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domenica 21 maggio 2023

SQUADRA SPECIALE CON LICENZA DI STERMINIO

1277_SQUADRA SPECIALE CON LICENZA DI STERMINIO (The Doll Squad)Stati Uniti,1973; Regia di Ted V. Mikels.

Nonostante il titolo italiano oggi appiana assai meno convincente dell’originale The Doll Squad, a ben vedere fotografa meglio quello che accade nell’improbabile Z-movie di Ted V. Mikels. I morti che seminano le procaci protagoniste, le ragazze del Doll Squad appunto, sono infatti un numero tale che si può quindi definire il loro operato uno vero e proprio sterminio. Non che la cosa possa in qualche modo turbare i sonni del pubblico del film, beninteso; semmai i sogni degli spettatori saranno stuzzicati dalle forme che le citate ragazze esibiscono generosamente. Tra queste la protagonista è la più attraente, ovvero la splendida Francine York nei panni della capobanda Sabrina Kincaid, personaggio che scenograficamente regge sontuosamente la scena per tutta la durata del lungometraggio. Più defilate le altre del gruppo, tra cui vale comunque la pena ricordare Tura Satana (è Lavelle Sumara), Lisa Todd (è Maria) e Leigh Christian (è Sharon). In sé Squadra Speciale con licenza di sterminio non è certo un film ben costruito e realizzato con sufficiente perizia: ad essere del tutto onesti siamo abbastanza lontani dal minimo sindacale richiesto. Quello che rende la pellicola degna di nota è l’idea di un gruppo di donne che svolga un ruolo che nei film d’azione è in genere maschile, oltre agli espliciti rimandi erotici che pure, per la verità, da un punto di vista prettamente sessuale, sono contenuti. Non ci sono scene di sesso in Squadra Speciale con licenza di sterminio ma la violenza esibita e soprattutto il vedervi coinvolte ragazze in abiti e pose estremamente provocanti, rende abbastanza facile intuire dove si voglia andare a parare. Niente di male, per carità; del resto pare che il film fu lo spunto per la successiva serie televisiva Charlie’s Angels che ne era, in effetti, una versione depurata dalla violenza estrema e raffinata sul versante erotico. Tra l’altro, Quentin Tarantino si dice essere un gran fan di Squadra Speciale con licenza di sterminio e questo non è che renda il film migliore di quanto non sia ma dà, in un certo senso, l’idea di come il lungometraggio di Ted V. Mikels, all’epoca della sua uscita, riuscì a colpire l’immaginario del pubblico e ad influenzarlo. Insomma non un’opera imprescindibile per le sue qualità artistiche ma piuttosto un testo un po’ intrigante e che, al tempo, aiutò a liberarci di qualche tabù. E tanto basta.      





Francine York 




Tura Satana 




Lisa Todd




Leigh Christian 


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mercoledì 12 aprile 2023

AGENTE FEDERALE X3

1256_AGENTE FEDERALE X3 (Dangerous Mission)Stati Uniti, 1954; Regia di Louis King.

Innanzitutto dobbiamo dire che Agente Federale X3 è un film divertente ed appassionante. Conviene partire da quello che è in sostanza il risultato, in questo caso, perché il film di Louis King è talmente controverso e ricco di contraddizioni, oltre che privo di coerenza stilistica, che il rischio di perdere il filo e non riuscire poi a trarre un bilancio finale è notevole. A botta calda, invece, si può tranquillamente affermare che Agente Federale X3 assolva il proprio scopo primario di intrattenimento. Detto questo, il lungometraggio offre una valanga di spunti, alcuni in chiave positiva altri assai meno, comunque perlopiù interessanti. Ad esempio, il film prodotto da Irwing Allen – a cui sono forse riconducibili alcuni disastri naturali previsti dalla trama – potrebbe essere definito un ‘thriller da resort’ – curiosa ma efficace descrizione tratta dal sito IMDb: si tratterebbe di una ipotetica corrente che si diffuse negli anni Cinquanta. Tra gli esempi citati troviamo Il suo tipo di donna (1951, di John Farrow e Richard Fleischer), Duello sulla Sierra Madre (1953, di Rudolph Maté), Niagara (1953, di Henry Hathaway) e Intrigo internazionale (1959, di Alfred Hitchcock). E’ una sagace osservazione per definire quelle pellicole che si posero un po’ in mezzo al guado nel cambio al vertice che avvenne ad Hollywood: negli anni Quaranta avevano spopolato i noir, negli anni Cinquanta il western assurse a genere americano per eccellenza. Agente Federale X3 può essere preso ad esempio calzante di questa mutazione in divenire: prodotto dalla RKO, uno studio legato ai film in Bianco e Nero, comincia in effetti come un noir con un’ambientazione addirittura degna di un horror. 

Nell’incipit assistiamo ad un omicidio in una notte nera come la pece mentre infuria una tempesta e soltanto le luci bianche dei fulmini rischiarano violentemente la scena per brevissimi istanti. Al ché ci si potrebbe legittimamente chiedere com’è che i titoli di testa avessero messo tra i credits ‘colore della Technicolor’: quale colore? Dalla successiva sequenza il colore è invece evidente ma non è che possa venir annoverato tra i meriti assoluti della pellicola: senz’altro l’originale 3D non aiuta ma i difetti della resa sullo schermo sono davvero troppi. Alcune scene sono ottime, con colori caldi e pastello tipici del periodo classico di Hollywood; in altre immagini la dominante dei filtri, ad esempio le scene ambientate in notturna ma girate durante il giorno, sono troppo evidenti e il contrasto tra la qualità dei vari segmenti narrativi è sconcertante. Non aiuta nemmeno il confronto tra i maestosi scenari del Glacier National Park, Montana, e le palesi ricostruzioni in cartapesta o le riprese in studio con fondali finti. Questa incoerenza perdura anche nelle scene dei disastri o comunque di impatto naturalistico, con l’incendio che è altamente spettacolare mentre la frana è poco convincente e scenograficamente la sparatoria sui crepacci è degna di un B-Movie e nemmeno dei migliori. La trama è una sorta di whodunit dove occorre capire chi è la ragazza testimone dell’omicidio dell’incipit e chi è il sicario spedito sulle sue tracce. Pare che la giovane si sia nascosta tra le montagne del Glacier National Park ed è proprio qui che si sviluppa l’intera vicenda. 

Anche il canovaccio presenta qualche incertezza, i passaggi da commedia rosa sono forse un po’ troppo puerili ma il mestiere degli attori garantisce un risultato comunque dignitoso. Il protagonista Marc Harley è interpretato da Victor Mature che si disimpegna bene in una serie di ambiguità che il suo ruolo prevede, dal dubbio tra il fatto che sia il possibile sicario o al contrario un agente in incognito, all’essere un impenitente playboy o piuttosto un innamorato con intenzioni serie. L’oggetto delle sue mire è Louise, che presto si capisce essere la testimone chiave del processo per omicidio visto in apertura: Piper Laurie garantisce fresca bellezza e physique du rôle adatto al personaggio. 

Se Mature era in grado di stemperare nell’ironia piaciona il suo lato ombroso, Vincent Price – è Adams, il sicario incaricato di uccidere Louise – mantiene costante un’ambiguità più viscida che inquietante. Come si vede il cast è di ottimo livello anche perché mancano almeno da citare William Bendix nel ruolo Tenente dei Ranger e Dennis Weaver in uno dei suoi uomini, mentre menzione a parte merita Betta St John. Il suo personaggio è Mary Tiller ed è un’indiana: nel film è smaniosa di farsi fotografare da Adams, che l’ha circuita nel tentativo di prendere confidenza con l’ambiente dell’hotel dove lavora la giovane insieme a Louise, vero obiettivo del sicario. In origine, infatti, il piano dei criminali prevedeva di eliminare la testimone simulando un incidente e Adams aveva approfittato della situazione che prevedeva un suo muoversi con circospezione. Al di là di questo, Mary è un personaggio certamente positivo, ingenuo ma innegabilmente apprezzabile. Pure suo padre Katoonai (Steve Darrell), sebbene ricercato per omicidio, è inquadrato in luce positiva come con decisa ammirazione sono visti gli antichi abitanti delle terre ora facenti parte del parco. Tra le tante sfumature di cui si tinge questa bizzarra pellicola c’è anche attenzione e rispetto per l’aspetto folcloristico dei nativi, elemento che conferma come ad Hollywood già negli anni Cinquanta la questione indiana fosse vista con occhi moderni ed obiettivi. In definitiva Agente Federale X3 non è che sia un capolavoro, del resto il regista Louis King – fratello del più capace Henry – non aveva poi questa gran stoffa dietro la macchina da presa, ma alla fin fine il film si lascia ampiamente ricordare con favore.           


Piper Laurie 




Betta St. John





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lunedì 6 febbraio 2023

1997: FUGA DA NEW YORK

1217_1997: FUGA DA NEW YORK (Escape from New York)Stati Uniti, 1981; Regia di John Carpenter.

Tra il 1978 e il 1980 John Carpenter dirige Halloween – La notte delle streghe (1978) e Fog (1980) per il cinema e Pericolo in agguato (1978) e Elvis il re del rock (1979) per la televisione: ha la mano caldissima. Visto il positivo riscontro di pubblico, la Avco Embassy, lo studio che aveva prodotto Fog, chiede a Carpenter un altro film e il regista americano decide di mettere mano ad un vecchio soggetto a suo tempo pensato per Clint Eastwood: 1997 Fuga da New York. Come detto Carpenter a quel tempo è in formissima oltre ad avere guadagnato la stima e la considerazione dell’ambiente. Per capirci: per Halloween – La notte delle streghe Carpenter ebbe a disposizione un budget di 325.000 dollari, per 1997 Fuga da New York 6 milioni. Il film, questo va messo a referto prima di ogni altra cosa, è un assoluto capolavoro frutto di abilità singole, collettive e congiunzioni astrali. A concorrere alla riuscita dell’opera e alla sua capacità di ergersi a icona simbolo di un genere e di un periodo in modo quasi sfacciato, va quindi considerata la capacità di Carpenter di fare tesoro delle proprie esperienze. Il successo planetario e clamoroso arrivò inaspettato per Halloween – La notte delle streghe dopo che il valido esordio Dark Star (1974) era stato ignorato e la stessa sorte era capitata inspiegabilmente al successivo Distretto 13 – Le Brigate della Morte (1976). Dopo la fortunata svolta con protagonista Michael Myers, come detto Carpenter aveva lavorato ad un paio di lungometraggi televisivi, Pericolo in agguato e Elvis il re del rock, nei quali, dovendo farne a meno, si era reso conto di quanto fosse importante la propria abituale squadra di lavoro. 

Fog, il seguente ritorno al grande schermo, segnerà un clamoroso successo ma è interessante notare che “sul banco del montaggio, Fog subisce un radicale cambiamento voluto da John Carpenter” [Il Cinema di John Carpenter, G. Salza e C. Scarrone, Fanucci Editore, 1985, pagina 103, e per stessa ammissione del regista, come si può leggere a pag. 33 del libro-intervista John Carpenter di G. D’Agnolo Vallan e R.Turigliatto, Lindau]. Il regista americano, in quel preciso momento, sa cosa rende un film un successo; molto probabilmente non in modo del tutto consapevole, ma la sua sensibilità artistica sa esattamente cosa fare. Questo ipotetico aspetto della non completa coscienza della propria poetica è interessante perché permette di intuire parte della grandezza di 1997: Fuga da New York. Sempre nell’intervista contenuta nel volume Lindau possiamo apprendere che il regista non si capacitava degli aspetti che gli spettatori trovavano in Halloween – La notte delle streghe. A pagina 31 Carpenter dice: “La gente mi trattava come se sapessi qualcosa che in realtà non sapevo […] Il film aveva assunto una vita tutta sua, indipendente da me.” Sempre usando questa intervista a mo’ di strumento per comprendere meglio alcune dinamiche che stanno intorno a 1997: Fuga da New York non può non sorprendere che il film in questione venga saltato: le domande sono poste un po’ a ruota libera su base cronologica, per cui potrebbe essere un caso, è vero. 

Ma 1997: Fuga da New York è forse il film più celebre di Carpenter, al massimo il secondo dietro Halloween – La notte delle streghe, impossibile non farne parola quando si stanno rievocando i primi anni Ottanta del regista. In ogni caso, pagine e pagine dopo (pag.55), quando si arriva a Fuga da Los Angeles, gli intervistatori si rendono conto che non hanno ancora parlato del primo capitolo della saga, quello appunto ambientato a New York. Carpenter è abbastanza sbrigativo a questo proposito virando presto su Fuga da Los Angeles, per il quale spende parole migliori. Al netto dei gusti, qualunque criterio di valutazione oggettivo (incassi, recensioni) predilige, e di molto, il capostipite al remake/sequel del 1996. Forse, proprio con il fenomeno descritto dallo stesso regista per Halloween – La notte delle streghe, il primo film con Jena Plissken ha assunto una sua propria autonomia, un significato non del tutto conosciuto, almeno a livello consapevole, dallo stesso Carpenter. E per quanto a posteriori se ne possa dire freddo e indifferente 1997 Fuga da New York è la perfetta sintesi della sua poetica. Frutto di una serie di circostanze fortunate, forse, o di un’alchimia di cui l’autore non è del tutto cosciente – chissà – comunque è chiaro che per comprendere il film in questione il suo realizzarsi è forse più utile che non il risultato, perfino troppo disarmante nella sua semplice efficacia. Radunato il proprio staff di collaboratori, a partire da Debra Hill come produttrice, vengono inoltre ingaggiati i migliori tecnici in circolazione: l’art directors a cui dobbiamo l’aspetto visivo del film è Joe Alves, mentre per girare costantemente in condizioni di buio Dean Cundey utilizza lenti Ultra Speed Panatar. Roy Arogast è un altro nome eccellente per gli effetti meccanici mentre pare che negli effetti visivi fosse coinvolto anche James Cameron. Non si tratta di fare un elenco di nomi ma di rendere merito ad uno stuolo di persone la cui collaborazione, abilmente orchestrata da Carpenter, ha permesso all’opera di girare come il meccanismo di un orologio. 

E i nomi sarebbero tanti e, si possono ricordare ancora almeno Nick Castle, all’opera insieme a Carpenter a soggetto e sceneggiatura, e Larry J. Franco in produzione e regista della seconda unità. Un discorso a parte merita la musica, scritta dallo stesso Carpenter e di cui il regista conosceva l’estrema importanza per il successo di un film; ad assisterlo, chiama Alan Howarth per un risultato semplice, quasi ossessivo e quanto mai efficace. Anche il cast è composto da attori in molti casi già diretti dall’autore americano, tra questi: Kurt Russell è Jena Plissken (Snake, nell’originale americano), Donald Pleasence è il Presidente degli Stati Uniti, Adrienne Barbeau è Maggie, Frank Doubleday è Romero, Tom Atkins è Rehme. Lee Van Cleef (è Hauk), Ernest Borgnine (è il Tassista) e Harry Dean Stanton (è Mente) sono invece palesi legami con il cinema a cui Carpenter fa riferimento in 1997 Fuga da New York. Sia Van Cleef che Borgnine erano stati in grado di interpretare sontuosamente sia i western classici che le derive successive più decadenti pur non limitandosi certo solo a quel genere.  

Stanton era anch’egli un caratterista eccezionale e guardando la sua filmografia si rimane esterrefatti sebbene raramente gli sia stato riconosciuto il giusto merito. Preparato gli eccezionali ingredienti, Carpenter non si avventura in qualcosa di troppo originale, semplicemente cristallizza in un’opera una serie di spunti che già aleggiano nell’aria. Ad esempio, il debito di 1997 Fuga da New York verso I guerrieri della notte (1979) è evidente ma Carpenter enfatizza la situazione di degrado descritta da Walter Hill ambientando il suo film in un futuro prossimo in modo da avere mano libera. Un po’ come aveva fatto George Miller per Mad Max – Interceptor (1979), tanto per capirci. Da parte sua il regista ribalta il concetto a cui era particolarmente legato del Male che assedia dall’esterno per raccontare di una società nella quale il Male è talmente ben radicato da poter essere efficacemente rappresentato dalla Manhattan trasformata in carcere di sicurezza che vediamo nel film. L’idea del tempo che incalza ma può anche essere dilatato dalla regia, nella scena della resa dei conti finale, è uno stratagemma narrativo che non da alcuno scampo allo spettatore, costretto come Plissken a non mollare mai la presa. Il carisma di Russel e le celeberrime battute del suo personaggio finiscono l’opera: 1997: Fuga da New York è un vero e assoluto capolavoro, un film al tempo stesso semplice ed epocale, e non poteva essere altrimenti. Ad essere del tutto onesti, oggi, oltre trent’anni dopo, guardandolo, si può forse scorgere qualcosa appena dopo il limite che il film raggiunge e sancisce, il limite del sublime. Quel limite oltre il quale si sfiora il ridicolo. Ma perché mai dovremmo farlo?   


Adrienne Barbeau 





Season Hubley 


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