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giovedì 3 luglio 2025

GRAN BOLLITO

1692_GRAN BOLLITO, Italia 1977. Regia di Mauro Bolognini 

La didascalia iniziale confessa che l’ispirazione per il film siano stati alcuni fatti avvenuti in America, Egitto e Italia: si tratta forse di un tentativo di smarcare Gran bollito da una mera rappresentazione degli omicidi legati alla «saponificatrice di Collegno»? Forse sì, anche perché il dubbio che pone la visione del film del 1977 è di stretta natura cinematografica ma al tempo stesso legato all’argomento trattato: per quale motivo il regista Mauro Bolognini ha scelto un registro tanto grottesco per immergervi una vicenda tanto tragica? Pur nella loro scarsa razionalità, nella loro scarsa comprensione razionale, i brutali e bizzarri omicidi attribuiti a Leonarda Cianciulli (nel film, un’intensa Shelley Winters è Lea) sono un argomento serio e terribile. Certo, nel 1977, dai delitti di Collegno erano passati quasi quarant’anni e poi Bolognini ha, come registro stilistico, una capacità autoriale che gli permette di trattare qualsiasi argomento con il distacco artistico adeguato. Gran Bollito, insomma, non è assolutamente irriverente per le tre povere vittime, finite nelle saponette di Lea, anche nel caso il rimando, come appare evidente, sia alle tre donne della vicenda reale. Tuttavia non può non destare un certo stupore scoprire che per interpretare queste tre donne sole che la saponificatrice scelse astutamente come vittime, nel film chiamate Lisa, Stella e Berta, Bolognini abbia arruolato nell’ordine Max von Sydow, Renato Pozzetto e Alberto Lionello. Che sono tre uomini, come è evidente, e recitano nei ruoli delle vittime «en travesti» senza che nessuno, nel film, se ne accorga o adombri anche solo una perplessità in merito. Che poi, già la composizione del cast è del tutto spiazzante: la Winters, attempata ma comunque una star di Hollywood, von Sydow, icona del cinema di Ingmar Berman, Pozzetto, comico del cabaret televisivo, Lionello, attore a tutto tondo tra teatro, TV e cinema, e poi ancora Milena Vukotic (è Tina), Mario Scaccia (Rosario), Rita Tushingham (Maria) e si potrebbe continuare a lungo, concludendo necessariamente con Laura Antonelli (Sandra), figura che non passa inosservata oggi e figuriamoci al tempo. Rifacendosi sempre alla citata didascalia iniziale, Bolognini afferma che non sono da ricercare spiegazioni psicoanalitiche o sociali, che il mistero riguarda la follia collettiva e non individuale. In conclusione, fa un’equivalenza tra questi delitti e i tanti di cui l’umanità ha disseminato la Storia, dimenticandosene sempre velocemente. 

La mancanza di senso che il regista prova ad attribuire alla vicenda, può essere rappresentata dalla presenza di Renato Pozzetto, maestro del nonsense lombardo, a cui è infatti è affidato anche un importante ruolo nel concretizzare, con le sue buffe performance, le canzoni di Enzo Jannacci, altro nome tutelare della comicità surreal-demenziale meneghina. Il buon Renato dà il meglio di sé nell’interpretazioni canterine, ma il vederlo affiancato a due attori dal registro tanto diverso, almeno stando alle rispettive carriere, sembra appunto voler dire che non conta se sei un comico della televisione o l’attore preferito da Bergman, perché comunque nelle saponette devi finire. E lo stesso si potrebbe quindi dire anche per Mina, coinvolta nella colonna sonora insieme a Jannacci e Pozzetto, e che, con la sua Vita vita che accompagna titoli di testa e di coda, sembra calarci nel tempo e nell’atmosfera potenzialmente straziante della vicenda. Ma il suo sentito contributo vale tanto quanto le canzonette surreali di Jannacci e Pozzetto. La battuta conclusiva del film è lasciata significativamente a Lea che, mentre sente la folla gridarle “mostro!”, si volta stupita e chiede: “Chi, io? Ma siete pazzi!?”. Il film si chiude sulla sua replica e questo ha necessariamente un significato, quasi che Bolognini rovesci il punto di vista consueto e attribuisca la pazzia non al singolo deviato, l’assassino di turno, ma alla collettività. Del resto è lo stesso concetto espresso dalla didascalia iniziale. Tra l’altro, stando alle cronache, Leonarda Cianciulli sostenne di aver compiuto gli omicidi come sacrifici magici per avere in cambio la salvezza dell’amato figlio. Il timore era legato all’incombente Seconda Guerra Mondiale, un massacro su larga scala che anche il film di Bolognini sembra mettere in rapporto con gli omicidi di Lea, cogliendo lo spunto nel memoriale scritto dalla saponificatrice di Collegno. In realtà, benché sempre di macelleria gratuita si tratti, questa assimilazione è quantomeno discutibile. L’intento provocatorio del regista è evidente, e il nocciolo della questione sembra essere che sia quantomeno ipocrita che Lea sia definita «mostro» quando è solo una povera donna ignorante, e sia invece tollerato quando non giustificato un abominio come la guerra. Ora, la guerra è inaccettabile sempre e comunque e questo è un dato di fatto; tuttavia porre sullo stesso piano, o quantomeno paragonare, l’indifferenza borghese, nel senso dell’individuo che guarda solo il proprio orticello e che permette o tollera la guerra, a chi decide di armare la propria mano è un’operazione da rigettare assolutamente, anche quando la si veni di grottesco. 

Non è forse un caso che il film sia del 1977, ovvero l’apice degli «anni di piombo», quando la lotta armata era legittimata dall’intellighenzia del Paese, visto che combatteva il «Sistema». Bolognini utilizza un registro sfumato, ma il senso del suo discorso è pesante e militante: la condanna al sistema borghese, che ricorre senza alcuno scrupolo alla guerra per tutelare i propri interessi, si può leggere anche nella scelta dei tre attori travestiti. Lisa, Stella e Berta sono donne che non possono procreare –questo nella messa in scena filmica è più che evidente, essendo uomini– e possono benissimo essere sacrificate. I tre attori tornano poi per fugaci camei in cui interpretano tre ruoli di potere, il banchiere, il maresciallo, il carabiniere, quasi a confermare la differenza che c’è, nel sistema borghese, tra nascere donna o nascere uomo. Lo stesso individuo è sacrificabile in un caso mentre assume importanza nell’altro, semplicemente in base al sesso di appartenenza. E questo forse il senso della frase finale? Può essere definita «mostro» la povera Lea, quando non vengono considerati tali quegli uomini responsabili della guerra? È lo stesso meccanismo della protesta armata che combatteva armi in pugno uno Stato che, poi è effettivamente stato dimostrato, non giocava pulito. In sintesi: se lo Stato utilizza la forza anche io che mi oppongo devo farlo. Lea, per evitare che suo figlio morisse in guerra, sacrificò tre donne innocenti, che possono essere paragonate ai poliziotti che facevano la scorta ad Aldo Moro, per esempio. È una logica accettabile? Solo nell’ottica dello scontro, della guerra. E, allora, ecco qual è lo scopo di togliere il senso, le responsabilità individuali, della didascalia iniziale, legittimare la guerra al Sistema. Legittimare la guerra.
È un film fatto bene, Gran bollito, confezione d’autore.
Ma al di là di questo, non tanto bene, purtroppo.
          










lunedì 19 giugno 2023

INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

1294_INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO Italia,1970; Regia di Elio Petri.

Capolavoro assoluto del cinema, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sfugge a specifiche classificazioni. Potrebbe essere un giallo, per via della trama o meglio un thriller all’italiana, considerata la lunghezza del titolo, vezzo al tempo molto in voga nel genere. Ma la vena grottesca, man mano che la storia procede, diventa sempre più ingombrante; e che dire della feroce critica politica rivoluzionaria che si fa prepotentemente strada? Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è tutto questo ma sostanzialmente è un film d’autore, in quanto Elio Petri padroneggia il media cinema con una tale maestrìa da adoperare gli stilemi dei vari generi senza finirne vincolato. Nel suo caso, i premi e riconoscimenti della critica, oltreché meritati, sono esplicativi dell’eccezionalità dell’opera. I pregi del film non si limitano peraltro solo alla regia ma, tanto per cominciare, si deve assolutamente evidenziare la qualità della colonna sonora di Ennio Morricone, con un motivo celeberrimo e indimenticabile che riesce perfettamente a coniugare le anime narrative dell’opera – la tensione che si stempera in improvvise virate grottesche. Da ricordare anche l’apporto di Ugo Pirro in fase di scrittura, in collaborazione con lo stesso Petri, e poi la fotografia di Luigi Kuveiller, le scenografie di Carlo Egidi e via di questo passo per un film formalmente inappuntabile. E che dire del cast? Gian Maria Volontè è il Dottore, il capo della Omicidi che viene promosso, proprio in apertura di film, al comando dell’ufficio politico della Questura. Simbolo, e come tale senza un nome vero e proprio, di una polizia che è decisa a mettere le mani sul potere politico della società. 

Pare che, per stessa ammissione del regista, il film fosse dichiaratamente contro la polizia: in quegli anni, la cosa era anche plausibile, nonostante, un po’ a sorpresa, Petri si attirò, con questa operazione spettacolare, l’antipatia di molti ambienti della sinistra. Tornando al cast, Florinda Bolkan è l’indimenticabile vittima dell’omicidio con cui si apre il racconto: Augusta Terzi è l’amante del Dottore e verrà uccisa nel suo letto al termine della prima, eccezionale, sequenza. Ma non c’è da temere: grazie ad un sapiente uso dei flashback, la Bolkan rimane in scena per tutto il film, mostrando la sua bellezza abbagliante particolarmente valorizzata dagli eleganti e discinti panni di agiata borghese benestante. Benissimo anche gli altri attori coinvolti: dal grande Salvo Randone, a Gianni Santuccio, a Orazio Orlando, a Massimo Foschi, giusto per fare qualche nome. Come detto, il film è formalmente ben fatto, tant’è che ci fu una frangia della sinistra che contestò a Petri il fatto di spettacolarizzare a scopo di lucro i problemi dell’Italia. Un’accusa che può, forse, aiutare a capire qual era il clima da guerra civile che c’era ai tempi della contestazione sessantottina nel Belpaese. La battaglia tra lo Stato e i rivoluzionari era tanto accesa che perfino dalla stessa parte della barricata i distinguo non erano certo semplici rilievi ma vere e proprie lotte intestine. Appare logico quindi che, per valutare correttamente Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, si debba contestualizzare il film all’interno del periodo storico. 

Il che è innegabile ma c’è un aspetto che incuriosisce forse maggiormente: ovvero ricevere il film così com’è oggi, come un’opera uscita proprio adesso. Non si dice, forse, che i classici non hanno tempo? E un capolavoro come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, tra le tante cose che riesce contemporaneamente ad essere, non può non essere anche un classico del cinema italiano, del resto. Ebbene, la cosa spiazzante, è che il film di Petri è quanto mai attuale. Saremmo infatti disposti a mettere la mano sul fuoco sull’innocenza delle nostre forze dell’ordine? Ma nemmeno per idea, viene spontaneo rispondere. Così come sui rappresentanti della magistratura o della politica, sia chiaro; del resto il Dottore del film faceva appunto carriera approdando ad un incarico inerente a quest’ultima. Insomma, sono passati cinquant’anni, ma la fiducia nelle istituzioni è sempre al ribasso, nonostante il clima sociale non possa essere nemmeno lontanamente paragonato a quello della contestazione sessantottina. Ma allora è lecito il sospetto che, se non serve contestualizzare il film, allora forse la contestazione sessantottina c’entra relativamente se non c’entra addirittura per niente. Quelle che regolano la storia raccontata nel film sono semplicemente le dinamiche del potere, di un’autorità che, per farsi rispettare, è giocoforza(?) basata sulla prevaricazione, sulla prepotenza. Elementi tipici di regimi assolutisti, verrebbe da dire; tuttavia tali metodi non solo sono riusciti a sopravvivere anche nei sistemi democratici ma, lo possiamo ben dire dopo tutti questi anni, ne sono divenuti un tratto quasi distintivo. Quello che si può dire, a proposito dell’influenza sul film del periodo in cui uscì Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, è che probabilmente le particolari condizioni critiche ambientali, favorirono la cristallizzazione dell’analisi in un testo lucido e ficcante, naturalmente grazie alle citate capacità artistiche degli autori. Ma la valenza della sua critica è rimasta inalterata. Del resto è un classico, si è detto, vale oggi come valeva al tempo in cui uscì nelle sale. E questo non ci lascia molte speranze, ahinoi, nemmeno per il futuro.







Florinda Bolkan 











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domenica 4 settembre 2022

LETHAL KITTENS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1092_LETHAL KITTENS (Nashi Kotyky)Ucraina, Stati Uniti, Canada 2020;  Regia di Volodymyr Tykhyy.

L’idea di una commedia surreale intrisa di umorismo demenziale non è certo una novità ma vedere trattato in questo modo un tema scottante quale la terribile guerra del Donbass, che ancora infuria in Ucraina, desta comunque un certo stupore. Lethal Kittens, questo il titolo internazionale del film Nashi Kotyky di Volodymyr Tykhyy, esce appunto quando la crisi russo ucraina è ben lungi di volgere al termine e, anzi, sembra inasprirsi sempre di più. L’onirica e folle scena iniziale, con il Putin Matrioska che, in una Mosca distrutta dalla guerra, si trova a tu per tu con l’angelo vendicatore e… ma, come detto, si tratta di un sogno. Lito (Dimitrij Tuboltsev), il soldato ucraino che in quel sogno si apprestava a giustiziare il presidente della Federazione Russa, si arruola volontario e, insieme al giovane Hrin (Stanislav Brzezinski) e al più anziano Profesor (Petro Mykytiuk) viene destinato alla postazione di prima linea denominata Toilet. Nella guerra del Donbass, nell’esercito ucraino tutti hanno un soprannome, ad esempio Lito significa Estate, Hrin Verde e Profesor ovviamente Professore; e anche quello dell’avamposto è un nome in codice e, va precisato, che ne evidenzia l’importanza sullo scacchiere del fronte. In effetti i riferimenti scatologici cospargono un po’ tutta quanta la storia e, anche grazie a certi momenti musicali, l’atmosfera ricorda un po’ la deriva inoltrata degli spaghetti western italiani. Ai tre scombinati militari, del tutto impreparati alla contesa, vanno ad aggiungersi il leader del gruppo, Penalty (Dmytro Khomyak) e la giornalista di guerra Olya (Vira Klymkovetska). Il tono demenziale è costantemente contagiato dal surreale e ha frequenti incursioni addirittura deliranti, il tutto mantenendo comunque una solida attinenza alla realtà storica di quanto descritto. Del resto la guerra, nel terzo millennio, può efficacemente essere descritta tanto in tono realistico quanto in forma estremamente grottesca visto che è la quintessenza dell’assurdità. Come già intuito dall’incipit, il regista ufficiale e la produzione sono ucraini (quest’ultima spalleggiata da influenze d’oltreoceano, Stati Uniti e Canada) e, quindi, nonostante il testo sia fortemente autoironico, la prospettiva è decisamente antirussa. Se Putin è sbeffeggiato nella parte onirica, i leader della Nuova Russia e i terribili combattenti ceceni sono ridicolizzati nella storia vera e propria, con scene sempre gustose e divertenti. Insomma, si ride della scarsa preparazione dei buoni (ovviamente gli ucraini) e dell’ottusa malvagità dei cattivi (altrettanto ovviamente russi e filorussi). Verrebbe da dire per non piangere ma, qualità che va riconosciuta a Lethal Kittens, alla fine si finisce pure per commuoversi. Magia del cinema. 



Vira Klymkovetska



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sabato 20 agosto 2022

DONBASS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1077_DONBASS . Germania, Francia, Paesi Bassi, Romania, Ucraina, 2018;  Regia di Sergej Loznitsa.

L’apprezzato regista Sergej Loznitsa ritorna sugli scottanti argomenti della crisi ucraina dopo il documentario Maidan del 2014; stavolta l’oggetto della sua Macchina da Presa è la guerra nel Donbass. Il titolo, Donbass, appunto, è quanto mai esplicativo soprattutto per gli spettatori occidentali in quanto l’area geografica in questione è salita agli onori della cronaca proprio per la rivolta o guerra civile (a seconda della prospettiva con cui la si approccia) ivi esplosa. Basta il nome di questo lembo di terra dell’Ucraina al confine con la Russia, per istradarci subito sul tema del racconto. Nel 2018 il Donbass era diviso e conteso tra le milizie ucraine e i separatisti filorussi: Loznitsa, che è autore di livello, non scade in una eccessiva retorica di parte (nel suo caso filo ucraina) realizzando un film anche distaccato, da questo punto di vista, tuttavia nelle didascalie si premura di ribadire ogni volta che i territori in mano ai rivoltosi sono occupati. Difficile stabilire se sia la definizione giusta con gli elementi che l’informazione ci mette a disposizione; di sicuro c’è che la comunità internazionale occidentale non riconosce le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. Tuttavia stiamo guardando un film e non un trattato di geopolitica e, quindi, qualunque sia la situazione, la scelta più opportuna per definire questi territori è una concessione che, al regista, si può naturalmente concedere senza problemi. La sua è una posizione di chi è coinvolto nel conflitto e quindi il suo punto di vista ne è una conseguenza ed è sacrosanto. Per quanto, dalla prospettiva dello spettatore occidentale, si fatica a cogliere distinzione tra ucraini e ucraini filorussi, almeno stando a Donbass, il film in questione. 

Simbolicamente, come sguardo a cui aderire per un'opinione sulle popolazioni in lotta, possiamo prendere la signora ucraina che viaggia sull’autobus che viene fermato ad un posto di blocco dei separatisti. L’ispezione a bordo del soldato filorusso non è particolarmente approfondita, ce ne saranno di peggio in seguito, ma certo non è vissuta poi in modo così amichevole. Prima di scendere il ragazzo chiede ai passeggeri, in modo a metà tra il divertito e il provocatorio, un pezzo di burro o almeno qualcosa che faccia da condimento per insaporire il suo rancio: nessuno fiata ma la citata signora richiama il militare e gli offre parte del suo lardo, che per lei quello che ha di fronte è soltanto un ragazzo e potrebbe essere suo figlio. E’ un momento tenero, sebbene ben stemperato dalla rustichezza della donna e dalla guasconeria del militare. Tuttavia non è questo passaggio il più importante, nel film; questo serve per comprendere meglio la poetica di Loznitsa evitando poi di lasciarsi impressionare dalla violenza di tanti altri momenti del racconto. C’è anche l’umorismo, spesso macabro, che va a dare il suo contributo nel creare un’alchimia magistrale tra i vari elementi narrativi che conferisce a Donbass l’equilibrio tipico delle opere di grande valore. Tra i passaggi spassosi si possono ricordare quello scatologico quasi in apertura e il matrimonio ai limiti del surreale (o forse ben oltre). 

Ma, a ben vedere, sembra intrisa di umorismo acido tutta quanta la struttura del film: l’opera si presenta con la vena metalinguistica di molto cinema contemporaneo, con la prima scena in cui potremmo essere in presenza di un dietro alle quinte di una docufiction. Anche se la scritta TV che campeggia sulla schiena di alcuni operatori ci fa temere che quello che si stia mettendo in scena, a bella posta, è la ripresa di un presunto evento di cronaca preso dal vero. In ogni caso, la medesima scena ritorna nel finale, a conferire la struttura circolare e quindi ben poco ottimistica all’opera, ma con un significativo cambiamento: la realtà, in questo caso bellica, fa irruzione fuori dal set di ripresa andando drammaticamente ad irrompere in quelli che potremmo definire improvvisati camerini degli attori. 

E’ quasi una battuta goliardica, da parte di Loznitsa: a furia di ripetere le stesse finte scene (il trucco per simulare i lividi) questi personaggi hanno fatto una fine fin troppo realistica. E già questo è uno dei significati di Donbass e, in generale, della guerra: si pensa che evocarla sia solo uno strumento per ottenere uno scopo ma troppo spesso poi quello che si concretizza è unicamente la guerra stessa. Ma, si è detto della natura metalinguistica del film e, giustamente, Loznitsa riserva magistralmente a questa componente l’aspetto migliore e più significativo della sua opera. Donbass è un film di finzione composto da una serie di racconti sostanzialmente scollegati tra loro, sebbene non via sia una separazione con didascalie o altre indicazioni. 

Tuttavia i segmenti narrativi hanno protagonisti diversi e si occupano di argomenti diversi: praticamente Donbass è un film ad episodi. Eppure c’è sempre qualche elemento che collega i vari racconti, spesso solo un dettaglio ma l’impressione che ne deriva è che ci sia un filo conduttore che sorregga tutto il racconto. L’arrivo sulla scena dell’auto sequestrata, nel finale, nella citata scena cruciale, ha certamente un significato pragmatico nell’assurdità della guerra e in parte nell’accusare i separatisti di crimini (la cosa è detta esplicitamente) tra i quali prendersela con l’informazione o l’arte (gli attori uccisi). Però questo si poteva ottenere anche senza utilizzare lo stesso personaggio e la stessa macchina di un altro segmento narrativo: bastava prendere dei soldati separatisti e la lettura degli eventi sarebbe stata la stessa. Quindi, sottolineare questo ritorno sulla scena, soprattutto dell’auto che ha un ruolo rimarcato, nel racconto, visto che viene sequestrata con massimo scorno del suo proprietario, deve avere un altro senso. Ed è proprio quella l’impressione che ci lascia Donbass: i tanti rimandi del film ci fanno supporre che quello che accade deve avere un significato, anche se sul momento ci sfugge. Come se ogni azione abbia una sua motivazione e come conseguenza un’altra azione: purtroppo la trama intricata e labirintica non ci permette di cogliere il disegno generale. Che, invece, sembra obiettare Loznitsa, non c’è. Il senso dei rimandi di Dubass è che servono a mascherare la mancanza di senso. Proprio come succede in un conflitto bellico, dove si accampano motivazioni e pretesti intricati e poco comprensibili ma in ogni caso insufficienti a giustificare le conseguenze degli scontri. Utilizzando metalinguisticamente la struttura narrativa della sua opera, Loznitsa dà la spiegazione alla follia della guerra. Chapeau. 




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