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domenica 20 ottobre 2019

SEGRETISSIMO

429_SEGRETISSIMO ; Italia, Spagna, 1967Regia di Ferdinando Cerchio.

Nel 1965 era uscito Thrilling, un film a episodi tra cui uno intitolato Sadik, e l’anno successivo Kriminal (regia di Umberto Lenzi): Sadik e Kriminal erano due personaggi dei fumetti neri italiani (a ben vedere ci fu anche una collana intitolata Thrilling, ma arrivò solo negli anni 70). Queste pubblicazioni fiorirono negli anni sessanta in Italia anche sulla scia delle storie cinematografiche di James Bond, l’agente segreto 007. Accanto alla produzione a fumetti, ma nemmeno troppo dissimile, ci fu anche quella prettamente letteraria, di cui la serie Segretissimo della Arnoldo Mondadori Editore fu la più nota. La collana presentava romanzi, analogamente a quanto faceva la celeberrima Gialli Mondadori, in questo caso sul versante spionistico. Questo filone narrativo in Italia godeva quindi, al tempo, di una notevole vitalità; ed è curioso osservare come il cinema nostrano vi arrivi in seguito a questa esplosione letteraria. E’ curioso perché parte di quest’esplosione di pagine con temi spionistici, scritte o disegnate che fossero, fosse a sua volta ispirata dal cinema, come detto prevalentemente dalla saga interpretata da Sean Connery. Questo contorto percorso può essere utile per spiegare un certo pressapochismo delle nostrane produzioni cinematografiche se paragonate a quelle dell’agente segreto con licenza di uccidere. In pratica i nostri film di questa corrente si ispiravano direttamente a fumetti o a romanzi di puro intrattenimento, e solo indirettamente ai costosi prodotti cinematografici inglesi dedicati a James Bond. Se, in qualche caso, può rimanere, in questi film italiani di spionaggio un po’ sopra le righe degli anni sessanta, una certa vena naif piuttosto curiosa, bisogna ammettere che alcuni di essi sono veramente ai minimi termini. 

Uno di questi è Segretissimo, del pur discreto Fernando Cerchio, regista che se la cava, nell’economia della riuscita di quest’opera, solamente con la riconosciuta buona capacità narrativa. In effetti il film, di cui ci rimane ben poco, ha tuttavia il merito di non annoiare e fila via piacevolmente. I curiosi i titoli di testa, stilizzati e ispirati ai disegni animati, in un modo abbastanza comune al tempo, finiscono per enfatizzare la parentela con i fumetti pur se il titolo del film è, come detto, preso da una collana di romanzi. Volendo, tra i punti a favore di Segretissimo, c’è la presenza di Magda Konokpa, già vista nel citato Thrilling (nell’episodio Il vittimista) e successivamente protagonista di Satanik (regia di Piero Vivarelli, 1968). Va detto che la Konopka non è che faccia granché, in Segretissimo, ma d’altronde il genere, che poteva avere delle buone potenzialità, sarà caratterizzato dalla costante delusione delle attese.   


 Magda Konopka









venerdì 18 ottobre 2019

E' ARRIVATO MIO FRATELLO

428_E' ARRIVATO MIO FRATELLO ; Italia, 1985Regia di Castellano e Pipolo.

Renato Pozzetto ritrova alla regia Castellano e Pipolo, solo l’anno successivo de Il ragazzo di campagna, ma nemmeno la fortunata alchimia sembra riuscire a rallentare la parabola discendente intrapresa dalla carriera del comico; men che meno quella della commedia italiana del periodo. E’ arrivato mio fratello è un film certamente meno valido del precedente citato, sebbene abbia ancora alcuni spunti interessanti, oltre a passaggi spassosi e, nel complesso, una certa attenzione in fase di scrittura, legata all’estrazione dei registi che arrivano dalla sceneggiatura. Uno dei problemi del nostro cinema leggero è la incapacità interpretativa degli attori: condizione, purtroppo, confermata in E’ arrivato mio fratello. Il protagonista del film è, ovviamente, Renato Pozzetto nei panni di Ovidio; ma il comico di Laveno interpreta anche il fratello gemello di Ovidio, ovvero Raffaele/Raf Benson. In genere, Pozzetto, che pure non è un mostro di recitazione, se la cava con una verve surreale che risulta assai funzionale ma, per differenziare i due personaggi, si produce in una prova davvero disastrosa nelle vesti di Raffaele, attingendo ad una comicità assai più pacchiana (addirittura insopportabile la sua risata). La storia è ovviamente un pretesto per vedere all’opera Pozzetto, anche se qualcosa di interessante, oltre alla soave e surreale comicità del buon Renato, c’è: ad esempio, nel film viene riproposta una tipica coppia di fratelli del nostro cinema, quello timido e remissivo che si contrappone allo sfacciato e spendaccione. I casi più clamorosi del nostro passato in pellicola sono stati, probabilmente, Totò e Peppino De Filippo, si vedano Totò, Peppino e la Malafemmina (Camillo Mastrocinque, 1956) e Signori si nasce (Mario Mattoli, 1960). 

Naturalmente, in quei film, il protagonista era sempre Totò, ovvero il fratello furbo, mentre in E’ arrivato mio fratello seguiamo maggiormente il punto di vista di Ovidio, tra i due quello più a modo. Se, al tempo, il nostro cinema leggero, da sempre più ruffiano che educativo nei confronti del pubblico, sembrava strizzare l’occhio alla furbizia degli italiani, qui si pensa che, al contrario, il cittadino medio sia talmente represso da avere bisogno di una scossa. E forse in quel senso va colto il finale con la fuga a Las Vegas. Ma questa fuga non sembra interpretabile in un modo negativo, anzi; il concetto è piuttosto che, nella società italiana, l’individuo corretto è totalmente vessato dalle prepotenze del sistema in tutte le sue sfaccettature: il preside sul lavoro, la diseducazione dei bambini nella classe, il poliziotto in questura, la fidanzata nelle relazioni personali, fino al vicino di casa con l’autolavaggio che arriva con la sua noncuranza ad invadere lo spazio vitale di Ovidio fin dentro la sua abitazione. Nemmeno la famiglia rappresenta un valore positivo, visto le discriminazioni interne fatte dai genitori verso i due figli (a danno, ovviamente, di Ovidio) che forse alludono all’indole italiana del tutto avulsa dal comune senso di giustizia. 

Per paradosso, essendo E’ arrivato mio fratello un film comico che quindi usa il paradossale come sorta di critica, l’unico ambiente sano è quello della prigione, con i carcerati interessati alla poesia. Oltre al prevedibile scambio di ruoli tra i fratelli, con effetti ovviamente comici, il film si basa sulle conseguenze dell’incursione di Raffaele nell’ordinaria vita di Ovidio. Purtroppo, questa nel complesso apprezzabile struttura portante del lungometraggio, non è poi sviluppata a dovere, complice anche un certo impoverimento del nostro cinema sempre più contagiato dalla sciattezza televisiva dell’epoca. 

Del film, rimangono però alcuni momenti assolutamente cult, come lo spumante che, romanticamente bevuto nelle scarpe di Esmeralda (Carin MacDonald) secondo Ovidio ‘sa un po’ di tacco’, oppure la doppia scena con la poesia La pioggia nel pineto di Gabriele D’annunzio. Durante la prima assorta lettura di Ovidio, gli alunni urinano sul pavimento della classe causando una reprimenda da parte del preside al povero docente. Memorabile la vendetta dell’insegnante che, disinibitosi in seguito ai suffumigi alla cocaina (per errore inalata al posto della polvere di eucalipto), innaffia gli alunni con la canna dell’idrante del sistema antincendio, recitando la poesia d’annunziana opportunamente modificata: ‘piove - sulle vostre facce da culo’
Imperdibile.


Corin McDonald


mercoledì 16 ottobre 2019

LA CAROVANA DELL'ALLELUIA

427_LA CAROVANA DELL'ALLELUIA (The Hallelujah Trail); Stati Uniti, 1965Regia di John Sturges.

I titoli di testa di questo western scorrono su immagini animate: praticamente siamo di fronte ad un cartoon. Ed è un bel biglietto da visita per lo spettacolo seguente, ovvero il corpo del film, visto che La carovana dell’alleluia si risolve come una sorta di parodia del genere western. Intendiamoci, il regista John Sturges non lesina gli sforzi, sia dal punto dell’intreccio che della messa in scena: ci sono ambientazioni e numerosi passaggi molto curati e in perfetto stile coi classici del genere. Ma siamo già alla metà degli anni 60 e il regista si rende conto che il western è un genere che deve essere aggiornato: le figure eroiche che dieci anni prima erano credibili, alle soglie della contestazione sessantottina cominciano a segnare il passo. In ogni caso il film si presenta come un western dei bei tempi, sotto più di un punto di vista. Ad esempio, la musica, opera del formidabile Elmer Bernstein, è notevole e va annoverata tra le migliori di sempre. E poi il cast è davvero sontuoso: Burt Lancaster è l’impettito colonnello; la splendida Lee Remick è nei panni, assai poco credibili, di una trascinante leader del Movimento della Temperanza; e poi Jim Hutton, Pamela Tiffin, Donald Pleasence, Brian Keith, Martin Landau, insomma, molta carne al fuoco. E anche la storia stessa è particolarmente elaborata, tanto che nel film i disegni animati ci ritornano in soccorso, per mostrare i movimenti sul terreno durante i concitati scontri tra colonne di soldati, carovane trasportanti generi alcolici, indiani, dame della temperanza in trasferta, milizie cittadine assetate di whiskey. 

Il tutto sempre in tono più che ironico, si potrebbe dire farsesco, e valga per esempio la scena nel finale coi soldati a girare in tondo, alla maniera indiana, agli stessi pellerossa assediati in postazione circolare. Il film è godibile, ma ha sicuramente un limite in qualche lungaggine di troppo: alcune scene sono un po’ troppo insistite, il che mal si concilia con il tono semicomico; ad esempio, quello della battaglia nella tempesta di sabbia è un passaggio un po’ stucchevole. Ma la storia si lascia vedere, è ben diretta, e poi c’è Burt Lancaster, che è eccellente nel dipingere un colonnello che si rifugia in modo convinto nel regolamento per fronteggiare situazioni via via sempre più assurde. Insomma, è finita un’era ma non è il caso di farne una tragedia: meglio una farsa. 

Il che non depone granché bene come bilancio generale ad uno dei generi hollywoodiani per antonomasia, soprattutto perché ci si riferisce al suo periodo più splendente e meglio rappresentate gli Stati Uniti d’America e le loro origini. Viene in mente il motto che pare sia da attribuire agli anarchici di fine ‘800, poi ripreso dai contestatori sessantottini: la fantasia distruggerà il potere, e una risata vi seppellirà. In La carovana dell’alleluia la fantasia, (i cartoon, le soluzioni narrative bizzarre) ha davvero distrutto il potere, (incarnato nel colonnello e nel suo amato regolamento); con le risate Sturges seppellisce definitivamente il western classico.    







Pamela Tiffin




Lee Remick









martedì 15 ottobre 2019

IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO

426_IL BRIGANTE DI TACCA DEL LUPO ; Italia, 1952Regia di Pietro Germi.

Capolavoro assoluto del cinema italiano, Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi è universalmente riconosciuto come una versione italiana dei western di John Ford. Il paragone ci sta tutto, anche perché il lavoro di Germi in quel senso è esplicito e particolareggiato. L’ambientazione nel mezzogiorno italiano, la Lucania presso Melfi per la precisione, è pietrosa, desertica ed assolata grosso modo come il southwest americano; i bersaglieri ricordano le giacche blu, mentre Amedeo Nazzari, splendido capitano Giordani, è la nostrana versione di John Wayne; Raffa Raffa e i suoi briganti possono benissimo essere assimilati agli apache di Geronimo in Ombre Rosse. E in questo senso va anche lo straordinario commento musicale, opera di Carlo Rustichelli; insomma, Il brigante di Tacca del Lupo racconta della conquista del sud, in chiave western, con una evidente metafora alla conquista del west celebrata in tanti film hollywoodiani. La regia di Germi regge il confronto anche sul piano stilistico con i grandi classici americani: la fotografia di Leonida Barboni, uno scintillante bianco e nero, è magnifica, così come anche la capacità compositiva del regista, che trova sempre il modo di sfruttare in modo mirabile lo spazio dello schermo. La sceneggiatura, tratta da un racconto di Riccardo Bacchelli, e a cui collaborano Federico Fellini e Tullio Pinelli, ha una struttura narrativa solida e sorregge tutto quanto il lungometraggio. Insomma, da un punto di vista prettamente cinematografico, Il brigante di Tacca del Lupo è un film eccellente, un vero capolavoro. Qualche dubbio nella critica in genere lo lascia un presunto populismo con cui Pietro Germi tratta la questione meridionale

Il regista genovese è piuttosto sbrigativo: sembrerebbe risolvere tutto con l’intervento dei militari. In realtà il suo discorso non è poi così grezzo: certo, Giordani usa la forza, anche per incutere timore nelle popolazioni; un timore superiore, almeno nelle intenzioni, a quello che la gente prova per Raffa Raffa e i suoi briganti. Ma Giordani si rivela anche un uomo comprensivo, almeno nei confronti dei civili, mentre coi suoi bersaglieri è, giustamente, molto più esigente. Sono soldati, che diamine; il senso del dovere del capitano è encomiabile anche se può sembrare un filo troppo fanatico. Ma è anche la situazione eccezionale a richiedere uno sforzo superiore alla norma. In ogni caso Germi lascia il passaggio decisivo, ovvero la localizzazione del rifugio dei briganti, alla controparte meridionale del fronte dei buoni, nella persona del commissario Siceli (l’ottimo Saro Urzì). 

Un po’ come a dire che l’Italia, come paese, deve dare il suo contributo in termini di impegno (militare, in questo caso), ma la soluzione ai problemi locali può e deve essere trovata solo dalle espressioni legali e civili del luogo. E questa ribalta lasciata al mezzogiorno è ribadita dal duello finale, in cui Carmine (Vincenzo Musolino) riscatta l’onore di Zitamaria (Cosetta Greco) uccidendo in duello il temibile Raffa Raffa. Il regista non manca di lanciare però un’ultima stoccata all’ideologia antica diffusa in meridione, evidenziando l’inopportuno commento di Carmine nel riabbracciare la stessa Zitamaria. L’uomo rimpiange infatti che la donna sia stata lasciata in vita dal momento che è disonorata, e l’odiosità dell’affermazione è messa in risalto dal contrasto con i festeggiamenti dei bersaglieri che, al contrario, inneggiano agli sposi riuniti. 
Tuttavia è anche possibile che l’approccio alla questione meridionale da parte di Germi sia stato un po’ semplicistico. Il punto, nevralgico per comprendere la miopia della critica cinematografica italiana che ha poi influenzato l’intero nostro movimento, è che quello di Germi è un film d’avventura, un western addirittura. Se il cinema western americano è comunemente accettato come utile strumento per raccontare in modo metaforico la società americana, non è chiaro per quale motivo la stessa operazione sia etichettata come populista se riguarda il nostro paese. Pare che per l’Italia non si possa prescindere da un approccio realistico e quasi circospetto, in ossequio alle difficoltà nell’analisi della società italiana. 

Ma questo potrebbe valere anche per la società americana, laddove, curiosamente, al contrario ci sembra più consono accettare il cinema popolare come strumento di analisi in ambito cinematografico. Questa difficoltà ad accettare il cinema popolare come modo di leggere la nostra Storia, i nostri problemi sociali, in Italia ha portato al proliferare del cinema impegnato, che molto spesso ha avuto un approccio di maniera, teso piuttosto a mistificare i problemi, con untuosa riverenza alle difficoltà sociali certamente ardue ma mostrate spesso come praticamente insuperabili, quasi a lisciare il pelo all’atavica pigrizia nazionale. Altro che populista; Germi diceva le cose come stavano e come andavano dette. Aiutati, che Dio (o, nel nostro caso, lo Stato) ti aiuta.
  




Cosetta Greco



lunedì 14 ottobre 2019

JOKER

425_JOKER ; Stati Uniti, 2019Regia di Todd Phillips.

Ad un certo punto, il protagonista del film Joker di Todd Phillips tira fuori una sorta di biglietto da visita: quasi fosse una presentazione del personaggio, una scena simbolica che ci aiuta a comprendere la natura del soggetto al centro della scena. In realtà, più che un biglietto da visita, il cartoncino che il Joker porta con sé spiega all’eventuale interlocutore il disturbo di cui soffre tale Arthur Fleck, che altri non è che il nemico per eccellenza di Batman all’anagrafe. Dal citato bigliettino apprendiamo che il disturbo di cui soffre l’uomo è qualcosa di simile al riso spastico, nel caso del Joker un’incapacità di controllare gli scoppi di risa che lo assalgono, per assurdo, nei momenti altamente drammatici. E’ come se l’umore e la manifestazione dello stesso, nel personaggio meravigliosamente interpretato da Joaquin Phoenix, fossero fuori sincronia. E questo che dice, in sostanza, il biglietto da visita che il Joker presenta alla signora sulla metropolitana o ai tre balordi benvestiti: e questo è esattamente il tema del film, che giustamente è ancorato alla personalità del personaggio su cui è incentrata l’opera. Il Joker appare anche fisicamente fuori sincronia, magro e scheletrico ma anche muscoloso, con pose che mettono in dubbio la capacità cognitiva dello spettatore in materia di anatomia. Eppure, poi Arthur si gira, si mostra meglio, e non ha niente di sbagliato, fisicamente è tutto al suo posto, anche se per un’inquadratura c’era sembrato il contrario. 

E, a ben vedere, anche il lavoro che fa Arthur, 'far ridere', si basa proprio su quello, sulla capacità di cogliere un particolare, una scena, leggermente fuori sincronia dalla banale routine; e che quindi ci fa ridere. E come nelle comiche di Charlie Chaplin dove lo vediamo camminare lungo la strada, poi inciampa, e noi ridiamo. Forse per autoironia, perché sappiamo che è capitato anche a noi, o forse perché, con una sorta di inconscia attitudine statistica, speriamo che essendo capitato ad un altro per stavolta l’abbiamo scampata. Charlie Chaplin, per la verità, in Joker compare per davvero e lo fa in un’altro passaggio simbolicamente chiave per decifrare il senso del film: è sullo schermo di un cinema, un rimando metalinguistico e quindi piuttosto esplicito di quello a cui aspira il film di Phillips. Charlot nel film non cammina e inciampa, pattina: e l’ilarità che produce è legata non a qualche sua goffaggine ma al suo pattinare in modo elegante e bendato sfiorando ripetutamente di volare di sotto. Non è un comportamento sbagliato, errato, maldestro, quindi, a far ridere, ma la situazione: Charlot pattina bene, considerando che è pure bendato. Ma è assai incauto e inopportuno, pattinare senza poter vedere che c’è il pericolo di cadere al piano di sotto. Inopportuno


Eccolo, che torna, il tema del film: non qualcosa di sbagliato, ma qualcosa che non è nel posto dove dovrebbe essere. Come Charlot che pattina incauto o Arthur che ride sguaiatamente mentre i tre yuppie stanno molestando una povera ragazza sulla metropolitana oppure quando porta un revolver in un ospedale per bambini. E l’intuizione del regista Todd Phillps, è centrata: la risata, il simbolo del Joker, il personaggio dei fumetti DC e dei cinemovie Warner, si fonda proprio su una discrepanza tra quello che dovrebbe essere e quello che è nella circostanza che risulta quindi comica. E’ il fuori sincronismo della scena che ci fa ridere; persino l’umorismo surreale e quasi astratto di Groucho Marx ha le stesse premesse, visto che ci rivela cortocircuiti dialettici che avevamo sottocchio ma di cui non ci eravamo accorti, essendo anche solo un pelo fuori posto. La cosa estranea, completamente inaspettata e non prevedibile, diversa, non fa ridere; al più ci lascia indifferenti. Non è quindi un diverso, il Joker; è solo inopportuno. La traccia sociologica è infatti demolita dal film: dall’assistente sociale che non ascolta Arthur o con cui è inutile parlare, per utilizzare lo stesso termine che usa il Joker nel finale, ai due benpensanti illustri che provano a spiegare la follia dell’assassino truccato da clown con i soliti refrain psicoanalitici o legati al contesto sociale. Ma è proprio nelle parole di uno di questi citati benpensanti, ovvero Thomas Wayne (Brett Cullen), che troviamo conferma del significato del film: i tre eleganti balordi uccisi a revolverate dal Joker sono bravi ragazzi, gente a posto, giovani che avevano una carriera professionale davanti ben avviata. Si sa che nel sistema economico occidentale la qualità migliore è cogliere al volo le opportunità della vita, e in questo loro erano maestri: si può anche molestare una ragazza, in treno, da sola, se non c’è nessuno che può vederti. 

E un uomo truccato da pagliaccio è un perfetto esempio di nessuno, persona insignificante, e quindi ignorabile (oppure presa a pugni e calci nel caso provi a mettersi in mezzo). Non c’è alcun riferimento morale: nel film questo aspetto è completamente ignorato. La violenza di cui sono vittime i tre giovani è la stessa che esercitano loro ma che, per una volta, gli si ritorce contro. Non che sia giusta la legge del taglione, ma andrebbe almeno detto che questi bravi ragazzi le rogne se le siano cercate, in fondo. Invece, tre yuppie vengono uccisi, e scoppia un caso sulla stampa; glissando sul fatto che ciò gli è accaduto mentre molestavano e pestavano, non mentre viaggiavano pacifici e tranquilli. 

Non è una questione narrativa: la stampa ignora il retroscena, d’accordo, ma lo spettatore del film di Phillips no. Il quale sconfessa anche un’interpretazione economico sociale: quello che fanno i tre baldi giovanotti è in fondo la stessa cosa, massacrare gratuitamente di botte il povero Arthur, di quanto fanno quattro ragazzini di un quartiere popolare all’inizio del film. Anche loro, resi scaltri dalla vita di una Gotham che sembra uscire dai film newyorkesi di Martin Scorsese, stanno ben attenti a non farsi beccare da nessuno nella loro bravata, che potrebbe anche costare la vita all’uomo (e che comunque perde il suo lavoro anche a causa di quella), e riescono a rimanere impuniti. Gente opportunista. 

Tipo l’altro personaggio illustre di Gotham City, precedentemente citato, un altro perfetto esempio di individuo che consce i tempi per dire e non dire, fare e non fare: si tratta di Murray Franklin (uno strepitoso Robert De Niro). Comico affermato e conduttore televisivo di Talk Show, sull’arte di calibrare al millimetro le sue mosse ha fondato il successo professionale. La stessa frase detta in un certo momento è funzionale, alle risate del pubblico o dell’applauso in platea, in un altro no e lui conosce perfettamente il meccanismo. E’ l’esatto opposto di Arthur. Ma solo per la capacità di scegliere i tempi giusti; ha ragione il Joker, quando gli rinfaccia, nel fantastico finale, di essere un violento. E’ violenta la televisione, e l’idea di spettacolo in genere, ma non nelle scene di ammazzamenti, quelle possono essere contestualizzate, ma nell’uso strumentale delle notizie, dei fatti, delle vite delle persone, delle personalità dei malcapitati che finiscono presi di mira da questi individui che conoscono 'come si sta al mondo'. Perché è un discorso generale, non solo legato ai media di comunicazione: l’unico che il Joker salva, dei vecchi compagni di lavoro, è il nano, perché non lo ha mai preso in giro. 

Dove prendere in giro non è tanto inteso nell’innocente scherzo tra colleghi ma nel regalargli una pistola e poi opportunisticamente negare di averlo fatto. Perché è evidente che la violenza che il Joker spande per il film è eccessiva, del resto lui è un tipo fuori controllo, già dal suo ridere in modo irrefrenabile o nell’assumere pose che negano le leggi dell’anatomia, ma questo riguarda il suo essere folle. E il Joker pazzo lo è per davvero, si vedano le ripetute allucinazioni nel quale veniamo coinvolti, come ad esempio con Sophie (Zazie Beetz), la giovane madre di colore che abita al suo stesso piano. Ma, a livello morale, da un punto di vista etico, non c’è sostanziale differenza tra Arthur, Murray, i giovani di quartiere, gli yuppies, e forse anche il padre di Batman non è poi così diverso. Ad onor del vero sembra che Phillips abbia un po’ di timore reverenziale, visto che Wayne è il genitore dell’eroe della saga principale (di cui Joker è comunque una sorta di spin-off), e gli risparmia un giudizio feroce. Ma egli incarna il mito del sogno americano, l’uomo ricco e generoso che si preoccupa dei suoi dipendenti (i tre yuppie), a cui chiedere aiuto (le lettere della madre di Arthur), e che per completare l’opera ha quindi intenzione di mettersi in politica. 


Scelta sbagliata, almeno secondo il Joker, che nega un coinvolgimento della politica in tutto ciò; non c’è nessuna politica, ma quale populismo (evocato da alcuni in riferimento al movimento dei clown), questa è semplicemente l’America. E la faccia truccata del Joker, con i colori della Stars and Stripes, la bandiera a stelle e strisce, lo indicano chiaramente: lui incarna perfettamente il sogno americano. Ma i sogni dovrebbero rimanere nascosti in un cassetto e tirati fuori solo al momento buono. Ma è proprio qui che sbaglia Arthur, nei tempi e nei modi e nel suo errore, nel suo essere inopportuno, mette alla berlina un modo di fare che è comune a tutti. Il Joker non è il diverso, ma non sono più  nemmeno i tempi de “il diverso siamo noi”, dei film horror degli anni 80. Il Joker non è un diverso; il Joker siamo noi quando veniamo colti in fragrante, quando la telecamera ci inquadra mentre rubiamo al supermercato, quando si scopre che abbiamo truccato i conti, quando passiamo col rosso pensando che nessuno ci veda. 
Il Joker è ognuno di noi, e nemmeno nel lato peggiore.   





Zazie Beetz