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lunedì 23 settembre 2024

NATURA CONTRO

1550_NATURA CONTRO. Italia 1988; Regia di Antonio Climati

Sembra quasi un segno del Destino: uno dei collaboratori più importanti nel capitale testo che aveva dato origine ai cannibal italiani, ne sanciva la, stavolta definitiva, ingloriosa fine. Nella parabola, qualitativa ma non solo, tra Mondo Cane (1962, di Jacopetti, Prosperi e Cavara) e Natura contro, di Antonio Climati, c’è l’omologazione e la banalizzazione di un intero paese. Ironia della sorte, Climati era stato Direttore della Fotografia nel seminale film di Jacopetti e compagni, ed era sorprendente che fosse lui a prestarsi ad un’operazione come Natura contro. Pensato come produzione televisiva –opera in effetti di Reteitalia, lo studio di proprietà Fininvest che si occupava di realizzare il materiale per le reti Mediaset– il film di Climati porta con sé tutti gli elementi anche simbolicamente adatti a sancire il declino del paese e non solo del cinema nazionale. Certo, principalmente Natura contro è un brutto e mediocre film di avventure che, grazie a qualche rimando, può essere preso a titolo per chiudere il conto al genere cannibal. Ma, allargando un po’ il tiro, si può anche leggervi la banalità e il pressapochismo tipico delle produzioni televisive nostrane che finirà per inquinare anche il cinema italiano. E, siccome il cinema, anche e soprattutto in Italia, è sempre uno dei migliori specchi del paese, il discorso è ulteriormente estensibile all’intera nazione. Del resto, gli anni Ottanta erano stati già segnati dal dominio in ambito televisivo della corazzata Mediaset che, altro non sarà, se non un trampolino di lancio per ambiti ben più prestigiosi per la nuova classe egemone. Ecco perché, parlare di Natura contro, soprattutto se chi lo ha realizzato era nella troupe di un testo critico e scomodo come Mondo Cane, non significa parlare solo di un innocuo filmetto. Vero è che, proprio le reti televisive Mediaset, con programmi come Striscia la Notizia, varato giusto alla fine di quel 1988, o, più tardi, Le Iene, adottarono gli stilemi del film di Jacopetti, Prosperi e Cavara, e, quindi, una connessione tra Mondo Cane e la cosiddetta “tv spazzatura” potrebbe davvero esserci. Il sensazionalismo, l’attenzione agli aspetti morbosi, il voyeurismo, sono in effetti tratti comuni: la differenza è che, nel film di Jacopetti e soci, sembra esserci un disegno preciso, dietro l’uso delle immagini scioccanti: dimostrare come l’uomo civilizzato non sia poi così civilizzato. I citati programmi televisivi provano a dare un’impressione più anarchica, meno strumentale, ma, sembra lampante, è proprio quello il gioco di cui hanno invece incarico: la loro è una critica in apparenza indiscriminata. 

La strategia è quella di dare l’idea di non risparmiare nessuno, comunicando quindi il concetto che sia inutile anche unicamente avere un pensiero critico. In effetti, la differenza con un film come Mondo Cane è sottile: quello che cambia è il contesto. All’inizio degli anni Sessanta, molto prima della contestazione sessantottina, scalfire la cieca fiducia nel futuro, che il boom economico sembrava garantire indiscutibilmente roseo, era un utile monito. Nei tardi anni Ottanta e in seguito, la critica ad “alzo zero”, ma spesso oculatamente indirizzata, dell’informazione satirica televisiva, diveniva invece un pericoloso strumento nelle mani di qualcuno. Elementi che, come accennato, troviamo anche in Natura contro: qualche sparuto rimando, dalle teste tagliate degli indios, all’ambientazione amazzonica, alla tribù misteriosa, sono esche che gli autori gettano per poter spacciare il loro film come cannibal, un genere che ha sempre una sua nicchia di spettatori. In realtà, l’antropofagia non c’entra, ma si possono premiare gli sforzi ingannevoli di Climati e collaboratori e considerare pure Natura contro come un film sui cannibali: in ogni caso rimane un brutto film, di livello davvero basso. Quello che si può notare è la ruffianeria degli autori, che mettono in scena una serie di situazioni che esaltano il buonismo e il politicamente corretto. Il passaggio più evidente, in tal senso, è quello in cui vediamo catturare alcune scimmie, perché vengano poi utilizzate nella pet-therapy per individui disabili, e, nella sequenza, c’è addirittura uno dei protagonisti del film che pratica una rianimazione ad uno dei piccoli animali. Lodevole intento, sia chiaro, se non fosse che sembra posto all’inizio del racconto per dimostrare che in Natura contro non c’è violenza gratuita nei confronti degli animali, né reale e nemmeno nella finzione. Ironicamente, ma significativamente, la censura britannica taglierà i dodici secondi di pellicola dove una delle piccole scimmiette in questione viene colpita per davvero, seppur non rimanga uccisa. Tuttavia è doveroso ribadire che, nella realizzazione del film, non venga ammazzato alcun animale, sebbene tale pratica fosse ormai entrata fortunatamente in disuso già da tempo. 

In ogni caso, la frenesia della narrazione, con i protagonisti che passano rapidamente da un rischio mortale all’altro senza dar nemmeno il tempo allo spettatore di metabolizzare la pericolosità della situazione, sembra quasi uno stratagemma per rendere tutto quanto il racconto un innocuo passatempo. Un po’ come le citate trasmissioni satiriche televisive, che anestetizzano il senso critico del telespettatore con il flusso di scandali e malagestioni pubbliche varie, raccontate senza adeguati approfondimenti. Tornando a Natura contro, una volta divertito lo spettatore con le scene concitate, pagato il dazio alla morale comune dimostrando un rispetto della natura formale, d’accordo, ma ben poco convincente, gli autori possono arrivare al loro dunque. La trama del film prevedeva una spedizione in cui Gemma (May Deseligny), reporter d’assalto, Pio (Pio Maria Federici), biologo, Mark (Fabrizio Merlo), pilota, e Fred (Marco Merlo), si addentrassero nel profondo dell’Amazzonia alla ricerca del professor Korenz (Bruno Corazzari). Sebbene Korenz fosse considerato scomparso, si sospettava avesse trovato gli Imas, una tribù di indios che viveva allo stadio primitivo, e qui, sebbene non si parli di antropofagia, riecheggia qualche altra eco dei cannibal movie. In ogni caso, per non farsi mancar niente, pare che questi Imas fossero custodi di un favoloso tesoro. Alla fine delle tante acrobatiche e funamboliche peripezie, i nostri baldi giovanotti trovano il loro uomo. Che, a quel punto, si chiede, e chiede alla giornalista Gemma, se sia il caso di tornare davvero alla civiltà. Perché, sorpresa, gli indios presso cui è di stanza, non sono mica i mitici Imas, i leggendari uomini primitivi; sono una semplice tribù indigena che lo ha accolto e presso la quale ora si trova a vivere pacificamente. E, per giunta, del tesoro nemmeno l’ombra. A questo punto la cosa suona certamente beffarda: tutta quella fatica per niente. É qui che Climati e i suoi produttori gettano la maschera e calano l’asso dalla manica: Gemma, infatti, non ci sta e decide di scrivere la Storia a proprio comodo. Non a caso, nonostante fossimo ancora negli anni Ottanta, la protagonista è una donna: gli autori si portano avanti e seminano un po’ di uguaglianza di genere, dando il ruolo più significativo ad una rappresentante del sesso femminile. L’idea di Gemma è semplice: spacciare presso la comunità scientifica questi banali indios per i leggendari Imas e prendersi tutti gli onori. E i soldi annessi, sia ben chiaro. Etica, onestà, coerenza, deontologia professionale, pudore, sincerità, senso di giustizia: nessuna di queste cose le sfiora la mente a fronte della possibilità di compiere il colpo della vita. Nemmeno un po’ di sana prudenza, dinnanzi alle perplessità e alle paure del professore, la fa vacillare. E quando Korenz osserva che i ragazzi della spedizione, potrebbero prima o poi tradire la loro truffa, Gemma trova un’altra semplice soluzione: li lascia nella giungla. Prende l’aereo e se la fila alla chetichella, col professore e le foto dei “mitici Imas”, le prove della loro sensazionale scoperta. Poi, siccome il film è mondato da ogni forma di crudeltà esplicita, il pistolotto finale informa che tutti quanti i giovanotti abbandonati se la siano cavata egregiamente; del resto, che era un’Amazzonia da salotto si era ben capito. 

Tuttavia, trascurando l’assoluta sciatteria del cast, della sceneggiatura e dei dialoghi, quello che lascia assolutamente basiti, assai più di Mondo Cane o Cannibal Holocaust, è la nonchalance con cui si fa passare come legittimo l’odioso opportunismo della protagonista. Ma era anche prevedibile: film di fine anni Ottanta, matrice televisiva, produzione Reteitalia –leggi Mediaset– cos’altro ci si poteva aspettare se non la celebrazione del rampantismo?
A pensarci bene, che un film del genere segni la fine del genere cannibal, diviene, per questi, quasi motivo di vanto.
Ma, purtroppo, viene da fare un’ultimissima considerazione. Natura contro, più che un cannibal movie, genere nel quale può comunque trovare posto, come abbiamo visto, presenta delle analogie con il modo in cui venivano realizzati i mondo movie. In effetti, Antonio Climati in regia, e Franco Prosperi nella sceneggiatura, erano tra i più importanti autori del citato Mondo Cane, il capostipite. Gemma e i suoi amici riescono a trovare il professore ma lo scoop fallisce, visto che gli indios non sono i mitici Imas. Ma con una piccola forzatura, ecco che il servizio bomba salta fuori ugualmente. La cosa non ricorda quanto si diceva dei mondo movie e della capacità di Jacopetti e compagni, di aggiustare i loro resoconti in modo da renderli spettacolari? Gemma come Jacopetti, quindi? Ci si è spesso interrogati dove fosse il confine tra il reale e il ricostruito nei famigerati mondo movie. Un genere di film verso cui i cannibal sono innegabilmente debitori. Senza Mondo Cane e i suoi epigoni, non avremmo avuto i cannibal movie all’italiana. Guarda caso, l’ultimo cannibal italiano, è realizzato da Climati e Prosperi e, nel chiudere definitivamente il conto al genere, forse rivela anche il segreto cardine dei mondo, quello sulla loro credibilità.
Decisamente un colpo basso, questo Natura contro.   



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giovedì 19 settembre 2024

NUDO E SELVAGGIO

1548_NUDO E SELVAGGIO . Italia, Brasile 1985; Regia di Michele Massimo Tarantini 

Gli anni Settanta avevano visto due correnti del cinema di genere italiano avere grosso modo la stessa evoluzione: tanto i western che i polizieschi, avevano via via perso le caratteristiche serie intrinseche alla loro natura, per divenire una sorta di parodie. Tant’è che questi generi divennero poi famosi con definizioni che indicavano in modo sfacciato questa loro matrice ironica: spaghetti-western e poliziottesco, lasciavano, in effetti, pochi dubbi in tal senso. Certo, probabilmente non fu una scelta programmatica, l’utilizzo di queste definizioni –che presero, tra l’altro, piede col passar del tempo– ma si tratta comunque di indizi che danno almeno un’idea degli intenti dei film in questione. Per i produttori, si trattava di una soluzione comoda: a suo tempo, il cinema italiano aveva dovuto sforzarsi, in un certo senso, per interpretare alcuni di questi generi a lui poco congeniali, almeno a livello tradizionale. Tant’è che, per vincere un certo scetticismo del pubblico, ci si era inventati la faccenda degli pseudonimi anglofoni. Quando si era esaurito il filone, quando le idee cominciarono a scarseggiare, ci si era così rifugiati in quello che veniva considerato il genere per elezione della penisola italica: la commedia. In realtà, la commedia fatta scrupolosamente e seriamente, era altrettanto difficile, se non di più, degli altri generi ma, in Italia, c’era – e forse c’è ancora – la convinzione che per far ridere e soddisfare il pubblico, bastino gag di quart’ordine condite da manciate di richiami sessuali. In sostanza, la ricetta della commedia sexy all’italiana. Grosso modo dalla saga di Trinità (Lo chiamavano Trinità…, 1970, di E. B. Clucher e seguenti) i western all’italiana presero sempre una vena umoristica, mentre da quella del poliziotto Nico Giraldi (inaurata da Squadra antiscippo, 1976, Bruno Corbucci) la stessa cosa successe a molti polizieschi di casa nostra. Dopo il boom dei primissimi anni Ottanta, con l’avanzare del decennio il genere cannibal ebbe un periodo di pausa: nel 1985, dopo un paio di anni di assenza dalle sale, qualcosa si era però mosso e ben tre film arrivarono sullo schermo quell’agosto; mese peraltro, ai tempi, assolutamente morto per il cinema. Mentre sia Schiave bianche – Violenza in Amazzonia (1985, di Mario Gariazzo), che Inferno in diretta (1985, di Ruggero Deodato) provavano, in modo decisamente diverso, a riprendere il filo del discorso dal passaggio più importante del genere, ovvero Cannibal Holocaust (1980, dello stesso Deodato), i produttori di Nudo e selvaggio scelsero una strada completamente diversa. 

Forti della consapevolezza della pocanzi accennata evoluzione “leggera” avuta anni prima da due tra i generi più violenti del cinema italiano, i western e i polizieschi, affidano il loro film sui cannibali a Michael E. Lemick, al secolo Michele Massimo Tarantini, un maestro della commedia scollacciata del Belpaese. Tarantini, all’inizio carriera, prima di dedicarsi ai film incentrati sulle varie poliziotte, insegnanti, dottoresse, professioni naturalmente tutte riviste rigorosamente in chiave erotica, aveva anche esplorato il poliziesco all’italiana, senza per altro lasciare il segno. Insomma, per quanto le sue commedie piccanti non fossero opere degne di Ernst Lubitsch o Billy Wilder, si può comunque asserire che Tarantini si muovesse in modo assai più agevole da quelle parti piuttosto che con i toni cupi dei polizieschi. Un autore non particolarmente versatile, in definitiva, e ora alle prese con l’ambizioso intento, in Nudo e selvaggio, di coniugare un genere ultra-violento con i toni leggeri. In pratica, con Nudo e selvaggio, il regista romano si prende una bella gatta da pelare: forse rendendosene conto, decide di giocare a carte decisamente scoperte. Il protagonista, Michale Sopkiw (nel ruolo del paleontologo Kevin Hall) è il sosia di Terence Hill, mentre la storia ha un incipit, musica compresa, che sembra il remake di Banana Joe (1982, regia di Steno, con Bud Spencer), due elementi che fissano il principale riferimento nella coppia comica più importante del cinema italiano del tempo, Terence Hill & Bud Spencer, appunto. Più simpatica e meno prevedibile, la citazione a Django (1966, regia di Sergio Corbucci) che serve ad introdurre la professione del protagonista: nella bara che si trascina appresso il nostro bellimbusto, ci sono infatti ossa, ma di dinosauro. Rispetto agli spaghetti-western, i riferimenti sessuali, per quanto unicamente pruriginosi, sono più sfacciati, mentre l’ironia è assai più ovvia e scontata. Ma, in questo ambito, ben peggio sono soggetto e sceneggiatura, opera dello stesso Tarantini, banali e superficiali in modo quasi sconcertante. Alla fine di una serie di passaggi scontati e assurdi allo stesso tempo –il che è, a suo modo, una sorta di impresa– i personaggi del film precipitano con il loro aereo nel bel mezzo della giungla amazzonica, restando senza più contatti con il mondo civilizzato. Oltre al citato Sopkiw, nel ruolo dell’improbabile paleontologo avventuroso, di un cast poverissimo vale la pena citare almeno Suzane Carvalho, è Eva, e Milton Rodriguez, è il capitano Heinz, un veterano della guerra nel Vietnam. 

Il tema bellico, e quello della “sporca guerra” nello specifico, ritorna ancora una volta in un cannibal, quasi fosse una sorta di tardo-cliché del genere. Tra gli altri momenti tipici, le immagini efferate ci sono e i cannibali sono in effetti abbastanza feroci e, almeno in una scena, tengono fede al loro ruolo; tuttavia il passaggio più memorabile è legato ai piranha, che spolpano la gamba di uno dei sopravvissuti. Purtroppo, a questo momento è legato anche una della gaffe più clamorose della storia: Kevin, il bel paleontologo, ed Heinz, il capitano problematico, si disputano il ruolo di leader del manipolo di scampati e, in questo frangente, arrivano alle mani. Niente di particolare, si tratterebbe di un passaggio quasi inevitabile: quello che desta perplessità, a dir poco, è che i due, dopo aver tratto in salvo il loro compare dalle acque infestate dai piranha, decidono di darsele di santa ragione proprio in quello stesso punto del torrente. Al di là dell’errore in sé, è proprio la dinamica del racconto e dei dialoghi a rendere questo passaggio davvero deprimente, tuttavia un altro svarione pone almeno un dubbio sulla consapevolezza nel merito degli autori. Nella seconda parte del racconto, i nostri sopravvissuti vengono catturati dagli uomini di Cina (Andy Silas), un avventuriero che, sfruttando alcuni indigeni come schiavi, cerca e commercia diamanti illegalmente. Da notare che, parlando di errori, pare grossolano il fatto che due personaggi nella storia si chiamino con lo stesso nome –Cina, appunto, era anche il nome di uno dei componenti della spedizione– rischiando di fare più confusione di quella che c’è. Tuttavia l’errore che lascia più perplesso è legato ad un classico stratagemma narrativo usato nei film western: il numero di colpi nell’arma da fuoco a disposizione durante un duello. È però quantomeno bizzarro che il film si decida praticamente con questo elemento –sul più bello Cina finisce i colpi del suo revolver– quando, poco prima, Kevin aveva sparato senza sosta e senza ricaricare con il suo fucile a pompa, almeno il doppio dei colpi che avrebbe potuto avere nel caricatore. Sembrerebbe, ma è allo stesso tempo improbabile, che gli autori, in questo passaggio, cerchino di darsi un tono, mostrando di conoscere questi aspetti narrativi nonostante la storia raccontata pare invece smentirli. 

Difficile da credersi, eppure, anche con l’utilizzo dell’espediente del serpente a sonagli, nel finale, Tarantini sembra scherzare sulla plausibilità della sua storia. D’acchito, la scena sembra l’ennesimo svarione della sceneggiatura: in Amazzonia ci sono le anaconda, i crotali stanno nel south-west nordamericano. In realtà, seppure assai meno noto dei suoi giganteschi parenti stritolatori, i serpenti a sonagli sono presenti anche in Sud America: difficile stabilire se quello mostrato nel film sia effettivamente un Cascavel, o Cascabel –questo il nome con cui è conosciuto il Crotalus Durissus– tuttavia non si pretende il rigore scientifico da un film d’avventure. Se esiste un serpente a sonagli che scorrazza per l’Amazzonia, allora la scena finale è migliore e più credibile di quanto sembri. Questo dubbio si somma al precedente, quello legato al conto dei colpi delle armi da fuoco che in un caso non tornano, mentre nell’altro sono addirittura il fattore decisivo. Forse, regista e collaboratori non sono poi così scarsi, come sembrerebbe lasciar intendere il modesto risultato di Nudo e selvaggio. Ma il dubbio ha sempre due facce: se Tarantini conosce il mestiere, e sa dell’importanza di quei dettagli narrativi, perché diamine non ci ha prestato attenzione e fatto un bel film?  





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sabato 27 luglio 2024

IL CACCIATORE DI UOMINI

1519_IL CACCIATORE DI UOMINI (El Canìbal). Spagna, Germania Ovest, Francia 1980; Regia di Jesùs Franco.

Una valutazione può spesso dipendere dalla prospettiva che si adotta nell’analisi: ad esempio, se Il cacciatore di uomini, film dell’ineffabile Jesús Jess Franco, lo prendiamo in sé, c’è un po’ da mettersi le mani nei capelli. Diversamente, se vi si approccia dopo aver visto La dea cannibale, opera dello stesso autore, anno, genere e tenore, allora le sensazioni potrebbero essere più positive. In effetti, Il cacciatore di uomini, ha qualche spunto positivo, o almeno migliore rispetto al citato precedente di Franco in ambito cannibal: innanzitutto l’ambientazione è assai più plausibile. Anche la tribù cannibale, forse il tasto più dolente ne La dea cannibale, è stavolta molto più presentabile, non poi meno credibile di quanto in genere queste figure non lo siano nelle produzioni a basso costo. Il canovaccio lascia qualche perplessità, a dirla tutta, ma va detto che, nella fruizione, giova la narrazione scarna che non rivela troppi dettagli, almeno nella prima parte. C’è, per la verità, un insistito montaggio alternato che viene presto a noia, soprattutto perché lascia intendere un parallelismo, tra la vita degli indigeni e quella di una moderna città occidentale, piuttosto estemporaneo. Si può leggere, in effetti, un malcelato moralismo da parte di Franco, che sembra alludere che tra le due società mostrate, quella dei cannibali e quella cosiddetta occidentale, non ci sia poi tutta questa differenza. Il confronto sembra proprio un atto di accusa ai pregiudizi dell’uomo bianco ma, poi, Franco, nella sua messa in scena, ne fa pesantemente ricorso.
La trama si snoda su passaggi poco plausibili su cui lo spettatore è chiamato a sorvolare e le bellezze discinte che imperversano sullo schermo sono un incentivo in questo senso. Un gruppo di criminali rapisce Laura, (Ursula Buchfellner), una bellissima modella, chiedendo un cospicuo riscatto. Incautamente, i rapitori portano la ragazza in una misteriosa isola popolata da una tribù cannibale; intanto, il reduce del Vietnam Peter Weston (Al Cliver alias Pierluigi Conti) è ingaggiato per liberarla. Tra i passaggi davvero troppo superficiali del racconto, salta all’occhio lo stratagemma di Peter per ingannare i criminali: il nostro prode eroe si lancia da un elicottero lasciando il velivolo libero di schiantarsi, simulando quindi un incidente. Al netto del fatto che i banditi poi manco ci cascano, viene da chiedersi se qualcuno di coloro abbia lavorato al soggetto o alla sceneggiatura, abbia una vaga idea di quanto possa costare un elicottero. Domande forse inopportune, a fronte di un film di Jess Franco, ma in un film che insiste a percorrere sentieri narrativi avventurosi sono anche ineludibili. Nel complesso, come detto, il film è gravemente insufficiente, penalizzato dai troppi elementi risolti in modo dozzinale e superficiale. Stavolta le scene cannibaliche non sono il piatto forte del film di Franco, per quanto possano essere considerate accettabili, perlomeno nel loro essere disgustose. Ursula Uschi Buchfellner, infatti, è davvero uno spettacolo e la sua bellezza folgorante riesce a rimanere immacolata anche in mezzo all’immondizia cinematografica.


Ursula Uschi Buchfellner




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martedì 25 giugno 2024

INFERNO IN DIRETTA

1503_INFERNO IN DIRETTA . Italia 1985; Regia di Ruggero  Deodato.

Tra le motivazioni che resero i cannibal movie italiani tanto affascinanti –almeno per giovani e giovanissimi dell’epoca– c’era forse il palese disimpegno del genere. Intendiamoci: ragioni sociologiche per un simile fenomeno erano sicuramente alla base del successo, ma si trattava di situazioni ambientali, generiche e riferite al clima sociale che si respirava negli anni Settanta in Italia. Parlando dei testi filmici in sé, bisogna riconoscere che questi non avessero particolare profondità, e la cosa pare evidente. Soprattutto, la violenza così efferata, in particolare quella a danno degli animali, era puro nonsense: per quanto l’atmosfera potesse essere plumbea, e negli anni di piombo lo era di sicuro, perché diamine masse di giovanissimi si eccitavano parlando di una scena reale in cui una povera scimmietta finiva brutalmente ammazzata? Poteva davvero essere questa una risposta diretta alla violenza sociale? Forse, una simile aberrazione, apparentemente immotivata, era, piuttosto, l’anticipo del vuoto pneumatico che avrebbe caratterizzato la scena sociale dagli anni Ottanta in poi. Un vuoto che, negli anni Settanta, anni che avevano la violenza come linguaggio quotidiano, era colmato appunto da questa violenza, e che, nella Settima Arte, avrebbe dato luogo al genere più deviato della storia del cinema italiano. Queste impressioni furono evidentemente percepite anche dagli autori, o almeno dai principali del filone. Se Sergio Martino non aveva dato seguito alla sua unica incursione nella corrente, La montagna del dio cannibale (1978), Umberto Lenzi aveva cercato di chiudere la questione con il suo Cannibal Ferox (1981), un modo per prenderne anche le distanze. Ruggero Deodato, soprannominato Monsieur Cannibal, per la sua competenza nel genere, cercò invece una strada diversa per superare l’impasse, ovvero l’incapacità di giustificare un cinema tanto violento e senza ragione. In parte, la soluzione di Deodato, cristallizzata nel film Inferno in diretta, sembra quella di virare sulla pura avventura, e su questo aspetto niente da dire, era una scelta anche condivisibile. Oltretutto, quella avventurosa, era una traccia da sempre presente nei cannibal, che però veniva tenuta sullo sfondo dai peculiarissimi e sempre presenti cliché narrativi della “corrente”. Deodato cercò, con Inferno in diretta, di dare maggiore slancio alla componente avventurosa, tenendola sempre connessa alla matrice violenta, del resto la natura era violenta quasi per definizione, e, in questo modo, provare a mantenere una certa coerenza all’interno di questo particolare sottogenere cinematografico. 

La connessione con l’horror o con il cinema bellico erano ulteriori desinenze che alimentavano questa soluzione: il cannibal poteva quindi trasformarsi in un genere di film di ambientazione nella giungla, dove la violenza era notoriamente di casa, perdendo i suoi tratti più deleteri a favore di tematiche più accettate, come appunto quella orrorifica o quella bellica. In questo senso sembra anche andare il lavoro di Dardano Sacchetti che, nella stesura della sceneggiatura, dichiarò di essersi ispirato al romanzo Congo di Michael Crichton, non un riferimento da poco. Oltretutto, il film, in origine, era stato affidato a Wes Craven, che abbandonò, in seguito, il progetto; il regista americano era un altro pezzo da novanta in qualche modo riconducibile ad Inferno in diretta. In carriera, Craven era riuscito a trasformare gli impulsi di violenza anarchica degli esordi, L’ultima casa a sinistra (1972), in una seria e credibile critica alla società degli anni Ottanta, Nightmare, dal profondo della notte (1984). È quindi evidente che, tra eredità del progetto originario e ambizioni in sede di sceneggiatura, Deodato finisca per trovarsi per le mani un lavoro di un certo peso. Il cineasta italiano regge bene in fase di regia, dosa sapientemente il ritmo e la violenza efferata, dimostrandosi ancora una volta un maestro nella specialità. La presenza di un attore come Michael Berryman (è il folle Quecho) è un elemento controverso: la sua è una presenza ingombrante e la trama non sembra tenere in debito conto l’impatto che l’interprete americano ha sullo schermo, tanto che, in un paio di momenti, sembra quasi che Deodato si sia scordato del suo personaggio. Ma, tutto sommato, si tratta di dettagli narrativi di secondaria importanza. Bello l’incipit, con l’attacco nella giungla e il primo, e unico, passaggio antropofago del film; quasi un debito da scontare il prima possibile, da parte del regista, che poi si può concentrare su quello che davvero gli preme. 

Ovvero dimostrare una motivazione sociale alla violenza del film, anche attraverso la trama stessa del racconto, quasi a smentire l’eventuale impressione che le giustificazioni portate, nel corso degli anni, a difesa dei cannibal, fossero posticce e poco credibili. Almeno, questa è l’idea che tutta quanta la faccenda del traffico di stupefacenti lascia intendere. La droga era un problema sociale già da decenni ma, negli anni Ottanta, la coscienza collettiva nel merito andò sempre più facendosi consapevole. Le notizie sulla violenza che circondava il traffico di stupefacenti, indotte dall’immane circolo di denaro, avevano spostato il fuoco del problema: se nel decennio precedente la tossicodipendenza era vista perlopiù come malsana e pericolosa scorciatoia per affrontare le difficoltà della vita di un’intera generazione, ora il traffico di droga diveniva anche il volano per il dilagare di una violenza inaudita. L’intuizione di collegare il problema del narcotraffico con la violenza del cannibal poteva anche essere funzionale, ma non era onesta e, in fin dei conti, nemmeno credibile. È infatti proprio qui che Deodato scivola, nel suo tentativo di nobilitare il cinema di cui era ritenuto il maestro, Monsieur Cannibal, quando, lui per primo, avrebbe dovuto sapere che la violenza dei film sui cannibali non aveva motivazioni così scontate e prevedibili come quelle legate all’attualità, per quanto tragica. Forse era davvero il clima, l’aria che si respirava, a contaminare l’immaginazione dei giovanissimi degli anni Settanta. O forse era la natura stessa, di quella immaginazione, che per la prima volta da secoli nella Storia dell’Umanità, poteva finalmente rivelare la sua matrice più autentica. 

Gli sconquassi della rivoluzione sessantina avevano demolito le istituzioni tradizionali, sull’onda del motto quanto mai inequivocabile “né Dio, né Stato, né Famiglia”, e i ragazzi dei Settanta potevano finalmente pensare (quasi) liberamente. Era quindi violenta, la natura stessa dell’uomo? Ma certo che sì, la risposta a questa domanda è perfino banale. Quello che più inquieta nell’ipotesi formulata poc’anzi, è che, oltre che violenta, la natura umana può facilmente prendere una deriva sadica, qualora ne scorgesse l’opportunità. Era quello che succedeva, ad esempio, durante il periodo del Servizio di Leva, dove giovanotti abitualmente educati e “per bene”, si trasformavano in aguzzini degni delle SS, alimentando con impensabile vigore il becero fenomeno del nonnismo, che prosperò indisturbato per decenni nelle caserme italiane. Questa inclinazione, questa natura deviata, era –ed evidentemente è– alla base della natura stessa dell’uomo ed è quella che fece appassionare i giovani degli anni Settanta ai cannibal, proprio per la presenza dell’inaudita violenza. Non servivano pretesti; i pretesti erano stati eliminati dalla contestazione giovanile e ora la “bestia umana” era finalmente libera di manifestarsi. Presto, o relativamente presto, sarebbe arrivato il Politicamente Corretto, ad insabbiare ogni possibile elemento fuori registro, ma nel 1985 c’era ancora tempo per chi, come Deodato, poteva provare a spacciare il cannibal come genere in qualche modo legato alla contestazione sociale. Inferno in diretta è, in buona sostanza, un maldestro tentativo di far proprio questo: dare da intendere che i film dei cannibali fossero una manifestazione che risentiva della violenza del tempo. In realtà, la violenza nei cannibal ha una radice ben più profonda, appartiene alla natura umana forse più di ogni altra cosa, e fu, semmai, l’assenza di influenze, nello specifico quelle restrittive della morale costituita e tradizionale, a farla sgorgare. Il genere cannibal non è una risposta alla violenza sociale, ma è piuttosto, l’esplosione della violenza intrinsecamente individuale, qualcosa di assai più antico e personale. E, proprio per questo, così affascinante. Ancora oggi.    

  


Lisa Blount 


Valentina Forte 


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giovedì 9 maggio 2024

ANTROPOPHAGUS

1479_ANTROPOPHAGUS . Italia, 1980; Regia di Joe D'Amato.

Veniamo subito al sodo: la famosa scena del feto mangiato vivo da Klaus Wortmann, il famigerato cannibale di Antropophagus, potrebbe rappresentare degnamente il cinema di Joe D’Amato. Perché in un colpo solo, con una sola raccapricciante e orribile ripresa, il regista romano riesce a rispettare i due cliché dei cannibal movie più discutibili – per usare un eufemismo. Innanzitutto c’è la scena in sé, per quel che rappresenta e per come è mostrata crudamente sullo schermo: i bambini, anche e non solo, al cinema, rappresentano il futuro, la speranza, la vita, insomma, tutti i concetti ottimistici che possano venire in mente. Un bambino nel grembo di una donna, eleva al quadrato tutta questa positività. Che il mostro di un film horror profani il corpo di una futura madre, altro simbolo di enorme valenza positiva nella nostra cultura, per cibarsi crudelmente della povera creatura in procinto di nascere, è un passaggio certamente duro da digerire, almeno per la morale comune. Soprattutto se si pensa che Antropophagus è un film del 1980. Per giustificarsi, gli autori dissero che, in luogo del feto, era stato usato un coniglio scuoiato: ora, è chiaro che questo in una macelleria succede ogni giorno, e che probabilmente il coniglio era comunque destinato a fare quella fine. Tuttavia, sapere che per fare un film si è ucciso un animale, e lo si è poi scuoiato, ci riporta inevitabilmente indietro ai tempi nemmeno troppo lontani dei primi cannibal. Forse il caso è differente, visto che il coniglio è convocato sul set già morto, tuttavia la storia che gli animali uccisi durante le riprese dei cannibal fossero destinati già a venir ammazzati, per scopi alimentari o altro, non è che sia mai stata tanto convincente. E, a dirla tutta, perplessità più o meno simili riecheggiano anche in quest’occasione. È una questione riferita al rispetto per la vita, anche quella animale, che, in operazioni del genere, sembra venir meno. Poi, è innegabile che questi scrupoli potrebbero essere nient’altro che moralismo o cose ti questo genere: ma, essendoci in ballo l’esistenza di esseri viventi, un po’ di sana prudenza non è da scartare. 

Con l’idea di rispettare, nella citata scena verso il finale del film, i due elementi che sono le coordinate cardine del genere cannibal, D’Amato organizza il suo film con alcune scelte inedite che si innestano su elementi già nel solco della tradizione. Se il gruppo di giovani che finisce nei guai è un topos tipico dell’horror dell’epoca, l’ambientazione su un’isola greca è insolita, almeno in questo ambito. Il nome di spicco, sui cartelloni, è quello di Tisa Farrow –figlia del bravo regista John Farrow e dell’attrice Maureen O’Sullivan, nonché sorella dell’assai più nota Mia– che, in precedenza, era stata la protagonista in Zombi 2, caposaldo dell’horror italico firmato da Lucio Fulci nel 1979. A suo fianco, Saverio Vallone, anch’egli figlio d’arte –figlio degli attori Raf Vallone e Elena Varzi– era invece quasi un esordiente, che è un po’ la caratteristica dell’intero cast. Serena Grandi, sotto lo pseudonimo di Vanessa Steiger, Margaret Mazzantini, che si trova nei credits come Margaret Donnelly, erano, al tempo, ancora sconosciute. Zora Kerowa vantava invece un pedigree nel cinema di genere più consistente: dalla partecipazione ad un cult come La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, al discutibile La vera storia della Monaca di Monza (1980), di Bruno Mattei, passando per altre interessanti pellicole, l’attrice ceca poteva dire di conoscere il cinema estremo del Belpaese. 

È infatti Carol, il suo personaggio –in qualità di capacità sensitive che, forse, si intendano da ricercare, in chiave metalinguistica, nel curriculum dell’interprete– che prevede le disgrazie in arrivo. Se ad essere accusata dei guai che capiteranno ai nostri personaggi, in prima istanza è Julie –ovvero, il personaggio della Farrow, che, non a caso, aveva già solcato i set di Zombi 2 e, quindi, era “giustamente” guardata con sospetto proprio da Carol– è presto chiaro che queste accuse sono infondate. L’unico, vero, responsabile di tutto l’orrore è il citato Klaus Wortmann, divenuto cannibale in seguito ad una tragica esperienza a cui assistiamo tramite un flashback della trama. Da un punto di vista metalinguistico, che sembra la sola traccia intuibile lasciata da D’Amato, l’interprete del cannibale, nonché coautore del soggetto, sceneggiatore e coproduttore, è George Eastman al secolo Luigi Montefiori. Eastman era un attore navigato del cinema di genere italiano, con all’attivo decine di film sparsi un po’ per ogni categoria, dagli spaghetti western ai thriller all’italiana, recitando per registi del calibro di Federico Fellini, Mario Bava e Lina Wertmüller.
In sintesi: per la violenza dei cannibal movie, non cercate colpe specifiche, come fa, ad esempio Carol additando Julie. La responsabilità è di Klaus Wortmann alias George Eastman alias Luigi Montefiori; e, nella metafora, lo si intende come simbolo di tutto quanto il cinema italiano. I film dei cannibali, coi loro pregi e difetti, altro non sono che una delle tante facce del nostro movimento cinematografico, lo stesso dei celebrati western all’italiana o di registi come Fellini, Bava e Wertmüller. Discorso condivisile, senza dubbio. Ma i “dubbi” –volendo chiamarli dubbi– sulla violenza agli animali, quelli rimangono intonsi.      



 Tisa Farrow 


Zora Kerowa 


Serena Grandi AKA Vanessa Steiger 


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