste precisazioni, il personaggio
del pastore tedesco più celebre del grande schermo interpretò svariate
avventure di fantasia, tuttavia esiste una curiosa storia sul capostipite di
questa dinastia. Intanto va detto che Rin Tin Tin era il reale nome del
cane che, trovato cucciolo in Francia, durante la Prima Guerra Mondiale,
venne portato negli Stati Uniti dove, grazie ad alcune fortunate coincidenze,
finì per diventare un attore di Hollywood. Il successo del simpatico cane durò
dagli anni venti fin quasi agli anni settanta del secolo scorso, anche se alla
televisione le repliche proseguirono ancora per qualche tempo. Ma,
sostanzialmente, la stella di Rin Tin Tin finì poi per affievolirsi. Almeno
fino al 2007, quando la storia vera del pastore tedesco servì da solido spunto
per Rin Tin Tin, film per ragazzini che ci riporta a certe storiche
produzioni Disney degli anni sessanta, per la regia di Danny Lerner. L’opera,
per la verità, non è particolarmente degna di nota, anche se per passare una
serata coi propri figli, ma solo se sono sotto i dieci anni, può svolgere
dignitosamente il suo compito. Pur con le tantissime licenze poetiche, rispetto
ai reali fatti a cui si ispira, l’aspetto più interessante della produzione è
proprio la vicenda del cucciolo trovato durante la Grande Guerra dal
soldato americano, Lee Duncan (nel film Tyler Jensen). Nella storia raccontata
dal film, Rinty, questo il soprannome del cane, non viene portato subito in
America ma rimane nel reparto di Duncan dove finisce per divenire l’esuberante
mascotte. In coppia col piccolo Jaques (Ivan Rankov) si rende protagonista di
una serie di gag slapstick ai danni di Johnson (Steven O’Donnell), il grosso e
losco cuoco del presidio. Non si tratta certo di esempi di umorismo
particolarmente memorabili ma sostanzialmente si sfrutta la comicità nel veder
umanizzato il comportamento del cane o, in alternativa, si fa continuo ricorso
alla deriva scatologica (che ricorda quella di molti spaghetti western),
che ha sempre un effetto ilare sul pubblico infantile sebbene sia uno
stratagemma davvero di grana grossa. Flatulenze varie a parte, memorabile la
scena in cui Rinty fa la pipì dentro la tazzina dove Johnson beve il liquore
con le prevedibili disgustose conseguenze. Insomma, si può tranquillamente
sostenere che Rin Tin Tin sia un film del tutto superfluo, per le
qualità intrinseca all’operazione, ma non se consideriamo il piacere di
rivedere ancora scorrazzare per lo schermo il simpatico cagnolone.
Michal Yannai