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venerdì 1 novembre 2024

NOTTI DEL DECAMERONE

1570_NOTTI DEL DECAMERONE (Decameron Nights). Spagna, Regno Unito 1953; Regia di Hugo Fregonese

Come intuibile dal titolo, lo spunto per questa produzione anglo-spagnola è Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, raccolta di cento novelle risalente al XIV secolo. L’idea alla base di una simile operazione è curiosa, perché gli autori hanno preso uno dei testi scollacciati della letteratura del Medioevo, per farne un film in costume che oscilla tra l’avventuroso e il romantico senza mai lambire alcun elemento piccante. Emblematico, di questa manovra tesa a rendere il soggetto assolutamente morigerato, lo spostamento della voglia cutanea di Ginevra da sotto il suo seno –dove si trovava nel libro di Boccaccio– all’innocente spalla di Joan Fontaine nel film di Hugo Fregonese. Notti del Decamerone è comunque un bel film, garbato e divertente, con alcuni spunti interessanti. Il soggetto adatta «alla bisogna» cinematografica il testo, inserendo, come personaggio di riferimento della «cornice» narrativa, lo stesso Giovanni Boccaccio, interpretato da Louis Jourdan, mentre la vera protagonista dell’opera è, ovviamente, la citata Joan Fontaine. La Fontaine, al tempo, era già una star di prima grandezza di Hollywood, avendo nel suo curriculum opere come Donne [The Women, George Cukor, 1939], Rebecca – La prima moglie [Rebecca, Alfred Hitchcock, 1940], e Il sospetto [Suspicion, Alfred Hitchcock, 1941], mentre insieme a Louis Jourdan aveva interpretato Lettera da una sconosciuta [Letter from an Unknow Woman, Max Ophüls, 1948]. Joan era una eccellente interprete ed era in grado di recitare parti differenti, ad esempio la dark lady in La seduttrice, [Born to be bad, Nicholas Ray, 1950] ma è chiaro che il suo ruolo tipico era quello della vittima sofferente in amore. E in Le notti del Decamerone è quello che il copione le offre, seppure in forme leggermente diverse. Perché nel film la Fontaine è Fiammetta, la vedova ancora in lutto di cui è innamorato Boccaccio, ma è anche Bartolomea, Ginevra, Isabella, insomma le protagoniste dei racconti liberamente ispirati dalla raccolta dello scrittore italiano. 

Infatti, nella pellicola, gli attori principali hanno ruoli multipli interpretando, pur con le inevitabili differenze, il personaggio simile nei vari racconti. Tornando alle parti assegnate alla Fontaine, tutte le donne citate, in un modo o nell’altro, dimostrano le qualità che, almeno nel medioevo e anche assai più tardi, erano considerate quelle adeguate alla condizione femminile: fedeltà e assoluta devozione al marito, con annessa accettazione di qualsiasi sottomissione pur di mantenere saldo il matrimonio. Se la vedova Fiammetta è impegnata «obtorto collo» a rifiutare le focose ma premature avances di Boccaccio, nella cornice narrativa, Bartolomea, nel primo racconto, accetta di legarsi al pirata Paganino (ancora Jourdan), che l’ha rapita a scopo di ricatto, pur di sottrarsi alla vita coniugale sessualmente insoddisfacente che le offre il marito Ricciardo (Godfrey Tearley). Qui, naturalmente, il ruolo di Bartolomea sembra contraddire quanto appena affermato, circa la sudditanza a cui era costretta la donna nella tradizione italiana ed europea: in effetti questo primo racconto è un esempio di quanto scostumato fosse Il Decamerone, considerato i tempi. Però, anche un ruolo come quello di Bartolomea, che decide di abbandonare il marito, uomo che ha sempre una scusa astrologa per non fare il proprio dovere sotto le lenzuola, non è frutto della sua indipendenza, e qui si rientra in quella considerazione subordinata che la figura femminile aveva nella cultura europea. Bartolomea si dona spontaneamente al suo rapitore, senza che questi l’abbia fin lì degnata di uno sguardo realmente interessato, se non al riscatto da chiedere a Ricciardo. In fin dei conti, a fare «bella figura» è Paganino, il classico casanova o dongiovanni che dir si voglia, che si ritrova una donna bellissima ai suoi piedi senza nemmeno sprecarsi a farle la corte. E se, nel XIV secolo, tempo di pubblicazione del racconto, si poteva comunque intuire una certa intraprendenza nella scelta di Bartolomea, nel 1953, quando uscì il film, la Fontaine dovette essere brava a mostrare come una donna antica si dovesse sottomettere a priori ad un ipotetico amante per trovare quel che meritava nella vita coniugale e fin lì non aveva ricevuto. 

Nella cornice, la bigotta Fiammetta, rimprovera Boccaccio per la licenziosità di questo racconto e propone una sua storia dove la morale del tempo venga pienamente rispettata. Giulio (Jourdan), scommette con Bernabò (Tearley) di riuscire a sedurre la moglie di questi, Ginevra (la Fontaine), donna di provata fedeltà: pur non essendoci riuscito, inscena un tranello per assicurarsi la posta. Bernabò ci casca, e Ginevra le è talmente fedele da accettare di venire uccisa per un tradimento che non ha neppure commesso. Qui il film si riserva uno dei passaggi umoristici che mantengono il tono da commedia alla narrazione: i due sicari dal cuore tenero sono interpretati dai Bernard Brothers, George e Bert, una coppia di comici americani famosa fin dagli anni Trenta. A titolo di curiosità si può segnalare che i due artisti non fossero parenti, nella realtà. In ogni caso, proprio la rassegnazione di Ginevra, che nemmeno protesta o si dispera –ligia com’è ad accettare qualunque cosa ordinata dal marito, persino la sua morte per un adulterio mai commesso– crea degli ipocriti scrupoli di coscienza nei due buffi lestofanti che, in fin dei conti, non riescono ad espletare il loro compito, lasciandola quindi in vita. Il racconto prevede che i tre protagonisti si ritrovino, Ginevra, Bernabò e Giulio, e la donna, dopo aver dimostrato le sue ragioni, accetti clamorosamente di tornare col marito. Per l’ultimo racconto prende parola ancora Boccaccio, deciso a dimostrare a Fiammetta di essere capace di far trionfare la felicità coniugale a discapito delle scappatelle amorose a lui tanto care. Isabella (la Fontaine) è riuscita ad incastrare –ops, sposare– Don Bertrando (Jourdan) che, tuttavia, non ne vuole sapere di vita domestica e se ne va per il mondo a spassarsela. Prima di andare, fa giusto promessa di redimersi eventualmente ad una vita tra le quattro mura di casa solo quando la moglie avrà ottenuto la fede nuziale e gli avrà dato un figlio. Il che è un evidente paradosso, considerato che il dongiovanni sparisce dalla vista della povera Isabella all’istante. Un paradosso non più grande del folle innamoramento della ragazza, che proprio è privo di senso, stante l’atteggiamento dell’uomo, ma questo è ancora niente. Infatti, Isabella accetta di infilarsi nel letto al posto di Maria (Joan Collins) e, approfittando dell’oscurità della stanza, giacere con il proprio inconsapevole consorte. Come la donna ottenga la fede nuziale, rimanga incinta e, infine, dimostri tutto ciò all’esterrefatto Don Bertrando sono dettagli narrativi meno incredibili del fatto che Isabella accetti un escamotage tanto umiliante per la propria persona. 

Joan Fontaine, come detto, aveva nelle sue corde quella stoica sofferenza femminile e riesce a rendercelo passabile, almeno per un film dalla credibilità «sui generis» come Notti del Decamerone. Ben diverso il registro interpretativo della giovanissima Joan Collins: vent’anni, bellissima, l’attrice inglese bruciava di vita e, pur avendo una parte tutto sommato limitata, mette a segno alcuni passaggi memorabili. Nella cornice del film Joan è Pampinea, una delle ragazze che sono ospitate nella villa della campagna fiorentina da Fiammetta. Innanzitutto, tra le quattro giovani dame si distingue istantaneamente per bellezza e carisma, eclissando persino Binnie Barnes che pure era un’attrice già conosciuta e per cui, nel film, erano previsti ruoli più illustri, come la contessa di Firenze. Per quanto ricopra un ruolo marginale, il copione riserva alla Collins alcuni passaggi cruciali: è Pampinea che toglie il chiavistello al portone della villa, permettendo a Boccaccio di entrare dando il via alla vicenda. Il suo cenno di intesa all’amica è un breve istante, ma funzionale al racconto, così come il contatto di sguardi col protagonista, che dimostra subito di averne notato le grazie. È poi ancora Pampinea a stuzzicare Boccaccio nascondendo il volano, la sorta di pallina del gioco noto anche come badminton, nella scollatura che rende onore al nome della ragazza, che significa infatti «la rigogliosa». La Collins è perfetta per interpretare questo personaggio che nel Decameron letterario ha più spazio: indipendente, audace, Pampinea è una donna che non rinuncia alle canoniche armi della figura femminile, la grazia e la bellezza, ma le utilizza in chiave moderna. E che dire della sfuriata con cui Maria, sempre interpretata dalla Collins, investe l’inconsapevole Don Bertrando che l’ha tradita giacendo con la propria consorte? Se Joan Fontaine passa il tempo del film a far chinare docilmente il capo ai suoi personaggi, anche di fronte alle peggiori angherie, quest’altra Joan dimostra di quale pasta possano essere fatte le donne moderne. A patto di avere la classe di Joan Collins.   



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domenica 29 dicembre 2019

LA MERAVIGLIOSA ANGELICA

486_LA MERAVIGLIOSA ANGELICA (Angélique et le Roi); Francia, Italia, Germania, 1966. Regia di Bernard Borderie.

Il terzo episodio delle avventure dell’eroina del seicento francese mantiene pienamente le aspettative derivanti dal sontuoso titolo: l’Angelica interpretata da Michéle Mercier è davvero meravigliosa. E non solo per l’aspetto estetico: in questo nuovo episodio la protagonista conferma e rilancia ulteriormente le doti di personalità, fascino e carisma già mostrate nei precedenti due capitoli. Una piccola nota sul titolo italiano: per quanto azzeccato nel suo descrivere Angelica, è curioso che i distributori del belpaese abbiano sostanzialmente invertito i titoli originali francesi del secondo e terzo film della saga, che ovviamente nell’edizione d’oltralpe appaiono più adeguati. Tornando all’opera in questione, La meravigliosa Angelica non si discosta molto dai precedenti, con momenti di sentimentalismo allo stato puro che gronda dallo schermo, alternati con sapienza a passaggi avventurosi e d’azione. La cosa sorprendete è come, nonostante si possa anche essere un filo prevenuti verso un genere considerato un po’ datato, con lo scorrere della pellicola si venga inevitabilmente coinvolti dal tourbillon di eventi ed emozioni, siano essi d’azione o stati d’animo dell’esuberante protagonista femminile. Merito anche della mano discreta alla regia di Bernard Borderie che si affida ad una piacevole ricostruzione scenografica dell’epoca. E, naturalmente, del fascino davvero irresistibile di Michéle Mercier che meravigliosa lo rimane sempre, tanto nel terzo quanto lo era stata nel terzo capitolo della saga, mettendo così d’accordo francesi e italiani.   








Michéle Mercier








martedì 3 dicembre 2019

SEPOLTA VIVA

460_SEPOLTA VIVA ; Italia, Francia 1973Regia di Aldo Lado.

Passaggio indiscutibilmente a vuoto nella carriera registica di Aldo Lado, Sepolta viva è però un’opera a suo modo interessante. Certo, quello che è rimasto sullo schermo, tra i tagli della censura, i limiti imposti della produzione e le evidenti mancanze degli autori, regista in testa, non è il massimo della vita per uno spettatore, ma si è visto comunque di molto peggio. Pare, almeno stando a dichiarazioni dello stesso Lado, che la scelta di girare questo film sia stata una sua libera decisione, e non un prodotto imposto dall’industria cinematografica nazionale per motivi di cassetta. E questo risulta un po’ strano, perché il film è un melodramma in costume, un’opera che sembra inseguire i gusti di un target ben definito di pubblico. Ma, in effetti, si può notare che il titolo dell'opera faccia riferimento anche una possibile storia dell’orrore, più vicina ai lavori degli esordi di Lado e, nella condizione della morte apparente che coglie la protagonista, anche una somiglianza specifica con La corte notte delle bambole di vetro, folgorante esordio dell’autore. In effetti Lado dichiarò che per questo film mise a frutto (in modo non così compiuto, viene purtroppo da dire) la sua esperienza registica: dei riferimenti vagamente horror abbiamo detto, per quelli sentimentali si veda La cosa buffa dell’anno precedente. E, in fondo, l’idea poteva anche essere buona: riuscire a coniugare le atmosfere terrorizzanti o comunque inquietanti alle passioni accese di un melodramma. 

Un gioco sul doppio genere, per un regista la cui poetica era costantemente in bilico tra due (e spesso più) elementi; l’ambientazione storica raddoppiava poi la matrice popolare, affiancando (e forse provando a nobilitarlo) al prodotto tipico da fotoromanzo, quale è in sostanza Sepolta viva, la tradizione del melodramma italiano ottocentesco dell’Opera. Era quindi un’idea ambiziosa, quella di Lado, e se ci aggiungiamo che la protagonista avrebbe dovuto essere interpretata da Paolo Poli, attore teatrale che del resto spesso recitava en travesti, si capisce che quello che poi è rimasto sullo schermo è ben poco dell’audace progetto. Non che ci si debba lamentare della protagonista poi scelta, ovvero Agostina Belli che, per inciso, è una delle poche note liete del lungometraggio. Beh, ad onor del vero va messa a referto almeno una discreta funzionalità della suspense nel finale, quando le trama giunge al suo dunque e bisogna riconoscere che è ben congegnata. Ma, se questo basta per salvare Christine (la sepolta viva tratta appunto in salvo nel finale della storia), è davvero troppo poco per evitare un’impressione di generale mediocrità per il film nel suo complesso. 

Agostina Belli




sabato 3 agosto 2019

IL REGNO DEL TERRORE

389_IL REGNO DEL TERRORE (The Black Book/Reign of terror). Stati Uniti, 1949Regia di Anthony Mann.

Dopo essere divenuto praticamente uno specialista con il genere nero, di cui T-Men contro i fuorilegge è da considerare la sua tesi di laurea, Anthony Mann prova a cambiare registro, e si cimenta con il film storico in costume. Il regno del terrore è infatti ambientato ai tempi della Rivoluzione Francese, con personaggi storici come Robespierre (Richard Basehart), Barras (Richard Hart), Fouché (Arnold Moss), ai quali si aggiungono Charles D’Aubigny (Robert Cummings) e la bellissima Madelon (Arlene Dahl), in lotta al fianco di Barras e contro Robespierre, sempre più ambizioso di divenire dittatore di Francia. Le competenze storiche del lungometraggio sono di importanza assai relativa: la produzione presenta però due curiosi aspetti dell’utilitarismo cinematografico. Il primo è di tipo scenografico: pare che molte delle ricostruzioni ambientali e dei set cinematografici, siano gli stessi utilizzati l’anno precedente per Giovanna D’Arco di Victor Fleming. Certamente più interessante e degno di nota il secondo di questi adattamenti: il regista Anthony Mann utilizza infatti, adeguandola alla bisogna, la stessa impostazione noir dei suoi film polizieschi. In primo luogo dal punto di vista dell’intrigo poco chiaro ma accattivante, abbinato ad un ritmo serrato che non dà il tempo allo spettatore di accorgersi della scarsa comprensibilità della trama; e sul piano estetico con l’utilizzo delle (tante) ombre e delle (poche) luci ad enfatizzare la valenza della immagini. Come molte pellicole noir, le scene dei volti dei parigini resi folli dall’eccitazione mostrano chiaramente i debiti con l’espressionismo tedesco. 
C’è anche una certa somiglianza tra il mondo del terrore istaurato da Robespierre e la Chicago dei ruggenti anni venti, sotto la dittatura criminale dei gangster. Mann conferma la mano ferma alla regia e le pulsazioni forti in alcuni passaggi, come nel caso della lotta nella biblioteca; notevole la suspense nella scena con il libro nero abbandonato sul letto, che rischia di essere ritrovato dagli uomini di Robespierre. Nel complesso un film riuscito, sebbene i forti debiti con un periodo Storico così importante, forse finiscano per imbrigliare un po’ le possibilità narrative.











Arlene Dahl








giovedì 28 marzo 2019

I DUELLANTI

324_I DUELLANTI (The duellist)Regno Unito, 1977;  Regia di Ridley Scott.

A conti fatti, forse I duellanti è comunque un film pacifista. E se lo è, lo è in modo curioso, perché nell’opera il codice d’onore cavalleresco, che è uno dei pilastri della dottrina militare, non è messo in discussione apertamente. Ci sono due ufficiali Ussari dell’esercito di Napoleone, Armand D’Hubert (Keith Carradine) più raffinato, e Gabriel Feraud (Harvey Keitel) più ruspante: per un futile motivo, Feraud sfida a duello d’Hubert. Nella contesa ha la peggio il primo, che rimane ferito ad una mano: questo finisce per aggravare l’odio di Feraud per il rivale, e tutto il film sarà costellato da i loro ripetuti duelli. In sostanza, i due ufficiali francesi sono le facce della stessa medaglia (d’onore): da una parte il nobile codice cavalleresco, dall’altra la sete di sangue e il piacere per la sfida, sebbene sempre nelle regole del suddetto senso dell’onore. Per quanto la prima faccia della medaglia, a cui corrisponde D’Hubert, ci appaia più nobile e rispettabile, essa è legata in modo indissolubile alla seconda. E’ il codice d’onore che le unisce; un uomo d’armi può essere ragionevole fin che si vuole, ma se viene sfidato non può sottrarsi alla contesa. Questo vincolo è la quintessenza della follia della guerra; questo ideale che viene spacciato per onore, e che altro non è che orgoglio mal riposto, è la malta cementizia che permette la politica guerrafondaia che dai tempi antichi non è mai passata di moda. E’ per questo motivo, per questa indissolubilità delle due facce della medaglia, che D’Hubert salva la vita due volte a Feraud, prima evitandogli la condanna a morte, poi risparmiandogli il colpo di pistola definitivo. D’Hubert spera, nel commento finale, di controllare Feraud, sempre basandosi sul codice d’onore cavalleresco. 
Qui sta’ un po’ il dubbio: Ridley Scott, il regista, vuole forse dirci che è possibile tenere imbrigliata la nostra metà oscura, anche in ambito militare? Tutto il film è sembrato dirci di no, visto che D’Hubert è costretto, suo malgrado ma per dovere cavalleresco, a duellare per la vita nei continui scontri con Feraud. Ma il finale un dubbio ce lo lascia.
Non ci lascia dubbi invece l’abilità e la bravura di questo giovane regista inglese, Ridley Scott, che con il suo primo lungometraggio si mette subito in luce per un talento fuori dal comune.
L’idea di un film in costume, per un esordiente, è di notevole ambizione, perché oltre ai problemi strettamente tecnici in senso cinematografico, questo genere di pellicole presenta ulteriori ostacoli legati all’ambientazione, alle scenografie, ai costumi. 

In risposta a ciò la confezione dell’opera è superba, con particolare merito per le scene dei duelli e per le ambientazioni militari. Suggestive, anche se più oniriche che realistiche, le scene ambientate sul fronte russo danno l’idea della capacità espressiva molto personale del regista.
Volendo, questa superba abilità estetica di Scott serve a mascherare alcuni limiti del lungometraggio, forse un po’ troppo ancorato al solo aspetto simbolico del codice d’onore cavalleresco; l’opera manca infatti di profondità e i personaggi si muovono eccessivamente solo sui propri binari fissi nell’estenuante ripetizione dei duelli.
E quindi sufficiente la forza evocativa delle immagini, come unico complemento alla struttura simbolica del testo? Almeno per questo I duellanti, la risposta è si, la ricetta ha funzionato alla grande. 



Diana Quick



Gay Hamilton


Jenny Runacre