Translate

sabato 25 novembre 2017

ANGELICA

42_ANGELICA (Angélique, Marquis des Anges )Francia, Italia, Germania, 1964;  Regia di Bernard Borderie.

 Il Seicento francese fu un periodo molto denso di vicissitudini è personaggi: Luigi XIV, il  Re Sole, il cardinale Mazzarino, il principe Luigi II  di Condè, il sovraintendente alle finanze di corte Fouquet, il cardinale Richelieu, D’artagnan e i moschettieri, e poi la società francese con le rivalità tra le dinastie nobili, e fenomeni come la Fronda o la Corte dei Miracoli. E i grandi avvenimenti come la guerra dei trent’anni o le correnti ideologiche e religiose che attraversavano il paese... insomma un periodo assai fertile di spunti narrativi. E’ in questo contesto che viene ambientato il film Angelica tratto da una fortunata opera letteraria, Angelica, la marchesa degli angeli. La vicenda narra le gesta della bella Angelica, un’adorabile Michèle Mercier, giovane rampolla di nobile famiglia dall’animo puro ma turbolento. Il tema della bellezza, che per Angelica è un importante biglietto da visita, è sviluppato a dovere, visto che la nostra eroina alla fine si innamorerà di un nobile sfigurato.



Anche il rapporto con la ricchezza è visto in modo non banale: i protagonisti sono ricchi, ma nel momento dell’estremo bisogno, troveranno conforto ed aiuto dalla parte meno abbiente della società, la famigerata Corte dei Miracoli. E’ un film semplice, intendiamoci: romanticherie e sentimentalismo ne sono il piatto forte; ma sono ben dosati e spruzzati di un filo di ironia. E poi c’è una trama avventurosa che sostiene decisamente la seconda metà dell’opera, con l’accattivante parte del processo e i colpi di scena finali. Nel cast, oltre alla bellissima Mercier, anche Giuliano Gemma, a suo agio nella parte di un aitante giovanotto, e Robert Hossein, il nobile Joffrey de Peyrac, consorte di Angelica.     



Michelle Mercier






venerdì 24 novembre 2017

L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI

41_L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI . Italia 1978;  Regia di Ermanno Olmi.

Nel 1977, l’anno precedente all’uscita de L’albero degli zoccoli, sulle sonde Voyager venne inviato nello spazio il Voyager Golden Record, un disco che dovrebbe presentare l’umanità e il nostro mondo a eventuali extraterresti che dovessero intercettarlo. A questo punto valeva forse la pena attendere un anno, e spedire nello spazio una copia della pellicola del film di Ermanno Olmi, che da solo può tranquillamente sostenere il peso e la responsabilità di ergersi ad assoluta testimonianza dell’umana esistenza. Forse proprio il suo essere vicenda quasi privata, ma sicuramente territoriale, rende L’albero degli zoccoli un testo universale: chiunque, nel mondo, può riconoscersi nella vita sofferta ma dignitosa, di questi contadini della provincia lombarda di fine Ottocento. La semplicità della vita nella corte, le sue regole, le sue abitudini, i suoi ritmi, tutto concorda, collabora, nel definire la genuinità della comunità contadina, che Olmi traduce nel suo lungometraggio senza alcuno sforzo, con assoluta naturalezza. La pellicola scorre lenta, ma inesorabile, come le rare stagioni buone si succedono a quelle cattive; le donne e gli uomini della corte lombarda si oppongono stoicamente alle difficoltà di una vita dura, aspra, ma non perdono mai la speranza, aiutati in questo dalla fondamentale fede cattolica di evidente matrice manzoniana
Non è quindi una superstizione o una negazione della ragione, ma un supporto a cui appoggiarsi quando non si ha ormai più niente, quando ci sarebbe solo da disperarsi; ma disperarsi non serve, e quindi meglio recitare una preghiera, tener duro e non mollare. Il regista sceglie di lasciar parlare i suoi personaggi, tutti contadini veri, attori solo per l’occasione, nella propria lingua, il dialetto della bassa provincia bergamasca; ma per chi trovasse difficoltà, esiste anche una versione del lungometraggio dove si parla un leggero dialetto lombardo appena accentato di bergamasco. In ogni caso il dialetto è una lingua intuitiva, e inoltre non è che ci siano troppi intrighi narrativi da seguire, solo vita di campagna, semplice e faticosa quotidiana esistenza di contadini. 
Oppure il duro rapporto con la vita animale, diviso tra l’ammirazione per la nascita di un puledro, e la preoccupazione per una vacca che sta male; ma anche tra le terribili scene della macellazione del maiale e dell’uccisione dell’oca, per non parlare del contadino che inveisce e maltratta la cavalla invece di prendersela con la propria dabbenaggine. Non è quindi un ritratto edulcorato, L’albero degli zoccoli, tutt’altro. Olmi non fa sconti: la scena cruciale racconta di qualcosa di molto simile ad un furto. Il figlioletto di Batistì per andare a scuola deve sorbirsi ogni giorno, a piedi, dodici chilometri; un giorno torna con uno degli zoccoli rotto. Il padre non sa come fare, ma non può certo mandare il figlio scalzo; allora attende la sera tardi per recarsi al fosso vicino, e ne taglia una pianta con cui ricavare uno zoccolo nuovo. 
E’ un furto, la pianta è del proprietario della tenuta, Olmi lo evidenzia in modo chiaro: lo dice esplicitamente in una delle didascalie introduttive, e lo mostra anche nella furtività del comportamento del Batistì mentre compie la sua spedizione notturna. Anche cinematograficamente il regista introduce la scena dandocene un’anticipazione che istrada anche i più distratti: poco prima che il contadino esca per tagliare la pianta, una delle donne sta’ prendendo la legna dal portico per alimentare il proprio camino. Una volta caricati sul braccio alcuni pezzi di legno, si volta e si incammina verso la porta di casa, quando, forse vedendo che non c’è nessuno nella finestra accanto, fà una decisa e veloce deviazione su un’altra catasta di legna, ne raccatta qualche altro pezzo, e di corsa fila in casa. E’ evidente che questi legni sono dell’altra famiglia, e la donna ha approfittato del momento propizio: è un furto da niente, tre pezzi di legno che bruciano in mezz’ora; ma ora il terreno narrativo è pronto per il furto più grave. Una pianta, di appena qualche anno, non una pianta adulta, una tra le centinaia di piante che appartengono al padrone che vive in una villa, dove danno eleganti ricevimenti e si ritrovano ad ascoltare il pianoforte. Ma si tratta comunque di un furto. Quando la cosa verrà scoperta, non ci saranno indagini, o tentativi di discolparsi o accampare alibi. Niente di tutto questo, la famiglia del Batistì è colpevole e verrà cacciata dalla tenuta, fine della storia.        
E’ un film splendido, L’albero degli zoccoli, splendido come un lucido esame di coscienza di una comunità che non si piange addosso, che non impreca, che ammette le proprie colpe, le proprie mancanze, ma se non proprio con orgoglio, certamente con dignità, rivendica la fierezza delle proprie origini.


Francesca Moriggi



giovedì 23 novembre 2017

JUSTICE LEAGUE

40_JUSTICE LEAGUE . Stati Uniti 2017;  Regia di Zack Snyder

Recentemente, la differenza più evidente tra i film tratti dai comics DC e quelli Marvel era il tono più cupo e maturo dei primi rispetto a quello scanzonato dei secondi. Ma forse era una semplice evidenza, più che un intento programmatico: comunque sia, questo Justice League alleggerisce un po’ il clima abituale delle recenti avventure cinematografiche targate DC comics. E non può trattarsi di un fatto casuale, visto che alla post-produzione, a sostituire il regista Zack Snyder, è stato chiamato quel Joss Whedom già regista dei film sugli Avengers della Marvel, e che ha finito per lasciare la sua impronta leggera anche su Justice League. Ma questo non può certo essere definito un difetto: si tratta di una scelta degli autori, che può piacere o meno, ma non era un dogma inviolabile che i film con Superman e compagni dovessero essere per forza cupi. Justice League è un film leggero, semplice; resta da capire se, oltre al divertimento comunque assicurato, il lungometraggio abbia un’altra ragion d’essere. Chiaramente si tratta di una storia di supereroi, per cui non possiamo certo pretendere di trovarci le risposte ai problemi più complessi di questi tempi difficili. Però è forse vero che tanto la situazione è più complessa, quanto più abbiamo bisogno di avere almeno qualche certezza, qualche appiglio a cui aggrapparci.
Qualcosa di solido, sicuro, e che sia anche semplice; attenzione, semplice e non facile, comoda o scontata. Semplice: qualcosa che ci aiuti a vederci chiaro, a schiarirci le idee. Ecco, in questo senso Justice League può venire in soccorso per fare il punto della situazione: abbiamo tutti un po’ bisogno di Superman (nel film interpretato ancora da Henry Cavill), ma non tanto per risolverci i problemi, quanto piuttosto per tornare ad avere speranza (e questo viene rimarcato nel divertente prologo), fiducia nella giustizia, voglia non solo di mettersi in gioco, ma di prenderci le nostre responsabilità collettive. Ha ragione Batman (l’inossidabile Ben Affleck) quando rimprovera Wonder Woman (la splendida Gal Gadot): è lei il personaggio più interessante del lotto, ma non è più il tempo di starsene in disparte. Oggi abbiamo bisogno di metterci tutti la faccia, non è il momento di separazioni, secessioni, o di farsi i fatti propri; non è il tempo di lasciarsi andare nello sconforto perché non si riconosce più il nostro mondo, o compiangersi perché il suo motore si sia fermato. Questo è il tempo in cui Superman, il campione che rappresenta l’esaltazione massima dell’eroe e quindi l’estrema esaltazione individualistica, accetta di far parte di una squadra, di un gruppo, senza nemmeno pretendere di assumerne il ruolo di leader ufficiale.
Già solo questa, è una lezione sufficiente. 
   










Gal Godot 



  


mercoledì 22 novembre 2017

LA CORAZZATA POTEMKIN

39_LA CORAZZATA POTEMKIN (Бронено́сец «Потёмкин»)
 Unione Sovietica 1925;  Regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

 Una delle tavole della legge del cinema: questo è La corazzata Potemkin di Sergei M. Eisenstejn. Salta all’occhio come, nel lungometraggio, siano scolpiti in modo indelebile alcuni concetti cardine su cui si basa ancora oggi il cinema: la composizione delle immagini, la capacità di gestire i movimenti delle masse e, soprattutto, il montaggio, che poi è forse lo strumento più efficace e peculiare che possiede la settima arte per comunicare in modo il più diretto, immediato e coinvolgente possibile. La composizione delle immagini, nota in Russia col termine mizankadr, è l’elemento primario, cellulare, basilare, nella poetica di Eisenstejn, che nei fotogrammi del Potemkin, vi si dedica con cura maniacale, anche grazie all’assistenza del direttore della fotografia Eduard Tisse. Per il regista russo è fondamentale ricreare già una sorta di dinamismo fin dall’interno della composizione di un’immagine che, ad un’occhiata superficiale, risulta viceversa immobile. Queste immagini, già intrise di potenziale dinamismo, sono poi violentemente messe in contrasto tra loro, con un uso potente ed efficace del montaggio. Il montaggio nel Potemkin non è affatto naturale, ma piuttosto brusco, brutale, veloce quando non serratissimo, e tende a scuotere lo spettatore, a farlo sobbalzare sulla sedia. 
Il primo piano non è utilizzato per far immedesimare lo spettatore, come nel cinema americano o occidentale, ma è un ulteriore elemento di scossa, di tensione; Eisenstejn sembra trattare spesso con la stessa tecnica sia l’elemento umano che quello inanimato, sebbene scene come quella della carrozzina sulla scalinata di Odessa raggiungano l’apice della tensione proprio per la simbolica umanità di cui la stessa carrozzina è intrisa. La citata scena della scalinata di Odessa ci permette di introdurre un altro magistrale elemento nella poetica di Eisenstejn di cui La corazzata Potemkin è efficace portavoce: l’utilizzo delle masse umane, e il modo in cui il regista le manovra sullo schermo; nello specifico esempio, l’arrivo dei cosacchi dello Zar sulla scalinata è di una brutalità impressionante ma, in generale, le masse sono mostrate come un organismo unitario che si muove con una volontà comune. 


E’ facile leggere in questa scelta di sostituire l’importanza tipicamente occidentale dei primi piani, intesi come immedesimazione dello spettatore ma al tempo stesso celebrazione del divo e quindi esaltazione dell’individuo, con l’attenzione posta invece sulle masse, come un palese manifesto politico. E forse proprio qui si può trovare il vero punto di forza, la vera natura dell’essere capolavoro cinematografico, del Potemkin: non già nelle innovazioni tecniche, per altro ancora stupefacenti, ma, attenzione, nemmeno nel credo, nel significato, nel messaggio politico di cui il lungometraggio è in modo sfacciato portatore. 
No, La corazzata Potemkin è forse importante perché ci mostra in modo chiaro come forma e contenuto, tecnica cinematografica e messaggio, non siano scindibili.  Pur essendo un altissimo esempio, forse il più alto, di cinema intellettuale, nel Potemkin non è possibile parlare di supremazia del messaggio, del significato del film, sulla sua messa in scena. La messa in scena, la composizione del lungometraggio, dalla struttura generale divisa in cinque atti, che si rifà alla tragedia greca, al più fugace fotogramma mostrato da Eisenstejn, tutto concorda, è gestito, manovrato, al pari delle masse umane o dei cannoni della Squadra navale, in un’unica direzione.
La forma è contenuto, questo ci dice La corazzata Potemkin: e quando il cinema se lo dimentica, smette di essere cinema.     





martedì 21 novembre 2017

VORTICE

38_VORTICE . Italia, 1953;  Regia di Raffaello Matarazzo

Il regista Raffaello Matarazzo insiste nella sua personale ricetta strappalacrime, e propone un nuovo capitolo del melodramma all’italiana: Vortice, con Massimo Girotti e Silvana Pampanini. Da quando Catene ha aperto le porte del successo di massa al regista romano, non solo la formula è stata ripetuta più volte, ma si può dire che abbia inaugurato, all’interno della produzione cinematografica italiana, una vera e propria corrente alternativa al neorealismo (sebbene venga anche definita neorealismo d’appendice). Di norma, il melò è un genere particolare, perché non si fa scrupoli ad usare gli aspetti sentimentali anche in modo eccessivo: e la versione italiana, ben rappresentata dalle opere di Matarazzo, é tra quelle che enfatizza maggiormente queste sue peculiarità. E’ evidente come queste caratteristiche cozzino con gli aspetti più sobri del neorealismo; e questa contraddizione con il fenomeno culturale cinematografico italiano per eccellenza, non ha certo giovato alla fama del melodramma all’italiana. Sottovalutazione che tocca quindi anche Vortice, un film sicuramente interessante, e in genere invece liquidato come un prodotto che semplicemente solletica gli appetiti più facili e popolari.


 Viceversa, la pellicola di Matarazzo merita almeno alcune considerazioni: innanzitutto va premesso che, trattandosi di un melodramma, è implicito che le congiunzioni sentimentali del racconto siano enfatizzate. Detto questo, l’intreccio alla base del film è sorprendentemente buono, con Luigi (Gianni Santuccio) che ordisce un piano diabolico per avere la bella Elena (la Pampanini). Ma tutta la vicenda Luigi- Elena-Guido (il Girotti) è ben calibrata, ed é funzionale anche l’inserimento di Clara (Irene Papas). Per questo intrigo, il tasso di lacrime è già notevole, ma tutto sommato giustificato dai patimenti amorosi dei protagonisti dell’intreccio. Il problema è che Luigi ed Elena hanno una figlia; la quale fino ad un certo punto, rimane anche un po’ in disparte, risultando quindi ininfluente. 


Poi, quando la trama sembra virare al giallo, e questo sarebbe stato probabilmente il massimo per la funzionalità del lungometraggio, la piccola diviene il punto cardine della storia, e finisce per affogare tutto e tutti in un eccessivo (a dir poco) mare di lacrime. A pensarci sembra quasi che la questione della figlia sia inserita, e gli sia dato un peso spropositato, per prevenire eventuali critiche all’immoralità dei personaggi; in particolare della madre Elena, nell’intimo bramosa di lasciare il marito per tornare con Guido, anche se, al contempo, decisa a rimanere legata ai vincoli matrimoniali. In ogni caso, durissime da digerire le scene della piccola rinchiusa in un istituto e ghettizzata dalle compagne per aver fatto la spia accusando (sebbene involontariamente) la madre nel colloquio con gli inquirenti. 
Il melò ha un confine, oltre il quale si cade nel cattivo gusto, e francamente Matarazzo, in quei frangenti, se non lo varca, ci va pericolosissimamente vicino. Peccato, perché senza la drammatica questione della piccola Anna (o almeno con una sua drastica riduzione), e dando un po’ più di corda all’intrigo poliziesco della seconda parte, il film sarebbe potuto anche essere un piccolo capolavoro, nel suo genere. Nell’insieme rimane uno spettacolo divertente, a tratti appassionante per i torbidi intrighi, a tratti stucchevole per gli eccessivi sentimentalismi. Ma è un rischio che si deve conoscere, quando si decide di guardare un melodramma di Matarazzo.



Silvana Pampanini









lunedì 20 novembre 2017

IL TRENO

37_IL TRENO (The Train). Francia, Stati Uniti, 1964;  Regia di John Frankenheimer.

In prima istanza, il regista ingaggiato per dirigere Il treno fu Arthur Penn, che dopo una quindicina di giorni venne sostituito dalla produzione, pare su consiglio del protagonista (e co-produttore) Burt Lancaster e dello sceneggiatore Walter Bernstein. La storia è quella dei quadri custoditi nella Galleria nazionale del Jeu de Paume di Parigi che i nazisti, in fuga per l’arrivo degli alleati, provano a trafugare su un treno (quello del titolo, appunto). Naturalmente i francesi non approvano, essendo la collezione considerata l’orgoglio di Francia; ma c’è anche chi, come Paul Labiche (Burt Lancaster), un capostazione francese, non comprende come si possano rischiare vite umane per semplici quadri. Il tema cruciale dell’opera, ovvero, semplificando, se l’arte possa valere più della vita umana, resta naturalmente presente, ma nelle mani di John Frankenheimer, il regista chiamato a sostituire Penn, rimane sullo sfondo. Il regista americano sembra apparire perplesso tanto quanto il protagonista del film, di fronte alla natura troppo sofisticata di questo quesito e, probabilmente, rimanendoci attinente, non sarebbe riuscito a cavarne un film riuscito come invece è il suo.
Frankenheimer sposta così il perno della vicenda, facendone una questione di principio, di rispetto, del popolo francese che non vuole cedere qualcosa che è suo di diritto: a questo punto sì, si può anche morire per dei quadri, siano di valore o meno, ma in ballo c’è la dignità umana personale dei francesi e nazionale della Francia. Il sacrificio di Papa Boule (Michel Simon), le sue durissime parole prima di essere fucilato, rivolte sia al colonnello nazista Von Waldheim (Paul Scofield) e soprattutto al suo figlioccio Labiche (accusato di essere un collaborazionista) imprimono la svolta alla vicenda. 
Il lungometraggio è teso, avvincente, asciutto, fila dritto (come un treno, appunto) per la sua strada, il regista mette in campo tutti i suoi virtuosismi con la macchina da presa, spara i suoi primi piani suoi volti dei personaggi per scandire gli umori e i sentimenti contrapposti tra francesi e tedeschi. La fotografia in bianco e nero è perfetta per riportarci nel clima della seconda guerra mondiale; la colonna sonora affidata al formidabile Maurice Jarre è calibrata al punto giusto; gli effetti speciali sono assai poco speciali, e le scene dei bombardamenti e della corsa del treno sembrano dannatamente reali perché sono praticamente reali per davvero.
 Alla fine, il dubbio di fondo che Frankenheimer aveva cercato di aggirare, gli rimane ancora tutto intero quando ci mostra i cadaveri dei francesi fucilati, alternati alle casse contenenti i quadri vergate dai nomi di pittori tanto illustri: ma valevano davvero la pena tutti questi morti, che fosse per l’arte o per la dignità nazionale?
Naturalmente si, è la triste risposta, ma sembra rimanere in sospeso al cospetto dell’orrore e della stupidità della guerra.






Jean Moreau