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venerdì 19 luglio 2024

VIKING

1515_VIKING (Викингa). Russia 2016; Regia di Andrej Kravchuk.

Non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo: per quanto la connessione coi Vichinghi esista, qualcosa di attinente alla figura di Vladimir I di Kiev sarebbe stato più appropriato per il film Viking di Andrey Kravchuk. Intendiamoci: non è chi si possa bocciare un film semplicemente perché il titolo non convince; tuttavia è importante che il nome che compare sui cartelloni, sui trailer e nei titoli di testa, non sia troppo ingannevole. In effetti, la “svista” di autore e produttori sembra troppo clamorosa per essere in “buona fede”, diciamo così: quale sia il motivo che li abbia indotti a scegliere Viking come titolo, è davvero difficile credere che possa essere il debole legame presente in un racconto che si snoda per oltre due ore ripercorrendo una delle fasi più cruciali dell’intera Storia russa. Questo elemento, il titolo stranamente fuorviante, insieme ad altri dello stesso tipo, finisce per essere gli spunti più intriganti del film di Kravchuk. Che di suo, per quanto è mostrato sullo schermo, svolge il suo compito, tutto sommato raggiungendo lo scopo. Viking, film storico con le tipiche licenze poetiche dei racconti epico-avventurosi, non è poi diverso da una contemporanea, rutilante, produzione hollywoodiana. C’è, probabilmente, uno spiccato gusto per l’esibizione della crudeltà e dei suoi effetti, il “politicamente corretto” lavora decisamente meno da quelle parti, ma si tratta di dettagli marginali. Vedere la lama di una spada che entra in un corpo umano con una sorta di panoramica interna all’anatomia della vittima non è che possa turbare lo spettatore più di tanto. E lo stesso dicasi per quel che riguarda le scene di battaglia, che costituiscono uno dei piatti forti dell’opera: sangue, sudore, fango, adrenalina e testosterone scorrono a fiumi come da protocollo del cinema mainstream di questo genere. Il rigore storico e dei dettagli tecnologici, che in una vicenda storico-bellica fanno sempre la differenza, lascia un po’ il tempo che trova ma, come detto, si tratta di peccati veniali. Lasciano perplesse alcune trovate, le ruote infuocate e le navi che scendono dalle colline, ad esempi, ma si tratta di stratagemmi narrativi bizzarri ma che non pregiudicano la fruibilità del testo. 

Insomma, da un punto di vista formale Viking può essere accettabile, poi il godimento va in base ai gusti, essendo l’esibizione della violenza una cosa comprensibilmente soggettiva, tanto per citare l’elemento che potrebbe essere più discutibile. Gli aspetti intriganti dell’opera di Kravchuk sono, come accennato, altri. Perché non si tratta di un film a basso costo, ma di una produzione maestosa, costata tempo e denaro e viene da chiedersi se ci siano altri motivi, oltre a quelli di guadagno economico, dall’imbastire una simile ricostruzione storica. La vicenda narrata, infatti, se non si conoscono almeno a sommi capi i dettagli storici, rischia di essere poco comprensibile, anche per via del modo in cui viene raccontata. Protagonista degli eventi è Vladimir I di Kiev (Danila Kozlovsky), il Gran Principe della Rus’ di Kiev, famoso per aver introdotto a livello ufficiale la religione cristiana nell’area. Vladimir era il figlio illegittimo di Svjatoslav I della dinastia dei Rjurikidi che, alla sua morte, lasciò il suo dominio frazionato sotto la guida dei figli: il primogenito Jaropolk (Aleksandr Ustyugov) ricevette Kiev, Oleg (Kirill Pletnyov) Drelinia e a Vladimir toccò Novgorod. In breve si scatenò una lotta fratricida per controllare l’intera Rus’: Jaropolk uccise Oleg, mentre Vladimir non era considerato degno di ambire alla corona, dal momento che era figlio della serva di Svjatoslav. Il film si dilunga in abbondanza su queste lotte, coinvolgendo una miriade di personaggi minori, tra i quali vale la pena almeno ricordare Irina, moglie greco-bizantina di Jaropolk interpretata dalla splendida Svetlana Khodchenckova. 

Non si tratta di un omaggio alla bellezza dell’attrice –o almeno non solo– in quanto è proprio l’influenza di Irina a spingere Vladimir verso la fede cristiana, svolta che è il vero epicentro di tutta quanta la faccenda. Il personaggio di Vladimir, pur essendo il protagonista, non è certo idealizzato, e in questo il film si dimostra particolarmente convincente: il principe dimostra molto spesso, nel corso del racconto, di essere semplicemente al centro degli eventi e non sembra possedere la forza di piegarli al proprio volere. Non è, insomma, un super-eroe o anche solo un vero personaggio epico, ma un uomo che si barcamena come può in un tourbillon clamoroso di situazioni terribili; si distingue, per la verità, per alcune scene disgustose, come ad esempio lo stupro della futura moglie Rogneda (Aleksandra Bortch), posseduta con la forza davanti ai sui genitori, i signori di Polotsk. Che, successivamente, Vladimir farà uccidere. Queste, più altre efferatezze, il principe confesserà poi al momento di convertirsi al cristianesimo, dimostrando, almeno nel film di Kravchuk, sincero pentimento. Come già nel precedente film di animazione Prince Vladimir (2006, regia di Youriy Batanin e Yuri Kulakov), imbastito sullo stesso argomento e anch’esso di produzione russa, l’aspetto più importante è la conversione della Rus’ di Kiev, antenata della moderna Russia, al cristianesimo. È quindi questo un particolare che, da un punto di vista storico, sembra premere all’industria cinematografica di Mosca: sia Prince Vladimir che Viking sono due produzioni in grande stile, con ingenti investimenti di capitali. Gli intenti sembrano simili, ribadire l’importanza religiosa della Russia, sede di Mosca –la cosiddetta Terza Roma, l’unica a non essere mai capitolata– quasi per recuperare un ruolo di primaria importanza sullo scacchiere mondiale. Nel 2006, ai tempi del film di animazione di Batanin e Kulakov, l’operazione fu fatta abbastanza scopertamente. Il tipo del film era, tra l’altro, palesemente educativo e formativo, essendo i film d’animazione un genere prevalentemente rivolto ai ragazzi, e quindi l’intento di insegnare le origini della propria Storia al popolo russo era evidente. 

Ribadito, ce ne fosse stato bisogno, anche dalla data di uscita del film, dal momento che il 23 febbraio, in Russia, si celebrano i Difensori della Patria. Nel 2016, due anni dopo i fatti di EuroMaidan e l’inizio della contesa tra Russia e Ucraina, con l’annessione della Crimea e gli scontri nel Donbas, il cinema russo ritorna sulla questione. E lo fa con un film storico avventuroso, certamente con un target più vasto di un cartone animato, coi crismi del cinema in grande stile. La scelta del titolo apparentemente fuorviante appare quindi straniante e, volendo, assume nuove opzioni. Certamente vanno considerati vari elementi, ad esempio il tentativo di sfruttare l’effetto “traino” della quasi omonima serie televisiva, Vikings (nel 2013 venne trasmessa la prima stagione, ideata da Michael Hirst) oltre a ribadire il richiamo con le origini Variaghe, tribù di Vichinghi scandinavi, della Rus’ di Kiev. E a questo proposito che può sorgere qualche “sospetto”, per così dire: forse l’idea di intitolare il film Viking rivela l’intenzione di togliere la primogenitura a Kiev, e quindi all’Ucraina, nella Storia della Russia. Con la forte caratterizzazione vichinga dei personaggi, il film di Kravchuk cerca di raccontare come la Russia nasca da una migrazione dei Variaghi che, quasi per caso –un po’ come si muove Vladimir nel film– si trovino in quella che oggi è nota come Ucraina nel momento della conversione, vero spartiacque della Storia russa. Kiev, in effetti, non ha nel racconto filmico particolare importanza. Il punto chiave della vicenda di Vladimir è, come del resto insegnano anche i libri di Storia, la conversione al cristianesimo, che porterà alla nascita della Chiesa Ortodossa di Kiev. Ma sarà poi Mosca ad assurgere al ruolo di Terza Roma, e non Kiev; conclusione che, se non viene detta esplicitamente nel film di Kravchuk, è però apparecchiata a dovere. Dietrologia spicciola?  




 Svetlana Khodchenckova


Aleksandra Bortch

Galleria 

sabato 24 settembre 2022

LA BIBBIA

1112_LA BIBBIA (The Bible). Stati Uniti 1966;  Regia di John Huston.

Che proprio John Huston, l’autore di Moby Dick venga ingaggiato per dirigere La Bibbia, colossal prodotto da Dino de Laurentis, può lasciare un poco perplessi. Già il fatto di essere ateo, sembrerebbe porlo un po’ fuori posto, ma il lavoro fatto sull’adattamento cinematografico al capolavoro di Melville, ha apertamente messo il regista in una posizione quantomeno poco rassicurante per i custodi della religione cristiana. Ma forse è vero anche il contrario: nei temi del Moby Dick, Huston trovò gli stessi argomenti di cui l’Antico Testamento (e questo La Bibbia è incentrato sul libro della Genesi) è permeato. Se nel film tratto da Melville la bestemmia contro Dio era messa in pratica in modo metaforico ma comunque esplicito, in questo suo trattamento l’operazione assume ovviamente toni meno evidenti. Ma non per questo meno gravi. Gli episodi scelti affrontano tutti non tanto il rapporto tra Dio e l’uomo, ma una vera e propria sfida tra i due: più che un confronto, uno scontro. Adamo ed Eva disobbediscono direttamente ai comandi di Dio, in seguito Caino prova ad imbrogliarlo con offerte inferiori al giusto, per arrivare fino a Nemrod che sfida apertamente Dio con la Torre di Babele prima, e poi addirittura scagliandogli contro una freccia (questa sì una vera bestemmia esplicita). Il delitto di Caino, i peccati dei suoi discendenti o dei dissoluti abitanti di Sodoma e Gomorra sono invece mancanze indirette nei confronti di Dio, e Huston si sofferma soprattutto sul comportamento violento e ambiguo di Caino e, con particolare riguardo, sugli aspetti sessuali e depravati delle città poi cancellate dalla rabbiosa punizione divina. Il regista si riserva il ruolo di Noè, episodio nel quale curiosamente sorvola sulla peccaminosa stirpe di Caino, per colpa della quale si scatenerà la più grande ira divina della Storia, ovvero proprio il Diluvio Universale. 

Il frangente è scelto però da Huston come intermezzo, nel quale concedere l’attenzione al lato amabile e leggero delle scritture, ovvero il giardino zoologico galleggiante custodito nell’Arca. A tale proposito va sottolineata l’enorme cura e magnificenza delle ricostruzioni storiche, tra le quali spiccano lo stesso scafo costruito da Noè, e la Torre di Babele: immagini fortemente evocative e persuasive al di là della credibilità tecnico-ingenieristica. L’episodio memorabile del film è quello di Abramo, e nello specifico del sacrificio richiesto da Dio. In tutta la vicenda emerge la cattiveria gratuita del dio che prima quasi gioca con le speranze ed ambizioni di Abramo, e poi si impunta su quello che appare palesemente un capriccio di portata enorme, come il sacrificio dell’unico figlio. Questi discorsi vanno al di là dei significati del testo biblico, perché Huston ne fa un film nel 1966 e quindi deve, in un certo senso, rendere conto di quello che mostra sullo schermo al suo presente, e non a quello di duemila anni prima, a cui era rivolta la Genesi. Il suo insistere, indugiare, crogiolarsi nella crudeltà della richiesta di sacrificio da parte di Dio, ha forse una motivazione diversa da quella originale, la prova di fede richiesta dall’Altissimo ad Abramo. Huston filma la crudeltà del Padre, il sadismo con cui Dio attende che il coltello (già insanguinato) si alzi; non ha fretta il Dio di Huston, non teme che un imprevisto possa lasciare che la lama trafigga la gola di Isacco. Non ha compassione, il Dio di Huston nel vedere la disperazione di Abramo e neppure il muto terrore di Isacco. No, il Dio di Huston sembra godersi il momento di sublime sadismo divino.
Ed è allora che si capisce davvero la collera del capitano Achab. 






Ava Gardner 



Ulla Bergryd 



Zoe Sallis 


Galleria di manifesti 





mercoledì 17 giugno 2020

GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI

585_GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI (Last Days of Pompeii); Stati Uniti, 1935. Regia di Ernest B. Schoedsack.

Una didascalia introduttiva di Gli ultimi giorni di Pompei, colossal storico del 1935 prodotto dalla RKO Radio Pictures, si premura di dirci che non vi sono rapporti di stretta parentela con l’omonimo romanzo del 1834 (opera di Bulwer Litton) sebbene gli autori si siano ispirati ad esso per la distruzione della città romana. Autori che, giova dirlo, erano Merian C. Cooper e Ernest B. Schoenback, gli stessi del capolavoro King Kong (1933); ma anche Max Steiner alle musiche, oltre a qualche altro collaboratore, aveva lavorato al film del gorilla gigantesco che aveva avuto tanto successo. Successo che, nonostante i punti in comune nella produzione, non arride a Gli ultimi giorni di Pompei che è un fiasco al botteghino e riuscirà a ripagare le perdite solo con  successive riedizioni. In realtà Gli ultimi giorni di Pompei è divertente, appassionante, ha una sua morale, ma soprattutto ha una sorprendente faccia tosta (se si può dire di un film) nel mescolare impunemente elementi diversi senza alcun rispetto per la realtà storica. E stiamo parlando di un film di genere storico! Alla sceneggiatura Ruth Rose, moglie di Schoedsack, e i suoi collaboratori imbastiscono infatti una vicenda prendendosi ogni sorta di libertà: le coordinate strutturali sono due, quella legata alla storia di Marco, fabbro, poi gladiatore e quindi mercante (Preston Foster), e la sponda religiosa, con il messaggio di Cristo che, pur rimanendo in parte sottotraccia, è quello che alla fine risulterà principale. La distruzione di Pompei rimane sullo sfondo, almeno fino al drammatico finale, esattamente come il Vesuvio che si staglia sull’orizzonte di buona parte della pellicola. 

La sua presenza fumante e minacciosa ci ricorda che prima o poi avverrà l’evento preannunciato sin dal titolo del film e l’effetto suspense è gestito in modo sapiente dalla coppia di autori. L’idea è certamente interessante perché la carriera di Marco viene fatta a spese della propria integrità morale e l’eruzione del Vesuvio, nel finale, sembra quasi essere una sorta di punizione divina. Ma, se lo fosse, sarebbe più adeguato ad un racconto che avesse come colonna vertebrale l’Antico Testamento e non ad una vicenda percorsa e attraversata per tutta la sua durata dal messaggio di Cristo. 

In effetti Marco ha il tempo di redimersi e sacrificarsi per la salvezza di Flavio (John Wood) suo figlio adottivo. Per assemblare questa storia mista di così tanti elementi, gli autori non si fanno problemi a forzare un po’ la mano alla cronologia della Storia: la distruzione di Pompei, avvenuta nel 79 d.C., è un po’ troppo posteriore alla vita di Gesù per giustificare certi passaggi narrativi del racconto e anche la presenza di Ponzio Pilato (Basil Rathbone) suscita qualche perplessità. Per quanto possa essere incerta la data di morte del politico romano, pare difficile che possa essere ancora vivo e soprattutto ancora relativamente giovane al momento dell’eruzione del Vesuvio. Tuttavia il personaggio ben interpretato da Rathbone è talmente interessante che possiamo certamente perdonare anche questa incongruenza cronologica. 

Che poi è un po’ il senso complessivo della valutazione di Gli ultimi giorni di Pompei, un film scorretto, da un punto di vista storico, ma interessante, piacevole e istruttivo. Va anche detto che i comportamenti e gli atteggiamenti dei personaggi della vicenda dànno la forte sensazione di essere adeguati al ventesimo secolo e non certo a quelli dell’antichità. Però il modo spudorato con cui gli autori intessono il messaggio cristiano nella trama, facendolo diventare architrave portante della storia raccontata, è coraggioso e ci rende il senso primario della religione, che è quello di liberare le persone dalla schiavitù del denaro e dell’interesse. In questo senso, la liberazione degli schiavi nel finale è una metafora concreta degli insegnamenti del Messia. La distruzione di Pompei, la più bella tra le città romane non è, quindi, la punizione del Dio vendicativo ma la dimostrazione pratica di quanto siano futili le ricchezze terrene. Il sacrificio per gli altri, quello in prima istanza di Flavio e quello definitivo di Marco, consegnano invece la loro vita alla gloria. Che sia quella eterna, essendo Gli ultimi giorni di Pompei solo un film, magari no, ma lo è per un tempo comunque sufficiente ad essere un valido esempio.        






mercoledì 24 ottobre 2018

TEODORA, IMPERATRICE DI BISANZIO

229_TEODORA, IMPERATRICE DI BISANZIO . Italia, Francia 1954;  Regia di Riccardo Freda.

Il poliedrico Riccardo Freda imbastisce una storia fortemente romanzata e vagamente ispirata alla figura di Teodora, l’imperatrice di Bisanzio, nel suo film interpretata dalla superba Gianna Maria Canale. E proprio l’avvenenza della donna, memorabile lo sguardo magnetico dei suoi occhi, è uno degli aspetti più interessanti del film, che per altro può vantare scenografie sontuose e ambientazioni di grande respiro visivo dove Freda può ambientare con agio il suo melodramma storico. Non mancano le scene d’azione: la corsa con le quadrighe o la battaglia della rivolta, sempre con protagoniste le fazioni dei verdi e degli azzurri, ovveronel film, miserabili contro patrizi; il che è in totale discontinuità con la realtà storica ma come un po’ tutto quanto il lungometraggio. La vicenda raccontata da Freda verte sulla storia d’amore appassionata tra Teodora e Giustiniano (Georges Marchal): lei una ragazza del popolo, domatrice di belve feroci e di uomini; lui un imperatore tormentato dal dubbio che, seppur soggiogato dal fascino della donna, cambierà troppo spesso opinione su di lei nel corso del film. D’altronde le aperture concesse al popolo da Giustiniano sotto l’influenza di Teodora non possono certo far piacere a Giovanni di Cappadocia, leader degli aristocratici, il cui tramare sfocerà nella rivolta di cui si accennava. 
Molto belle ed efficaci le scene finali, nelle quali Giustiniano, convinto dai nobili insorti, condanna Teodora alla morte per mano del mostruoso boia, reso cieco in precedenza proprio per aver permesso alla stessa ragazza la fuga dalla prigione.
Le coreografie di Teodora in fuga dal suo carnefice e circondata dai soldati, ricordano un macabro balletto e si integrano perfettamente con i maestosi scenari dei palazzi di una Bisanzio ricostruita fuori Roma, nel palazzo dell’EUR. L’arrivano i nostri (leggi: Belisario con le sue truppe) risolve la questione e ci consegna un lieto fine già prevedibile anche dal fatto che tutto il film è in sostanza un lungo flashback ben a ritroso nel tempo. All’inizio, però, Freda ci presenta il solo Giustiniano, e il racconto potrebbe quindi essere l’epitaffio per l’imperatrice: poi, nel finale, la Canale fa la sua comparsa, coi capelli incipriati per invecchiarla, in modo per la verità poco credibile.
Ma è sempre lo sguardo più bello di Cinecittà. 




Irene Papas



Gianna Maria Canale