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martedì 15 maggio 2018

RAPPRESAGLIA

147_RAPPRESAGLIA  Italia, Francia 1973;  Regia di George Pan Cosmatos.

L’episodio della strage delle Fosse Ardeatine è un argomento delicato e, in prima istanza, verrebbe da pensare che vada trattato con il massimo riguardo storico. Ci sono 335 morti verso i quale viene naturale portare un rispetto sacro, vista la gravità di quanto accadde. Ma, pensandoci meglio, questi timori riverenziali forse sono solo una forma un po’ di maniera con cui le nostre coscienze mettono in atto una sorta di autoindulgenza. Mannò, ben vengano invece film come quelli di George Pan Cosmatos, che sfruttano un fatto storico per scuoterci un po’; se poi si vuole una ricostruzione storica, precisa e puntuale, possiamo sempre approfondire con altri sistemi, nessuno ce lo vieta. Nello specifico, il film Rappresaglia ci da’ un bello scossone, soprattutto con le terrificanti scene finali, quelle dell’eccidio nelle grotte ardeatine di 335 italiani, per ritorsione all’attentato che, in via Rasella, aveva mietuto 33 tedeschi. A essere sul banco degli imputati, in questo atto di denuncia che in fin dei conti è il film di Cosmatos, è l’opportunismo della ragionevolezza che, specialmente in ambito nazista, spesso sfocia nell’ottusità della sadica burocrazia del potere. Per quale motivo, si chiede padre Antonelli (Marcello Mastroianni) la cosiddetta rappresaglia (l’eccidio dei 335 italiani), viene programmata in segreto e in tutta fretta? Perché prima non si reclama, pubblicamente, la resa di chi ha commesso l’attentato di via Rasella? Una volta proclamato l’appello, se nessuno si fosse consegnato, allora la ritorsione avrebbe almeno una logica vendicativa. “Nella città ci sono gli attentatori, la città non me li consegna, punisco la città”. Una metodica processuale crudelmente infantile, ma perlomeno con una sua logica. Invece, quale motivazione si può assurgere al racimolare tra i condannati a morte, tra i detenuti, tra le minoranze, un numero ritenuto congruo (più di 10 a 1), per poi trucidarli quasi in segreto? Mah.

Forse quello tedesco era un tentativo di restare in bilico tra il non creare ulteriori disordini e il poter ottenere, dando l’annuncio a cose fatte, un effetto terrorizzante e traumatizzante sulla popolazione romana. In ogni caso, rimane sempre l’orrore per quello zelo burocratico (di cui si trova traccia anche negli ordinati registri dell’Olocausto) per cui quando muore uno dei soldati, in un primo momento solo ferito durante l’attentato, allora occorre trovare assolutamente altri dieci italiani per riequilibrare l’equivalenza; come se la contabilità fosse un ordine superiore a cui obbedire a ogni costo. Dovevano essere 320 per 32 tedeschi morti, ma con il decesso del trentatreesimo ne occorrevano appunto altri dieci; infine saranno 335, cinque in più, forse perché una delle parole d’ordine della burocrazia è il famoso proverbio melius abundare quam deficere

Questa filosofia è resa in modo convincente dalla figura del maggiore Kappler (un efficace Richard Burton): un uomo intelligente, istruito, amante dell’arte, dotato di buon senso, ma incapace di prendere una posizione al di fuori della macchina burocratica di cui è un perfetto ed efficiente ingranaggio. Ecco, oggi forse il nazismo è un problema superato (da sottolineare il 'forse'); ma nelle pastoie della burocrazia ci siamo in pieno. Gli uffici, le caserme, le società pubbliche e private, sono piene di addetti e impiegati zelanti che, se per fortuna non mandano a morire nessuno, creano però ugualmente problemi e disagi spesso per il puro gusto di farlo. Del resto, il sadismo, come forma comportamentale, è sempre lo stesso.     


domenica 13 maggio 2018

IL CAPITALISTA

146_IL CAPITALISTA (How anybody seen my gal?). Stati Uniti1952;  Regia di Douglas Sirk

‘Hey! Devi fare tutto questo rumore per suonare “Notte silente”?’ E’ una simpatica battuta che passa inosservata nel film Il capitalista di Douglas Sirk, ma che condensa quasi tutta l’atmosfera della pellicola. Innanzitutto c’è la scena natalizia, il carrettino ambulante che suona appunto Silent night (da noi conosciuta come Astro del ciel o Notte silente), posizionato davanti all’emporio che vende un po’ di tutto, di quelli che si vedono in tanti film americani. Siamo nei tardi anni venti del XX secolo, e questo sembra il quadro perfetto per uno dei famosi film di Frank Capra, se non fosse che è a colori. A questo punto esce dal negozio mister Quinn, il proprietario, che invita in malo modo, con la frase citata, l’ambulante a fare meno rumore. Ecco, Douglas Sirk opera in tutto il film con questa filosofia, costruendo una storia molto edulcorata, quasi zuccherosa, ma poi vi inserisce sempre una nota un po’ critica. Ed è una nota critica non da poco, perché all’alba dei favolosi anni cinquanta si denuncia la pericolosità del denaro all’interno della società americana. Il tono ironico della pellicola ha permesso alla Universal di scherzare sopra al messaggio comunista dell’opera: “Che ne dice Carlo Marx?” recita infatti il promo del film negli Stati Uniti, e forse deve aver ispirato i distributori italiani per quel Il capitalista così diverso dal titolo originale How anybody seen my Gal (“Qualcuno ha visto la mia ragazza?”). Il film è in realtà molto leggero, aiutato in questo suo essere disimpegnato dai briosi intermezzi musicali, che non ne fanno certo un musical ma, senza mai annoiare o essere d’intralcio, aiutano a dare ritmo alla narrazione. Il capitalista del film è Mister Fulton (uno straripante Charles Coburn) che, ricco sfondato e senza eredi, decide di lasciare tutto alla famiglia di una sua vecchia fiamma.
La motivazione che porta ai suoi esterrefatti legali è un altro piccolo tassello che aiuta a capire la logica del film di Sirk: la ragazza in questione a suo tempo rifiutò la proposta di matrimonio di Fulton; per la delusione questi andò in cerca di fortuna, trovandola. Quindi, in un certo senso, la ricchezza trovata da Fulton ha un merito anche nella decisione della giovane; di qui la scelta di premiare con l’eredità i suoi discendenti, visto che la stessa donna è già trapassata. E allora, se la dolce melodia di Notte silente può essere definita rumorosa, (contraddicendo il nome stesso del brano) e la fortuna (economica) di una vita può essere motivata da un insuccesso (amoroso), il film può essere benissimo una critica al sistema economico americano, seppure sia apparentemente una commedia leggera che ha addirittura come protagonista un vecchio capitalista filantropo.

La pellicola presenta una serie di contrapposizioni attraverso le quali procede la storia: la più evidente è la rivalità tra i pretendenti della deliziosa Millicent Blaisdell (Piper Laurie), il sincero ma semplice commesso Dan (Rock Hudson) e il ricco e sfrontato Carl Pennock. Ma si possono notare anche la differente condizione tutto sommato ospitale dei Blaisdell quando erano semplici borghesi, rispetto all’atteggiamento snob tenuto nel momento in cui arricchiscono; lo stesso divario esiste al principio tra i Blaisdell prima maniera (ovvero non ricchi) e i più facoltosi Pennock; e ci sono poi contrapposizioni concrete, ad esempio il cane bastardino sostituito dai due barboncini di razza francese o la stessa casa abbandonata per la sfarzosa villa. E anche Fulton adotta un comportamento contrapposto: rigoroso (pur se con qualche licenza, vedi i mozziconi dei sigari nascosti sotto le coperte) nella sua vita abituale, passa per un vecchio reprobo pluripregiudicato nella sua seconda identità di John Smith. Proprio a proposito del nome adottato da Fulton per non essere riconosciuto (è infatti famosissimo per via della ricchezza accumulata) c’è un’altra simpatica battuta che aiuta a capire la natura critica dell’opera; purtroppo nella traduzione italiana se ne è perso un po’ il senso, ma quando il magnate si presenta come John Smith, la piccola Roberta Blaisdell, una vivace bimbetta di una decina d’anni, gli chiede se si tratti del famoso marito inglese di Pocahontas, la principessa pellerossa.

Nella traduzione italiana si fa riferimento ad una generica principessa atzeca, ma il paragone può comunque reggere: entrambi i John Smith (sia quello storico che lo pseudonimo di Fulton) arrivano con la cultura dell’economia di mercato a corrompere la genuinità là dei nativi americani, qua di una famiglia piccolo borghese. Il senso più generale è naturalmente che il denaro non fa’ la felicità, anzi; ma lo sguardo di Sirk è più sottile di quanto non voglia farci intendere lui stesso a prima vista. Certo, il film può definirsi ottimistico, ma lascia troppi punti in sospeso: come valutare la signora Blaisdell (Lynn Bari), vero e proprio capofamiglia che dimostra nell’opera valori abbastanza discutibili? Forse un po’ migliore si dimostra il marito, che però le è succube. 

Anche la bella Milli è una mezza delusione, in quanto si lascia trasportare troppo dal corso degli eventi, mentre più defilata la posizione del fratello; chi è sicuramente positiva è la piccola Roberta, l’unica veramente innocente (probabilmente in quanto ancora fanciulla). Malissimo i Pennock, tipica famiglia alto borghese piena di soldi ma vuota di valori; male il giudice, dipinto come un tipo superficiale; male anche il nuovo proprietario dell’emporio, il signor Quinn avaro e incapace di capire perfino lo spirito natalizio (sua la battuta su Silent night). E, in fondo, anche Fulton, come ne esce? Letteralmente, dal racconto, alla chetichella, per paura di essere riconosciuto dai giornalisti; ma in senso più generale, il film non può essere considerato poi così positivo, e sempre perché lascia in sospeso troppi passaggi: a questo punto, il magnate, confermerà la volontà di lasciare la sua eredità ai Blaisdell, dopo aver visto che solo 100.000 dollari li avevano trasformati in modo così infelice?

E il suo bilancio personale, in questa vicenda, qual è? Anche questo non certo positivo: a parte aver vissuto un periodo in cui si è divertito, alla fine si è dovuto allontanare in incognito, ritornando alla solitudine dorata che aveva all’inizio della storia. Insomma, un film piuttosto strano, insolito, in cui accompagniamo un miliardario in incognito e siamo gli unici a conoscere tutti i retroscena, che permettono le gustose gag. Ma anche in questo caso, da un punto di vista narrativamente tecnico, c’è un’anomalia: perché in genere questi equivoci trovano il libero sfogo nella loro rivelazione, mentre in questo Il capitalista rimangono tutti trattenuti, non rivelati ai personaggi della storia.
E’ quindi questa non consapevolezza, questa incoscienza che Douglas Sirk vuole quindi evidenziare? E’ forse per questo che ambienta con una didascalia esplicita la storia nei tardi anni 20, poco prima della Grande Depressione del 1929, ma ci mostra una cittadina colorata con balli e situazioni, che sì, riprenderanno anche lo stile dei roaring twenties ma sembrano perfettamente incarnare i favolosi anni ’50?
Insomma, che la storia non abbia insegnato nulla all’America?



Lynn Bari




Piper Laurie






venerdì 11 maggio 2018

FURIA INDIANA

145_FURIA INDIANA (Chief Crazy Horse). Stati Uniti, 1955;  Regia di George Sherman.

E’ consuetudine ancora troppo diffusa considerare la svolta revisionista del genere western degli anni settanta come la presa di coscienza del cinema americano circa la vera natura della conquista del west, che non fu propriamente l’epica storia della civilizzazione di un paese selvaggio, ma piuttosto uno scontro tra due civiltà che vide la più progredita ed evoluta, parlando soprattutto dal punto di vista tecnologico, prevalere. Questa credenza, pur essendo radicata, è almeno parzialmente infondata, in quanto il cinema western ha in moltissimi casi mostrato le ragioni degli indigeni, i pellerossa, e gli esempi che si possono fare risalgono fin già dagli anni ‘50 (L’amante indiana, di Delmer Daves, 1950, tanto per fare un titolo), che furono il periodo di massimo splendore del genere nella sua forma considerata classica.  Proprio a metà di quegli anni si colloca Furia indiana dello specialista del genere western George Sherman; è un’opera certamente poco conosciuta, ma comunque importante, perché è un racconto totalmente visto nell’ottica dei pellerossa, con il protagonista Cavallo Pazzo (Cavallo Folle nella traduzione dell’epoca) interpretato da una star di buona grandezza come Victor Mature. Il film è girato in modo sicuro, che Sherman è un valido regista e conosce molto bene come si conduce un western; e l’eccessivo lirismo continuamente ricercato non è fine a se stesso, ma è un tentativo di tradurre, coi metodi del cinema hollywoodiano, quella spiritualità intrinseca alla cultura dei nativi americani e del mitico Cavallo Pazzo, che fu un uomo singolare anche da questo punto di vista. 

I titoli di testa scorrono sulle immagini del cielo, con grandi nuvole estive ad esaltare la profondità della volta celeste e a lasciare presagire una vita fatta anche di fenomeni violenti; sullo stesso cielo il grande leader indiano vedrà proiettata la sua visione (una sorta di messaggio divino), e lo stesso cielo sarà inquadrato durante la battaglia del Little Bighorn, lasciando in questo modo il massacro di Custer e dei suoi uomini fuori campo. Se questa scelta può essere stata fatta per non urtare la sensibilità degli americani (quella di Custer è comunque una delle sconfitte più brucianti subite dall’esercito a stelle e strisce) non si può ignorare come un personaggio del calibro del biondo colonnello delle giacche azzurre sia inquadrato solo di sfuggita nel film di Sherman, come un qualunque nemico senza particolare importanza. 
La trama, pur se fortemente romanzata, corrisponde, grosso modo e nei suoi punti salienti, alla vita di Cavallo Pazzo; è però un motivo di prestigio e un segno di rispetto, che ci siano alcune differenze dalla nuda biografia storica. Se l’opera fosse infatti un fedele documentario, starebbe a significare semplicemente una presa di coscienza dal punto di vista storico, da parte di Hollywood; invece Furia Indiana è a pieno titolo un’opera di finzione ispirata ad un personaggio storico e agli eventi che lo videro protagonista. Nella sua messa in scena Sherman si prende, cioè, non poche libertà, com’è giusto che sia, perché Cavallo Pazzo è, prima che un personaggio storico, un eroe, una leggenda, ed è sacrosanto che venga raccontato come tale, romanzandone le gesta.

Notevole, anche da questo punto di vista, la presenza di Raggio di Sole, la moglie di Cavallo Pazzo, interpretata dalla bellissima e sfortunata Suzan Ball che morì di cancro a soli 21 anni in quello stesso 1955.
Molto bello l’incipit della scena finale che la vede punto focale di svolta della sequenza: Cavallo Pazzo ha ormai deposto la scure di guerra e si trova presso il forte dei soldati; di ritorno dal quartier generale si incontra con Raggio di Sole, che lo abbraccia e gira la testa per stringersi più vicino al petto del compagno. Con questo movimento la ragazza si volta verso l’obiettivo e la sua espressione muta dalla felicità del momento alla preoccupazione.

Uno stacco in controcampo della mdp ci permette di vedere il gruppo di scout (indiani impiegati nell’esercito come guide) che vengono a prelevare Cavallo Pazzo; in realtà si tratterebbe solo di una nuova convocazione nel quartier generale, ma l’antico rivale in amore del condottiero, ora arruolato, ne approfitta per vendicarsi e lo uccide con un colpo di baionetta alle spalle.
Un finale certamente triste, in linea con la vera storia del valoroso personaggio storico, che venne realmente ucciso a tradimento pare con la complicità di un rinnegato; e soprattutto, ahinoi, un finale simbolicamente adatto a rappresentare il destino di un intero popolo.





Suzan Ball





mercoledì 9 maggio 2018

IL PONTE DELLE SPIE

144_IL PONTE DELLE SPIE (Bridge of spies). Stati Uniti, 2015;  Regia di Steven Spielberg

Steven Spielberg è forse il regista che meglio è in grado di capire e tramutare in cinema il sentimento comune; ovvero quello su cui tutti quanti, consapevolmente o no, stanno riflettendo in quel momento storico. Dalla paura degli squali, agli extraterrestri, al ritorno dell’avventura classica o dei dinosauri, fino ai conti da risolvere con la guerra e le sue decisioni o ai drammi come l’Olocausto.
Dove c’è un conto in sospeso, prima o poi arriva l’Autore che ne coglie le potenzialità artistiche e ci invita a rifletterci sopra in modo più costruttivo: Spielberg è quell’Autore che arriva con preciso tempismo, esattamente quando il grado e la capacità di comprensione del pubblico sono maturi al punto giusto.
Su cosa verte, questo Il ponte delle spie? E’ un film sulle spie, sullo spionaggio, quindi il tema non può che essere l’osservare, il guardare. E cosa si fa, quando si guarda? Si vedono immagini e, in un certo senso, queste immagini si prendono: infatti la spia russa dipinge e quella americana fa foto, entrambe producono immagini. Quindi il lavoro della spia è simile a quello del regista che con le immagini produce il suo lavoro, il cinema. Se questo regista è Spielberg, possiamo stare sicuri che farà un buon lavoro ma, soprattutto, possiamo stare anche sicuri che il tema sarà attuale, contingente. E infatti c’è sicuramente bisogno, in questo momento storico, di capire chi veramente siamo, quali ragioni abbiamo, e dove abbiamo eventualmente sbagliato: di questi tempi si fa’ più che mai fatica a capire qualcosa nella confusione tra le bufale e l’informazione di regime, con i terroristi che non vengono da un altrove in qualche modo alieno ma sono cresciuti nei nostri stessi quartieri. 

Occorre davvero riflettere da capo, tornare al principio, per risolvere la prima domanda, quella da cui dipende tutto il resto: chi siamo?
Per la nostra attuale società, farlo significa tornare al dopoguerra, l’ultimo vero re-boot; per il cinema, significa riprendere il Cinema del Sogno Americano, quello di Frank Capra, per capirci. Non a caso tra gli sceneggiatori di questo Il ponte delle Spie ci sono i fratelli Coen, abilissimi, oltre che nel produrre intrecci e sceneggiature impeccabili, a ricreare il mondo del grande regista italoamericano.
Storicamente, il dopoguerra si trasformerà immediatamente in Guerra Fredda, e qui, in questo momento storico, è ambientato il film di Spielberg: è quindi questa la radice politica della nostra società, la contrapposizione tra i due blocchi, filo-atlantico e filo-sovietico. 

Manca, perciò, una età dell’oro, un paradiso perduto: questo periodo aureo è solo negli ideali, ma non c’è a livello pratico. Lo capiamo nella differenza tra l’approccio al caso tra l’avvocato  Donovan, un’eccellente Tom Hanks,  e l’intero paese degli Stati Uniti: persino il giudice della corte, pretende dall’avvocato una difesa per onor di firma e per niente scrupolosa. Rudolf Abel (un insuperabile Mark Rylance), la spia russa,  è un nemico, e con il nemico, si sa, il regolamento non si usa. Ed è proprio questo il punto cruciale della storia: perché proprio quel regolamento, che è nientemeno la Costituzione Americana, dovrebbe sancire la differenza tra i buoni e i cattivi

Ma se non viene applicata non sancisce proprio niente: la differenza tra buoni e cattivi è perciò solo nella forma (il processo, in America, almeno in apparenza, è celebrato con tutti i crismi) ma non nella sostanza. Gli sguardi ostili sulla metropolitana, dove l’avvocato Donovan è riconosciuto e visto come un traditore, mostrano l’incapacità di comprendere non solo le ragioni dell’altro, ma anche di capire noi stessi. Tom Hanks, il prototipo dell’americano ideale (Mr. Donovan goes to Berlin, potremmo dire) viene guardato con diffidenza quando non con odio (gli spari nel salotto di casa) dalla stessa società che lo ha prodotto e, almeno sulla (magna) carta o sullo schermo, idealizzato. C'è quindi una sorta di smarrimento della propria identità, in un popolo, se non è più in grado di riconoscere quegli eroi che ha scelto di elevare a propri illustri rappresentanti. Ma allora è solo nello sguardo dell’altro, ad esempio il dipinto in regalo, che possiamo davvero trovare noi stessi. Il nostro semplice essere non basta più per capire chi siamo; e neppure ci basta riflettere. Occorre un altro punto di vista, quello dell’altro. La scena iniziale, è eloquente: Abel, la spia russa, il cui scopo in quanto spia è guardare e capire, si sta’ facendo un autoritratto. Nella stessa sequenza abbiamo il suo volto, il volto riflesso, e quello dipinto. Tre punti di vista diversi, ma comunque riconducibili alla stessa persona, eppure non bastano a capire che tipo di uomo sia Abel. E’ una spia che fa’ quindi solo il suo dovere, oppure è un personaggio abietto? Sarà Donovan a farci capire che è un uomo degno di rispetto, al di là della doverosa e coscienziosa difesa nel processo.

Così come sarà un ritratto in dono da una spia russa a far capire all’avvocato Donovan di essere davvero un buon americano, ovvero un uomo comune (non il principe o comunque l’uomo dal sangue blu della tradizione europea) che in condizioni non comuni, si erge allo stato di Eroe.
E guardandone una foto sul giornale o un’immagine in tv, anche sulla metropolitana e in famiglia, stavolta se ne accorgono.
E’ un film ottimista, quindi, questo Il ponte delle spie, ed essendo uno Spielberg, c’era da scommetterci. Ma l’ottimismo del geniale regista americano è tutt’altro che di comodo. E’ un ottimismo salubre, salutare, perché ci mostra la strada, una possibile soluzione, a questi tempi dove in molti auspicano di chiudere le frontiere, di issare muri (e, emblematicamente, il titolo del film, al contrario, ci parla di un ponte).
Fidiamoci dell’altro; è l’unico che può dirci chi siamo.



lunedì 7 maggio 2018

IL MESTIERE DELLE ARMI

143_IL MESTIERE DELLE ARMI  Italia, 2001;  Regia di Ermanno Olmi.

Le Guerre d’Italia della prima metà del XVI secolo sono un periodo storico non solo cruciale per i secoli a venire, ma anche interessante e ricchissimo di spunti narrativi. Ci furono personaggi leggendari tra cui il Giovanni delle Bande Nere protagonista del film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Eppure il nostro cinema non ha mai sfruttato realmente a fondo questo periodo, diversamente, per esempio, da quanto fatto ad Hollywood con la conquista del west; ci sarà pure un motivo per questo, ma per restare attinenti all’opera in questione, basti sapere che un personaggio come Giovanni dalle Bande Nere sarebbe l’ideale modello per decine di film di avventura, ben più di tanti eroi western. E, in ogni caso, anche ad Olmi non interessa celebrare l’eroe, il mito del valoroso cavaliere; e nemmeno il periodo storico che ha dato il via al Rinascimento. Il film si apre con un funerale, quello di Giovanni de’ Medici detto delle Bande Nere, e si chiude con lo stesso evento, mettendo così come corpo portante della struttura circolare dell’opera, gli ultimi giorni di vita del valoroso condottiero. Se narrativamente a morire è l’eroe di tante battaglie, il racconto di Olmi sembra più che altro ufficiare la morte del mestiere del cavaliere; un ordine, come fa notare lo stesso Giovanni in punto di morte, che è paragonabile per dedizione, lealtà e senso dell’onore, a quello religioso. Nel medioevo i cavalieri, gli uomini d’arme, avevano un codice d’onore, che l’avvento dell’era moderna disconosce: in uno degli episodi di battaglia, i lanzichenecchi astutamente si ritirano evitando lo scontro, e sebbene sia per calcolo strategico e non vigliaccheria, non è certo visto dagli italiani come un qualcosa di cui farsi vanto. 

Già quel confronto metteva in risalto la più moderna concezione di strategia militare degli alemanni rispetto a quella più tradizionale italiana. Ma è soprattutto l’introduzione delle armi da fuoco pesanti a spostare gli equilibri, a rendere inutili il valore e il coraggio tanto quanto le corazze e gli scudi. L’età moderna metterà in pensione il mestiere delle armi come era stato inteso nei secoli precedenti, e le innovazioni tecniche prenderanno una rilevanza via via sempre maggiore. La morte di Giovanni delle Bande Nere per mezzo di un falconetto (un innovativo pezzo di artiglieria leggera) è quindi un momento simbolico perfetto per rappresentare il passaggio storico: un grande e valente condottiero, ucciso in modo banale dal colpo di un’arma sì moderna, ma nemmeno così cruciale, e che non raggiungerà mai più una simile ribalta. Olmi sfodera tutta la sua fedeltà narrativa, e con grande rigore ricostruisce in modo credibile gli ultimi giorni di Giovanni; un’attendibilità che usa per dimostrare come la guerra fosse pesante da sopportare per il freddo e la fame almeno quanto per i pericoli in combattimento. Non c’è nulla di epico nella guerra del film del regista lombardo, ma solo fugaci scontri in una pianura piena di freddo, umidità, privazioni, sporcizia.

Giovanni delle Bande Nere è interpretato in modo eccellente dall’attore bulgaro Hristo Jivkov, ed è un nobile valoroso; ben diverso dai suoi pari, i signori di Mantova e Ferrara, viscidi, servili e timorosi di perdere quei privilegi che consentono loro una vita agiata anche in quei tempi difficili. Il marchese di Mantova Federico Gonzaga cede, infatti, il passaggio ai Lanzichenecchi, mentre ostacola le truppe di Giovanni; peggio di lui fa il duca di Ferrara Alfonso d’Este che fornisce alle truppe tedesche i pezzi d’artiglieria che saranno fatali al condottiero italiano.

Il problema che si pongono questi nobili è solo che le truppe germaniche passino il più velocemente possibile attraverso le loro terre e, per far questo, non esitano a favorirle nello scontro con i pontifici di Giovanni, tradendo quelli che erano fino allora gli accordi. E allora viene anche facile capire perché questi episodi non siano stati celebrati tanto spesso dal nostro cinema: in essi si vede già la matrice infingarda che purtroppo ha contraddistinto troppo spesso le gesta italiche, con tradimenti e viltà all’unico scopo di salvare il proprio tornaconto. In questo senso, ahinoi, il film è rimasto moderno, attuale, visto che ancora oggi in Italia si ha la prassi di pensare sempre all’interesse privato e mai a quello collettivo. 

E anche le considerazioni di Giovanni circa le proprie truppe, reputate poco inclini alla disciplina al cospetto delle molto più organizzate e ordinate tedesche, sono rimaste maledettamente valide anche, e purtroppo, parlandone fuori dal contesto militare. Da un punto di vista tecnico, differentemente rispetto a quanto non faccia in genere il cinema, Olmi non attualizza la forma delle vicende per renderle comprensibili al pubblico moderno. Non adegua cioè la storia narrata al linguaggio attuale ma, piuttosto, cerca di ottimizzare lo strumento cinematografico per riportarci completamente nella Pianura Padana nel 1526. Un’operazione che gli riesce compiutamente e, se questo rende la pellicola meno facile alla visione, le conferisce grandissimo fascino.


LA BAIA DEL TUONO

142_LA BAIA DEL TUONO (Thunder Bay). Stati Uniti1953;  Regia di Anthony Mann

Film che rivela chiaramente il suo essere smaccatamente opera su commissione, La Baia del Tuono è al contempo un onesto prodotto di svago pur rimanendo coerente con la poetica dell’autore, il validissimo regista Anthony Mann. Infatti c’è un James Stewart (l’ingegner Steve Martin, nel film) che si butta anima e corpo in un’impresa che, allo spettatore (e forse anche allo stesso regista ma certo non al protagonista) in qualche momento sembra porre qualche dubbio morale. Lo sfruttamento petrolifero del Golfo del Messico è davvero quella benedizione per l’umanità che va professando il prode ingegnere? Alla fine, il trasporto trascendete per il proprio lavoro, vissuto come una vera e propria missione di vita, finisce quasi per convincere anche noi che, a posteriori, sappiamo bene quali danni ha fatto l’industria petrolifera nel mare (e non solo). Ma naturalmente l’obiettivo della macchina da presa di Mann non è focalizzato sull’ecologia, ma piuttosto sulla brama interiore, sulla sete di conquista (intesa in senso lato) che anima gli spiriti pionieri come l’ingegner Martin. Questo naturalmente mentre, in modo diciamo così ufficiale, viene imbastita una doppia storia d’amore a sfondo progressista, nel senso che il progresso aiuta e alla fine si sposa (letteralmente) con la comunità locale dei pescatori, in perfetta armonia da film hollywoodiano.

Nel lungometraggio c’è una esplicita componente tecnica che supporta il valore del progresso: viene illustrata per sommi capi l’idea di un’istallazione (la prima al mondo) di una piattaforma petrolifera in mezzo al mare e vengono anche mostrati alcuni passaggi sul suo funzionamento. Buona anche la doppia storia d’amore, con l’aiutante di Martin, Johnny Gambi (Dan Duryea) che si sposa la figlia minore (Marcia Henderson) di un marinaio locale, mentre all’ingegnere toccherà quella più grande, ovvero la splendida Stella (nientemeno che una smagliante Joanne Dru), pur dopo una logicamente tribolata storia sentimentale.

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe dire; se non fosse che oggi sappiamo come le cose, nella realtà (in riferimento generale all’uso del petrolio e particolare all’estrazione nel Golfo), alla lunga non siano andate poi in modo così trionfale. E allora questo film, proprio per la sua onesta e ingenua propaganda tecnica del progresso, qualche dubbio può farcelo venire, magari quando ci raccontano delle meraviglie tecnologiche del futuro.    

   


Marcia Henderson


Joanne Dru