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domenica 21 giugno 2020

SENSO

587_SENSO ; Italia, 1954. Regia di Luchino Visconti.

Capolavoro del cinema mondiale e di quello italiano in particolare, Senso di Luchino Visconti deve la suprema importanza a molteplici aspetti. E' il film che sostanzialmente segna la fine del neorealismo, riflette sulla matrice fallace dell'Italia come paese sin dalla sua (ri)nascita, è calligraficamente superbo e praticamente perfetto dal punto di vista visivo e sonoro. Ma Senso è anche uno dei film di cui si è scritto maggiormente e i rimandi colti (ad esempio alla pittura dei macchiaioli o a quella di Francesco Hayez per il bacio tra Franz e Livia) sono stati analizzati già in decine di recensioni. Del resto, l'opera di Visconti è di portata enorme per i differenti livelli a cui accede, per cui è forse il caso di isolare i temi che possano essere ritenuti più interessanti o attuali. L’aspetto che colpisce maggiormente oggi è forse che il regista lombardo metta al centro della sua opera il melodramma, ovvero un genere diametralmente opposto a quel neorealismo di cui era stato uno dei maggiori artefici a partire da Ossessione. La scena iniziale, con la macchina da presa che entra nel teatro La Fenice di Venezia e compie una panoramica sul palcoscenico, prima di girare verso le tribune, sembra un nuovo inizio del cinema di Visconti, sul modello dell'incipit altrettanto magistrale e significativo di quello nella sua opera prima, il citato Ossessione. In quel film, che di fatto aveva aperto la stagione del neorealismo, nell'arrivo di Gino sul camion e nella sua entrata nella locanda, c'erano tutti gli elementi della nuova e rivoluzionaria corrente cinematografica, in modo praticamente programmatico. 


Allo stesso modo l'apertura di Senso ci dice che è tempo che l'Opera, di cui il melodramma è la versione cinematografica, riprenda il centro della scena artistica. Il che è una scelta curiosa, essendo il neorealismo una corrente del presente quotidiano quasi per definizione e, proprio nel dopoguerra, l’era contemporanea ebbe un’accelerazione che ne conferì un sapore che sembra attuale ancora oggi. Quali possono essere, quindi, le ragioni che spingono Visconti a chiudere con un movimento tanto apparentemente funzionale? L’autore, probabilmente avverte come le difficoltà nazionali, che faticano ad essere superate anche con l’imminenza del boom economico, indichino che i problemi dell’Italia abbiano una ragione ben più antica rispetto alla situazione economica contingente del dopoguerra. Per cui, per comprendere meglio le difficoltà di una nazione che nazione non è, non basta il racconto semplice tipico del neorealismo: le ragioni sono più profonde, sono storiche e non legate alla disperata condizione sociale della penisola in quegli anni. E per meglio capire quelle ragioni, occorre raccontarle con un testo che sia in sintonia con la sensibilità (il "senso") di quel movimento che, a suo tempo, aveva sostanzialmente imbrogliato i cosiddetti italiani, il Risorgimento. Il Verdi che infiammava i cuori patriottici viene così usato da Visconti per ricreare quella atmosfera melodrammatica, ma il racconto che poi il regista va a narrare è esattamente l'opposto dell'Aida verdiana.Là i protagonisti sottomettevano il proprio amore a quello delle rispettive patrie, qui invece la contessa Livia (Alida Valli, algida in apparenza, ma interiormente travolta da una torbida anche se ottusa passione) tradisce la propria patria a causa dell'amore folle ed insensato per Franz Mahelr (Farley Granger), il quale viene meno al suo dovere di soldato per mera viltà.


Ma lo scarso patriottismo dell'ufficiale austriaco non interessa Visconti, ed è unicamente usato per rincarare la dose della scelleratezza di Livia che non solo tradisce il suo paese, ma lo fa per un vigliacco che neanche l'ama. Questo melodrammone dai toni accesi quanto un film di Matarazzo (Catene, Vortice), è quindi perfetto per raccontare il Risorgimento, un movimento falso e posticcio che tradì sin da subito la sua infondatezza. Le guerre di indipendenza italiane sono mostrate bene da Visconti come episodi marginali nel contesto internazionale e il valore della presunta patria è lapidariamente mostrato nella infamante sconfitta di Custoza. Custoza, tra l’altro, doveva essere il titolo del film, ma fu invece bocciato, anche se ben avrebbe espresso il valore morale dell’Italia. Evidentemente nel 1954 c'era già troppo d'affare per nascondere le numerose debacle militari del paese nella seconda guerra mondiale , per rimettere sotto l'obiettivo quella che probabilmente era la madre di tutte le disgrazie belliche italiane. Visconti opera quindi da un punto di vista artistico, il ritorno agli stilemi di una narrativa forte, perché sente che il problema nazionale ha un'origine che non è da ricercarsi nel passato prossimo, ma all'origine del paese e va quindi smesso l’alibi della povertà del dopoguerra per giustificare la nostra impreparazione di popolo. L’Italia è una farsa già a partire dal movimento che ne ha ispirato l’unità: piangersi addosso, come in fondo aveva fatto o rischiava di fare il neorealismo, non aveva più senso.







Marcella Mariani




Alida Valli




venerdì 19 giugno 2020

LA GANG

586_LA GANG (The Racket); Stati Uniti, 1951. Regia di John  Cromwell.

La cosa che lascia più spiazzati nel guardare oggi La gang, film americano del 1951 di John Cromwell è, più che il grado di corruzione delle istituzioni mostrato, la sostanziale noncuranza con cui tutto ciò doveva essere, al tempo dell’uscita nelle sale, accettato. Tralasciamo un attimo sia Robert Mitchum nei panni dell’integerrimo e risoluto capitano Thomas McQuigg, sia il bravo ed onesto agente Johnson (William Talman), ma anche il sadico e crudele gangster Nick Scanlon (Robert Ryan, bene nella parte): questi sono personaggi classici del genere poliziesco. E, a saltare all’occhio, non sono neanche il procuratore Welsh (un viscido Ray Collins) o il poliziotto Turk (l’ambiguo William Conrad), perché di corrotti se ne sono visti a bizzeffe, al cinema. Quello che sorprende è il loro muoversi con disinvoltura all’interno delle istituzioni, sia in senso metaforico che in quello fisico, ovvero nei locali del comando di polizia, perseguendo senza troppi giri di parole i propri doppi scopi. Va detto che questa condizione equivoca degli spazi, ovvero il fatto che due membri delle istituzioni come Welsh e Turk tramino contro la giustizia direttamente all’interno del comando di polizia, potrebbe derivare dall’origine del plot narrativo: il film è il remake di The Racket, 1928, regia di Lewis Milestone, che era tratto a sua volta da una pièce teatrale di Bartlett Cormack. E’ chiaro che a teatro l’unità di luogo del racconto è una necessità tecnica, ma è forse significativo il fatto che questa eredità possa venire lasciata inalterata fino alla versione cinematografica del 1951. 

L’opera era infatti nei teatri di Broadway alla fine degli anni ’20, e certo il regista di La Gang John Cromwell se la doveva ricordare bene visto che era vi recitava come attore principale. Tornando alla storia, quello che si evince è che i modi spicci di Mitch sono quindi l’unica risposta possibile, ma mica tutti possiedono la stoffa d’eroe come il monumentale attore americano; già il povero Johnson paga assai duramente il suo esporsi contro la criminalità organizzata. Il racket è mostrato in molteplici sfaccettature: c’è il vecchio boss invisibile, a simboleggiare come sia conveniente per il male non mettersi mai in luce e, come suo contraltare (comunque negativo), c’è il più attuale Nick Scanlon che invece vuole per sé anche la ribalta. Non c’è sostanziale differenza morale tra i due: il primo è altrettanto sadico e spietato, solo ritiene più opportuno fare le cose con discrezione. 

Scanlon invece preferisce marcare il territorio in modo esplicito, il che sembra significare che ormai la rettitudine morale non è più un riferimento e, anzi, si può farsi vanto di una condizione opposta. Gli scagnozzi di second’ordine si barcamenano come meglio riescono, più o meno con la stessa filosofia di quei tutori delle istituzioni corrotti. In questo quadro piuttosto deprimente, ma probabilmente abbastanza attendibile dell’epoca, ci sono due ulteriore note, di cui solo una inizialmente fuori spartito. Dave Ames (Robert Hutton) è un giovane giornalista e, mosso dall’ammirazione per la cantante Irene Hayes (Lizabeth Scott), si ritrova nello scomodissimo ruolo di testimone contro Scanlon. La ragazza, fidanzata del fratello del boss, prova a dissuaderlo, e la difficoltà con cui l’attrice principale del film, pur se si tratta di un poliziesco a tinte noir, accoglie l’onestà del giovane, non concorre certo nel  fare un po’ di luce ottimista sull’intera vicenda. Per fortuna che Ames ha l’animo pulito come la faccia e, alla fine, riesce a persuadere anche la dark lady che, come da ruolo, si redime denunciando il criminale. Sarà infatti lei a mettere a segno il colpo che mette alle corde Scanlon: d’altra parte la Scott, in materia di presenza scenica, è uno degli elementi portanti dell’opera. Dal canto loro la coppia di corrotti Welsh e Turk si affretteranno nel tentativo di sistemare le cose per non venir coinvolti, ma finiranno comunque indagati; insomma, il finale se non proprio lieto, è perlomeno edificante.     





  
Lizabeth Scott







mercoledì 17 giugno 2020

GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI

585_GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI (Last Days of Pompeii); Stati Uniti, 1935. Regia di Ernest B. Schoedsack.

Una didascalia introduttiva di Gli ultimi giorni di Pompei, colossal storico del 1935 prodotto dalla RKO Radio Pictures, si premura di dirci che non vi sono rapporti di stretta parentela con l’omonimo romanzo del 1834 (opera di Bulwer Litton) sebbene gli autori si siano ispirati ad esso per la distruzione della città romana. Autori che, giova dirlo, erano Merian C. Cooper e Ernest B. Schoenback, gli stessi del capolavoro King Kong (1933); ma anche Max Steiner alle musiche, oltre a qualche altro collaboratore, aveva lavorato al film del gorilla gigantesco che aveva avuto tanto successo. Successo che, nonostante i punti in comune nella produzione, non arride a Gli ultimi giorni di Pompei che è un fiasco al botteghino e riuscirà a ripagare le perdite solo con  successive riedizioni. In realtà Gli ultimi giorni di Pompei è divertente, appassionante, ha una sua morale, ma soprattutto ha una sorprendente faccia tosta (se si può dire di un film) nel mescolare impunemente elementi diversi senza alcun rispetto per la realtà storica. E stiamo parlando di un film di genere storico! Alla sceneggiatura Ruth Rose, moglie di Schoedsack, e i suoi collaboratori imbastiscono infatti una vicenda prendendosi ogni sorta di libertà: le coordinate strutturali sono due, quella legata alla storia di Marco, fabbro, poi gladiatore e quindi mercante (Preston Foster), e la sponda religiosa, con il messaggio di Cristo che, pur rimanendo in parte sottotraccia, è quello che alla fine risulterà principale. La distruzione di Pompei rimane sullo sfondo, almeno fino al drammatico finale, esattamente come il Vesuvio che si staglia sull’orizzonte di buona parte della pellicola. 

La sua presenza fumante e minacciosa ci ricorda che prima o poi avverrà l’evento preannunciato sin dal titolo del film e l’effetto suspense è gestito in modo sapiente dalla coppia di autori. L’idea è certamente interessante perché la carriera di Marco viene fatta a spese della propria integrità morale e l’eruzione del Vesuvio, nel finale, sembra quasi essere una sorta di punizione divina. Ma, se lo fosse, sarebbe più adeguato ad un racconto che avesse come colonna vertebrale l’Antico Testamento e non ad una vicenda percorsa e attraversata per tutta la sua durata dal messaggio di Cristo. 

In effetti Marco ha il tempo di redimersi e sacrificarsi per la salvezza di Flavio (John Wood) suo figlio adottivo. Per assemblare questa storia mista di così tanti elementi, gli autori non si fanno problemi a forzare un po’ la mano alla cronologia della Storia: la distruzione di Pompei, avvenuta nel 79 d.C., è un po’ troppo posteriore alla vita di Gesù per giustificare certi passaggi narrativi del racconto e anche la presenza di Ponzio Pilato (Basil Rathbone) suscita qualche perplessità. Per quanto possa essere incerta la data di morte del politico romano, pare difficile che possa essere ancora vivo e soprattutto ancora relativamente giovane al momento dell’eruzione del Vesuvio. Tuttavia il personaggio ben interpretato da Rathbone è talmente interessante che possiamo certamente perdonare anche questa incongruenza cronologica. 

Che poi è un po’ il senso complessivo della valutazione di Gli ultimi giorni di Pompei, un film scorretto, da un punto di vista storico, ma interessante, piacevole e istruttivo. Va anche detto che i comportamenti e gli atteggiamenti dei personaggi della vicenda dànno la forte sensazione di essere adeguati al ventesimo secolo e non certo a quelli dell’antichità. Però il modo spudorato con cui gli autori intessono il messaggio cristiano nella trama, facendolo diventare architrave portante della storia raccontata, è coraggioso e ci rende il senso primario della religione, che è quello di liberare le persone dalla schiavitù del denaro e dell’interesse. In questo senso, la liberazione degli schiavi nel finale è una metafora concreta degli insegnamenti del Messia. La distruzione di Pompei, la più bella tra le città romane non è, quindi, la punizione del Dio vendicativo ma la dimostrazione pratica di quanto siano futili le ricchezze terrene. Il sacrificio per gli altri, quello in prima istanza di Flavio e quello definitivo di Marco, consegnano invece la loro vita alla gloria. Che sia quella eterna, essendo Gli ultimi giorni di Pompei solo un film, magari no, ma lo è per un tempo comunque sufficiente ad essere un valido esempio.        






lunedì 15 giugno 2020

IL DIAVOLO ALLE 4

584_IL DIAVOLO ALLE 4 (The Devil at 4 O'Clock); Stati Uniti, 1961. Regia di Mervyn LeRoy.

In genere si dice che Il Diavolo alle 4 sia un film dagli effetti speciali al tempo ritenuti davvero strabilianti. Guardandolo oggi risulta un po’ difficile da credere: non è che si tratti di una messa in scena scadente, ma sembra davvero troppo evidente una certa matrice artefatta funzionale si, ma non proprio realistica. E questo doveva essere vero anche negli anni sessanta; forse, al tempo, diffusa tra gli spettatori c’era una maggiore ingenuità e una più spiccata facilità a lasciarsi coinvolgere e trasportare dal racconto piuttosto che soffermarsi sulla plausibilità realistica delle singole inquadrature. Questo aspetto non è forse quello più importante, ne Il Diavolo alle 4 di Mervyn LeRoy, che è un buon film, sia chiaro, ma è quello che, guardandolo oggi, può saltare maggiormente agli occhi. E che, per molti spettatori, troppo smaliziati dai moderni effetti speciali, ne può inficiare la visione. Invece Il Diavolo alle 4 va forse inteso come massima espressione del cinema hollywoodiano che, al tempo, era divenuto una specie di universo altro, un mondo che prendeva spunto dalla realtà ma che la piegava poi ai propri codici e stilemi figurativi e narrativi. Un po’ quello che accade quando si va a teatro dove si è disposti a credere ad una scena in cui l’attore recita sul palco con una sedia un tavolo e i fondali posticci. Del resto LeRoy, che era un bravo regista, era una rotella perfettamente integrata nel meccanismo hollywoodiano, non solo per le parentele altolocate ma soprattutto considerando le operazioni professionali di alto cabotaggio a suo carico: dalla produzione de Il mago di Oz (di Victor Fleming, 1939) alla regia di Quo Vadis? (1951). 

Il Diavolo alle 4 è un film di genere catastrofico, che implica quindi qualcosa di maestoso, e che vede coinvolte due autentiche star di Hollywood: Spencer Tracy e Frank Sinatra. Tutti elementi di un certo peso in termini produttivi. Se la questione degli effetti speciali legati all’eruzione ed esplosione del vulcano dell’isola di Talua, nel Pacifico, sono ostentati anche nella loro ingenua e pacchiana spettacolarità, i due attori sfornano una prestazione di assoluto livello. Tracy ha solo una sessantina d’anni (portati male) e nella parte di padre Doonan è un autentico trattore, inarrestabile. Sinatra non ha la statura dell’eroe, ma nei panni di Harry, un mezzo balordo che le peripezie della vita hanno destinato al carcere, riesce a fornire un personaggio con una buona dose di umanità tenuta in apparenza nascosta dall’atteggiamento da bullo di periferia.  
Negli anni già troppo successivi al boom economico del dopoguerra i loro personaggi sono due perdenti. Padre Doonan, cocciuto come un mulo, deluso dalla vita, dedito all’alcool, sotto il cui influsso diventa anche violento, (quasi ammazza Harry a mani nude), è stato sollevato dal suo incarico. 


E dire che si era prodigato con ardore e volontà per costruire e mantenere un ospedale che desse ricovero ai bambini lebbrosi di Talua. Le sue intemperanze caratteriali e l’inopportunità, in senso turistico, del fatto che nell’isola abbia insediato un ospedale per lebbrosi, lo rendono inviso ai suoi superiori e al governatore di Talua (Alexander Scourby) ma non lo fanno arretrare di un millimetro. Tracy è nel suo habitat interpretativo naturale e sciorina una prestazione maiuscola: un autentico mastino che cerca in tutti i modi di salvare i suoi bambini. Anche affidandosi, dando una fiducia in apparenza mal riposta, a tre detenuti in trasferimento e capitati quindi a Talua per puro caso; tra questi Harry è il carismatico, per via del sarcasmo sempre pronto. Poi ci sono Charlie (l’ottimo Bernie Hamilton), che sembra un brav’uomo finito un po’ per caso dalla parte sbagliata della barricata, e Marcel (Grégoire Aslan) simpatico birbante che sembra invece compiacersi di aver scelto la porta ampia e spaziosa che conduce alla perdizione di evangelica memoria. Gli elementi portanti di Il Diavolo alle 4 sono quindi questi: un prete testardo e indisciplinato e i suoi bambini lebbrosi, tre detenuti che cercano una possibilità di salvezza, un vulcano in procinto di esplodere. Come si vede mancano figure femminili di rilevo, oltre ad un elemento che funga da detonatore per far convergere il tutto. La storia scelta da LeRoy (il romanzo omonimo di Max Catto) permette al regista di colmare queste  lacune in modo funzionale. 

A sorpresa, e forse per stemperare il phatos della vicenda, le donne presenti nella storia sono poche e sono personaggi discreti: vale la pena ricordare Marguerite (Cathy Lewis) una ex prostituta francese che ora fa la capo infermiera nell’ospedale dei bambini lebbrosi, oltre alla dolce Camille (Barbara Luna), ragazza cieca e indifesa, che è però il vero elemento decisivo della vicenda. E’ il suo candore, la sua innocenza, che affascina Harry: un uomo che sembrava averne viste di ogni, cambia la sua condotta esistenziale, assurgendo al ruolo di eroe, di fronte ad una persona che non aveva ancora visto niente ed era completamente all’oscuro di tutto (anche del passato dell’uomo). La storia del film ci parla di un sacrificio, anzi più di uno, visto che a rimetterci la pelle sono i tre detenuti e padre Doonan e, in compenso a ciò, i bambini vengono portati in salvo. 

Il sacrificio più importante, però, lo compie Harry, che torna indietro per morire insieme all’amico Charlie rinunciando alla salvezza ormai raggiunta. Il suo è un sacrificio che non ha un premio, non riscatta nulla: i bambini lebbrosi erano già stati salvati, il prezzo della loro salvezza era già stato raccolto (le vite di padre Doonan, di Charlie e di Marcel) eppure Harry torna a morire con l’amico. Negli anni 60 la figura dell’eroe americano stava andando in crisi, superata, come modello di riferimento, dal protagonista tormentato e problematico. Un’evoluzione che, forse, non convince del tutto il regista. Al che LeRoy, con la scelta del suo protagonista, una scelta senza apparente ragione, forse vuole fare una sorta di reboot, un ritorno all’antico. E per far questo serve uno sguardo vergine (Camille, la ragazza non vedente), qualcosa di portentoso come un’esplosione che cancelli tutto il colorato universo hollywoodiano (il botto del vulcano) per tornare finalmente a racconti in cui l’eroe (Sinatra) faccia il suo dovere di eroe e si sacrifichi per la riuscita della storia. Ma in tutto questo il ruolo di Tracy, qual’é? Lui è il modello classico di eroe, quello che, al tempo, si stava appunto cercando di mettere in pensione, del tutto immeritatamente.   



           
BarBara Luna