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martedì 25 dicembre 2018

LE FATICHE DI ERCOLE

273_LE FATICHE DI ERCOLE; Italia, Spagna1958;  Regia di Pietro Francisci.

Quando si parla del peplum italiano, tra i primi film citati c’è sempre Le fatiche di Ercole di Pietro Francisci. Questo non perché sia il primo film in ordine di tempo: Le fatiche di Ercole è del 1958 e già negli anni dieci del XX secolo in Italia si erano prodotti lavori come Quo Vadis? o Cabiria. E probabilmente nemmeno il più interessante come vicenda raccontata; così come non è certo il più rilevante dal punto di vista del casting, criterio cruciale in un genere così imperniato sulla fisicità degli attori, se pensiamo che celebrità come Kirk Douglas, Anthony Quinn o Mario Girotti, avevano già frequentato il peplum italiano in precedenza. Per tacer delle attrici più in voga, le star nazionali e non solo, da sempre appetibili in un genere che permetteva di esaltarne il fascino senza troppe reticenze narrative. Ma il rilievo dato a Le fatiche di Ercole è sacrosanto; è un film giustamente considerato fondamentale, sebbene più all’interno del genere peplum che in quello cinematografico complessivo. Perché il film di Francisci è perfettamente oliato in tutte le sue componenti e fila liscio come una palla sul biliardo: che in fondo è il requisito più importante richiesto al tenore di questo tipo di pellicole. La storia è vagamente ispirata al poema epico Le argonautiche di Apollo Rodio ma Francisci si prende le libertà che gli fanno comodo (come l’inserimento di Ulisse nell’equipaggio della Argo) per imbastire un’avventura che sfrutti tutti i rimandi culturali possibili per aumentarne il fascino epico. Il tono oscilla tra l’avventuroso e il romantico con passaggi anche da commedia, come quello che vede coinvolte le amazzoni, sebbene il clima sia appena spruzzato di piccante. 
Per la verità Francisci indugia con insistenza sulle carni scoperte delle guerriere, tra le quali spicca la regina Antea, interpretata con la giusta presenza scenica da Gianna Maria Canale pur senza esagerare. La Canale è bella ma la figura femminile di spicco in questo film è certamente Sylvia Koscina, nei succinti panni di Iole, giovane, avvenente e luminosa. In ogni caso, non ce ne vogliano le due bellissime donne, ma il primo piano in quest’opera è totalmente di diritto di Ercole, a cui lo scultoreo Steve Reeves presta volto e poderoso fisico. Ma non è per la sua prestanza, per altro impressionante, che il semidio si conquista senza indugio il centro della scena. Quello che garantisce il primato ad Ercole è piuttosto la statura morale; da cui derivano un comportamento coerente e coraggioso e un linguaggio fermo, saldo e determinato, tanto che le sue parole sembrano scolpite nella pietra. Nella sua rappresentazione cinematografica, e questo è il merito maggiore dell’opera, Francisci ci regala un Ercole che, al di là dei muscoli esibiti, è davvero un eroe. E un eroe vero, è sempre benvenuto.  




Gianna Maria Canale



Silvya Koscina






lunedì 24 dicembre 2018

PAGINE SOMMESSE

272_PAGINE SOMMESSE (Тихие Страницы)Russia1994;  Regia di Aleksandr Sokurov.

Nonostante in apertura una didascalia ci avverta che si tratta di un film ‘ispirato alle opere delle prosa russa del XIX secolo’, il lungometraggio Pagine sommesse di Aleksandr Sokurov passa per una rivisitazione cinematografica di Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij; si tratta però di una forma di adattamento, se così si può dire, piuttosto particolare. Non è, infatti, la messa in scena della storia raccontata nel grande romanzo del formidabile scrittore russo, ma piuttosto una riproposizione di alcuni aspetti dell’opera dostoievskiana. Sokurov ci fa provare i rimorsi, il senso di colpa di quello che dovrebbe (o potrebbe) essere Raskol’nikov, che vaga in una città (Pietroburgo?) in grandissimo degrado, afflitto da incubi, visioni, accompagnato da un costante rumore di sottofondo, che sia il chiacchiericcio o lo sciabordare dell’acqua della Neva che sembra quasi chiamare l’assassino per una veloce espiazione del peccato. Se non ci fossero le didascalie iniziali, o comunque le notizie a riguardo dell’opera, sarebbe difficile fruire qualcosa: evidentemente Sokurov confida nella lungimiranza dei suoi spettatori e sfrutta le informazioni che  questi preventivamente ricercano. (Che per decidere di vedere un film del regista russo è in sostanza una pratica necessaria.) L’autore non solo salta a piè pari la trasposizione della trama e della storia, ma rinuncia completamente a questo apparato narrativo, ovvero il racconto di un qualche avvenimento. Guardiamo le emozioni di questo assassino, cosa prova, come si sente; questo sembra dirci Sokurov con il suo film; non un film sulla storia, ma sui sentimenti, sul dolore, sull’angoscia che una persona che commette un gesto tanto grave probabilmente avverte. 
Un’operazione coraggiosa e completamente spiazzante ma di assoluto fascino, quasi ipnotico, nella messa in scena, negli scarni dialoghi, nelle ambientazioni da incubo. Forse non un bel film, anzi, non un bel film, ma certamente un’opera audace. L’aspetto più interessante è che il film non sembra quindi venir più considerato come un’opera a sé stante, non da Sokurov, almeno; Pagine sommesse sembra aver necessità di sfruttare le conoscenze che si suppone lo spettatore debba già avere, e, partendo da quelle, si concentra sulle sole emozioni e riflessioni che la situazione pregressa (l’omicidio), non mostrata né chiarita, ha determinato. Un modo certamente alternativo di approcciare alla settima arte. Ma di sicuro impatto. 






domenica 23 dicembre 2018

IL SOSPETTO

271_IL SOSPETTO (Suspicion)Stati Uniti1941;  Regia di Alfred Hitchcock.

Il sospetto di Alfred Hitchcock è basato sul trattamento del romanzo Before the fact di Anthony Berkeley Cox; un racconto, nel quale una donna si accorgeva di aver sposato un assassino, che il regista inglese modifica al fine di lasciare nel dubbio (nel sospetto, appunto) la protagonista. L’idea in sé è geniale: se, nel romanzo, l’attimo critico, quello da pelle d’oca, è quando la donna si accorge della natura del consorte, Hitchcock decide di dilatarlo per tutta la durata della storia, di non farne più solo il culmine della tensione narrativa, ma di costruire tutta la trama intrisa di questo timore crescente. Il suo culmine, Hitch lo suggella magistralmente poi con la scena del bicchiere di latte, una scena perfetta, anzi, forse la scena perfetta a là Hitchcock: Cary Crant sale le scale, seguito dalla macchina da presa, nelle ombre che disegnano quasi una ragnatela sul muro, con il bicchiere di latte che appare luminoso. In questa scena c’è la summa del cinema del grande regista inglese: l’uso spregiudicato delle luci e delle ombre; la perizia tecnica nel seguire il personaggio lungo la scala con la massima attenzione all’inquadratura; la recitazione dell’attore, quasi enfatizzata nello sguardo torvo di Grant, ma mai eccessiva; l’escamotage artificioso della luce nel bicchiere per enfatizzare il dettaglio cruciale, ma in modo che resti del tutto plausibile sullo schermo. Il tutto in perfetta sincronia per la riuscita della sequenza, senza alcun orpello gratuito. Detta così, il film deve essere un capolavoro; e lo è, se partecipiamo allo scorrere degli eventi perfettamente calati nel ruolo di Lina (Joan Fontanie). 
E in effetti questa è la soggettiva del film, a parte l’incipit e il finale; tutta la vicenda è infatti vista con gli occhi della timida protagonista, che assiste sconcertata al rivelarsi di quella che a lei appare la vera natura del marito. Il punto critico del film è tutto qui: se ci si immedesima anima e corpo nei panni di Lina, il film è un autentico capolavoro che ci lascia soffrire nei dubbi, nelle insicurezze, nelle speranze, nelle illusioni, nei timori della sua protagonista. Se ce ne estraniamo anche solo un poco, e osserviamo gli eccessivi patemi della ragazza e il comportamento un po’ gaglioffo del marito Johnny (Cary Grant) con occhi più disincantati, l’operazione narrativa perde efficacia. Perché in sostanza, Il sospetto parla di qualcosa che non avviene; è un film che prepara il colpo di scena, ma il colpo di scena non c’è. 

Hitchcock prova a rimediare tecnicamente, con la magistrale scena del bicchiere di latte (è quello infatti il colpo di scena), ma forse la forma stavolta non salva completamente la mancanza di sostanza. Il film appare come un qualcosa di non risolto in fase di sceneggiatura, di soggetto: si ha l’impressione che, dal punto di vista della realizzazione sul set, si sia cercato di ovviare a queste lacune alzando la posta in gioco. Tutta la vicenda appare così un po’ forzata, credibile solo se si è una ingenua e innocente ragazza come la Lina interpretata dalla Fontaine; per convincere lo spettatore sono certo d’aiuto le scenografie, le ambientazioni artefatte, inglesi nelle intenzioni e vistosamente ricostruite. 
Il lungometraggio assume quindi in molti frangenti quasi l’aspetto di una rappresentazione teatrale, alimentando una parziale sospensione dell’incredulità, come si stesse guardando una storia d’altri tempi con personaggi e emozioni un po’ da romanzo d’appendice. La Fontaine ce la mette tutta, e tra un sospiro e un’espressione dubbiosa cerca di ripetere la performance di Rebecca-La prima moglie, senza per altro riuscirci. Anche perché là, oltre al marito Maxim, comunque un po’ inquietante già di suo, c’erano molti elementi, concreti (la residenza Manderley, Mrs Danvers) e non (Rebecca), che costituivano per lei una seria minaccia, giustificandone i timori. Ne Il sospetto invece non ci sarebbe alcun motivo di avere paura, se non fosse che, almeno agli occhi di Lina, Johnny ha qualche atteggiamento poco limpido, ma alla fine dei conti mai più che ambiguo. 
Grant è bravo, perché possiede il registro della commedia nella sua capacità recitativa, e lo usa per compensare gli sguardi truci e le espressioni minacciose che dispensa sullo schermo, mantenendo quell’ambiguità richiesta dalla trama. Insomma, un film che non aveva una ricetta completamente risolta, ma che Hitchcock prova a far funzionare lo stesso e, con qualche forzatura qua (le ansie di Lina) e là (le cupi espressioni di Johnny) riesce a creare una valida tensione culminata nella scena maestra. Il finale rivela il bluff e, se prova a consolarci con il lieto fine, ci lascia un po’ a bocca asciutta dopo averci fatto sperare in un colpo di scena finale, che invece è costituito proprio dalla sua assenza.


Joan Fontaine





sabato 22 dicembre 2018

TRINIDAD

270_TRINIDAD (Affaire in Trinidad); Stati Uniti1952;  Regia di Vincent Sherman.

Ad un certo punto, un pianista di un’orchestrina, annuncia con enfasi: “Signore e signori, canta Chris Emery: si salvi chi può!”. La Chris Emery citata è nientemeno che Rita Hayworth e, in effetti, non canterà, perché, nel film Trinidad, nelle canzoni è doppiata da Jo Ann Greer. Ma l’esibizione danzante è tutta farina del sacco dell’attrice che si merita ampiamente il soprannome di atomica e legittima appieno l’appello del pianista. In Trinidad, del regista Vincent Sherman, la Hayworth interpreta cinematograficamente due canzoni, Trinidad Lady a piedi scalzi e I’ve kissed before che ricrea, almeno in parte, la stessa atmosfera della straordinaria Put the blame on Mame nel finale del mitico Gilda, il film di Charles Vidor del 1946. E, ad essere onesti, questi due momenti sono quelli migliori del lungometraggio, oltre al pretesto per mettere in piedi il film stesso o il motivo per cui vada ricordato. Rita è ancora in gran forma, anche se forse non ai livelli del citato Gilda; film di cui Trinidad cerca esplicitamente di ricalcare la formula del successo, arruolando anche il valido Glenn Ford e imbastendo un intrigo tipico da noir esotico. Si tratta, quindi, di una mera operazione commerciale e Sherman è un regista adatto allo scopo, perché riesce a cavarci un film dal buon ritmo, godibile e divertente. Fa specie vedere come, ai tempi d’oro di Hollywood, per sfruttare una formula collaudata e di successo, si imbastissero prodotti più che dignitosi; anzi, se vogliamo, formalmente perfino buoni. In ogni caso, la Hayworth che canta (si va beh, anche se doppiata) e, soprattutto, che balla, è imperdibile: cinema allo stato puro.


Rita Hayworth















venerdì 21 dicembre 2018

GERONIMO

269_GERONIMO (Geronimo: an american legend)Stati Uniti, 1993;  Regia di Walter Hill.

Tredici anni dopo I cavalieri dalle lunghe ombre, Walter Hill torna a dirigere un western e, unitamente all’attesa per il film del validissimo regista, ci assale un pizzico di timore. Se, nella sua precedente incursione nel genere, l’autore americano aveva spogliato di ogni riflesso epico la figura del celebre bandito Jesse James, con il suo nuovo lungometraggio posta l’obiettivo della sua macchina da presa su un’altra leggenda del west: Geronimo, l’irriducibile capo Apache. E il titolo originale, Geronimo: an american legend, non lascia molti dubbi: sarà ancora una volta la riduzione (termine azzeccatissimo) in film di un mito della frontiera e, trattandosi di un film di Walter Hill, non aspettiamoci sconti. Innanzitutto possiamo notare che Hill si conferma nel ruolo di guastatore della festaThe long riders arrivava come voce un po' fuori dal coro alla fine di un decennio, i settanta, che esaltava le imprese di banditi ed antieroi; Geronimo esce nel 1993, dopo che Balla coi lupi di Kevin Costner, nel 1990, ha riconosciuto, in forma più che mai esplicita, le ragioni dei nativi. Solo due anni dopo, sul manifesto de L’ultimo dei Mohicani, grande film Michael Mann, Daniel Day-Lewis, vestito come un indiano, sembrava confermare che fosse ormai di dominio pubblico una rilettura filo-pellerossa della conquista del west. Ma, se vi potesse sembrare quindi il momento adatto per fare un film su Cavallo Pazzo (e pare che in effetti un’idea Hill ce la fece), su Toro Seduto o anche su Capo Giuseppe, personaggi davvero eroici, alla stregua di autentici martiri della causa indiana, è perché non siete Walter Hill. 
Perché, nel periodo di maggior enfasi rivolta alla questione dei nativi americani, per cavalcare (ironicamente, ovvio) l’onda favorevole, l’arguto regista va invece a pescare proprio Geronimo, che era il capo peggiore tra gli indiani peggiori, gli Apache. E quei termini peggiori vanno intesi nel senso di ipotizzare una pacifica convivenza tra uomini bianchi e rossi, non tanto a livello morale: per quanto gli Apache vivevano di scorrerie, di furti e nemmeno tra le varie tribù dei paraggi erano visti di buon occhio. Comunque, ad interpretare l’indomito guerriero viene chiamato proprio quel Wes Studi che nei citati film sugli indiani dei primi anni 90 (Balla coi lupi e L’ultimo dei Mohicani) faceva la parte del cattivo; un ulteriore indizio che il regista non ha intenzione di edulcorare la realtà. 
Il tentativo di fornire un’analisi lucida e non troppo romanzata, è supportato anche dal soggetto, ispirato al libro La verità su Geronimo di Britton Davis, ufficiale nel film interpretato da Matt Damon e che funge quindi anche da voce narrante, conferendo un ulteriore aspetto storico all’opera. Il soggetto è preparato da John Milius che esalta il lato predatorio del capo indiano, lo dipinge come un vero combattente, un autentico guerriero; sembra anche che Milius volesse un punto di vista indiano a raccontare la vicenda, ma la produzione optò per una scelta che riprendeva la formula che aveva portato fortuna a Balla coi Lupi, con la voce narrante di un inesperto (e quindi neutra, vergine) ufficiale dell’esercito americano. 
A reimpostare la giusta prospettiva, almeno quella voluta dalla coppia di autori, ci pensa il regista, Hill, che immerge il suo film in una dominante rossa, in parte dovuta alla natura del paesaggio, ma spessissimo con l’uso di filtri fotografici smaccatamente evidenti. Il personaggio principale, tra i bianchi, è il tenente Gatewood, la cui lealtà è affidata al volto sincero di Jason Patric; nel film ci sono anche Gene Hackman, nei panni del Generale Crook e Robert Duwall in quelli di Al Sieber, capo degli scout. I due interpreti rappresentano bene l’America del tempo: gente dura, pratica; anche giusta, ma solo fino ad una logica pragmatica. 

Contro un simile avversario, razionale, organizzato, più forte, più numeroso, anche gli indomiti Apache di Geronimo si devono arrendere. Il capo indiano è dipinto con uno sguardo forse parzialmente benevolo, nella sua ricerca di amicizia verso Gatewood, ma nel complesso la forza selvaggia e ribelle è resa in modo che sembra credibile. Non era uno stinco di santo Goyatlay, questo il vero nome del condottiero Chiricahua, ma nemmeno un volgare predone; perlomeno il ruolo con cui è passato alla Storia non fu quello. Se la resa a fronte di un nemico più potente e spietato è vista, nel finale, con rassegnazione e fatalismo da Geronimo, e dallo stesso Hill, l’aspetto più triste della questione è che non saranno i leali Gatewood o Davis a raccogliere le armi deposte dal nemico sconfitto. Ma nemmeno saranno Crook e Sieber, validi combattenti, corretti almeno fino a che la logica della guerra consente.

No, Geronimo si arrende al Generale Nelson Miles (Kevin Thiege) un ottuso burocrate dell’esercito: la vittoria finale arride a gente senza valore.
E questa è la vera sconfitta raccontata in Geronimo: la forza, anche brutale, ma che in una terra selvaggia ne costituiva anche il valore, di un uomo, di un capo, degno rappresentante del suo popolo, piegata solo dalle false promesse e dall’inganno di gente senza onore come Miles.
Nessuna epica quindi, in questa vicenda, ma solo una storia dal finale triste, grigio; e tocca a Hill metterci un po’ di colore con le sue enfatiche immagini.
Che almeno al cinema, Geronimo sia leggenda. 





giovedì 20 dicembre 2018

OCEANIA

268_OCEANIA (Moana)Stati Uniti, 2016;  Regia di Ron Clements & John Musker.

Ufficialmente noto come il 56° Classico di Walt Disney, Oceania conferma quanto di buono mostrato nel precedente e sostanzialmente coevo Zootropolis (che è uscito qualche mese prima ma sempre nel 2016). Queste informazioni, che possono sembrare meramente statistiche, ci dicono invece che la casa di Topolino, nonostante una lunghissima carriera alle spalle, non ha affatto il fiato corto e, proprio il 2016, la vede tornare con due lungometraggi all’anno, cosa che non accadeva dal lontano 2002. Certo, da fuori è difficile capire in che modo si relazionino le dinamiche con la contemporanea produzione dell’ex concorrente Pixar, dopo che questa è divenuta di proprietà della Walt Disney: in ogni caso possiamo registrare, anche grazie a Oceania, che lo stato di salute della società con sede a Burbank è ottimo. Meno buono, ma lo sapevamo già, è invece quello della Terra, e l’ultimo classico Disney mette in scena una storia che, metaforicamente, dà corpo a queste preoccupazioni. Siamo in Polinesia, sulla piccola isola Motunui, e anche lì si trovano alle prese con le ormai tipiche anomalie di questi tempi, per cui non hanno più pesce nelle acque limitrofe alla terraferma. La giovanissima Vaiana Waialiki, figlia del capo, vorrebbe spingersi oltre il reef, la barriera corallina, dove le acque sono più pescose; naturalmente questo è vietato dalle recenti consuetudini degli abitanti dell’isola, che, visti i tempi correnti, hanno smesso le antiche tradizioni di navigatori e si sono chiusi sul loro guscio di terra. 
Grazie alla nonna, Vaiana scoprirà il perché di questa involuzione della vita di Motunui: il semidio mutaforma Maui ha rubato il cuore dell’isola madre Te Fiti, una piccola ma preziosa pietra verde, causando appunto tali conseguenze nefaste. La piccola Vaiana sfiderà il divieto paterno di varcare il reef e, aiutata nientemeno che dall’oceano in persona, andrà a ripescare Maui per convincerlo, costringerlo o comunque indurlo, a rimettere le cose a posto; soprattutto rimettendo al suo posto il cuore di Te Fiti. Sulla loro strada i due troveranno il terribile demone di lava Te Kà, che altri non è se non la stessa isola madre a cui manca il cuore; una volta riposizionata la fosforescente pietra verde nella sua sede naturale, tutto tornerà come prima. 
Il tema ecologista che costituisce l’asse portante della storia è pienamente condivisibile ed è sviluppato in modo maturo: è la Natura stessa che diventa terribile (Te Kà) se non viene rispettata. La protagonista principale è una ragazzina, Vaiana, a cui si affianca una solida spalla, Maui: è quindi assente la traccia sentimentale, ma non se ne sente la mancanza perché la vicenda è avventurosa quanto serve per appagare lo spettacolo. 
Divertenti ma non invadenti le citazioni ai vecchi classici, sparse un po’ per tutto lo spettacolo e, dopo i titoli di coda, rimarcate anche da Tamatoa, un granchio del cocco che, in un certo senso, si lamenta per non aver avuto lo stesso riscontro di Sebastian, il memorabile crostaceo de La Sirenetta.
Il che era obiettivamente difficile, anche perché La Sirenetta fu un successo irripetibile, per la validità del film ma anche per una serie di circostanze dell’epoca. In ogni caso, Oceania non tradisce affatto la gloriosa dinastia dei classici: insomma un bel film.