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giovedì 20 febbraio 2020

LA CADUTA DELLA CASA USHER

524_LA CADUTA DELLA CASA USHER (La chute de la Maison Usher); Francia, 1928. Regia di Jean Epstein.

Nel 1928, il cinema aveva già assistito all’esordio del primo film sonoro, (in genere considerato Il cantante di Jazz di Alan Crosland, del 1927) e il suo completo avvento era ormai imminente, ma il cinema muto fece in tempo a piazzare ancora alcuni capolavori, basti citare proprio uno dei più tardi ovvero, Tempi Moderni del grande Charlie Chaplin, che uscì nelle sale addirittura nel 1935. Alla fine degli anni venti, insomma, il cinema muto aveva acquisito una tale consapevolezza dei codici narrativi permessi dalla nuova arte che, se avrebbero subito l’ulteriore impennata imminente dell’ausilio dell’audio, permetteva già in quei termini di produrre film con una notevole proprietà di linguaggio. E’ un po’ in questo senso che dobbiamo approcciare a queste opere, La caduta della Casa Usher di Jean Epstein come altri lavori del tempo. E’ chiaro che, se vogliamo una versione filmica più a noi accessibile del racconto del sommo maestro Edgar Allan Poe, che ne è il principale ispiratore, ci possiamo rivolgere a I vivi e i morti, film del 1969 di Roger Corman che, sebbene riporti delle modifiche in sede di sceneggiatura (in ogni caso opera del grandissimo Richard Matheson), necessarie all’adattamento, ci lascerà un po’ delusi se confrontato col testo scritto, ma ci permetterà una fruizione più chiara degli eventi. Ma qui occorre una piccola digressione, per inquadrare meglio la situazione. Il cinema, con l’avvento del sonoro, si pose (giustamente) l’ambizione di divenire un’arte universale, che comprendesse cioè tutte (o quasi) le conoscenze artistiche dell’umanità: non solo le immagini della pellicola potevano rappresentare ciò che fotografia o pittura avevano fino allora incarnato, ma con l’ausilio del loro movimento, vera peculiarità del cinema, rendevano concrete quelle intuizioni di fenomeni moderni come l’impressionismo pittorico, ad esempio che, con quell’idea di cogliere l’attimo, sembrava volere catturare su tela proprio la dinamicità della vita reale. E le stesse sequenze di immagini potevano interpretare racconti, a questo punto, visto la possibilità offerta dai dialoghi, in modo davvero completo. La messa in scena del teatro poteva essere qui affinata, resa più funzionale, mantenendo la sacralità della visione collettiva e contemporanea della sala. 


La musica, ora spesso piegata al servizio del cinema, ne era divenuta una delle coordinate portanti di grandissima efficacia e, nei casi migliori, se ne era perfino alimentata, in un rapporto reciproco, si pensi a certe colonne sonore magnifiche rese memorabili anche grazie alle storie dei film che esse stesse accompagnavano. E poi l’architettura, con le ambientazioni, il décor, con il regista che era divenuto, a tutti gli effetti, una sorta di supremo architetto, ovvero colui che coordinava tutte quante le differenti anime artistiche della nuova arte universale. Tutto questo era il cinema sonoro: ma non sempre girava ogni cosa alla perfezione. Ad esempio, il citato I vivi e i morti, un onesto e bel film d’atmosfera horror, è ben confezionato ma, pur con tutto l’apparato prima descritto, non riesce a cogliere lo spirito del racconto di Poe; anche giustamente, è un’altra cosa, è un film. 

Questo va sempre tenuto presente perché, nonostante quanto affermato prima nell’elogio alle potenzialità della settima arte, il cinema è il cinema, coi suoi pregi e i suoi limiti, e la letteratura è la letteratura, con relativi punti a favore o meno. Ad esempio i tempi di fruizione, che nella lettura possono essere differenti da persona a persona, o ai luoghi dove ci si approccia al testo, in una solitudine che, per il cinema, solo l’home video ha introdotto su larga scala. Tutto questo sembra centrare poco, però, con La caduta della Casa Usher di Epstein che è un film muto. Ma serve a fornirci le motivazioni alla base della considerazione che si tratti comunque di un lavoro notevole, un assoluto capolavoro. 

Perché al suo apice, il cinema muto, aveva altre mire, probabilmente, rispetto a quanto noi ci aspettiamo da un film che, anche involontariamente, fa appunto riferimento a quanto detto a proposito delle potenzialità del cinema sonoro. Perché come atmosfera, come allucinante viaggio ipnotico, quello di Jean Epstein è un’autentica caduta in un maelstrom di inquietudine, angoscia, paura. Si possono cogliere quei riferimenti ai testi di Poe, non solo La caduta della Casa degli Usher ma anche Il ritratto ovale o Ligeia, ma difficilmente potremmo poi fare un esaustivo riassunto di quanto abbiamo visto. Che, poi, nel caso dei film muti, tutto dipende dalle traduzioni inserite nelle didascalie, o nelle musiche che vengono scelte per l’accompagnamento che, al tempo, veniva fatto direttamente nella sala di proiezione. Particolari secondari, certo, ma suggestivi e, visto che il cinema muto è un cinema di grande potere evocativo, vanno a incidere in modo comunque decisivo. 


L’edizione diffusa dal Cinema Ritrovato di Bologna risale agli anni Settanta del secolo scorso ed è, comunque, in questo senso una garanzia, essendo stata restaurata da Marie Epstein, sorella di Jean e a sua volta regista. Il sonoro venne a quel tempo curato dall’eminente Roland de Candé, per la messa in onda all’interno di un programma televisivo francese: difficile azzardare un’opinione se sia stata una scelta felice e fedele. Quella sonora è sempre una soluzione un po’ opinabile all’interno del cinema muto, in quanto non sappiamo quanto può essere strettamente legata agli intenti dell’autore, non avendo un supporto tecnico che ci faccia da concreto testimone. Tuttavia l’enfasi della messa in scena puramente visiva di La caduta della Casa Usher è di tale portata che possiamo anche limitarci a considerare l’accompagnamento sonoro un semplice dettaglio. 

L’espressionismo tedesco, il fenomeno cinematografico dell’epoca più adatto ad incarnare le storie fantastiche è, ne La caduta della Casa Usher, da parte di Epstein, volto ad una maggiore influenza d’avanguardia. Il regista francese insiste sulle trasparenze, sulle sovraimpressioni, dove le ombre dell’espressionismo creavano piuttosto una netta separazione tra chiaro e scuro e, riprendendo una certa vaghezza più tipicamente impressionista, piuttosto confonde, ipnotizza. L’uso del ralenti, (quando nel cinema muto era più d’abitudine aumentare la velocità delle immagini, si pensi alle comiche) è ricercato consapevolmente dall’autore per piegare ai suoi intendimenti il tempo. Una possibilità concessa al cinema, ma appunto non così scontata in questo tipo di applicazione, tesa, in questo caso, ad aumentare la commozione comunicata, dilatando la manifestazione di un volto che si liberi dai sentimenti, dalle emozioni, cercando cioè di raggelare in quegli istanti, l’essenza stessa, l’anima, della vita che abbandona il corpo. Notevole e autorevole anche l’uso del montaggio, con le inquadrature che intervallano il pizzicare delle corde della chitarra in modo che, anche senza l’ausilio del sonoro, la sequenza acquisti comunque il ritmo, o perfino una sorta di musicalità, intesa dall’autore. Ma tutta l’impostazione generale, l’uso di primi piani sui dettagli particolari, i volti, le mani, a trasmettere l’ansia e la paura, o le atmosfere angosciose delle riprese a più ampio respiro, per ammantare tutto il racconto dell’angoscia tipica della poetica di Poe. E, in questo specifico senso, il film di Jean Epstein rimane esempio insuperato e, forse, anche insuperabile; ma non è quello il merito maggiore dell’opera. 

Più che la cifra stilistica di Poe, che comunque potremmo trovare efficacemente nei suoi scritti, quello che La caduta della Casa Usher di Jean Epstein ci testimonia è si il clima di angoscia, ma quello che comunica non è tanto quella del poeta americano ma prevalentemente quella che si respirava all’epoca di uscita del film. Nel 1928, anno a metà strada tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio della seconda, e di poco precedente alla crisi mondiale del ’29, era certamente un sentimento che aleggiava come una terribile premonizione. E la capacità di cogliere questa premonizione e concretizzarla in un’opera, era peculiarità degli artisti di rango più elevato. Il terrore che permea La caduta della Casa Usher è quindi quello di una catastrofe incombente, ben peggiore di quella dalla quale ci si era illusi di essersi liberati.  


martedì 18 febbraio 2020

AGENTE 007 - SI VIVE SOLO DUE VOLTE

523_AGENTE 007 - SI VIVE SOLO DUE VOLTE (You only live twice); Regno Unito, 1967. Regia di Lewis Gilbert.

Quinto capitolo della saga cinematografica dedicata all’agente segreto con licenza di uccidere, You only live twice è un film che, se probabilmente non tradisce le attese dei fan di James Bond, mostra qualche debolezza di troppo. Oltre a quelle intrinseche e a cui ormai siamo abituati (l’eccessiva matrice filo britannica, tanto per dirne una), non convincono l’intreccio e nemmeno i colpi di scena; in definitiva tutta quanta la strampalata vicenda, in teoria abbastanza divertente, regge inizialmente ma alla lunga mostra un po’ la corda. Forse questa è la caratteristica più tipica dei film su 007: divertire andando sul sicuro, a costo di rischiare di essere scontati. In ogni caso, se inteso come mero prodotto di puro intrattenimento, questo Agente 007 – Si vive solo due volte si può anche dire che rispetti le consegne. Tra le cose da ricordare la canzone dei titoli di testa You only live twice cantata da Nancy Sinatra, il cui motivo funge da ottima colonna sonora insieme al celebre refrain di Monty Norman comune agli altri film della saga. Meno bene le Bond girls di questo You only live twice:  decisamente graziosa Aki (Akiko Wakabayashi), ma troppo anonime Helga (Karin Dior) e Kissy (Mie Hama). Infine, finalmente si vede il volto di Ernst Stavro Blofeld, capo della Spectre: è quello inquietante di Donald Pleasence.



Karin Dor





Mie Hama




Akiko Wakabayashi


 

domenica 16 febbraio 2020

LE STRADE DELLA PAURA

522_LE STRADE DELLA PAURA (Cohen e Tate); Stati Uniti, 1989. Regia di Eric Red.

Eric Red, il regista di Le strade della paura, è anche uno sceneggiatore, con al suo attivo lavori del calibro di The Hitcher del 1986 o Il buio si avvicina dell’anno successivo; ed è proprio la sua capacità di dare ritmo a storia e dialoghi a sorreggere tutta quanta una pellicola che, a livello di trama, è davvero esile. Cohen (Roy Scheider) e Tate (Adam Baldwin) sono due sicari che devono rapire un bambino, Travis (Harley Cross), prezioso testimone che rappresenta un pericolo per l’associazione criminale che li ha ingaggiati. E nel farlo devono eliminare familiari del piccolo e agenti della scorta di protezione; non vanno lasciate tracce in giro. Inoltre, Travis, dalla casa dove era tenuto per essere protetto, va portato a Houston a confronto coi mandanti del rapimento, che vogliono evidentemente sapere cosa ha visto e se ci sono altri pericoli per la loro attività. Red modella le personalità dei due killer in modo opposto: freddo ed efficiente l’anziano Cohen; impulsivo e precipitoso il giovane Tate. Il bambino, di otto anni, non si lascia sfuggire la possibilità di alimentare il naturale attrito che si viene a creare tra i due, al primo lavoro insieme. Anzi, per Cohen è il primo lavoro in coppia in assoluto, perché in genere lavora da solo: e, forse, vista l’età (ha pure l’apparecchio acustico), i suoi datori di lavoro vogliono affiancargli un apprendista, e questo spiegherebbe (a livello di sceneggiatura) anche l’anomalo connubio imbastito per un incarico tanto delicato. Comunque, anche grazie all’opera di Travis, tipico moccioso petulante a cui però, viste le circostanze, va perdonato lo zelo, l’alchimia tra Cohen e Tate non funziona per niente e alla fine tutto va a rotoli. Il che è un fatto positivo, sia chiaro, essendo, i due, criminali della peggior specie. 

Tra passaggi da puro film horror inseriti in un teso road-movie, la vicenda verte in sostanza sulla diversa natura della coppia di criminali. Cohen, dei due, è l’unico a lasciarsi andare a qualche barlume di umanità, anche se è difficile capire se sia davvero un sentimento sincero oppure un sorta di saggezza calcolata dovuta all’età. In ogni caso il film funziona alla grande, ha un ritmo serrato, lascia senza fiato e regge quasi un’ora e mezza rapendo completamente lo spettatore, con l’azione condensata quasi unicamente dentro la macchina dei sicari. Da parte del regista Eric Red, un rapimento più riuscito rispetto a quello tentato dai suoi personaggi.    





venerdì 14 febbraio 2020

LAWRENCE D'ARABIA

521_LAWRENCE D'ARABIA (Lawrence of Arabia); Regno Unito, 1962. Regia di David Lean.

Un kolossal imponente, questo Lawrence d’Arabia del regista David Lean che, dopo l’ottimo Il ponte sul fiume Kwai, si conferma regista di grandissima capacità narrativa. Le prime due ore del film dedicato alle avventure arabe di Thomas Edward Lawrence sono strepitose; le immagini sontuose e magnifiche (girate in uno spettacolare formato a 70 mm con la fotografia a cura di Freddie Young) mostrano la bellezza maestosa delle terre mediorientali. Lean compone lo schermo come la tela di un pittore, sempre attento alla disposizione scenica dei personaggi, degli oggetti e dei paesaggi. Particolare cura è mostrata nelle scene di massa, con riprese aeree che permettono di cogliere i movimenti d’insieme e consentono al regista anche l’uso coreografico dello schermo panoramico. Insomma, per lo spettatore questo Lawrence d’Arabia è una vera manna per gli occhi. Ma lo è anche per le orecchie, perché l’accompagnamento musicale di Maurice Jarre è una vera delizia, perfettamente adatto a cogliere ed esaltare la bellezza del deserto. La scena iniziale, con il sorgere del sole unito all’incedere del motivo sonoro dominante, è una delle massime espressioni di bellezza in senso cinematografico. Il sole è protagonista di molte scene, ed è anche logico essendo uno degli elementi prevalenti nel paesaggio. Sembra quasi che il suo contraltare umano sia rappresentato dal tenente Lawrence, i cui capelli biondi richiamano il colore dell’astro, e gli occhi azzurri brillano come emanassero luce. Il parallelo è azzardato, ma tutto sommato non sarebbe estraneo alla convinzione britannica di superiorità di cui il regista Lean aveva già intessuto, fosse anche in modo sarcastico, il precedente Il ponte sul fiume Kwai. 

Il film si apre con le scene di un incidente motociclistico che provoca la morte di Lawrence, in Inghilterra. Ne segue il funerale, nel quale assistiamo alle conversazioni sul defunto da parte dei convenuti: in questo momento comincia il film vero e proprio, la storia ambientata in Arabia. Come dire che, parlando di una persona morta, è possibile sancirne il processo di mitizzazione e se ne può narrare la leggenda. L’avventura di Lawrence comincia al Cairo, dove questi è un banale ufficiale impiegato nell’esercito di sua maestà. Mandato in Arabia con semplici compiti di ricognizione, prenderà di suo pugno iniziative clamorose e del tutto imprevedibili, soprattutto alla luce di quella che era stata fino allora la sua carriera militare. 


Diverrà addirittura il condottiero degli Arabi, capace di unificare le varie tribù beduine, assumendo anche i costumi locali: con il suo vestito bianco, i capelli biondi, la carnagione chiara e gli occhi azzurri, Lawrence d’Arabia appare davvero come un messia, l’uomo capace di scrivere il proprio destino e quello dell’Arabia. Sebbene si potrebbe definire persino delirante, il film funziona in modo egregio proprio fino a questo punto; quando la purezza del messia britannico viene infangata dagli intrighi dell’esercito di sua Maestà e dalle violenze carnali e sessuali di un ufficiale turco, la bussola è ormai persa e il regista fatica a portare a termine la sua opera con la stessa coerenza mostrata in precedenza. Ci riesce comunque, grazie alla notevole competenza tecnica, ma il risultato finale è meno esaltante di quanto non fossero lo prime due ore di pellicola.






mercoledì 12 febbraio 2020

IL CAVALIERE SOLITARIO

520_IL CAVALIERE SOLITARIO (Buchanan rides alone); Stati Uniti, 1958. Regia di Budd Boetticher.

Prosegue la collaborazione del regista Budd Boetticher con i suoi fedelissimi, l’attore Randolph Scott (qui nella parte di Buchanan, il cavaliere solitario del titolo italiano) anche coproduttore insieme ad Harry Joe Brown, in un nuovo capitolo di quello che in genere viene indicato come il ciclo di Ranown (dai nomi dei due produttori Ran-dolph Scott e Harry Joe Br-own appunto). Alla sceneggiatura è accreditato il solo Charles Lang (che figurava nei credits di un altro film del ciclo, Decisione al tramonto), sebbene ci siano voci che ci abbia messo la penna anche Burt Kennedy (sue le sceneggiature dei precedenti I sette assassini e I tre banditi, altri due Ranown). Questo per dire come Il cavaliere solitario sia un prodotto di un team perfettamente oliato, dove tutti i meccanismi filano alla perfezione e, ci fosse anche qualche sbavatura, questa viene in qualche modo compensata dalla funzionalità degli elementi ampiamente rodati. Il film ha un tono quasi da commedia, con numerose battute umoristiche (si vedano quelle nell’improvvisato tribunale come esempio), e il regista sembra giocare al gioco delle tre carte con lo spettatore. Tre, infatti, sono i fratelli Agry che tengono sotto scacco la città di confine di Agry town; tre sono i buoni, Buchanan (Randolph Scott, come detto), Juan (Manuel Rojas) e Pecos (L.Q. Jones) e tre gli aiutanti dello sceriffo che li inseguono. La figura simbolica del film non è Buchnan ma piuttosto Amos Agry (Peter Whitney), l’albergatore, che è sempre indeciso se schierarsi con il fratello sceriffo Lew (Barry Kelley) o l’altro fratello, il giudice Simon (Tol Avery). 

Il correre da una parte all’altra di Amos è enfatizzato dall’atteggiamento goffo e sofferente dell’uomo, ma anche gli altri personaggi non fanno altro che andare e venire, per ritrovarsi alla fine nello stesso posto (Buchanan lo dice esplicitamente a Juan quando si ritrovano in cella), oppure scambiarsi posizione e ruolo. In questa commedia non tanto degli equivoci ma delle situazioni, che tutto sia capovolto lo possiamo capire anche da come si risolve un altro dei terzetti di cui si compone la storia. 


Pecos Hill (nome che fa ironicamente il verso al leggendario Pecos Bill) ha appena svoltato, passando dalla parte di Buchanan e, invece di freddare il nostro eroe, come avrebbe dovuto, ha fatto fuori il collega con il quale condivideva l’incarico. E già questo è un ribaltone quantomeno atipico, la cui scena clou è ambiguamente sia comica che drammatica. Ma il tono scema decisamente al farsesco durante il funerale dell’uomo ucciso, che viene legato su una pianta per evitare che le bestie ne facciano scempio. Ma non si poteva seppellire, viene da chiedersi? Buchanan ci ha provato, in effetti, ma, essendo vicino al fiume l’acqua ha inondato la fossa, vanificando l’operazione. Situazioni che sfiorano il comico ma che lo diventano appieno quando Pecos Hill recita il discorso di commiato al compare, sistemato sull’albero: l’immagine ha un suo impatto emotivo, ma le parole a corredo sono davvero spassose. Tutti questi passaggi leggeri non devono far pensare però che il film tradisca il suo compito di tenere lo spettatore incollato allo schermo: la narrazione ad incastri è serrata e tutto sommato ben congeniata e lo spettacolo nel complesso è di pregevole livello. Come è lecito attendersi da un film di Budd Boetticher.   




lunedì 10 febbraio 2020

I SETTE SENZA GLORIA

519_I SETTE SENZA GLORIA (Play Dirty); Regno Unito, 1969. Regia di André De Toth.

Forte dell’esperienza come regista della seconda unità in Lawrence d’Arabia, il solido André De Toth ritorna sugli stessi scenari desertici con I sette senza gloria, un film ambientato in nordafrica durante la II Guerra Mondiale. Il titolo italiano sembra rievocare I Magnici Sette, western del 1960 di John Sturges, mentre nell’originale Play dirty ci si riferisce maggiormente al più recente Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, per via del termine dirty, sporco, comune ai due film. E in quello del regista di origine ungherese si gioca sporco d’avvero, con un Michael Caine, che interpreta il capitano Douglas, costretto ad adeguarsi in fretta ad una guerra senza regole, né da una parte, né dall’altra. Il problema è che si fa già fatica a capire quali siano le parti in causa, con i soldati che cambiano divisa alla bisogna. Significativa la scena iniziale dove lo spietato capitano Cyril Leech (Nigel Davenport) sta arrivando alla guida di un fuoristrada mentre ascolta Lili Marleen e, prima di varcare il posto di blocco, sintonizza la radio su una stazione che passa You are my sunshine e si cambia il berretto, togliendo quello tedesco in favore di quello inglese. Due semplici tocchi per saltare, almeno all’apparenza, barricata. Insomma nella sabbia del deserto, con divise e mezzi mimetici, è davvero difficile fare distinzione: che in effetti i personaggi non fanno, passando per le armi nemici, amici, e perfino alcuni assistenti sanitari protetti dall’insegne della croce rossa. A seguito di quell’emblematico passaggio, c’è l’intermezzo con l’infermiera tedesca che viene in quel primo momento risparmiata. 

L’intervallo sembra avere un tenore leggero quando la ragazza mette sotto in uno scontro fisico uno dei terribili sette della missione, ma vira leggermente durante il tentato stupro. I toni tornano però in fretta farseschi, grazie all’arabo medicato dalla ragazza che spara nelle chiappe al compagno che voleva violentare la stessa. Insomma, non succede niente di scabroso, non è quello il tema della pellicola. Il punto focale del regista è la guerra e la sua mancanza di senso: l’obiettivo per il quale i sette soldati rischiano e perdono la pelle è un deposito posticcio, finto, fasullo come gli ideali militari. E se per caso venisse anche trovato un deposito di carburante vero, in un attimo possono cambiare gli ordini e preservare quel carburante può diventare più importante della vita di quegli stessi uomini mandati in missione per distruggerlo. Nessuna regola è certa, nessuna divisa, nessuna bandiera: nemmeno quella bianca sotto la quale i due sopravvissuti del manipolo vengono mitragliati e uccisi per una semplice vista.
Un film forse minore, nella carriera apprezzabile del regista, ma di cui vanno ricordati i momenti topici (il disinnesco della mina, la scalata del dirupo con gli automezzi) e il gusto amaro e disilluso.
Come regista, anche De Toth, un po' come i suoi personaggi, è rimasto senza gloria, ad Hollywood, ma seppe comunque farsi valere.